Libretto FELLINI

Transcript

Libretto FELLINI
r a nca me nte
fnuove
guide per gli ospiti
collana diretta da
Giuliano Ghirardelli
1
Il Grand Hotel è presente nell'opera e nella vita di Federico Fellini
come un ‘personaggio’ di primo piano.
Guida
alla Rimini
di Fellini
a cura
di Giuliano Ghirardelli
Maggio 2001
Edizione digitale: settembre 2014
ISBN digitale: 978-88-7472-240-2
Si ringraziano: la Regione Emilia Romagna, l'APT Servizi,
Italia in Miniatura e Riminiterme.
L'immagine di copertina è stata realizzata da
PI&EMME GRAPHIC’S, Parma, per conto della Montanari Tour.
A pag. 2: il Grand Hotel di Rimini in una foto di Gilberto Ceccarelli.
Il Grand Hotel alimentava i sogni degli adolescenti riminesi, come
luogo impenetrabile: «la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo
orientale» che nelle sere d'estate «diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood…». Fu costruito agli inizi del ’900 dalla ‘Società Milanese
Alberghi Ristoranti ed affini’, su progetto dell'architetto svizzero Paolito Somazzi. Ha ospitato nella sua 'lunga carriera' regnanti e magnati,
concerti e simposi di rilevanza internazionale. Ma il ‘Fellini's Day’,
realizzato domenica 25 settembre 1983, è sicuramente il punto più alto
della sua lunghissima storia.
Proprietà letteraria riservata
© 2001 Panozzo Editore, Rimini - via Clodia, 25 - tel. e fax 0541 24580
[email protected]
www.panozzoeditore.com
Il Genio e l’operatore turistico
C’è chi fa l’operatore turistico a Rimini e parla in continuazione della propria città, della spiaggia, delle novità da
offrire agli ospiti, ritrovandosi in bocca, o nella penna, le
parole abituali, senza riuscire a liberarsene.
Poi ascolti Federico Fellini, un uomo geniale che la sua
Rimini l’aveva ‘dentro’ anche se ci tornava raramente, mentre parla o scrive, che so, del Tempio Malatestiano
«… che d’estate diventava ancora più bianco, un osso di
seppia, e la notte faceva luce come la luna…»,
oppure di quello strano monumento, in fondo al Corso, verso
il ponte di Tiberio,
«… la Chiesa dei Servi era quell’immenso muraglione
senza finestre che veniva subito dopo il cinema Fulgor. Per
anni non mi sono accorto che era una chiesa perché la facciata e l’ingresso erano nascosti in una piazzetta sempre
ingombra delle tende di un mercato…»;
o, magari, della Rimini del boom, confrontandola con quella
dell’ anteguerra:
«Ora il buio non c’è più… Luce, dovunque: la notte è
sparita, si è allontanata nel cielo e nel mare…».
Leggi, o rivedi i suoi film, e rimani sorpreso e felice di aver
5
trovato finalmente chi, con parole ed immagini leggere come
bolle di sapone, racconta quello che ognuno di noi ha dentro… senza saperlo.
I genii, con il loro coraggio e la loro intelligenza, sono rari
come le stelle all’alba! Brillanno e attraggono. Ed è per questo
che, da tutto il mondo, c’è gente che viene a Rimini e chiede di
visitare i luoghi, e di incontrare i personaggi legati a Federico
Fellini, alla sua vicenda di uomo e di artista.
Appunto per questo, la Montanari Tour, la mia azienda,
specializzata nel turismo della terza età, volendo presentare
programmi non solo rivolti allo svago, ma anche ricchi di
divulgazione culturale, ha scelto la Rimini e la Romagna di
Fellini per le nuove proposte di vacanza.
I buoni risultati ottenuti hanno, ora, indotto la Montanari
Tour a realizzare una pubblicazione incentrata su Fellini e su
Rimini, per suggerire agli ospiti della nostra riviera i luoghi e
le atmosfere di quel grande artista. Il linguaggio usato per raccontare l’uomo e la città è di quelli franchi e schietti: cioè,
senza nascondere nulla dei nostri limiti ed errori (ad esempio,
i ritardi nella realizzazione di una Fondazione a lui dedicata).
Non è ora che un po’ di sincerità arrivi anche nel turismo?
Fellini in una delle sue ultime lettere - e precisamente in
quella inviata al Sindaco Chicchi - scriveva: «Per istinto e per
educazione riesco a difendermi dalle insidie della retorica…»,
confermando la sua preferenza per una visione critica delle
cose; però poi, a sorpresa, aggiungeva: «… ma questa volta mi
lascio andare. Sono contento di essere nato da queste parti e
voglio augurare ai miei compaesani di saper mantenere,
nonostante i tempi bui, questo slancio generoso verso i valori
dell’amicizia e della vita». Che, tradotto nel nostro linguaggio
di operatori turistici, significa: continuate ad essere ospitali,
come lo siete sempre stati!
Ed è quello che, modestamente, cerchiamo di fare.
Buona lettura!
Giovannino Montanari
Montanari Tour - Rimini
6
«Io a Rimini non ci torno volentieri»
Ecco qualcosa che chi non è mai partito
non può facilmente capire
«Un fatto è, comunque, certo. Io, a Rimini, non torno
volentieri. Debbo dirlo. È una sorta di blocco». È Federico Fellini che scrive della città, la sua, che ha lasciato a
19 anni. A Roma, dove ha vissuto il resto della vita, ha
composto più di venti film-capolavoro, scritto tanti testi,
soggetti e sceneggiature. I suoi disegni sono straordinari
come le sue apparizioni televisive. Le sue riflessioni sulla
vita, piccola e grande, hanno fatto il giro del mondo. E
continuano tuttora. Da ogni parte del pianeta gli sono
giunti applausi e premi: cinque Oscar! (tanto per ricordarne qualcuno). Nella sua opera Rimini è quasi sempre
presente: ma lui non vi ha girato una sola scena! Tornava
raramente. Poi, quasi dirottando dalle solite scelte, decise
di venire a passare un’impegnativa e delicata convalescenza proprio nella sua città. Era tornato… per la sua
ultima partenza. Dall’Ospedale di Rimini scrisse al Sindaco: «… Sono contento di essere nato da queste parti e
voglio augurare ai miei compaesani di saper mantenere,
nonostante i tempi bui, questo slancio generoso verso i
valori dell’amicizia e della vita». Dopo poco più di due
mesi - il 31 ottobre 1993 - Federico Fellini moriva. Aveva
lasciato, tra l’altro, ai suoi ‘compaesani’ un monumento
artistico, perenne ed ammirato in tutto il mondo, dedicato interamente e visceralmente a Rimini: Amarcord.
È passato già molto tempo dalla sua scomparsa, ma,
pian piano, tra alti e bassi, la città sembra trovare la forza
7
per riuscire ad essere all’altezza di questa grande eredità.
Non importa poi, se ogni tanto qualcuno, in città, ti
blocca per farti una domanda già subita altre volte. Il
personaggio in questione ti ferma, ti guarda dritto e
sicuro negli occhi e, con quello scetticismo che non
ammette repliche e che dà per scontata la risposta negativa, ti chiede: «Dimmi su, cosa ha fatto Fellini per
Rimini?» Come dire: ammesso e non concesso che i suoi
film siano così belli come dite voi, il vostro amico, diventando molto importante a Roma e in Italia, cosa ha mai
fatto per Rimini? Il personaggio che ti ha guardato fisso
nelle pupille - ma che non ti ha nemmeno visto, né si
attende da te una risposta - alludeva, probabilmente a
viadotti, ad altre autostrade, a grandiosi edifici pubblici
che la città, grazie al suo interessamento, avrebbe potuto
ottenere. Quando finalmente siete riusciti a svincolarvene, il personaggio se ne va, petto in fuori, con quel
lieve sorrisino di chi sa come vanno davvero le cose nel
mondo: lui non si lascia fregare da tutto quell’ambaradam intorno al nome dell’illustre (lo dite voi) riminese!
Ciao. E non lo sfiora minimamente il dubbio che a Fellini piacessero tanto i personaggi come lui. Sbruffoni e
un po’ ‘pataca’. Così ingenui da credere che la vita presenti sempre dei retroscena, che loro, solo loro, riescono
sistematicamente a smascherare. Fellini provava, nei suoi
film e fuori, molta tenerezza per questo tipo di umanità,
forse la più indifesa: priva di protezione nei confronti dei
misteri della vita, che per loro non esistono! In quell’eterna periferia che è la vita umana, loro si sentono - spontaneamente e candidamente - al centro del mondo.
Fellini sapeva, invece, che alla periferia, umile e modesta, alla provincia non si sfugge: a quella dimensione veramente vera della vita non si può voltare le spalle, credendo di poterne fare a meno, chiamandosene fuori. E
questi conti Fellini li faceva con la sua Rimini… che
8
Leggero, elegante (già con la sua 'classica' sciarpa), Federico prende il
volo… Federico parte per Roma. Gli amici lo accompagnano fino a Bologna. La foto è scattata "alla Montagnola", in via Irnerio. E' il 4 gennaio
del '39. Da sinistra: Luigi 'Titta' Benzi, Federico Fellini, Mario Montanari
e Luigi Dolci. Gli amici rivedranno Federico solo al termine della guerra,
nel 1946, quando tornerà nella Rimini distrutta, per una breve visita.
ritrovava, continuamente, dappertutto, tra le pieghe di una metropoli come Roma o nelle tante città
reinventata nei suoi film.
10
L’itinerario felliniano
Rimini e Fellini. Parliamone a quattr’occhi,
passeggiando sul lungomare.
Caro ospite, caro lettore, questo libretto è dedicato a
te, che prima o poi verrai a visitare la nostra città… Ma
è probabile che tu ci conosca già molto bene. La Rimini
che ti proponiamo è in gran parte inedita, ed è quella
legata alla vicenda umana e all’opera di uno dei più
grandi registi della storia del cinema: Federico Fellini,
nato e cresciuto nella nostra città.
Vorremmo, vorrei parlarti di Rimini evitando il vezzo
- falso quanto radicato nel turismo - di professarsi innamorati della propria città: che appare naturalmente la
più bella, la più pulita, la più trasparente…
Tra l’altro, se c’è qualcuno che ha dimostrato quanto
sia difficile vivere e amare la propria città, questi è proprio Federico Fellini. A diciannove anni infatti lasciò la
sua, la nostra Rimini, per sempre, conservando per tutta
la vita il sottile rimpianto di non essere stato capace di
riallacciare rapporti stabili, tranquilli e continuativi con
la sua città. Come accade con certi parenti, per i quali
conservi il rimorso di averne perduto i contatti, oltretutto senza un chiaro motivo: pian piano ogni rapporto
viene annullato per colpa di una scelta che non ricordi di
aver fatto, ma che forse non hai potuto evitare.
Nella scena finale de I vitelloni tutto questo è chiaramente espresso da uno dei protagonisti: Moraldo (interpretato dall’attore Franco Interlenghi). In lui, sul suo
volto, Fellini ha dipinto il disagio di quel distacco, che fu
11
certo doloroso: una lacerazione che egli, il ragazzo di
allora, già avvertiva come impossibile da rimarginare. Il
film è del ’53, l’uscita felliniana da Rimini risale al ’39. È
quindi con diretta competenza e sofferenza che egli
scrive, assieme a Flaiano e Pinelli, questa pagina della
sceneggiatura:
«… la vita riprende come al solito, nella cittadina di provincia. I vitelloni continuano a giocare al biliardo e a fare progetti di partenza.
Ma l’unico che parte davvero è Moraldo. Parte un mattino
all’alba, senza dire niente a nessuno, quando ancora tutti dormono. Gli sembra di vivere in un sogno, quando si ritrova
sotto la pensilina deserta, e il campanellino cessa d’improvviso
di suonare, e il treno appare veramente in fondo ai binari.
Mentre sta per salire in un vagone di terza classe, tra il
fumo degli stantuffi gli appare il piccolo ferroviere, che lo
saluta con festosa sorpresa. “Parte? Dove va?” “Non lo so…”
“E quando torna?…” “Non lo so…” Moraldo sale sul treno; il
capostazione chiude gli sportelli. “Ma allora, che va a fare?”
chiede ancora sorpreso il ragazzino, da terra. Il treno si mette
in moto. Dal finestrino, Moraldo grida, per vincere il rumore
delle ruote: “Non so… Non so niente…”
Il treno passa sotto il ponte di ferro, si allontana. Moraldo
guarda sfilare le case della cittadina che abbandona; forse l’apparizione del ragazzino contento di sé e del suo lavoro gli ha fatto
baluginare alla mente un’improvvisa e spaurita rivelazione…»
Forse Rimini, nella vita e nell’opera di Federico Fellini, rappresenta e incarna qualcosa che va ben al di là
della sua prima città…
Ma, caro ospite, torniamo a noi, al discorso franco e
allo stesso tempo amichevole, che potremmo fare…
magari passeggiando sul lungomare. Immaginiamo,
quindi, di partire dal porto - dalla ‘palata’ - e di dirigerci
pian piano verso Piazza Tripoli, passando davanti al
Grand Hotel.
12
La tua espressione, mi sembra di intravederla, è incoraggiante. È un ulteriore invito ad aprirsi. Oltretutto quel
tuo sorriso lieve, nostalgico ed indulgente lo riconosco:
l’ho visto affiorare spesso sul volto di tanti interlocutori,
incontrati fuori dalla mia città: appena facevo il nome di
Rimini… «Ah! Rimini!…» quasi che il nome fosse associato automaticamente ai ricordi di serate e nottate mai
più vissute così nella vita di ciascuno. La nostra città era
diventata per molti l’occasione di sperimentare una vita
più libera, un ‘corso’ rapido di esperienze nottambule
con partners mai conosciuti prima e diventati improvvisamente amici… ed anche qualcosa di più. Mi riferisco in
particolare alla Rimini anni ’50 e ’60, quando tutto scorreva facile e festoso… Giornate e nottate vissute all’insegna di una libertà non più rintracciabile nel resto della
vita: Rimini come una parentesi schietta e scapestrata
allo stesso tempo; una parentesi trasgressiva, permissiva,
che ti faceva toccare con mano che cosa mai sarebbe
potuta diventare la vita se avesse imboccato quella strada
favolosa, quel percorso ideale…
E quando si parla di esistenze vissute all’insegna della
libertà, non viene in mente subito quella di Fellini? La sua
fu un modello di emancipazione dai vincoli imposti da
‘una certa Italia’. Lui si liberò a suo modo - si potrebbe
dire affabilmente, ironicamente - di tutti quei lacciuoli.
Era sfuggito all’avvenire programmato da mamma Ida,
che prevedeva una carriera esemplare da libero professionista: macché artista! glielo dava lei l’avvenire da disegnatore bohémien! La signora Ida aveva persino tolto il saluto
al vicino di casa Demos Bonini, maestro e collega del
figliolo in imprese artistiche nella Rimini di allora. Federico si iscrisse, sì, a giurisprudenza a Roma, ma frequentò… le redazione dei giornali satirici o dei quotidiani,
gli ambienti del cinema e della rivista. Fellini era sfuggito
anche… al fascismo, cosa difficilissima per gli adolescenti
13
e i giovani del tempo. Partecipava agli appuntamenti
obbligatori del regime, con il sarcasmo e gli sberleffi tipici
dell’ultimo della classe. A Titta, suo grande amico e compagno di banco, che gli si presentava di fronte in divisa da
capo-avanguardista, tutto orgoglioso di partecipare ai
‘campi Dux’ nella capitale, non risparmiava battute del
tipo: «Vai a fare il pataca anche a Roma!?»
Fece, soprattutto, il cinema che piaceva a lui, che lui
voleva, stravolgendo, passo dopo passo, i canoni tradizionali della cinematografia: con coraggio e duttilità allo
stesso tempo, seppe superare gli ostacoli e le censure
frapposte dai produttori, dai politici e dagli ambienti clericali. Seppe sopportare le critiche da ‘realismo socialista’,
senza lasciarsi sviare: negli anni Cinquanta lo accusavano
infatti di non parlare di operai, né di partigiani, né della
questione sociale… ma come si permetteva?!
Lui non prese mai di petto chi voleva fermarlo, ma quasi con comprensione - cercò sempre di raggiungere i
suoi obiettivi e di non farsi irretire. Alzò la voce, negli
ultimi anni, contro gli spot pubblicitari che in televisione
‘massacravano’ i film, compresi i suoi. Per il resto, amabilmente sapeva e riusciva ad essere un uomo libero:
libero di creare e di vivere pienamente.
Tu, caro ospite, magari sei più giovane di me... Tutti e
due, però, abbiamo fatto in tempo a vedere, in diretta,
man mano che uscivano sugli schermi, i film di Federico
Fellini. Tu, come me, probabilmente, sei cresciuto e
maturato nella visione dei suoi capolavori. Siamo usciti,
con lui, dall’Italietta degli anni Cinquanta. A me sembra
che con lui abbiamo imparato ad essere più sinceri,
meno ipocriti, a capire quanto difficile fosse essere onesti, e come sarebbe stato bello eguagliare l’umanità di
Gelsomina o la purezza di quella giovinetta, cioè di Paolina, interpretata da Valeria Ciangottini, nell’ultima scena
della Dolce Vita. Tutte cose per noi amaramente irrag14
Ai giovani di una Rimini in ascesa, il futuro appariva sorridente come quella
domenica d'estate. Siamo sul lungomare di Rimini, nel 1937. Da sinistra:
'Lalo' Spazi (la sua famiglia gestiva il Caffè Diana in via IV Novembre),
Nelson Cenci (un parente dei Roberti, i proprietari del famoso negozio
‘Quattro Stagioni’), Federico (come al solito in tenuta da ragazzo elegante, con cravatta e fazzoletto sul taschino) e l'atletico Titta. «Io avevo
una bicicletta ‘Lombardini’, Federico, con i cerchioni di legno, una
‘Umberto Dei’! Insomma, eravamo figli di buona famiglia», racconta
Titta. (Foto Moretti Film)
giungibili. Quella che invece purtroppo raggiungemmo
fu l’Italia luccicante e cinica dei decenni successivi, nella
quale siamo tuttora immersi.
Ma vengo facilmente alla tua prima presumibile domanda. «Esiste, e resiste, tuttora la Rimini di Fellini, una
Rimini di Fellini?» Il grande regista se ne andò dalla sua
città all’inizio del 1939. Aveva appena compiuto i 19
anni. Se ne andò stabilmente, definitivamente in quell’anno, per gettare l’ancora della sua vita in un mare ben
più grande e difficile, quello di Roma.
La risposta non è semplice. Intanto, però, voglio dirti
una cosa: questa di Fellini è l’occasione giusta per conoscere meglio la nostra città, che di Fellini è stata la culla
naturale e la vera ispiratrice artistica. Come avrai capito,
i protagonisti di questa chiacchierata sono due: Fellini e
Rimini. Le loro storie si incrociano, si dividono, tornano
a fondersi nel finale, diventando, e confermandosi, inseparabili. Per sempre.
Consentimi una aggiunta: anagrafica. Con Fellini gli
anni contano davvero. Ho incontrato - ad esempio molti giovani che, pur rispettando (quasi con timore) la
grandezza dell’artista, avevano visto pochissimi suoi film.
Quasi nessuno. Invece la mia generazione - quella, per
essere precisi, nata durante la seconda guerra mondiale o
subito dopo - ebbe un rapporto particolare ed intenso
con Fellini. Specialmente, poi, se si è vissuti in provincia.
Parlo di chi fu adolescente e avviò la propria gioventù
prima del boom economico.
Nonostante tutto, io sono affezionato ai modesti anni
Cinquanta, pur avendo conosciuto in quel tempo un’Italia ancora povera, e forse un po’ meschina, lontana mille
miglia dai lustrini, dai bagliori e dai fuochi d’artificio del
benessere e del malessere successivo. Tutto, allora, contribuiva a restringere, a limitare. Almeno così sembrava.
I calzoni corti e con le toppe, le scuole migliori solo per
16
i ricchi, le ragazzine inavvicinabili, gli enormi sensi di
colpa indotti dagli ambienti in cui si viveva, più arcigni
che severi, con la chiesa in testa… quel mondo cittadino
così ristretto, anche fisicamente… tutto lì, in quel Corso
d’Augusto così insopportabile, specialmente la domenica
pomeriggio, quando le famiglie, bardate a festa, avanzavano a passo lento, misurando, nel confronto con le altre,
tutti gli sforzi fatti per raggiungere un minimo di decoro.
Sembrava che il ruolo di ciascuno fosse stato definito e
sancito una volta per tutte: non rimaneva che ammirare
le famiglie di successo, quelle a cui era permessa ogni
cosa, anche quanto era difficile da immaginare.
In quell’Italia così soffocante ognuno si arrangiava
come poteva. Chi aveva trovato una guida sicura nella
scuola - o in qualche prete veramente provvidenziale (ce
n’è sempre uno) - apparteneva ad una minoranza di privilegiati. La maggioranza dei ragazzi aveva, invece, trovato
una propria via d’uscita, per riflettere, per non soccombere
sotto la cappa grigia di una società che non permetteva di
sognare e di evadere. Quella via si chiamava ‘cinema’: ed
era anche la nostra vera scuola di filosofia, di sociologia, di
politica, e di tutto quanto si vuole. La nostra aula magna.
E dagli schermi ci giungevano tanti incoraggiamenti.
Allora le sale cinematografiche erano stracolme, soprattutto di giovani di tutte le estrazioni sociali. E lo schermo
di quelle sale aveva un prestigio e un’autorità oggi impensabili, che neppure la televisione ha saputo eguagliare.
Fu in quel periodo, nei modesti e poveri anni Cinquanta, che nelle sale arrivarono a raffica i film di Fellini:
Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada
(1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957).
In quelle opere, ed in particolare nelle prime due,
venivano alla luce tutti i limiti della nostra vita di provincia. Amorevole ed implacabile, allo stesso tempo, era la
rappresentazione che Fellini ne faceva. Soprattutto ne
17
I vitelloni: una serie di esistenze velleitarie, come quella di
Leopoldo, l’ingenuo aspirante scrittore, o meschine come
quella del bellimbusto Fausto, bugiardo e negligente,
protagonista nel film (interpretato magistralmente da
Franco Fabrizi).
Eppure, noi ci sentivamo confortati, nel nostro disagio. Ma, soprattutto, la nostra vita trovava lo specchio
giusto: forse tutti noi siamo stati restituiti, anche grazie a
lui, a scelte più dignitose, più corrette.
Ne La strada e ne Le notti di Cabiria, invece, improvvisamente Fellini cambia registro, abbandona il realismo
analitico delle sue commedie di costume e affronta un
discorso più ‘politico’: il regista si chiede, con la sensibilità straziante dei personaggi Gelsomina e Cabiria, se ce
la faremo, prima o poi, a vivere all’altezza di alcuni sogni
che - non si sa come, non si sa perché - ci portiamo dentro, da sempre.
C’è un bell’episodio nel film di Cabiria che allora fu
tagliato e che oggi è riapparso miracolosamente nelle versioni in commercio; riassume alla perfezione i sentimenti
del film. Si tratta del brano conosciuto come ‘l’uomo del
sacco’, ed è la storia vera di un tizio che tutte le notti
girava per la capitale portando dei generi di conforto ai
diseredati e ai barboni. Da solo, senza appartenere ad
alcuna organizzazione di beneficenza, egli girava con il
suo sacco pieno di piccole cose utili. Una vecchia maglia,
un pezzo di cioccolata… Cabiria (Giulietta Masina),
povera prostituta continuamente oltraggiata dalla vita, lo
incontra e lo segue, curiosa e leggermente scettica,
durante un’intera nottata. All’alba, l’uomo, finita la sua
perlustrazione, si rende disponibile anche ad accompagnarla, portandola a casa con la sua auto. Prima di
lasciarlo, lo sguardo prolungato ed incredulo di Cabiria
è come una sorta di interrogativo sconvolgente che
prende e cattura fino in fondo ogni spettatore. È qual18
cosa che va oltre l’umanità espressa da Charlot, nei capolavori di Chaplin. Cabiria scruta quel dimesso e incredibile benefattore, e il pubblico lo guarda assieme a lei:
l’uomo è al volante della sua auto e se ne sta lì silenzioso,
serio, pallido come quell’alba sgualcita; riuscirà, nel commiato, a lanciare un breve sorriso e una parola di
conforto a Cabiria che, sempre incredula, scuote leggermente la testa.
In anni cupi, come furono quelli della guerra fredda,
periodo in cui le persone dovevano contrapporsi politicamente, con determinazione, fino alla faziosità e alla
violenza, Fellini offre con questi due film sentimenti controcorrente. Gelsomina, Cabiria, l’uomo del sacco…
fanno appello a qualcosa di diverso dalla politica corrente, dalla politica tout court.
All’improvviso cambiò tutto
E fu proprio verso la fine degli anni Cinquanta che
l’Italia si stancò di vestire i panni della povera vittima.
Improvvisamente si aprirono tutte le porte, tutto diventò
possibile: comprare un auto, far studiare i figli, possedere finalmente una casa col gabinetto interno, andare a
vivere e a lavorare in città… i giovani appartenenti alla
categoria dei sognatori entrarono per la prima volta in
agitazione; per molti il sogno era la Roma del cinema,
della letteratura e del giornalismo… lo stesso approdo
solitario del Fellini vent’anni prima. Ma, a differenza di
allora, negli anni del boom c’era la pressione di una folla
di ragazzi alla ricerca di una via d’uscita dal tran tran
provinciale. Poteva essere la vita libera dell’artista, o
l’impegno politico sotto la volta del nuovo clima di
distensione e di ‘coesistenza pacifica’. Allora il sentimento comune spingeva all’assalto del cielo: il progresso
19
stava per ingranare la marcia più potente. Tutto sembrava possibile, anche trasformare la società - in meglio
s’intende! - da cima a fondo.
E puntuale, puntualissimo arriva il Film. Siamo nel
1960 e giunge sugli schermi, preceduto dalla grancassa
del dibattito, la più scandalosa opera cinematografica del
momento e del secolo: La dolce vita. Fu il terremoto.
Nelle scuole, per la prima volta, in classe, professori ed
allievi improvvisarono, con la massima spontaneità,
incredibili dibattiti, anticipando, bonariamente, future e
movimentate assemblee studentesche.
Ma i vertici - artistici e politici - della nostra società
erano così corrotti?
Fellini si era limitato a descrivere i ‘nuovi mostri’, così
come li vedeva lui, in quel trapasso epocale rappresentato dall’Italia che aveva voltato le spalle rapidamente
alla campagna, diventando industriale e metropolitana.
Era comunque un Fellini che, sotto sotto, aveva fatto
propri la speranza e gli entusiasmi della nuova politica
progressista. Non a caso, per molti di noi, lo straordinario ‘bianco e nero’ della Dolce vita era un tutt’uno con
quello dei paginoni del periodico super-impegnato di
allora: «L’Espresso» di Arrigo Benedetti, Alberto Moravia, Andrea Barbato, Guido Piovene…
E anche la nostra città all’improvviso apparve tutt’altra cosa: a fianco alla Rimini-dentro-le-mura era nata
quasi senza accorgercene un’altra città, più solare, più
aperta, che sembrava spazzare via tutta quella vita modesta e contrita… via il vecchiume, basta con la vita da formiche! Era nato una specie di piccolo far west economico, in cui tutto sembrava rapidamente possibile: era
esplosa l’attività turistica, erano esplosi gli anni Sessanta!
Se a Roma Fellini creava quel capolavoro che è la Dolce
vita, a Rimini noi avevamo organizzato un’industria dell’ospitalità di livello internazionale: centinaia e centinaia
20
Gli amici del Caffè Ausonia, quello di Raul. Da sinistra: Luigino Dolci, De
Gregorio (morto sul fronte russo), Federico Fellini, Titta Benzi, Antonio
Amadori e Mario Montanari. «Mi sembra che quella sia la prima volta che
vidi Federico in camicia nera!», sostiene Titta. E qui, oltretutto, Federico,
con un pugnale in mano, non sembra prendere molto sul serio gli sforzi
militareschi del regime. Siamo in Piazza Giulio Cesare, oggi Piazza Tre
Martiri. Da pochissimi anni, l'edicola che si vede alle spalle del gruppo è
ritornata al suo posto. (Nel retro della foto: 11 Novembre '38 - XVII)
di alberghi e locali notturni, per giovani svedesi e famiglie
tedesche, per impiegati di Milano e artigiani di Prato…
Ma leggiamo insieme quello che scriveva - a conferma - Federico Fellini, a metà degli anni ’60:
«Adesso ci sono 1500 tra alberghi e pensioni, più di 200
bar, sale da ballo, una spiaggia lunga 15 chilometri. Arrivano,
ogni anno, mezzo milione di persone, metà stranieri e metà italiani. Gli aerei coprono il cielo ogni giorno, dall’Inghilterra,
dalla Germania, dalla Francia, dalla Svezia…
Sono tornato a Rimini per via di questo libro (La mia
Rimini, Cappelli editore, 1967, ndr). Chi mi dà le notizie è il
figlio del mio compagno di scuola. Ora, sono i figli che si
incontrano. “Ti ricordi Anteo, il facchino della stazione?
Adesso ha una quantità di alberghi”. “I miei contadini - dice
Titta - hanno abbandonato i poderi per mettere in piedi quattro ristoranti-alberghi alla Barafonda” …
Questa che vedo è una Rimini che non finisce più. Prima,
intorno alla città, c’erano molti chilometri di buio e la litoranea, una strada dissestata. Apparivano soltanto, come fantasmi, edifici di stampo fascista, le colonie marine. D’inverno,
quando s’andava a Rivabella in bicicletta, si sentiva il fischio
del vento dentro le finestre di quegli edifici, perché le imposte
erano portate via, per far legna.
Ora il buio non c’è più. …»
Ma cos’era successo?
La città, quasi completamente distrutta dalla Seconda
Guerra Mondiale, era stata ricostruita totalmente, anzi si
era sviluppata in maniera straordinaria e impensabile.
La gente da queste parti, prima della guerra e subito
dopo, viveva - nella stragrande maggioranza dei casi - di un
lavoro durissimo e povero: nel comune di Rimini quasi la
metà della popolazione attiva era impegnata nell’agricoltura.
Vuoi avere un esempio di quella vita? Riguardati nel22
l’Amarcord (1973) l’episodio della campagna, quello
dello zio Teo, quando viene portato - in libera uscita dal
manicomio - al podere di famiglia; e presta, magari, più
attenzione ai personaggi di contorno: ai contadini, alla
famiglia del mezzadro ‘Minghin’. Fellini ha dipinto in
quelle scene, con un tocco lieve e con uno stile grottesco,
il manifesto più efficace di denuncia e di condanna di
quelle condizioni di vita.
Quello che è successo in questa seconda metà del
secolo è qualcosa di veramente rivoluzionario. Nei paesi
dell’Occidente, diciamo così, il popolo ha rotto le catene
che da millenni lo legavano alla brutalità del lavoro
manuale, soprattutto nei campi, ha rotto con la miseria
nera. Si è riversato nella città, nelle industrie, nel commercio: travaso e capovolgimento assieme. Uno stacco storico
formidabile, avvenuto o prima o dopo quasi ovunque. Da
noi questa rivoluzione... si è chiamata Turismo.
Un proletariato di campagna e di borgata travasò in
quel nuovo lavoro tutte le sue doti: la grande capacità di
fare, la voglia di stare con gli altri, di servirli… In moltissimi casi, furono proprio gli ex-mezzadri, piccoli imprenditori in embrione, in grado di destreggiarsi in ogni tipo di
lavoro, a costruire, un piano alla volta, stagione dopo stagione, gli alberghi che abbiamo davanti.
Ti ho voluto fare questa non breve premessa per spiegarti com’è sorta questa lunga ‘barriera’ che abbiamo di
fronte. A perdita d’occhio, possiamo scorgere alberghi,
ritrovi, ristoranti… Il nostro ‘regno dell’ospitalità’! Un
motivo di orgoglio, per noi.
Fellini, con la sincerità che lo contraddistingueva,
confessava la sua estraneità - pur rispettosa e leggermente compiaciuta - alla Rimini del boom turistico, alla
marina degli anni ’60.
«Assistevo a una festa che non era più per me… quindici
23
chilometri di locali, di insegne luminose: e questo corteo interminabile di macchine scintillanti, una specie di via lattea disegnata coi fari delle automobili. Luce, dovunque: la notte è sparita, si è allontanata nel cielo e nel mare».
Non ti preoccupare, però, anche ‘a marina’ (così
diciamo noi) resiste qualcosa ancora fortemente legato al
mondo del nostro regista: in particolare, il porto e il
Grand Hotel. Il resto del suo mondo lo si trova al di là
della ferrovia, nel centro storico, all’interno della mura
romane e medioevali.
Abbiamo da poco lasciato il molo, ovvero la ‘palata’.
La scena iniziale e finale (quella che precede il matrimonio della Gradisca) di Amarcord si svolgono proprio al
porto, sempre di primavera. Al termine di quell’anno,
raccontato dal film, il ragazzo Titta corre da solo verso la
‘palata’. La mamma è morta, il babbo se ne sta chiuso nel
suo dolore, la casa è vuota, spenta. Titta, come fosse
improvvisamente maturato, ha bisogno di riflettere. E
come i riminesi di tutti i tempi, quando hanno bisogno di
rimanere soli con se stessi, anche lui va lungo quella
‘testa di ponte’ che si spinge verso il mare aperto.
Ma il luogo, anzi il ‘monumento’ felliniano per eccellenza, lungo questa passeggiata, è il Grand Hotel: mitico
ed inaccessibile d’estate, per i ragazzi di quei tempi, «… era
la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale…»,
diventava meta di incursioni appena finiva la stagione.
«… Soltanto d’inverno, con l’umidità, il buio, la nebbia, riuscivamo a prendere possesso delle vaste terrazze del Grand
Hotel fradice d’acqua. Ma era come arrivare a un accampamento
quando tutti sono andati via da un pezzo e il fuoco è spento.
Si sentiva nel buio l’urlo del mare: il vento ci soffiava in faccia il pulviscolo delle onde. Il Grand Hotel chiuso come una
piramide, le sue cupole e i pinnacoli inghiottiti dalla nebbia,
era per noi ancora più estraneo, proibito, irraggiungibile…».
24
Il brano è tratto da La mia Rimini, un libro che l’editore Cappelli presenterà nella nostra città, proprio nelle
sale del Grand Hotel, confortato dalla presenza dello
stesso Federico Fellini. Siamo agli inizi del 1968. Esattamente il 16 marzo. Il sindaco Walter Ceccaroni, intellettuali ed autorità riminesi, Fellini accompagnato dall’attore Leopoldo Trieste, parteciperanno all’incontro dedicato al libro, curato da Renzo Renzi.
La mia Rimini si apre con una autobiografia riminese
del regista, che può essere considerata una sorta di soggetto anticipatore di Amarcord (1973). Quel capitolo iniziale si può considerare come una vera guida - quella sì!alla Rimini di Federico Fellini. È considerato un libro
cult. Quando uscì non ebbe un gran successo. Oggi è
introvabile. Il testo felliniano lo si può, comunque, leggere nel volume Fare un film, pubblicato da Einaudi, che
raccoglie gli scritti fondamentali di Fellini, fino a metà
degli anni ’70. Ma La mia Rimini ospita anche altri preziosi interventi: quelli di Liliano Faenza, Guido Nozzoli,
Sergio Zavoli…
Nel capitolo L’attesa del panfilo, Zavoli descrive l’umore cittadino, in quell’estate del 1965, quando finalmente era dato per certo l’arrivo di Fellini, in veste ufficiale ed in grande stile, addirittura in piazza, in occasione
dell’anteprima mondiale di Giulietta degli spiriti. Sembrava cosa scontata, ma poi non venne. E la grande manifestazione programmata dall’amministrazione comunale
saltò! Zavoli racconta l’attesa dell’evento, da una particolare angolazione: quella di una certa Rimini, disincantata e caustica. Il brano, successivamente ampliato, finirà
nel suo libro Socialista di Dio (ed. Mondadori), ed è
conosciuto con un titolo curioso, che si è guadagnato
strada facendo: «Osta te». Le uniche due parole inviategli per telegramma da Fellini, quando fu nominato, nel
25
1980, presidente della RAI. «Osta te», come dire: però!
ne hai fatta di strada… Ma il significato vero, per i riminesi doc, è più complesso, più ironico, più malizioso. E
così, Sergio Zavoli per spiegarlo ha utilizzato quel vecchio racconto, potenziandolo e trasformandolo in un
piccolo saggio, tutto da gustare; utile soprattutto per
capire la quintessenza di una certa Rimini: amaramente
demagogica, più a sinistra del ‘presidente Mao’, pronta a
bollare, con battute fulminanti, chiunque ‘tradisca la
causa’ o si comporti da pataca (che poi è la stessa cosa).
Una diffidenza, la loro, che non arretrava neppure di
fronte alla grandezza di Fellini: riconosciuta e negata a
seconda del ‘garbino’ (un vento nostrano, caldo ed irritante). Il gruppo descritto da Sergio Zavoli, una sorta di
piccolo ‘senato’, d’estate pontificava dalle parti della
palata e d’inverno ‘da Vecchi’, il caffè di piazza Cavour.
Al racconto di Zavoli si è poi aggiunto, nel tempo,
quello del compianto Guido Baldini, valente ceramista…
e caustico, anche lui, commentatore della vita cittadina. La
sua ‘leggenda’ narrava di amministratori in delegazione a
Roma, a casa di Fellini. Più di una volta. Sembrava fatta:
Fellini sarebbe giunto a Rimini, finalmente in veste ufficiale, a presenziare l’anteprima di Giulietta degli spiriti.
Però… l’ultima visita a Roma si era conclusa in modo
un po’ sorprendente. Fellini aveva insistito sulla sua trovata scenografica: sarebbe arrivato a Rimini con un panfilo, una sorta di grande barcone, per approdare all’altezza del Grand Hotel.
«Benissimo! Non ci sono problemi: troveremo sicuramente una bella barca!», in coro gli amministratori lo
assecondavano premurosi e soddisfatti di esser passati,
finalmente, agli aspetti organizzativi.
«Bisogna trovare una barca con una vela bianca,
immensa!»
«Nessuna difficoltà…»
26
Ed ecco cosa c'era oltre il Ponte… Questa non è un'immagine tratta da
Amarcord. È, semplicemente, la realtà che imita i film di Fellini… Siamo
al Borgo San Giuliano, in piazzetta Padella. La foto è di Gilberto Ceccarelli, e risale agli anni '70. Alla fine del Corso, al di là del Ponte di Tiberio, c'è il Borgo: un concentrato di piazzette, stradine ed umori che permettono, forse più di ogni altro angolo della città, di capire da dove è partito Fellini. Il primo circolo anarchico d'Italia sembra proprio essere nato
qui. A partire dagli anni '50, le numerose osterie e cantine del Borgo si
sono trasformate in trattorie e ristoranti di prestigio, senza per questo
dimenticare il passato. Fellini, si sa, era un ragazzo di città, non un 'borghigiano': ma a lui, il Borgo, ha dedicato molte manifestazioni e, soprattutto, una serie di simpatici murales. Il 'cuore proletario' della città non si
era sentito tradito dai suoi film. Anzi...
«Su questa grandiosa vela bianca ci voglio una scritta
enorme…», prosegue Fellini.
«Benissimo… e cosa dovremmo scrivere su quella vela?»
«Viva la f… !», rispose con entusiasmo il regista.
Il sindaco abbozzò un sorriso di circostanza: Fellini
diceva sul serio o aveva voglia di scherzare?
Tornarono a casa con le idee poco chiare. Di lì a poco
il grande evento sfumò, e fu l’inizio di un tormentone:
quello dei rapporti difficili tra Fellini e Rimini.
Passarono diciotto anni, e finalmente Federico Fellini
accettò l’abbraccio della città. Fu un evento in grande
stile, organizzato da una nuova generazione di riminesi:
Mario Guaraldi, Marco Arpesella e il giovane sindaco
socialista Massimo Conti, in prima fila. Protagonista sempre il Grand Hotel, che da lì in poi divenne come una specie di ‘cerniera’ nei rapporti fra il regista e la sua città.
È il grande ritorno. Omaggio a Fellini fu il titolo di
quella articolata manifestazione, realizzata dal 25 settembre al 3 ottobre 1983, in occasione della prima mondiale
dell’ultimo film di Fellini E la nave va, al Teatro Novelli.
Ma il clou, il ‘Fellini’s Day’, è tutto in quella giornata
memorabile: domenica 25 settembre. Fellini venne
festeggiato al Grand Hotel con un lungo collegamento
televisivo, durante la trasmissione più seguita: la Domenica in… di Pippo Baudo.
La città toccava le stelle: come un palloncino, Rimini
saliva nel cielo felliniano. Il momento tanto sospirato era
giunto. Fino ad allora, Fellini, schivo e diffidente, non
aveva mai abboccato. Finché Guaraldi, editore e uomo
di pubbliche relazioni, sorretto dal mecenate Marco
Arpesella, non riesce in questa operazione di ‘riconciliazione’ con la città: diretta TV, pubblico selezionato
(attori, autorità, giornalisti da mezzo mondo…), raggi
laser ed il Grand Hotel trasformato nel ‘Rex’, grazie ad
un gran pavese di luci. E poi, una indimenticabile confe28
renza stampa, all’interno di un programma che offrì
tante occasioni interessanti.
Ma… sono proprio le ciambelle più ghiotte che non
riescono col buco!
A rovinare tutto, nel tempo, fu l’improvvisata - ed
improvvisa - idea di regalare a Fellini, così su due piedi,
una casa lungo il canale: la famosa ‘casina sul porto’.
Quel gesto, che commosse tanto il regista, proprio in
diretta TV, si rivelò col passare dei mesi un bluff! La casa
promessa non fu mai consegnata al destinatario.
Un passo indietro. Nelle giornate entusiasmanti che
precedettero l’avvenimento, tra gli organizzatori scaturì
l’idea di offrire al grande regista una casina a schiera, sul
Porto. Mancavano pochissimi giorni, la casa fu trovata e
‘bloccata’, in via Sinistra del Porto, al numero civico 146.
Fellini dirà poi: «Quando ero piccolo, questa parte
del canale la vedevo sempre dall’altra sponda. Era uno
scenario irreale, con un fascino misterioso; un mondo
fluttuante, come fra le nebbie, sembrava un palcoscenico. Per anni rimase un mondo lontano…»
A garantire la fattibilità economica dell’operazione c’era
Marco Arpesella, patron del Grand Hotel e del ‘Fellini’s
Day’. Era entusiasta dell’idea. Ma dopo pochi mesi gli
affari, per lui, incominciarono a prendere una brutta piega.
Marco ci teneva comunque moltissimo ad onorare
l’impegno nei confronti del suo illustre ospite. Non volle,
però, l’aiuto di nessuno. Pensò di farcela da solo. Mentre
Rimini… non poteva smentire, così su due piedi, la propria fama di città paladina di ideali collettivistici. E la
demogogia, che tutti contribuimmo ad alimentare, in
quella occasione diede i suoi frutti: la gente si chiedeva
chi avesse pagato la ‘casina’ e se c’entrava il Comune…
A fronte di centinaia di sfrattati e di senza-casa, come si
poteva…? Il sindaco Conti dovette mettere le mani
avanti, e garantire che il Comune non faceva parte della
29
rosa dei donatori!
Era la ‘piccola provincia’, magari quella esclusa dai
festeggiamenti, che mostrava il suo muso duro.
Fellini fece finta di niente. E Titta Benzi riuscì, come
al solito, a sdrammatizzare le cose. Raccontò che in passato, su sua segnalazione, Federico aveva già acquistato
una casetta sul porto; prontamente rivenduta, a seguito
di un deciso intervento da parte di Giulietta Masina:
«Cosa ci dovete fare, una garçonnière?!»
Per un po’ non si parlò più di Fellini a Rimini.
La nostra passeggiata ‘a marina’ sta per finire. Oltre la
barriera della ‘città albergo’, esiste un’altra Rimini, che molti
nostri ospiti distratti (o mal consigliati) non hanno mai visto:
la parte più intima, uno scrigno di storia e di arte. Ed è tutto
per i riminesi, come era una volta, nelle vecchie case, la
cucina. Il sentimento è rimasto lo stesso, anche se di Rimini,
oggi, ne esistono quattro o cinque: quartieri residenziali,
centri direzionali, frazioni turistiche, periferie che si sono
mangiate con disinvoltura la campagna, capannoni industriali, artigianali e fieristici… Fare un salto in centro, rimane
sempre, per noi indigeni, una ‘piccola festa’, un regalo che
ci concediamo, per attenuare il peso delle nevrosi, dell’anonimato, dell’isolamento. Lì, la civiltà super-competitiva dell’auto è bandita, i tavolini dei caffè occupano allegramente
le piazze; le librerie, le sale cinematografiche e i piccoli
negozi di qualità affiancano le chiese medioevali e i monumenti romani. La festa aumenta, poi, quando il mercoledì e
il sabato mattina ‘esplode’ il mercato ambulante, per le
strade, in piazza Cavour e in piazza Malatesta. In quelle due
mattinate sembra che il centro storico, così animato, sia tornato quello di una volta. «Allora, noi si stava sempre in
città… il ‘passeggino’ lungo il Corso: tutte le sere, mezzo
chilometro compiuto a passo di lumaca. Dalla pasticceria
Dovesi fino al caffè Commercio…», così Fellini, ne La mia
Rimini, dipinge la vita riminese degli anni ’30.
30
La vita era tutta lì
Sul Corso con Federico e Titta
Ora andiamocene a spasso per la città di Rimini, con
Federico Fellini. A guidarci è ‘Titta’, l’avvocato Luigi
Benzi, allora e sempre grande amico - fedele e leale - del
regista.
È una passeggiata datata anni ’30. Titta e Federico
hanno da poco dismesso i calzoni corti; e il pomeriggio
del sabato vanno ad ingrossare quei curiosi plotoni di
ragazzini, oggi difficili da immaginare, allora tutti in
camicia nera.
Poi Federico se ne andò a Roma. Titta invece restò a
Rimini, laureandosi, e riuscendo in pieno nella propria
carriera: è ancora oggi uno dei personaggi più generosi e
più amati dai riminesi. Perfettamente integrato nella vita
cittadina… con un equilibrio invidiabile. Era stato giovane fascista convinto, poi conclusa la guerra ha abbracciato la fede repubblicana diventando consigliere comunale di quel partito: senza mai cadere nel fanatismo e
nella faziosità. Lo si può incontrare, indifferentemente,
la domenica pomeriggio nella bagarre popolare dello stadio o in qualche serata mondana al raffinato Casino
Civico. Non nega mai la sua collaborazione o un contributo, o la sua presenza, a nessuno. Generosità e pubbliche relazioni, in lui, si fondono mirabilmente. E poi, è un
conversatore-oratore spassosissimo.
Se è difficile vivere e creare alla stregua di Fellini, non
è facile neppure riuscire in quello che Titta ha scelto di
31
fare: vivere da vero riminese, integrale, ed essere amato
da tutti in patria. Sono due imprese egualmente ardue,
ciascuna a suo modo.
Alla Rimini degli anni Trenta, a Titta, alla sua famiglia, alla sua casa, Fellini dedica il film Amarcord: un
inno, ed una caricatura allo stesso tempo, alla calda e
umile vita di provincia che, come una sorta di grande zattera, stracolma di personaggi grotteschi, va alla deriva in
un mare sempre più cupo. Il film non arriva a parlare
dell’incommensurabile tragedia della guerra che scoppierà di lì a poco, ma l’atmosfera che il regista ha voluto
ricreare incombe come una pesante premonizione lungo
tutta la storia.
“Perché devi sapere che Federico era un solitario”
Con Titta Benzi - e con gli scritti di Federico Fellini cerchiamo di ricostruire la vita, quella quotidiana, quella
minuta, dei giovani riminesi di allora. Dei ragazzi Federico
e Titta, dal 1930 al 1939: «perché lui, ai primi di gennaio
di quell’anno, se n’è andato a Roma».
Dimmi, Titta, c’erano dei locali che frequentavate
assieme: che so, il mitico Caffè di Raul, sul Corso…?
«No, lì Federico non ci veniva, perché devi sapere che
Federico, tutto sommato, era un solitario. Benché fosse
un nostro sicuro e grande amico, egli non partecipava
alla vita sociale della quale noi eravamo naturalmente
protagonisti: anzi, Federico era tutto l’opposto. Non
solo: io ero un violento come individuo, aggressivo, sportivo, fascista e, talvolta, anche scazzottatore… lui invece
era apertamente negato per l’attività fisica, che spesso
irrideva. Anche quando era costretto a fare ginnastica si
distingueva; per esempio, in quel periodo alla fine di un
32
anno scolastico, c’era l’obbligo di partecipare al saggio
ginnico… e quando ‘Magnaforma’, che era il nostro
comandante fascista, ci disse “ragazzi, al saggio fate bene
perché dipende dall’andamento di questa cerimonia se io
farò carriera e prenderò il posto del console Gigli…”
nella testa di Federico balenò subito l’idea di far fallire
tutto. Le cose difatti andarono così: eravamo cento giovani sul Prato della Sartona e il comandante dirigeva il
saggio “Unooo… dueee… treee… quattrooo!” e a quel
punto tutto il gruppo doveva procedere a sinistra…
novantanove sono andati a sinistra ed uno, Federico, è
andato a destra… rovinando tutto, lui da solo!
Ci trovavamo dopo la scuola, lui, io e Mario Montanari, e andavamo a fare le ‘imprese’, che erano tutte fesserie… ma più che di scherzi si trattava di vere e proprie
ruberie! Rubavamo una gabbia per canarini, mezzo
sacco di farina, e soprattutto il baccalà, in tutti quei
negozi che lo tenevano esposto al di fuori, vicino alla
porta… noi lo prendevamo per la coda, sfilandolo via,
senza esser visti; poi lo portavamo nella sede delle Poste,
che allora si trovava al pianoterra, nel palazzo dell’Arengo: in quell’enorme salone, in tempi di estrema indigenza, laggiù in fondo, attaccati al termosifone stazionavano, al caldo, i vecchi pensionati. A loro distribuivamo,
da autentici benefattori, il baccalà così guadagnato. C’è
l’ho ancora nell’orecchio la voce esultante di quei poveretti che dicevano: ‘Ciò, ve’, l’è arvé Fellini se baccalà!’
C’era poi un negozio che costituiva l’aspirazione massima della nostra golosità: ‘L’Unica’, che un tempo si
affacciava nel corso d’Augusto, poi si trasferì in via IV
Novembre. La madre, la signora Fellini, che era molto
religiosa - mentre io e Federico non lo siamo mai stati!pretendeva che noi facessimo la Santa Comunione e, per
invogliarci ci prometteva - dopo il sacramento - una cioccolata in tazza all’Unica. Quasi davanti, poi, a questa
33
pasticceria c’era il negozio di Squadrani, un rivenditore
di cartolerie, accanto al quale, Federico e Demos Bonini
fondarono quella piccola e oggi celebre società - FEBO di disegni e caricature (visi incollati su fondali di carta
colorata, frutto di un lavoro ingegnoso), nel palazzo
Malatesta, angolo via Tempio Malatestiano…
Ci piaceva anche il Duomo, benché non fossimo praticanti: in chiesa andavamo soprattutto perché c’erano le
ragazze e nel mese di maggio frequentavamo quella di
San Girolamo (poi distrutta); ci attirava pure il Grand
Hotel che noi visitavamo d’inverno - quando non c’era
nessuno - perché d’estate non ci permettevano di
entrare, neanche di mettere piede sulla terrazza…»
Come si svolgeva la vostra giornata di ragazzi?
«La mattina naturalmente passava a scuola; uscivo da
casa mia in via Roma e Federico dalla sua, in via Dante,
nel palazzo Dolci (dove i Fellini abitavano), mentre
pochi metri più in là c’era l’abitazione di Demos Bonini.
La famiglia Fellini cambiò diverse volte abitazione: da
via Dardanelli passò in via Gambalunga, e poi in via
Dante.
Abbiamo frequentato il Ginnasio all’ultimo piano del
palazzo Gambalunga, in quell’aula d’angolo, e di lassù
tiravamo dei proiettili cartacei addosso al vigile che là
sotto regolava il traffico, tra via Gambalunga e via Tempio Malatestiano … il traffico?! si fa per dire… passava
una macchina ogni morte di papa!»
Nell’altra parte della strada sorgeva il Vescovado,
anch’esso poi distrutto. Al suo posto oggi c’è il palazzo Fabbri, dove ha sede lo studio, nientemeno, di Titta Benzi.
E il pomeriggio?
«Prima si tentava di studiare, cioè… ero io che comin34
Con quell'aria vagamente scanzonata. Foto di gruppo al Liceo Classico
‘Giulio Cesare’, in palazzo Buonadrata (Corso d'Augusto). Nella fila, in
alto, da sinistra: Guerrino Balducci, Alberto Marvelli, Gaetano Frioli,
Emilio Baronio, Alberto Soave e Tentoni; nella fila di centro: la Gori,
Alberto Balducci (docente), Corrado Bongiovanni (l'insegnante di chimica), la Barillari, Titta Benzi, Giorgio Bertini, Federico Fellini e Fulvio
Barillari ('tagliato a metà'); ultima fila in basso: Don Baravelli, la Martelli,
la Sapucci, la Miranda Quartara e la segretaria 'Carletta'.
ciavo a studiare… e mai a casa mia, ma sempre a casa di
Federico.
E lì tra una chiacchiera e l’altra… mi impegnavo
molto; altrettanto non potrei dire di Federico, che non
aveva voglia di far niente: lui aveva un piccolo mandolino
che suonava in continuazione ‘Adesso ti faccio sentire il
Ramsinger!’ Nei libri di Salgari, che leggevamo allora,
c’era il personaggio, a quei tempi veramente famoso, Tremal Naik, che suonava anche lui quello strumento. Dopo
di che uscivamo in cerca di ‘avventure’, per il Corso e nei
vicoli adiacenti. Allora la città era tutta lì, dentro le mura,
dal ponte di Tiberio all’Arco d’Augusto: erano le nostre
Colonne d’Ercole. Al di là incominciava il buio.
Dopo essere rimasti per tre o quattr’ore a ‘studiare’,
quella era una specie di vacanza, di licenza: poter uscire,
prima di cena, per la passeggiata sul Corso. Era lo ‘struscio’. Si andava per guardare le ragazze. E lì, a seconda
dell’età, avevamo le nostre ‘morosine’, che in genere
erano sartine, soprattutto le allieve della signora Mengozzi, che aveva il laboratorio al terzo piano di una casa
in via Oberdan, vicino alla piazzetta Plebiscito, il luogo
della nostra ‘fogheraccia’»
Le ‘fogheracce’ sono i tradizionali falò che ancor’oggi si
accendono il 18 marzo alla vigilia della festa di San Giuseppe. Un rito popolare che sta, però, affievolendosi. Fino
a qualche anno fa offriva l’occasione per scendere tutti in
strada, con in prima fila i bambini e i ragazzi, in una
grande serata che festeggiava la fine dell’inverno. Fellini ci
restituisce l’evento, mirabilmente, in un episodio all’inizio
di Amarcord.
Nel film, l’atmosfera della serata è cupa. Una caricatura,
lieve e tenebrosa nello stesso tempo, della vita di allora.
Una curiosità: c’era un detto popolare, legato a questa
tradizione, che suonava così: «La fugaraza grosa la fa crèss
36
al tèti!» (La fogheraccia grossa fa crescere le tette!); si alludeva, naturalmente, alla professione del santo, noto falegname, e alle ragazze che portando molta legna da bruciare
avrebbero evitato la sua pialla… sul seno. Il linguaggio
della vita popolare in Romagna era intessuto e imbevuto di
sesso e di erotismo, con una ricchezza di spunti a volte travolgenti, che andavano ben oltre il proverbio citato. Nella
Rimini cinematografica di Fellini non mancano gli esempi,
mentre una ricognizione completa di quel lessico, di quella
cultura, la puoi trovare nell’opera meticolosa e ‘coraggiosa’
del nostro Gianni Quondamatteo, scrittore e ricercatore
riminese, ed in particolare nei suoi almanacchi e dizionari
romagnoli.
Ma torniamo al racconto di Titta, e alle sue prodezze
nella notte dei falò.
«Durante le fogheracce mi scatenavo, provocando dei
botti a base di zolfo e potassio… andavamo a rubare lo
zolfo delle miniere di Perticara, portato a Rimini dai trenini che scendevano da Mercatino Marecchia, e poi ci
recavamo nella farmacia di Colantonio, in via Umberto I
(oggi Corso Giovanni XXIII), a comprare le pastiglie di
potassio: mescolando il tutto si ricavava una polvere
pronta per una piccola detonazione, bastava premere
con decisione… La Farmacia di Colantonio è ancora lì,
al suo posto. E il figlio del farmacista, di allora, era quel
nostro compagno di scuola che in “Amarcord” è alla
lavagna quando noi facciamo la pipì dentro i tubi di
carta… ed è lo stesso che, sempre nel film, va a confessarsi da Don Baravelli.»
Si tratta di un sacerdote famoso nella storia del novecento riminese, un prete stimato, con un’aureola di antifascismo…
«Ma allora noi non ne sapevamo niente, né potevamo
37
capirlo; lo ricordo come un uomo molto buono, un po’
incazzoso però, così come viene, d’altronde, presentato
nel film. Capitava che veniva in classe e, tanto per farsi
amica la scolaresca, diceva: ‘Ragazzi, oggi ho deciso una
cosa… adesso vi parlo per un momento della Santissima
Carestia… poi, dopo, facciamo la battaglia navale e
chiacchieriamo tra di noi, ci divertiamo …”, allora uno di
noi, che era quasi sempre Barillari, si alzava e diceva:
“No, io voglio parlare di figa!” A quel punto don Baravelli diventava paonazzo, s’incazzava e correva dal preside. E quest’ultimo, Olivieri Arduino, un uomo alto e
possente, arrivava immediatamente in aula: “ma che fate
voi a questo sacerdote?!”, poi alzando il tono: “Io vi trafiggo!! Io vi inchiodo! Madonna, che fate a questo sacerdote???!»
Caro Benzi, se ho ben capito, non era quindi il Liceo
classico dei ragazzini tranquilli e perbene come siamo oggi
abituati a vedere?
«Macché, eravamo delle canaglie!! Quando c’era la
guerra d’Abissinia, nel ’36, tutti i minuti andavamo dal
preside, che allora era Carlo Lucchesi, e con la scusa di
festeggiare le ricorrenti vittorie: “Signor Preside possiamo andar via con la bandiera, le truppe italiane hanno
conquistato Tucul!!”
‘Tucul?’
‘Sì, signor Preside, è una città molto importante, sulla
strada per Adis Abeba!!’
‘E va bene, andate…’
E cosi tutti uscivamo per la città, soprattutto per
andare a giocare a boccette ‘da Rossini’ (dove oggi c’è il
‘Bar Turismo’, in Piazza Tre Martiri, allora Giulio
Cesare). La sede del liceo era lì vicino, sul Corso, nel
palazzo Buonadrata, dove è rimasto fino a pochi anni fa.
Si trattava ancora di una scuola non statale, infatti siamo
38
dovuti andare a Cesena per sostenere l’esame necessario
al passaggio dal ginnasio al liceo, e a Forlì per quello di
maturità».
Rimini già negli anni trenta era una capitale del divertimento notturno, all’avanguardia per i suoi locali da
ballo… voi non li frequentavate?
«A quei tempi un ragazzo di sedici, diciassette, diciotto
anni non contava niente, non frequentava i locali notturni… ricordo che solo una volta io e Federico siamo
andati a ballare, a Santarcangelo, nel Palazzo Comunale,
per la ‘Festa dei becchi’… Fellini se ne stava lì in un angolo,
era negato per il ballo, anzi era negato per qualsiasi attività
fisica… era magro come un chiodo e se ne vergognava.
D’estate poteva capitare di andare a vedere quelli che
ballavano, e le poche volte che ci siamo andati anche
noi, magari sulle terrazze del Kursaal, non ricordo di
aver visto in pista Federico, mentre l’amico Mario Montanari sì.
Finita la passeggiata sul Corso si tornava a casa, in
orario, per l’ora di cena, cioè quando i tuoi ti dicevano di
tornare: allora su certe cose non si scherzava! E solo d’estate si usciva dopocena. D’inverno mai! Si andava a
letto presto: alle otto e mezza dormivamo tutti (io tra l’altro ho conservato questa abitudine, faccio così anche
adesso!). E non mi ricordo neppure della radio: non
credo avesse qualche parte nella nostra vita.
Allora il tempo libero era impegnato, quasi totalmente, dalle attività del regime fascista: dovevi andare in
palestra, alle marce al ‘sabato’, dovevi cantare… e Federico sempre a rimorchio!»
Ti ricordi di aver parlato con lui di politica, in quegli
anni?
«Mai! La situazione era quella che era, ed il fascismo
39
appariva come un fatto naturale. Fellini, però, non lo
amava perché era allergico ad ogni ricorso all’uso della
forza fisica e qualsiasi forma di violenza lui l’ha sempre
odiata: figurati, per lui anche l’esercizio sportivo era assimilabile ad una violenza… salire la fune, a lui, chi glielo
faceva fare?! “ma perché devo andarci, lassù in cima?!”
In ginnastica di conseguenza andava malissimo, non
combinava niente di buono!! Non ha mai saltato gli
attrezzi come la cavallina… era gracile… io lo chiamavo
Gandhi, per via di quelle gambe magrissime … quando
la mattina andavo a chiamarlo per raggiungere insieme la
scuola, lui si affacciava sul terrazzo in camicia da notte,
corta (come si usava allora), con quei chiodi al posto
delle gambe, mi diceva “Mo vengo”. “Arriva Gandhi!”
commentavo io.
Era timido e insofferente allo stesso tempo… infatti,
quando noi dovevamo cantare gli inni della patria lui si
tirava indietro, si rifiutava di far parte del coro e diceva
“ma a chi la volete dar d’intendere? volete conquistare
Malta, Tunisi e non siete nemmeno capaci di prendere
Santarcangelo…” allora famosa come paese delle cipolle!
C’era in lui inoltre un rifiuto assoluto di sottoporsi
all’autorità…»
Lui era estraneo alla chiesa, al fascismo…
«Lui era estraneo a tutto, anche alla fogheracce… sì,
veniva alle fogheracce ma lui non ha mai fatto ‘i botti’
saltando sulle pietre o sui bulloni».
Cosa c’è di vero negli episodi di Amarcord che riguardano la tua famiglia?
«È chiaro, ci sono tanti personaggi ed episodi reali
che nel film subiscono una trasfigurazione: ad esempio,
mio padre era un’antifascista ma non ha mai dovuto
subire la punizione dell’olio di ricino, né aveva sistemato
40
Una casa come protagonista. Il villino della famiglia Benzi è ancora lì, in
via Roma, 41 (vicino alla stazione). E' la casa del grande amico Titta, che
Fellini ha ricostruito a Cinecittà per il suo Amarcord. Anch'essa è 'protagonista' del film: fuori e dentro vi si svolgono grandi scene di vita… quelle
di una famiglia tipica dell'Italia di ieri e di oggi. (Foto Barbara)
il grammofono sul campanile per diffondere le note dell’Internazionale… quello fa parte dell’invenzione; mio
padre diceva “me an’marcord miga, me an so andé mai in
zima ad un campanil”.
I miei genitori videro Amarcord e non furono tanto
convinti dell’operazione, soprattutto mia madre che
dovette assistere alla sua… morte anticipata, sullo
schermo: “A m’ha fat un bel servizi, e tu amig!? M’ha fat
murì prima de’ teimp!?” E mio padre: “E tu amig l’è
mat!? Cusel? Me ho mes un gramofun in zima de campanil!? Fammi parlare col tuo amico!”
Invece le discussioni a tavola, così frequenti nel film,
erano autentiche: il clima era proprio quello, con mio
padre che tirava via la tovaglia con tutto quello che c’era
sopra, che allungava qualche schiaffone ai figli indisciplinati…
Fellini voleva molto bene alla mia famiglia, e donò a
mio padre il libro La mia Rimini con una dedica che ora
ti mostro.
“Al Cavalier Ferruccio, con la simpatia, il rispetto e l’amicizia di sempre. Buona fortuna, caro Ferruccio. Federico Fellini - 16 marzo 1968”.
“Ho letto questo dono di mirabile rievocazione del grande
Regista e scrittore Federico Fellini, ricordando la nostra bella
città di Rimini, dal 20 marzo 1968, ultimato lì 23 agosto 1968.
In fede. Benzi Ferruccio”.»
La notazione - inconsueta - in calce ad una dedica,
denota tutta l’ammirazione per Fellini e l’impegno messo
nella lettura di quel “librone”.
La famiglia Benzi, quella che discende dal nonno di
Titta, Antonio, con i suoi nove figli, è una di quelle famiglie che hanno contato in questa città, nel secolo appena
trascorso. A fronte di una aristocrazia esangue e debole 42
che viveva di rendita sulla proprietà di poveri poderi
(attorno a Rimini c’era l’agricoltura più povera della
regione) - e di una borghesia pressoché inesistente, si
faranno strada coloro che, lavorando sodo nell’edilizia e
nelle attività balneari, sapranno creare delle imprese all’altezza di quello sviluppo fantasmagorico che ha caratterizzato gran parte del secolo passato. Antonio, il nonno di
Titta, era un capomastro e, all’occorrenza, caporale dei
pompieri. Il figlio Ferruccio, il babbo di Titta, iniziò come
muratore ed essendo il maggiore di nove fratelli, s’impegnò
a più non posso: andava, perfino, a rifare i nomi sulle
lapidi del cimitero; e col tempo divenne un grosso impresario edile, con la ditta ‘F.lli Benzi’. A Rimini erano
famosi. E c’era perfino un detto “Paga Benzi!”… la cosa
era nata così: stavano costruendo una villa in Viale Principe Amedeo e Ferruccio, andando a dare un’occhiata ai
lavori, sorprese un nuovo lavorante, mai visto prima, che
tranquillamente fumava una sigaretta: «Dite su, a voi chi
vi paga?»
«Paga Benzi!» rispose prontamente, e con disinvoltura,
il lavoratore, che non sapeva chi fosse la persona che lo
stava interrogando. «Chi ti paga, Benzi?» è stata per anni
la battuta rivolta a chi non dava dimostrazione di grande
impegno sul lavoro.
Ferruccio, ricorda il figlio Titta, «cantava sempre brani
d’opera, la mattina quando si faceva la barba».
In Amarcord non mancano riferimenti alla vita sessuale dei ragazzi di allora…
«Vuoi dire le seghe… nel film tutto questo è molto
chiaro con la scena dell’automobile! Anche se qualche
volta capitava di entrare nei casini accompagnati da
‘Pistolone’, D’Ambrosio Nicola, il nostro compagno di
scuola che veniva dal Sud: lui aveva già i calzoni lunghi,
mentre noi fino ai 17 anni portammo quelli corti; D’Am43
brosio aveva una certa autorità nei confronti delle maîtresse dei casini e riusciva a farci passare. ‘Pistolone’ in
aula, però, era la nostra vittima, perché sui banchi di
scuola era sempre davanti a noi, ed era a lui che pisciavamo in tasca, dopo di che Federico gli diceva: “ti ho
messo una bella caricatura in tasca…”
Perché devi sapere che Federico disegnava caricature
in continuazione, in classe non faceva nient’altro… non
so come abbia fatto ad essere promosso?! O forse lo so:
era un ragazzo di un’intelligenza superiore… sapeva scrivere, ma soprattutto, ti ripeto, sapeva disegnare!! I professori erano tutti affascinati dai suoi bozzetti! Come
facevi ad essere severo con un ragazzo così… lui ritraeva
tutti gli insegnanti, magari in gruppo, vestiti da bersaglieri alla presa di Porta Pia.
Una volta nel casino venne anche Federico, con Pistolone: la nostra intenzione era quella di curiosare… io poi
sono finito in camera con una cicciona vestita da marinaretto senza combinare nulla, c’era solo da ridere… o
da piangere; anche a Federico successe qualcosa di
simile… Allora c’era solo la masturbazione, e tante aspirazioni per il futuro…
Qui a Rimini Federico aveva la Bianchina, che era l’amore innocente… ma la mamma di Federico donna severa,
imponente e bigotta, non scherzava neppure su queste
cose… A me, la Signora Ida, la madre di Federico, faceva
una certa soggezione… e non dimenticherò mai quando mi
sorprese, in quel pomeriggio, a casa sua, ad emettere rumori
ed odori sconvenienti! Federico, con il quale stavo studiando, non resisteva più agli esiti della mia crisi intestinale
e mi invitò decisamente: “Titta, ho paura di morire soffocato; se proprio non ne puoi più metti il culo fuori dalla finestra. Falle, ma di fuori!” Ma la finestra, ahimé, dava sul terrazzo di casa Fellini, ed io fui pescato in flagrante dalla Signora Ida: “Bravo, bravo Gigetto! Bel rispetto per la casa
44
altrui!”, e Federico in mia difesa: “Mamma, Titta stava poco
bene… gli faceva male la pancia” “Vorrei vedere cosa
direbbe mamma sua se tu andassi a casa Benzi a fare certe
cose!?”
“Mamma io non le faccio le scoregge… le fa Titta”.
Rosso come un gambero, evitai la casa dell’amico per
una decina di giorni».
Quando hai visto per la prima volta I vitelloni, hai
capito subito che parlava di Rimini, di voi?
«Beh, per forza, ci sono, tra l’altro, degli episodi che
mi riguardano direttamente!
Ad esempio, la scena in cui Alberto Sordi grida
“Lavoratori! Tò!”, facendo seguire un pernacchio, era
parte integrante del nostro repertorio: anche se la cosa in
realtà accadde in maniera diversa; intanto stavamo
andando in due su di una bicicletta, e non in automobile:
Federico sul mio cannone, con il grammofono di Torsani
in braccio, eravamo diretti alla ‘Carletta’, la villa-castello
di proprietà della famiglia Montanari. Ai bordi della
strada, che porta a Covignano, nei campi e negli orti, piegati sulla terra lavoravano alcuni contadini… È lì che
avvenne il ‘misfatto’!
La ‘Carletta’, il castelluccio di campagna della famiglia Montanari, per noi era il non plus ultra dell’aristocrazia e dell’eleganza: lì portavamo le ragazze, in prevalenza sartine; organizzavamo festicciuole in cui poter ballare, divertirci, o fare delle finte sedute spiritiche… per i
‘pataca’ che ci credevano. Era soprattutto l’epoca dei
primi bacini, e sul grammofono girava in continuazione
il disco del momento: Star dust.»
Federico già si distingueva, tra i ragazzi riminesi, anche
per quel suo modo di fare: se ne stava per conto suo, era già
considerato un’artista fra i giovanissimi, alto, elegante, un
45
bel ragazzo…
«E poi, Fellini leggeva molto, in particolare i gialli di
Edgard Wallace, al punto tale che affibbiò a ciascuno di
noi il nome di un personaggio preso da quei libri: io che
ero una spaccaporte, un bastonatore, divenni Tony Thomas, Mario Montanari - il più elegante tra di noi - il conte
Jimmy Poltavo e lui, Federico, si autonominò colonnello
Black Dan Bondery.
Fellini sarebbe potuto diventare un grande pittore…
o forse lo è !? Io avevo tanti suoi disegni, ma purtroppo
me li ha distrutti la guerra e per me è stato un gran
dolore: la nostra casa di via Roma è stata sventrata e scoperchiata.»
E della nostra campagna cosa pensava?
«Lui amava la nostra campagna: e negli ultimi tempi
quando veniva in giro con me, fino all’estate ’92, mi
diceva “andiamo a fare un giro in campagna… perché
vedi, la nostra campagna è ubertosa, è accogliente, voi
mettere le siepi nostre con quelle di Viterbo: da quelle
parti lì t’aspetti sempre che dietro che ci sia uno con l’archibugio che t’ammazza!”
Quando l’ho portato, tra le nostre colline, a visitare
Villa Mattioli - ristrutturata recentemente dalla Fondazione Cassa di Risparmio - lui rimase estasiato. Entrò
dentro. C’erano le donne della Fondazione che pulivano
le sale, davano lo straccio al pavimento, ed una alzando
gli occhi meravigliata disse: “Ciò u ié Fellini, c’è Fellini!?”
Si sono alzate in piedi e, dopo essersi asciugate, hanno
dato la mano al grande regista, e lui ha non ha voluto
essere da meno: “Brave, brave, ho visto che lavorate
bene… perché dovete sapere che questa mattina ho comprato la Villa!”»
46
Rimini ispiratrice e casinara
Intervista a Gianfranco Angelucci
E adesso, gradito ospite, se la cosa ti fa piacere, facciamo un passo in avanti: entriamo con Gianfranco
Angelucci - grazie all’intervista che ci ha concesso - nelle
‘viscere’ del rapporto Fellini-Rimini e nella travagliata
esistenza della costituenda Fondazione Fellini, che la
nostra città cerca affannosamente di realizzare. La famiglia del regista lo aveva chiamato, nel 1997, a dirigere
questo organismo, il quale, però, nel 2000 è già entrato
in crisi.
Angelucci, da studente universitario, aveva conosciuto
Fellini nel 1969: stava preparando la tesi proprio sulla sua
opera, a partire dal film Satyricon. E, da allora in poi, collaborò sempre con il regista, diventandone amico. Ha
curato, per lui ed insieme a lui, la pubblicazione di numerose sceneggiature, volumi fotografici e tanti altri scritti.
Ha esordito nella narrativa con L’amore in Corpo e recentemente ha pubblicato il romanzo Federico F., dedicato
agli ultimi mesi di vita del grande regista (un libro coraggioso e ‘scandaloso’… ma di questo ne parleremo in un
prossimo capitolo). Ha diretto, come regista, importanti
produzioni, fra cui Fellini nel cestino (la presentazione di
importantissimi brani tagliati ed inediti) e I protagonisti di
Fellini (RCS Home Video). Ha firmato assieme a Fellini la
sceneggiatura di Intervista (1987).
Ed ecco una testimonianza indispensabile, autorevole
ed affettuosa: quella dell’ultimo grande collaboratore di
47
Federico Fellini, che risponde con impegno alla mie
domande e alle mie provocazioni.
Caro Gianfranco, ti ringrazio per la disponibilità; e
passo subito alle domande che mi premono.
Mi viene subito da chiederti: Fellini come ti parlava
della sua città? qual era il suo disagio nei confronti di
Rimini? che cosa gli dava fastidio e cosa apprezzava di più?
La famosa lettera al Sindaco Chicchi può considerarsi
una sorta di testamento, relativamente al patrimonio dei
suoi rapporti con la città?
«Fellini tornava di rado a Rimini e, qualcuno aggiungeva anche, ‘di malavoglia’. Utilizzando l’avverbio con
stizza, alla stregua di uno scappellotto o di una ruvida
carezza, un rimprovero venato di sorriso. Certo, in molti
sapevano di certe incursioni notturne di Federico, al
riparo da ogni pubblicità; la storia dei sassi che gettava
contro le imposte di Titta, l’avvocato Luigi Benzi, penalista di grido ma per lui rimasto sempre e soltanto ‘il
Grosso’, il quale, a qualsiasi ora, scendeva in strada e gli
si metteva al fianco per una passeggiata solitaria verso la
‘palata’, il porto canale, a raccontarsi fantasmi di vita fra
spruzzi di salsedine.
Mi è sempre parso che fosse giusto così, e che l’atteggiamento schivo, riservato, sfuggente di Federico nei
confronti della propria città, rispondesse non soltanto al
suo carattere altrettanto affabile che chiuso, da Capricorno nato sotto il plumbeo Saturno, ma anche alla sua
profonda, autentica aristocraticità, di chi non sopporta la
volgarità che c’è sempre nel mettersi in mostra, nel pretendere il plauso, l’ossequio, l’ammirazione.
Gli intellettuali della ‘diaspora’ hanno sempre sofferto intimamente di questa ferita, apertasi nel momento
stesso in cui venivano voltate le spalle alle mura del
48
borgo che pure, per tutti gli altri, costituivano protezione
e conforto.
Un giorno, come Moraldo ne I Vitelloni, qualcuno ha
preso il treno, con un piccolo Guido nel cuore, ed è partito senza dare nell’occhio. Ha cercato quel varco nelle
mura, perché gli sembrava di non avere altra scelta, ha
interrotto il cerchio magico e si è fatto forestiero. Un tradimento senza colpa, di cui pure si porta dentro una traccia indelebile. Tenendo vivo il rapporto, ciascuno a suo
modo, con il proprio personale amico Titta - chi non ne
possiede! - il quale ha continuato a volergli bene e a ragguagliarlo sornione con le notizie della tribù; nei confronti degli altri viene alimentato – e volentieri ricambiato - il giudizio di diversità. Infatti non fa poi molta differenza la riuscita o il fallimento dell’avventura intrapresa; la savana lascia addosso un altro odore ed è quello
che avvertono i Fausto, i Riccardo, gli Alberto, i Leopoldo, restati al riparo delle mura, storcendo il naso, sia
pure con il cappello in mano, quando l’ossequio è inevitabile.
Così tutti più o meno abbiamo pensato che inseguendo i suoi sogni Fellini si fosse dimenticato di Rimini.
Lo credevo anch’io, prendendo per note di colore la
ricerca improbabile che Federico faceva in ristoranti
romani o toscani, del cascione con le erbe, e della piadina, che mai sarebbe stata neppure paragonabile a
quella di Maddalena, sua sorella, erede riconosciuta delle
alchimie materne.
Sembravano schegge di tenerezza, scivolate sui sentimenti. Trasalimenti del palato. Credevo. E poi invece
accadde qualcosa che non avrei mai potuto immaginare.
Nel 1993, dopo aver ritirato a Los Angeles il suo quinto
Oscar, questa volta alla carriera, Federico dovette correre in Svizzera, per operarsi d’urgenza di un pericoloso
aneurisma all’arteria femorale. Un intervento non poi
49
così complicato, che pure si rivelò insidioso oltre ogni
previsione. Il chirurgo elvetico ci scherzò sopra: “Un’operazione raccontata da Fellini”, recitò spiritosamente ai
giornali per spiegarne le debordanti conseguenze cliniche, ma anche per esorcizzare le possibili degenerazioni.
Invece Fellini non si riprese più; la lunga degenza in Svizzera lo intristì, lo rese insofferente, voleva tornare in Italia anche contro il parere medico, senza rispettare i tempi
imposti per la convalescenza. Ero sicuro che intendesse
venire a Roma, a cercare quella salute propiziata dall’ambiente, dal lavoro, dai contatti, dai collaboratori, dai
riti confortanti della sua città ‘reale’.
Mi sbagliavo. Lasciata Zurigo Federico volle rientrare
a Rimini, concludere il suo difficile percorso nell’appartamento al Grand Hotel, la suite, di cui andava così fiero
da quando il commendator Arpesella, dopo il successo
mondiale di Amarcord, l’aveva messo a sua disposizione
‘vita natural durante’, come si fa con un califfo, un principe regnante. E quando, al Grand Hotel, fu colpito dall’ictus cerebrale che lo semiparalizzò e fu ricoverato
all’Ospedale Infermi, la prima cosa che mi disse appena
lo raggiunsi, e lo trovai coccolato dalle tante infermiere
che gli svolazzavano intorno allegre e ciarliere, è stata:
“Ma lo senti come parlano? Lo senti il suono di queste
voci? Capisci adesso perché sono tornato qui?” Aveva
scelto la melodia dell’infanzia, il canto segreto della sua
amatissima città, per rientrare nel grembo e, oggi sappiamo, nell’universo, nell’assoluto dell’esistenza.
Il rapporto di Federico con Rimini era dunque radicato nel ricordo – un ricordo che poteva risalire anche
soltanto al giorno precedente, all’ultima sortita, sia
chiaro - più complesso di tutte le schematizzazioni e le
semplificazioni, difficilmente riconducibile a formule, e
assai meno prevedibile di ogni illazione appollaiata sulla
sensatezza.
50
Federico Fellini, sismografo biologico, era troppo
sensibile, troppo vulnerabile per sottoporsi al reducismo
di chiassose rimpatriate. Rimini preferiva portarsela dentro, in cento modi diversi, forse in mille; prima di tutto
raccontandola nel suo cinema così come fioriva dalla
propria invenzione: una dolcezza remota e presente
assieme, uno smarrimento prezioso, una “sottrazione”
imposta da un destino irrefutabile diventata, per questo,
motore dell’esistenza. Se qualcuno ha mai subito o
inflitto un abbandono d’amore, saprà quel che dico.
Rimini aleggiava anche fra lui e me – che non sono di
Rimini ma la terra di provenienza è assimilabile – fin da
quando laureando in lettere con una tesi dedicata al Satyricon, lo incontrai per la prima volta a Roma, col batticuore, e mi invitò al ristorante dell’Hotel Plaza a pranzare con un fumante piatto di tortellini (“li fanno buoni,
quasi come da noi!”); ma oltre ai tortellini in brodo
Rimini era anche le telline aperte in padella – sautè – servite in tavola dentro profumate fiamminghe nelle trattorie di Fiumicino o di Fregene, Rimini era il lungomare di
Ostia, raggiunto in macchina dalla Cristoforo Colombo
ad ogni buona occasione, giorno o notte, pioggia o vento;
era il ristorante la Vecchia Pineta, costruito a tolda di
nave, con le onde che si infrangono quasi contro le
vetrate, era la spianata di cemento che costeggia il lido,
diventata poi la passeggiata estiva di Amarcord, era persino la spiaggia, non importa se nera e di grana spessa e
ferrosa. In quella sabbia affonda i piedi Gambon, il
bagnino guascone della riviera romagnola – anche lui
fasullo, reclutato a Pesaro, – infaticabile appagatore di
femmine, preferibilmente straniere (“Ogni giorno
dovevo punirne anche sei di seguito, nei capanni, in
acqua, sul moscone, dove capitava; quando la donna ha
bisogno ha bisogno, te lo fa capire... Da cosa? Ma dall’occhio, le viene l’occhio bagarein, l’occhio bagarino.”).
51
Qualcuno se ne ricorderà, era uno speciale televisivo
girato durante la preparazione di Casanova, e si intitolava
Casanova Rendez Vous con Federico Fellini. La mia
prima regia cinematografica all’ombra del Maestro.
Ma Rimini era anche Tonino Guerra, santarcangiolese, che custodiva caparbio la lingua e la poesia dell’infanzia; o meglio la ‘poescia’ come ripeteva canzonandolo
Fellini che su Sant’Arcangelo, località fuori dal mondo
civile, dispersa nella foresta vergine, aveva disegnato la
feroce, esilarante vignetta in stile coloniale, con la
colonna di negri che appoggiano a terra i fagotti sotto il
cartello a freccia Km 10 e la guida che spiega: “I portatori si rifiutano di proseguire”. Rimini era anche Sergio
Zavoli, peraltro ravennate, con la sua voce vellutata come
bruma di mare, al quale i provvidi, fedeli amici romagnoli inviano regolarmente lo squacquerone fresco – e
dove trovarlo altrimenti sui colli romani? - con la prima
macchina di passaggio. Rimini, dicevo, era il cascione
con la verdura, incongruamente preteso nei ristoranti
romani o toscani da compiacenti cuciniere; Rimini era la
fotografia del babbo Urbano, sorridente nella cornice
d’argento sullo scaffale, apparsa quasi all’improvviso ai
miei occhi fra i numi tutelari a cui si chiede consiglio,
sempre più spesso, man mano che gli anni si sgranano
dietro le spalle. E poi l’amico Titta che gli riservava folate
di vento marino, ancora saporoso di scuola, e aveva
voluto che un figlio si chiamasse Federico.
Rimini era la mamma Ida, romana, che viveva nella
palazzina vicino alla stazione e non sapeva nascondere la
sua delusione per quel figlio stravagante che non aveva
voluto diventare avvocato. Rimini era Gambettola e la
fattoria della nonna Francesca, la resdora con la faccia
bruciata dal sole come Toro Seduto.
Rimini non era, non è, la retorica di Rimini, quella che
in troppi sono pronti ad invocare o avrebbero tanto gra52
Federico e il mare. «Federico ha sempre amato il mare, ma gli ha fatto
tanta di quella paura! Noi ci buttavamo in mare, al largo, e quando lui
veniva a saperlo ci diceva “ma siete matti?! E se c'è un pescione che vi
mangia?!”» è sempre Titta che racconta. La 'palata', anni '70, in una foto
di Romano Sanchini.
dito con campanilistica autoindulgenza.
Rimini sono i bagnanti che si tuffano dai trampolini
(inesistenti ormai da decenni) e all’annuncio degli altoparlanti che Fellini è dichiarato fuori pericolo dai medici
dell’Ospedale Infermi, per la felicità rimangono sospesi a
mezz’aria(come Federico descrive nella lettera di congedo ai suoi concittadini indirizzata uno per tutti al Sindaco della città).
Rimini è oggi la stele funebre di Arnaldo Pomodoro
al cimitero, brillante di ottone in forma di prua di nave
spaccata verticalmente, aperta dall’alto in basso, che in
tanti reclamano di spostare sulla spianata del porto, di
fronte al mare vero, fra la popolazione viva, i pescatori, i
turisti, i pescherecci che rientrano all’alba, il ronzio delle
biciclette, i gabbiani, e quella voce di vento, indecifrabile, che è entrato a far parte del tessuto sonoro di tanti
film di Fellini, forse di tutti. Nel corso delle lunghe
sedute di missaggio arrivava sempre il momento in cui
Federico chiedeva quel nastrino che i rumoristi conoscevano bene e tenevano pronto ad “anello” con la scritta
“vento Fellini”. “Qui ci vorrebbe un po’ di vento...”
mormorava Federico e nell’inquadratura prendeva a
sibilare debolmente quel soffio particolare che qualche
attento esegeta sosteneva alludesse al Soprannaturale,
fosse il simbolo stesso della Grazia.
Rimini è tutti coloro che non sono partiti.
Nel gruppo degli amici – vogliamo ricordare ancora
una volta il film I Vitelloni? – è solo Moraldo che parte,
salendo sul treno all’alba, quando tutti dormono nelle
sicurezza ovattata delle proprie case. E il piccolo ferroviere Guido, creatura fatata presa in prestito al grande
Charlot, corre a fianco del finestrino domandando:
“Moraldo, ma perché parti? Cosa c’è a Roma?”
Già. Cosa c’è a Roma? Credo che a questa domanda
Fellini abbia cercato di rispondere in quasi tutti i suoi
54
film, compreso quello specificamente dedicato alla Capitale, col nome nel titolo (Roma, 1972).
Ma anche ne La Dolce Vita, in 8 1/2, nei Clown, in
Casanova, nella Voce della Luna. Le vera risposta va cercata in quelle storie divenute immortali. Non l’ha sempre
detto per primo Federico? “Guardate i miei film.” Cosa
potrebbe essere più illuminante di quel suo magico caleidoscopio che ci regala visioni irripetibili, sogni di celluloide?»
Caro Angelucci, nel novembre del ’93, noi di ‘Chiamami Città’ (periodico riminese, diffuso capillarmente,
‘porta a porta’, fin dal 1988) partecipammo commossi ed
emozionati al funerale del nostro grande e al dibattito che
seguì.
Nel primo numero di novembre il nostro giornale si
apriva con questo titolo: Un’eredità più grande della
nostra città.
Ma, visto che ci siamo, voglio anche riportarti l’articoletto di fondo che apparve sotto quel titolo:
A mezzogiorno di domenica 31 ottobre il più grande tra i
registi italiani ci ha lasciato per sempre. Ma definirlo soltanto
un regista ci sembra un po’ riduttivo: tutti hanno ben presente,
oltre ai capolavori cinematografici, la multiformità del suo
genio; i suoi scritti, i suoi disegni, le interviste che ha concesso
- in definitiva, il suo talento e la sua arguzia - trovavano un po’
troppo stretto persino lo sterminato mondo del cinema.
Farà bene, quindi, la nostra città a dar vita ad un Centro
che raccolga per i posteri - non solo italiani - questa poderosa
e poliforme eredità di idee, poesia, intuizione… Si sa che Fellini ha lasciato un tesoro di disegni ed un repertorio onirico la descrizione dei suoi sogni - che rappresenta da solo un
motivo straordinario per allestire una grande istituzione dedicata a lui. Senza contare gli scritti, gli appunti, l’infinito materiale che - nelle notti insonni - raccoglieva, seguendo sempre le
sue curiosità creative e mai l’esaltazione del proprio personag55
gio. Per questo il materiale presente nei vari studi di Fellini - e
nella sua casa romana di via Margutta 110 - è tutto proiettato
verso l’avvenire. Su questo obiettivo Rimini si gioca la possibilità di riconquistare una credibilità in declino, con un istituto
del cinema ed una Fondazione Fellini cui potrebbe convergere
tutto il mondo. In questa direzione “Chiamami Città” non
mancherà di fare la sua parte fino in fondo.
Nel numero successivo, sotto una foto che riproduceva
Piazza Cavour durante le onoranze funebri, stracolma di
riminesi, rincarammo la dose scrivendo:
Una giornata che è già entrata a pieno titolo nella storia
della nostra città. Rimini l’ha giurato in piazza: realizzerà la
Fondazione dedicata al grande regista, ricostruirà il Teatro, si
impegnerà nella propria rinascita culturale…
Come vedi, avevamo già intuito - mettendo continuamente le mani avanti - quello che sarebbe accaduto. Non
eravamo stati facili profeti… era soltanto che conoscevamo
dall’interno la nostra città. Sapevamo quanto poco fosse
laica e quanto - per le sue dimensioni - si sarebbe dimostrata ‘gelosetta’ e un po’ meschina. Ora, con la crisi della
costituenda Fondazione Fellini, è successo, purtroppo,
quello che doveva succedere.
Gianfranco, vedi tu quello che puoi fare: tutte le tue
ricostruzioni e riflessioni sono cosa gradita; come pure
sarebbe utile, per i lettori, capire che cosa si può trovare a
Rimini, sull’argomento, nonostante tutto: i preziosi materiali della Fondazione dove sono adesso? Cosa si potrà
prendere in visione nell’attuale Associazione, quella
diretta da Vittorio Boarini, e quanto si potrà consultare
nella casa di Maddalena Fellini, la sorella.
«L’intervento di ‘Chiamami città’ mi pare, a posteriori, esemplare. Un’unica, doverosa, puntualizzazione:
56
forse non è esatto affermare che Federico sia stato una
eredità troppo grande per la città, lo è stato casomai per
la sua classe dirigente – politica e culturale – inadatta e
insufficiente. Amministratori complessivamente privi di
un progetto culturale capace di interpretare una figura
artistica delle dimensioni di Fellini, di sviluppare cioè
una visione di insieme che superasse le logiche puramente strumentali all’esercizio del potere e fosse in grado
di accogliere e comprendere l’immenso beneficio pubblico che la fortunata coincidenza della nascita di Federico a Rimini avrebbe potuto riversare sull’intera comunità.
Mi dicevano gli amici americani: se una tale fortuna
fosse capitata a noi avremmo cambiato persino nome alla
città, Rimini si sarebbe chiamata Fellini.
Ma qui si entrerebbe in una disanima troppo lunga e certamente fuori luogo – per una guida turistica. Per
far capire però il divario esistente fra l’eredità morale di
Fellini e la nomenclatura cittadina, è sufficiente un solo
esempio. Quando ero direttore della Fondazione Fellini,
in seguito alla presentazione dei nostri programmi di
acquisizione, l’Assessorato alla Cultura della Regione
Emilia Romagna aveva deliberato lo stanziamento di seicentosessanta milioni, a petto di un eguale esborso da
parte dei soci dell’associazione, così come previsto dalla
legge. Di fronte a un tale impegno finanziario il Comune
rispose positivamente, alcuni altri soci nicchiarono in
attesa di sviluppi, la Provincia di Rimini si rese disponibile per una semplice anticipazione della propria quota
societaria annuale, la Fondazione Cassa di Risparmio di
Rimini, nella figura del suo Presidente, rispose chiaro e
tondo, testualmente: “La Fondazione Fellini non rientra
nei nostri programmi culturali”. E chiuse la partita.
Per non perdere il finanziamento regionale, l’allora
sindaco Giuseppe Chicchi escogitò l’espediente di un
57
prestito garantito dal Comune, e l’operazione poté essere
varata.
Ma lo scenario che mi si presentò non era certamente
quello che mi sarei aspettato, quando, nel gennaio del
1997, M. Maddalena Fellini e il primo cittadino in carica
mi chiamarono alla direzione dell’allora Associazione
Culturale Federico Fellini, istituita nel maggio del 1995 e
rimasta per due anni praticamente inattiva. Avevo immaginato - avevo sognato - che fosse in atto a Rimini un
reale processo di cambiamento e che fosse finalmente
possibile costruire non un monumento funebre da esibire al cimitero, ma un monumento di vita per la vita
stessa della città. Avevo fantasticato ingenuamente che
gli amministratori locali avessero in animo di dare il via a
ciò che la città, l’intera nazione chiedeva, un vero polmone di cultura, un Beauburg alla francese, un fervoroso
centro multimediale dedicato a Federico Fellini, in cui
trovassero sede un museo, un archivio organizzato, una
biblioteca, una videoteca, una sala da proiezione, e tutte
quelle infrastrutture capaci di costituire un richiamo
soprattutto per la popolazione giovanile, aggregare forze
fresche, pulsanti, intorno a quel genio della creatività che
aveva saputo con la sua opera trasformare il destino di
milioni di persone, raggiungere i confini della Terra, di
qualsiasi lingua e latitudine, catapultare l’Italia sul palcoscenico del Mondo.
Avevo sperato che a Rimini, un’amministrazione verosimilmente di sinistra, avrebbe cercato di dare un segno
di fiducia, di entusiasmo, di spinta ideale, avrebbe impegnato tutte le proprie forze per proporre un nuovo corso,
un cambiamento di rotta, offrire ai ragazzi altri tragitti
che non fossero quelli della sistematica mattanza del
sabato sera, della corsa in branco verso le cattedrali del
vuoto, dell’istupidimento collettivo, nel decerebramento
della droga imposti dalla macchina infernale dell’affari58
smo sfrenato e irresponsabile, dal tritacarne del divertimentificio.
La gioia della creatività non è inferiore né meno allettante della voluttà distruttiva. Basta, a volte, farla assaporare. Avevo visto a Wolfsburg, in Germania, portandovi una mostra di Fellini, un bellissimo centro culturale,
un gigantesco mall, splendido anche architettonicamente, popolatissimo da giovani che lo avevano eletto a
naturale luogo di raduno, fra una gigantesca rassegna di
Andy Wharol ed altre mostre di pittura. I ragazzi si aggiravano fra sale espositive e sale di lettura, fra proiezioni
video e caffetteria, nel divertente book shop ricco delle
più fantasiose proposte di merchandising, di memorabilia, di gadget, dove la proposta culturale viene rivissuta
anche nel suo aspetto ludico e immaginifico. Avevo visto
coppiette abbracciarsi ai tavolini, davanti al cappuccino
o alla coca cola, fra cataloghi d’arte, libri e riviste, scambiarsi animatamente impressioni sull’avventura intellettuale che stavano vivendo, sentendosi protagonisti di
quell’emozione unica che sorge prepotentemente da
dentro a contatto di ogni nuova scoperta emotiva che
passa attraverso la creatività. Avevo ingenuamente, da
inguaribile sognatore – ma è possibile combinare qualcosa senza un sogno? - pensato che a Rimini si potesse, si
volesse, realizzare un contenitore simile, un progetto
nobile, una sfida ardita che il nome di Fellini giustificava
ampiamente e che sarebbe servita di esempio all’intero
Paese. Non era forse l’Emilia Romagna la punta più
avanzata secondo l’opinione comunemente diffusa? Non
era Fellini l’artista italiano più grande e popolare del
Novecento, l’unico campione del nostro Paese iscritto
dalla BBC inglese nella centuria dei personaggi mondiali
da affidare alla cura e al ricordo del nuovo millennio?
Ero certo che uno spazio prestigioso dedicato a Fellini, organizzato per accogliere il più gran numero di
59
memorie, documenti, reperti, studi, potesse diventare
davvero un punto di riferimento mondiale, e che dall’archiviazione, dalle tesi, dai convegni, dalle pubblicazioni,
dalla diffusione di una Newsletter felliniana in corso d’opera, dai progetti espositivi, dai programmi di recupero
avviati insieme alla RAI, agli archivi ministeriali, alla
SIAE, dalla pubblicazione dell’Opera Omnia di Fellini
in venti e più volumi concordata con l’Archivio Centrale
dello Stato, con il sistematico restauro dei film da riproporre nei festival e in eventi appositamente costruiti, il
sogno si sarebbe davvero avverato.
Non era un’utopia. Per la celebrazione dei 40 anni
della Dolce Vita avevo visto con i miei occhi travasarsi
più di 5000 persone nella centrale Piazza Cavour di
Rimini, in gran parte giovani che per la prima volta avevano l’opportunità di vedere il film su uno schermo regolare (in quel caso addirittura gigante) e che si erano
abbarbicati fin sopra le arcate dell’Arengario. Migliaia di
richieste di ogni tipo giungevano sul sito Internet da
tutte le parti del mondo; innumerevoli iniziative si prendevano quasi quotidianamente attorno all’opera di Federico, a lui venivano intestate per la prima volta Scuole
Pubbliche, le tesi di laurea si moltiplicavano, le richieste
di mostre, esposizioni, rassegne erano continue. Con l’Istituto di Patologia del Libro di Roma si era stabilita una
stretta intesa per il restauro e l’ordinamento sistematico
di tutta l’opera grafica, ed erano stati avviati contatti con
gli archivi privati fuori d’Italia con cui procedere ad operazioni di scambio e di reciproco arricchimento, parlo
della Lilly Library dell’Indiana University, della Diogenes Verlag di Zurigo.
Erano state impostate e in parte concluse le trattative
con gli eredi Fellini-Masina per l’acquisizione del ‘Libro
dei Sogni’, il più segreto e sensazionale lascito felliniano,
chiuso, dal giorno della sua morte, anzi della morte di
60
La prima volta. La prima visita ufficiale, anzi semi-ufficiale, di Fellini a
Rimini. Siamo agli inizi degli anni '60, e l'Azienda di Soggiorno ha deciso
di premiare il famoso concittadino con un ‘Sigismondo d'oro’. Fellini,
dopo le solite titubanze, aderirà all'invito: soltanto perché l'amico Titta lo
assicurò che si trattava di una rimpatriata, di una cena fra vecchi amici.
Infatti tutto si svolse a tavola, nella mitica "Grotta Rossa" di quegli anni.
Ed ecco la foto di gruppo, nel dopocena. Da sinistra: il presidente dell'Azienda di Soggiorno, Luciano Gorini, con signora, il preside Arduino
Olivieri (seminascosto), il prof. Sega (in alto), la sorella e la madre di Fellini, le signore Maddalena ed Ida, tra loro Nicola D'Ambrosio, Federico
Fellini, sopra di lui il Conte Gumberto Zavagli, Glauco Cosmi, Mini Torsani, Nevio Matteini; inginocchiati, da sinistra: Luigino Dolci, Mario
Montanari, Titta Benzi e lo scultore Elio Morri. (Foto Davide Minghini)
Giulietta, nel caveau di una banca a serio rischio di deterioramento e di perdita irreparabile. Il programma di
manifestazioni e di Premi Internazionali nel nome di Fellini avrebbero donato a Rimini e quindi alla nostra
Nazione una ribalta planetaria, per eventi che avrebbero
potuto competere con lo stesso Nobel o con l’Oscar, e
sul piano operativo si stava progettando un Master Internazionale di cinema aperto a tutti gli studenti d’Europa,
con la partecipazione di docenti ingaggiati fra i Premi
Oscar di ogni categoria artistica in simbiosi con le Università Americane; ne sarebbe seguita una produzione di
ipertesti e CD Rom, saggi d’accademia, programmi sperimentali con cui costituire una library preziosa di documentazione, di studio e persino di prodotti commercializzabili.
Era in corso una serie di accordi per la riedizione di
tutte le colonne sonore scritte da Nino Rota insieme a
Fellini, un primo expertise era già stato eseguito da due
maestri della Scala sulle carte di pertinenza della Fondazione, e case musicali internazionali, direttori di orchestra del calibro di Gustav Kuhn si stavano accingendo a
una rivisitazione di straordinaria modernità del repertorio rotiano.
Tutte queste iniziative erano in grado di creare un
Centro Studi e Comunicazione di enorme respiro, in cui
impiegare e formare i giovani, avviarli a nuove professioni nell’ambito del lavoro culturale e artistico, dare vita
a un laboratorio permanente di comunicazione che comprendesse tutti i settori artistici inerenti all’attività cinematografica. E per la parte conservativa altri nomi di
registi, altri archivi, altre memorie avrebbero potuto confluire nel Centro Studi, donando all’Emilia-Romagna un
serbatoio culturale senza precedenti. Insomma il traguardo consisteva nel trasformare Rimini in una cittadella felliniana della cultura.
62
Inoltre accanto all’impresa più scientifica e filologica,
sarebbe sorto un museo turistico, all’interno nel nuovo
parco tematico cinematografico progettato da ‘Italia in
Miniatura’, dove le straordinarie scenografie di alcuni
film felliniani sarebbero state ricostruite in un’ottica da
set cinematografico, per comprendere dall’interno la
magia, il trucco, il linguaggio specifico del cinema e far
accostare alla figura di Fellini e quindi all’arte cinematografica anche il pubblico degli adolescenti, di studenti
delle scuole, del turismo di massa, privo di una preparazione specialistica. Così come già succede in America nei
musei o nei grandi stabilimenti degli Studios, come quelli
della Universal visitati ogni giorno da migliaia di persone
affamate di cinema.
Tutto questo patrimonio di idee, di entusiasmo, di
progetti, di realizzazioni, è stato spazzato via, ingoiato
dalla logica di un potere politico autoreferenziale di cui
la vera città, io credo, sta soltanto pagando le conseguenze.
Mi chiedete quali siano i materiali riuniti in questi
anni a Rimini.
Tanti, davvero tanti. Fra quelli in dotazione alla ex
Fondazione e quelli di proprietà della famiglia, a Rimini
esiste oggi il giacimento felliniano più imponente del
Globo.
Posso qui ricordare, in un rapido resoconto, il tesoro
della corona messo insieme nei miei tre anni di attività.
Una cospicua raccolta di disegni – si arriva ormai a
svariate centinaia - da aggiungere a quelli del cosiddetto
Fondo Flaiano, acquisiti dalla vedova di Ennio, Rosetta,
80 reperti a penna biro su vergatina sottile tracciati in
anni di non difficile collocazione.
C’è il fondo Giacchero, circa 200, 250 disegni fra privati e cinematografici che coprono gran parte della car63
riera artistica del Maestro, fra il 1965 e il 1990: straordinarie tavole ‘dipinte’ su fogli extra strong in tecnica
mista, dalla penna biro alla matita, dalla china al pennarello ad alcool, dal carboncino, alla matita grassa, ai
pastelli: figure dense di colori, databili con molta precisione, che raccontano da vicino l’evoluzione del segno di
Fellini, da filiforme e caricaturale, a pittorico ed espressionista. A ciò va aggiunta la dotazione cinematografica
tipica di una segretaria di edizione, che svaria dai trattamenti, ai soggetti, dai copioni di scena, spesso annotati o
con presenza di disegni, alle polaroid.
Ci sono poi fondi provenienti dalla famiglia Geleng,
pittori e scenografi che hanno lavorato accanto a Fellini
per decenni. In essi sono presenti materiali assolutamente inediti relativi per esempio alla preparazione degli
ultimi film progettati e interrotti a causa dalla morte:
L’Attore, la Divina Commedia, Venezia... E, insieme,
dipinti di scena, bozzetti preparatori, sketch illustrativi,
abbozzi di story board.
È stato poi acquisito il fondo di una signora molto
vicina a Fellini, un patrimonio di disegni, lettere, messaggi, uno scrigno di biglietti personalissimi che segnano
un tragitto raro e riservato nella vita privata del regista,
accompagnati da un corredo di giornali, medaglie celebrative, libri con dedica degli scrittori più celebri del
mondo.
L’associazione possiede inoltre il risultato delle ricerche e dei convegni filologici, un corredo unico relativo
agli anni a cavallo della guerra, riproposto nel primo e
nel secondo Convegno di Studi attuati con la partecipazione dei massimi studiosi della materia e da prestigiosi
testimoni del tempo.
La totalità dei materiali appartenenti alla mostra ‘Il
Mio Amico Pasqualino’, compresa la ristampa anastatica
del volumetto eponimo firmato da Fellini in età molto
64
giovane (fino a quel momento sconosciuto e introvabile),
l’intera collezione delle annate originali del ‘Marc’Aurelio’ con le collaborazioni di Fellini, i libri, le fotografie, le
locandine, i giornali a fumetti, i periodici, del primo
periodo romano dell’artista. Compresa una preziosa collezione di 24 acquarelli originali, a colori, di Attalo.
E tutti i testi radiofonici e teatrali del periodo bellico
e prebellico, di recente ritrovamento grazie all’alleanza
operativa tra Fondazione, Teche Rai, Archivio Centrale
dello Stato, SIAE.
Gran parte del materiale illustrativo della grande
mostra antologica del 1995 all’Eur (curata da Vincenzo
Mollica e Lietta Tornabuoni), oltre agli oggetti di merchandising, giornali, fotografie, costumi, nastri magnetici, pellicole, compreso uno stock rilevante dei compendiosi cataloghi.
Copioni di tutti i film, alcuni annotati, altri completi
di indicazioni di ripresa, fascicoli dattiloscritti a parte in
un secondo momento, manoscritti, disegni originali e in
fotocopia.
Locandine e manifesti in vario formato di tutti i film.
L’intera documentazione della collezione Fellini-Rota,
comprendente spartiti originali di prima mano, testi
musicali stampati e fotocopiati, libretti, dischi in prima
edizione.
Tutti i materiali originali dell’ultimo set di Fellini, la
realizzazione degli spot pubblicitari girati nel 1992 per la
Banca di Roma, pubblicati in un libro illustrato di grosse
dimensioni dal titolo Gli ultimi sogni di Fellini (due successive tirature da 2.000 copie ciascuna, e ancora acquistabile a 50.000 lire).
Un’intera biblioteca specializzata nell’opera felliniana, con edizioni in varie lingue.
L’archivio di immagini. La collezione di tutti i film in
videocassetta, le antologie di testimonianze, le interviste di
65
Fellini, le riprese degli eventi, la produzione di medaglioni
dedicati ai collaboratori tecnici e artistici del regista.
La bibliografica completa e aggiornata – esclusa la
stampa quotidiana e periodica – appositamente commissionata a un giovane ricercatore.
Un’ampia documentazione di tesi di laurea (per le
quali era stato istituito un premio apposito).
Moltissimi scritti letterari, romanzi, saggi inediti sulla
figura di Fellini, in attesa di pubblicazione.
E per concludere, persino un abbozzo di museo postmoderno in cui si stavano raccogliendo tutte le opere
d’arte, o presunte tali, dedicate al Maestro: ritratti, sculture, collage, opere pittoriche ispirate ai film.
Ma tutto questo è poca cosa a confronto con il patrimonio di memorie conservato da M. Maddalena Fellini
(già presidente della Fondazione, costretta a rassegnare
la sua carica per insanabili dissidi con l’amministrazione
cittadina) e Giorgio Fabbri, suo marito, infaticabile raccoglitore di reperti, anche i più impensabili e minuti,
preziosissimi nella ricostruzione di itinerari creativi e
produttivi.
Maddalena possiede l’intera biblioteca di Casa Fellini
(rilevata dall’appartamento di via Margutta, venduto
subito dopo la morte di Federico e Giulietta insieme a
mobili, arredi, e suppellettili).
Del fondo familiare fanno parte alcune statuine dei
Premi Oscar, e tutti gli altri premi, targhe, Grolle, David,
e riconoscimenti ottenuti dai due artisti in 50 anni di carriera; immagini, fotografie, copioni, manoscritti, prove di
scena, libretti di sala, campagne giornalistiche, libri collage di memorie, e tutti i faldoni ancora da consultare
che appartenevano allo studio privato di Fellini.
C’è persino il pianoforte verticale in legno chiaro su cui
Nino Rota, con Federico seduto al suo fianco, componeva
66
la musica dei film. Insomma un repertorio museale e
archivistico che sarebbe troppo lungo – e forse inutile –
elencare. E che, come tutto il resto a cui abbiamo fino ad
ora accennato, è lasciato inutilizzato e chiuso nelle casse.
Perché tutto questo materiale che c’è a Rimini – il più stupefacente deposito del mondo – non conta nulla, finché
non sarà ordinato, duplicato, restaurato, archiviato, riprodotto, esposto e messo a disposizione di studiosi, appassionati, studenti, semplice curiosi.
Non bastano certo le promesse di una sede confacente,
rinnovate puntualmente dall’amministrazione comunale
ad ogni anno, o il progetto fantasma di dare ospitalità
all’Associazione presso il ricostruendo palazzetto del
Cinema Fulgor (due o tre stanzette previste da un progetto insufficiente e complessivamente asfittico). Non
basta la generosità della famiglia che, sulle proprie forze,
sta almanaccando di trasformare una parte dell’abitazione privata in un luogo espositivo e di accoglienza per
i tanti appassionati che continuamente giungono a
Rimini da ogni parte del mondo.
È necessario, indispensabile, che attorno alla figura
di Federico Fellini la città investa gran parte della propria credibilità civile e culturale; e cioè che si disponga
subito un Museo Federico Fellini, centro di irradiazione
culturale, multimediale, di forte attrazione per i giovani,
in cui tutta la multiforme attività del regista trovi la propria collocazione e la giusta esaltazione.
Purtroppo smembrando la Fondazione così come l’aveva concepita M. Maddalena Fellini, è stato disperso un
incalcolabile patrimonio umano di conoscenza diretta di
Fellini – Tullio Kezich, Vincenzo Mollica, Lietta Tornabuoni, Mario Longardi – in grado come pochi altri di
costruire le fondamenta stesse dell’edificio, di contribuire alla sistemazione del materiale e all’avvio di uno
studio sistematico da affidare concretamente alla cura
67
delle nuove generazioni. Si è perduto il passaggio del
testimone e con esso il senso stesso dell’impresa; non
saranno uomini per tutte le stagioni che poco o niente
hanno a che vedere con la figura di Fellini a poter riprendere compiutamente le fila, organicamente estranei a
quella fitta e complicata rete di relazioni interpersonali
che conduce in concreto a una progressiva e costante
crescita di acquisizioni, iniziative, consensi.
Se gli amministratori di Rimini avessero avuto una
pur vaga consapevolezza di ciò che stavano distruggendo, sono convinto che non sarebbe stata imboccata
questa strada senza ritorno, sicuramente non voluta né
condivisa dalla città».
68
L’illustre ammalato
La testimonianza del Sindaco Chicchi
«Incontrai Fellini per la prima volta nell’agosto del
1992, lo stesso anno in cui, nel mese di giugno, fui nominato Sindaco di Rimini. Al ritorno dalle ferie, Ermanno
Neri, mio segretario, mi disse che al Grand Hotel era
arrivato Federico Fellini e che una mia visita sarebbe
stata opportuna. Sono sempre stato restio a questi incontri “formali”. Perché Fellini avrebbe dovuto interessarsi
al nuovo Sindaco di Rimini? Perché disturbare la sua
annuale vacanza a Rimini? Mi trattenevano due sentimenti diversi: la mia naturale timidezza e la conoscenza
della grandezza di Fellini che derivava dal mio passato di
frequentatore assiduo dei cineforum riminesi e di incallito cinefilo. All’incontro erano presenti anche Titta
Benzi e Fabio Zavatta. Chiacchierammo per un paio di
ore nel giardino del Grand Hotel, sorseggiando vino
rosso. Trovai una persona di ineguagliabile gentilezza,
molto curioso delle cose di Rimini, per nulla incline a
parlare della sua opera. Mi colpirono soprattutto gli
occhi che davano l’impressione di vedere cose che altri
non vedevano e che esprimevano curiosità.
Dopo quell’incontro sentii Fellini al telefono un paio
di volte. Di quelle conversazioni che riguardavano un
progetto di produzione di cui avevo parlato con Pierluigi
Bersani, allora Presidente della Regione, su sollecitazione
di Rosita Copioli, ricordo un sentimento di amarezza nei
confronti del cinema italiano, come se si sentisse estraneo
69
e lontano, come se appartenesse ad un’altra epoca. E
insisteva perché non lo chiamassi “maestro”, come a me
veniva naturale di fare. Poi ci fu l’Oscar alla carriera, l’intervento chirurgico in Svizzera, la convalescenza al
Grand Hotel nell’estate del ’93 e la malattia che lo colse
ai primi di agosto. La notizia dell’ictus mi raggiunse
durante una riunione di Giunta a Palazzo Garampi. Mi
precipitai all’Ospedale e incontrai Fellini in un lettino
del Pronto Soccorso. Mi fermai un istante ed ebbi solo il
tempo di accarezzargli una mano e di dirgli: “Fellini,
abbiamo bisogno di lei”. Una frase stupida che nelle mie
intenzioni pretendeva di incoraggiarlo.
Si posero subito problemi di gestione di un ammalato
così noto in tutto il mondo, già giornalisti e fotografi
cominciavano ad affollare le corsie dell’Ospedale, qualche foto fu ‘rubata’ durante il trasferimento nel reparto
di Medicina, ma complessivamente si ottenne rispetto.
Le cure poi, sotto la direzione del primario Angelo Corvetta, diedero buoni risultati e durante il mese di agosto
le condizioni di Fellini migliorarono.
In quei giorni successe qualcosa. I riminesi, così cinici
e sospettosi, così poco inclini a riconoscere i meriti dei
loro concittadini, scoprirono ed amarono Federico come
non erano mai riusciti a fare... Forse per il clamore dei
media, forse per senso di responsabilità, si sentirono partecipi di un’impresa collettiva a cui tutto il mondo guardava con apprensione, quella di ‘salvare la vita’ a Fellini.
Egli avrebbe potuto essere, in quei giorni, a Zurigo come
a Los Angeles. Quale oscuro significato simbolico aveva
il fatto che Federico fosse venuto proprio nella sua città
a cercare le risorse per guarire?
Sappiamo tutti come andarono le cose in seguito. Ma
credo che Federico abbia sentito l’affetto dei riminesi.
Prima di partire per l’Ospedale di Ferrara dove doveva
sottoporsi alle cure di fisioterapia, mi scrisse una lettera
70
Sull’ultima nave. Nella foto, la tomba-monumento che accoglie le spoglie
di Federico Fellini (20.1.1920 - 31.10. 1993), Giulietta Masina (22.2.1921
- 23.3.1994) e del loro figlioletto Pierfederico (22.3.1945 - 2.4.1945), all'ingresso del cimitero di Rimini. La 'grande prua' di Arnaldo Pomodoro,
voluta dall'amministrazione comunale, è rivolta verso la città; di bronzo
lucentissimo, si specchia su di una lama d'acqua che lambisce la tomba. Nel
quarto vialetto, sulla destra, la tomba di famiglia, con i genitori: Urbano
Fellini (27.2.1894 - 31.5.1956) e Ida Barbiani (4.11.1896 - 27.9.1984).
(Foto Barbara)
per ringraziare, attraverso me, tutta Rimini. Nella lettera
racconta di aver saputo che il Pubbliphono aveva dato
in spiaggia la notizia dello scioglimento della prognosi e,
prosegue dicendo: “Mi hanno raccontato di un turista
che si era appena tuffato dal trampolino; alla notizia del
mio miglioramento, si è fermato a mezz’aria per applaudire”. Una straordinaria immagine di fantasia felliniana.»
72
Palazzo Gambalunga
In quel vecchio e prestigioso edificio,
dove lui frequentò il Ginnasio,
ora è possibile visionare tutti i suoi film,
magari sul monitor di un computer
Adesso andiamo a far la conoscenza diretta del
Palazzo Gambalunga, importante per tanti aspetti: nella
storia della nostra città, nella vita di Federico Fellini e
come attuale centro di cultura. Lo trovi, caro visitatore,
nel cuore del centro storico, nella via omonima, all’angolo di piazza Ferrari. Un palazzo del ’600, in cotto e pietra d’Istria. Lì Alessandro Gambalunga, il personaggio
che lo fece costruire, fondò la prima biblioteca civica italiana.
Fino a qualche decennio fa quell’importante istituzione - sopravvissuta allo scorrere rovinoso dei secoli occupava solo una parte dello stabile, assieme alla pinacoteca che era al piano terra. Il resto era occupato da istituti scolastici. Negli anni trenta Fellini vi frequentò il
Ginnasio, che allora durava cinque anni. L’edificio è a
due piani, più un ‘mezzanino’. Ed era proprio lassù - in
quella stanzetta d’angolo del terzo piano, che si affaccia
sulla piazza - che tutte le mattine si riuniva quella turbolenta scolaresca composta da Federico, Titta, Mario,
Luigi… Non solo in Amarcord, ma anche in Roma (proprio a partire dalle prime sequenze), quel ricordo indelebile si trasforma in un racconto cinematografico travolgente.
Il fatto che di sotto, in quella sede un po’ tetra, in
quella specie di ‘antro’, ci fosse un’importante biblioteca,
ricca di testi antichi, di classici e di libri stimolanti, ai gio73
vani studenti di allora diceva poco.
Titta Benzi infatti ricorda come nessuno di loro vi
abbia mai messo piede. Carlo Lucchesi, direttore della
biblioteca dal 1929 al 1952, fu anche preside dello stesso
Liceo che Fellini frequentò poi in palazzo Buonadrata,
sul Corso d’Augusto.
Oggi, il risorto palazzo Gambalunga ospita… la
straordinaria avanzata della cultura nella nostra società!
Tutto l’edificio, adesso, è destinato alla biblioteca e alle
sue varie sezioni; a tutte le ore del giorno è pieno di gente
che legge e studia, in prevalenza giovani universitari.
«Vado alla Gambalunga», dicono i riminesi, perché così
si chiama l’istituzione: Biblioteca Civica Gambalunga.
Piena di sale, moderne e antiche, con libri e riviste ben
esposti, a portata di mano, in una specie di ‘self service’
di grande civiltà e dignità culturale. Alcuni ambienti
ripropongono fedelmente la biblioteca di qualche secolo
fa, con le severe scansie di noce e coi dipinti, ma soprattutto con i codici, i fondi antichi di stampa e gli incunaboli; perfino con splendidi mappamondi del Seicento…
E poi libri di ogni genere e di ogni epoca, comprese le
novità appena sfornate dall’editororia. Il palazzo riserva
ancora altre sorprese, come la Cineteca, l’archivio fotografico, la vastissima sezione dedicata ai periodici, i
‘fondi’ documentari, ecc.
Come capirai, ce ne sono di cose da vedere e da consultare in quello straordinario palazzo… Ma prima di
parlarti della cineteca, ascoltando le parole del suo
responsabile, Miro Gori, voglio segnalarti qualcosa di
particolare: l’imponente archivio di immagini frutto del
lavoro di Davide Minghini, il fotografo riminese per
eccellenza. Nato nel 1915 e scomparso nel 1987, Minghini è un coetaneo del nostro grande regista, e con lui
ha realizzato numerosi servizi fotografici: ha contribuito con tante sue immagini al successo di quel libro
74
fondamentale che è La mia Rimini, ha svolto ricerche di
volti caratteristici per il film Amarcord e sul set di Cinecittà ha realizzato diversi servizi. E nel ’73, a coronamento di questo suo lavoro, Rimini gli ha dedicato una
mostra molto significativa: Minghini e l’Amarcord di
Fellini. Tutto il suo archivio è lì, disponibile per chi
voglia consultarlo. È uno strumento formidabile: la storia della vita pubblica riminese, per gran parte del
Novecento. Fellini aveva stima e grande simpatia per
questo uomo semplice e mite. Ma Minghini era, soprattutto, il solo fotografo dell’unico quotidiano della città:
“Il Resto del Carlino”. Qualsiasi avvenimento importante, per essere tale, aveva bisogno del ‘crisma’ della
sua presenza, e delle sue foto. Se non c’era Minghini, a
volte non s’iniziava neppure. E la cosa straordinaria è
che lui non snobbava nessuno. E, così, tutti si sentivano
un po’ in paradiso, sicuri di una benevola notorietà.
Quella era la nostra piccola città, e Davide Minghini,
col suo volto così dolce e la macchina fotografica a tracolla, ne era il cantore. Fellini lo ha ritratto, sapientemente e affettuosamente, in una ‘caricatura’ che è già
nella nostra storia. ‘Mingo’ poi si è rifatto dedicandogli,
all’interno del ‘Fellini’s Day’ dell’83, la rassegna ‘Tatarcord’ (ti ricordi): un omaggio alla vita del regista. Ma le
sorprese del Palazzo non finiscono qui: a curare l’archivio fotografico c’è la dottoressa Nadia Bizzocchi, che da
sola vale più di tutta la montagna di immagini preziose
che presiede. È giovane, ma è già penetrata nei segreti
delle vicende cittadine del secolo scorso, con competenza e passione: sa collegare volti ed episodi di quell’imponente epopea, tutta in ‘bianco e nero’, come i
capolavori felliniani degli anni Cinquanta. In Nadia si
fondono, con grande equilibrio, femminilità e carriera.
Sarebbe piaciuta anche a Fellini. Per rimanere in tema.
75
La Cineteca
Ma veniamo alla Cineteca e al suo responsabile, che
tu, caro ospite, puoi incontrare all’interno del Palazzo
Gambalunga, proprio dove una volta - fino agli anni Cinquanta - era collocata la biblioteca. Appena superato il
mastodontico portale, il primo ingresso a sinistra ti porta
direttamente nella Cineteca e dal suo responsabile, Gianfranco Miro Gori. Un personaggio che merita attenzione
per i suoi studi sul cinema; a cui non manca un certo
potere - tra Rimini e San Mauro Pascoli -, che esercita
con intelligenza e con sorniona comprensione; perché,
devi sapere, Miro è nato e cresciuto a San Mauro, il paese
di Giovanni Pascoli, e lì continua ad operare come
amministratore comunale impegnato nelle attività culturali e come presidente di un importante consorzio per la
promozione di quella realtà; mentre l’altro polo della sua
esistenza è proprio Rimini, la città in cui egli ha creato la
Cineteca: perché la sua passione è il cinema, ma anche la
letteratura, la poesia in dialetto e la storia locale. Con lui
si può parlare a 360 gradi della Romagna di ieri e di oggi,
di Pascoli, di Fellini…
E a presentarci la Cineteca, adesso, è proprio Miro Gori.
«La Cineteca è sorta nel 1987, all’interno della Biblioteca comunale, nell’ambito dell’assessorato alla cultura
del municipio di Rimini: nasce dall’idea di dar vita ad
una istituzione cittadina che si occupasse di cinema a
tutto campo, che lo conservasse, diffondendo la cultura
cinematografica. Il suo primo nucleo documentario è
costituito dalla ‘Biblioteca del Cineforum’: a Rimini il
Cineforum fu, nel secondo dopoguerra, una delle più
efficaci forme di organizzazione del pubblico e di diffusione della cultura cinematografica. Questa città, d’altra
parte, è stata, sin dall’epoca del muto, una ‘terra di
76
Lassù, dietro quelle finestre d’angolo, l’aula di Federico. Palazzo Gambalunga visto da Piazza Ferrari. Qui ha sede l'istituzione culturale più antica
e prestigiosa della città: la biblioteca civica. All'interno del palazzo, oltre
all'Istituto storico della Resistenza, anche una importante Cineteca.
All'ultimo piano, quella volta, c'era la sede del ginnasio, che Federico Fellini frequentò dal 1930 al '35. (Foto Barbara)
cinema’. Siamo partiti, così, subito con la raccolta di pellicole, videocassette, libri e riviste di cinema, provenienti
da tutto il mondo, colonne sonore e fotografie. A cui s’è
aggiunta anche una buona collezione di manifesti. Particolare attenzione abbiamo posto pure nel reperimento
dei filmati, delle pellicole che hanno un riferimento cittadino: le ‘cose’ girate a Rimini, da riminesi e non, che
costituiscono l’immaginario audiovisivo riminese. Tra i
lungometraggi conservati, La prima notte di quiete di
Valerio Zurlini e Amarcord di Federico Fellini (la copia
restaurata); tra i cortometraggi, il documentario Rimini
l’Ostenda d’Italia, dell’inizio degli anni ’10, nonché Riminilux di Paolo Rosa. Il primo è una specie di ‘incunabolo’
della Rimini turistica al momento del suo decollo. Realizzato, probabilmente da Luca Comerio, un pioniere del
cinema in Italia, presenta, attraverso una serie di quadri,
prima la città storica e poi i primordi della città dei
bagni: Grand Hotel, spiaggia, mare, qualche turista…
Non è azzardato pensare che questo film sia stato commissionato come ‘spot’ pubblicitario. D’altra parte i nessi
tra cinema e turismo, entrambi si imponevano in quegli
anni, almeno a Rimini, sono fatali. Ho cercato di documentarli - se posso citarmi - in un libretto pubblicato
circa quindici anni fa da Maggioli, Il cinema arriva in
Romagna. La cineteca ha provveduto al restauro del film
che giaceva in una cantina di Ferrara. La copia originale
ci è stata affidata da Costanza Cavicchi. Che desidero
ringraziare.
Il secondo è un film di montaggio realizzato con brani
di film Luce girati sulla riviera romagnola. La regia è del
riminese Paolo Rosa, oggi residente a Milano… Come è
noto, la famiglia del duce passava le vacanze a Riccione,
dove lui arrivava in idrovolante - almeno così ce lo
mostra l’iconografia del regime -, magari dopo aver
sostato al Grand Hotel di Rimini con Claretta Petacci.
78
Ma, al di là dell’aneddotica, è interessante notare come
l’immagine ufficiale della riviera romagnola oscillasse tra
le colonie (la politica sociale del regime) e i luoghi di
puro e semplice divertimento… Tra parentesi aggiungerei che proprio in quegli anni Fellini, tra le altre cose,
disegnava caricature di attori e turisti che poi rivendeva
agli stessi. La cineteca ne ha acquistate un cospicuo
gruppo affidandole poi all’associazione Fellini.
I film conservati dalla cineteca si possono ‘consultare’
alla moviola oppure anche visionare in proiezione.
Disponiamo infatti di una moviola e di proiettori cinematografici. Tutto ciò, però è piuttosto complicato.
Le pellicole si possono rovinare facilmente, quindi se
non ci sono copie di sicurezza la visione costituisce sempre un problema. Stampare copie di un film è un’operazione costosa. Per questo ci siamo orientati verso quella
grande forma di ‘democrazia’ che è costituita dal videoregistratore e dalle videocassette - anche se ci rendiamo
conto benissimo che vedere un film in video è tutt’altra
cosa. Insomma abbiamo allestito una videoteca che è in
continua crescita, sia dal punto di vista dei titoli, sia dal
punto di vista delle attrezzature tecnologiche. Mi aveva
sempre colpito, sin da quand’ero studente - dunque
molti anni fa -, l’inacessibilità delle cineteche. Che, per
altro, si fonda su ragioni - quelle che abbiamo detto
sopra - non peregrine. Così, appena ne ho avuto l’occasione, ho cercato di mettere a disposizione di tutti,
quanti più film possibili con la massima facilità di
accesso. Non dimentichiamo che il cinema è un bene culturale assai importante, forse il più importante del ventesimo secolo. E così oggi siamo in grado di offrire agli
utenti migliaia di film in videocassetta. Così come si può
consultare un libro in biblioteca, allo stesso modo, gratuitamente, il pubblico può visionare - attraverso uno
schermo - qualsiasi film in nostro possesso.
79
Sono a disposizione del pubblico tutti i film di Federico Fellini e gran parte dei filmati e dei programmi televisivi che lo riguardono (per esempio, conserviamo una
straordinaria raccolta di ‘materiali’, brani di telegiornale
e programmi di diverso genere, relativi alla morte di Fellini e trasmessi in quella data), si tratta, naturalmente, di
videocassette. Disponiamo anche di alcune copie dei
suoi film in pellicola (Amarcord, Satyricon, La città delle
donne…), in questo caso, però, l’accesso - come abbiamo
detto - è più complicato. E un panorama assai ampio di
ciò che è stato pubblicato in Italia e all’estero sul regista.
Gli orari di apertura al pubblico della Cineteca sono
i seguenti: dalle 8.15 alle 13.15, dalle 15 alle 19 (chiusa il
sabato pomeriggio e la domenica); in luglio e agosto,
dalle 8 alle 13.»
Anche a Gori chiediamo una sua opinione sul rapporto
Fellini-Rimini.
«In un periodo che va dagli anni ’50 agli anni ’70 un
consistente numero di film, prevalentemente di Fellini,
ma non solo, offrono una visibilità internazionale a
Rimini. Ma quella rappresentata dal nostro regista è prevalentemente una città invernale. Ed è un aspetto
curioso. A questo proposito Renzo Renzi ha proposto
una suggestiva teoria, di sapore psicanalitico: Fellini non
sa nuotare, proviene da una famiglia, da parte di padre,
originaria di Gambettola; la gente di campagna conservava una paura atavica del mare, dal quale in passato,
oltretutto, sopraggiungevano pirati a compiere tragiche
scorrerie. E così, Fellini alla città del mare preferisce
quella invernale, meno ignota, meno preoccupante. Nei
sui film, a partire da Amarcord, le scene di spiaggia sono
limitate, con una percezione del mare e dell’ambiente in
senso negativo. Chi si aggira sull’arenile? La Volpina! C’è
lei, la povera ninfomane, e nessun altro… A fare il bagno
80
non c’è anima viva, oppure qualche straniero…. come
nella scena con la fugace apparizione di turisti tedeschi
che si immergono, fuori stagione, all’inizio della primavera, in acque che agli indigeni sembravano non certo
invitanti. Poi c’è l’apparizione del ‘Rex’, ma siamo sempre sul versante dell’ignoto e del favoloso, allo stesso
tempo. Anche le sequenze finali, quelle del matrimonio
della Gradisca, si svolgono su di una spiaggia periferica,
tutta dune ed erbacce. La ‘marina’ si conferma come un
luogo separato dalla città storica. Così pure nei Vitelloni
non mancano gli episodi che confermano questa tesi: dal
tentativo di adescamento omosessuale (la scena in cui il
vecchio capocomico invita Leopoldo, di notte, nella
bufera, a scendere in spiaggia) al finale drammatico, con
la moglie di Fausto che pare si sia suicidata in mare… La
sua sembra una spiaggia… da ‘caso Montesi’, la ragazza
trovata morta a Torvaianica, sul bagnasciuga. Siamo, non
a caso, nel ’53.
In Fellini c’è il rifiuto del mare, a tutto vantaggio della
rappresentazione di una città storica con forti legami con
l’entroterra, in sostanza un borgo non molto distante dai
ritmi della civiltà contadina. Ne è un esempio anche la
prima parte di Roma, dove Fellini mette in scena una
Rimini piantata nella campagna, con un incipit addirittura in puro e stretto dialetto romagnolo. In questo
borgo, però, si recita il tema della ‘fuga’ dalla provincia
(“A Roma! a Roma!” come il cechoviano “A Mosca! A
Mosca!”) non secondario, per altro, anche nei Vitelloni.
È curioso notare che un altro film ambientato a Rimini,
che abbiamo citato all’inizio e di cui conserviamo copia,
La prima notte di quiete di Valerio Zurlini mostra sempre
il tema della fuga, ma in provincia. Dunque un percorso
inverso.
Credo che la ‘messa in scena’ di Rimini abbia toccato
la sua massima potenza con Fellini e Zurlini. Due registi
81
che hanno rappresentato - non riprodotto, si badi bene il genius loci riminese del Novecento. I film successivi,
non pochi, dagli anni ’80 a oggi, hanno, più che altro,
registrato l’evoluzione del cosiddetto ‘divertimentificio’:
colto nei suoi lati ‘comici’ (l’ha fatto per primo Corbucci
con Rimini Rimini) oppure altamente drammatici
(penso, per esempio, a Vesna va veloce di Mazzacurati).
Vorrei concludere parlando anche di Pascoli, visto
che l’hai citato, ma non credo sia possibile. Dei suoi
legami con Fellini. Di come entrambi nelle rispettive
‘professioni’ siano stati tra i più grandi ‘comunicatori’
dell’Italia unitaria. Di come entrambi siano i cantori di
un’Italia preindustriale…»
82
Tre libri su Federico Fellini
Di quelli che pesano
Gianfranco Angelucci - che ha scritto in comunione
con Fellini numerosi testi, assorbendone la creatività e il
coraggio - ha pubblicato un libro di rara originalità.
Si tratta di un romanzo-verità, almeno per la parte che
riguarda il nostro grande regista: un libro dove Fellini è
proprio Fellini, attorniato, come al solito e nonostante la
situazione, da uno «sfarfallio di presenze femminili»; è il
Fellini che fa uso di un linguaggio in cui l’erotismo, il più
delle volte, sale le vette della creatività e raramente è soltanto sboccato. L’erotismo cresce, poi, nelle vicende del
personaggio Oscar Rinaldi (figura a metà strada tra la
finzione completa e la vita vera di Angelucci), che si
sente come invaso da quella straordinaria forza vitale che
il suo grande maestro sta abbandonando per sempre.
Ma in provincia, da noi, qualcuno ha gridato subito
allo scandalo. Per fortuna si è trattato solo di livore personale: perché se dovessimo credere al pudore infranto e
offeso di chi si è detto scandalizzato… allora, l’ipocrisia
diventerebbe preoccupante!
E, poi, non ci resta che attendere: in letteratura c’è più
giustizia che nella vita ordinaria. Ed è anche più rapida.
San Federico, patrono degli scandali
La lettura del romanzo Federico F., di Gianfranco Ange83
lucci (Avagliano editore, Napoli) è tra le più interessanti e
feconde. Un romanzo di tipo particolare, largamente autobiografico, con al centro della vicenda il personaggio Fellini, di cui Gianfranco è stato collaboratore, allievo e figlio
spirituale. La storia narrata nel libro riguarda gli ultimi
mesi di vita del grande regista, a partire da quel 3 agosto
1993, quando il regista fu colpito da un ictus. Fellini si
trovava allora nel Grand Hotel di Rimini: fu trasportato
d’urgenza all’ospedale della nostra città, nel reparto di
medicina; e, pochi giorni dopo, trasferito al ‘San Giorgio’
di Ferrara, un centro altamente specializzato nella riabilitazione. Là Fellini non resiste più di tanto e chiede con
insistenza, dopo alcuni giorni, di ritornare a Roma, dove
morirà il 31 ottobre, al Policlinico Umberto I.
Una sequenza quasi ininterrotta di interventi, gravi
alterazioni circolatorie, riprese e ricadute, iniziate nel
maggio dello stesso anno in un famoso ospedale svizzero.
«… ai tre interventi che si erano susseguiti a brevissimi intervalli per l’insorgenza ogni volta di un embolo,
avvistato tempestivamente dalle macchine. Quelle tre
anestesie, anche a parere di Saraceni, gli erano state
fatali, spianando il terreno all’ultimo assalto.»
Sono i suoi ultimi mesi di vita raccontati in questo
romanzo-verità, che permette al lettore di entrare, quasi in
punta di piedi, in tutte le stanze in cui il regista è stato ricoverato, e di assistere, in silenzio e con emozione, al miracolo! Quale miracolo? A quello della sua energia, della sua
autorità, del suo carisma… e del suo rovescio, cioè della
capacità che Fellini aveva di irridere tutto, di spogliare ogni
cosa da qualsiasi orpello formale, il coraggio di guardare la
vita tornando ragazzo sfrontato e intelligente, che forza la
mano alle situazioni, andando oltre a quello che potrebbe
consentire l’insegnante, il genitore o il parroco arcigno…
La paralisi non lo blocca. Così Tullio Kezich, grande biografo del regista (e per nulla scandalizzato dal testo di
84
Angelucci), descrive sul Corriere della Sera l’ultimo Fellini,
quello rappresentato nel romanzo: «Sebbene agibile solo
nella metà destra del corpo, Federico è sempre lui: inventivo e sorprendente, sboccato come un adolescente mascalzoncello quando parla di sesso, eternamente proiettato
verso ormai inaccessibili frontiere della creatività».
Ferragosto in ospedale
Ecco, adesso, Fellini sull’ultimo ‘set’ delle sue varie tappe
ospedaliere, così come ce lo restituisce magistralmente
Angelucci:
«Intanto erano entrate le infermiere addette al massaggio elettrico; le conosceva per nome, si informava di
alcune che non le vedeva presenti, controllava mentalmente il suo cast. Il film continuava, con lui al centro
della ‘baldoria’, protagonista incontestabile.
… In pochi giorni aveva riacquistato gran parte della
consueta autorità…» .
Era sempre lui che dirigeva, in particolar modo quando
dalla stanza uscivano i luminari o la moglie Giulietta:
«… uscita la maestra dall’aria severa, era prontamente
ricomparsa l’atmosfera da scolaresca indisciplinata che
Federico sapeva instaurare appena sollevato da ogni
ruolo e responsabilità».
Ma anche il personale medico finiva, prima o poi, per
essere coinvolto nel suo gioco. Ecco come il romanzo
descrive il soggiorno nella clinica di Ferrara:
«… Del resto era impossibile non soggiacere alla connaturata attitudine di Federico alla seduzione, e presto o
tardi l’intero ospedale, come era già avvenuto a Rimini,
avrebbe finito per ruotare intorno a lui.
“È un coccodrillo” sentenziava geloso il cattedratico,
mettendo in guardia i giovani colleghi, esortandoli a non
85
lasciarsi incantare; “state attenti, vi si mangia tutti a spezzatino!”… »
Questo libro ci restituisce per intero l’immagine di un
uomo dalla vita sentimentale ed erotica ricchissima.
La libertà che lui - il grande individualista - ha sempre
invocato, e messo in scena nei film, non era estranea alla
sua vita privata: senza enfasi aveva chiesto libertà e aveva
donato libertà a chi viveva con lui.
È troppo - per noi minuscoli spettatori di provincia chiedere di non falsare la storia, neppure quella intima,
dei poeti che abbiamo amato e continuiamo ad amare? Il
Fellini seminudo che esce dalla pagine di Angelucci è
ancora più grande di quel che si vede nel monumento
scolpito da Kezich, nella sua pur straordinaria biografia.
È il gigante che, seppure colpito a morte, non cessa di
cantare, a modo suo, l’inno alla vita.
E, non a caso, corre voce che lo stesso Kezich sia alle
prese con la riscrittura della biografia di Fellini. Seppur
bravo, ora riconosce di essere stato troppo cauto, troppo
discreto… Chissà, forse, è arrivato il momento di rendere
giustizia anche alla testimonianza fornita, a suo tempo, da
Sandra Milo con quel libretto, pietra dello scandalo, Caro
Federico, pubblicato da Rizzoli nel 1982. Sicuramente
un’operazione promozionale, ma valida per ricostruire un
amore, una passione, un ambiente, un matrimonio…
Proviamo a scommettere? Io credo che chiunque voglia
avvicinarsi e capire la grandezza di Fellini, dopo aver
visto i suoi film e letto i suoi testi, debba accostarsi,
soprattutto, alle cose che di lui hanno raccontato Tullio
Kezich, Sandra Milo e Gianfranco Angelucci. Tre personaggi che, oltre ad averne scritto, hanno conosciuto ed
amato veramente Federico Fellini.
86
Fellini e Rimini, in breve
La vita di Federico Fellini, i suoi film, i suoi scritti, i suoi disegni…
Federico Fellini nasce a Rimini il 20 Gennaio 1920, da Ida Barbiani e
Urbano Fellini, rappresentante di commercio. Frequenta a Rimini la
prima classe elementare nella scuola dell’asilo San Vincenzo; dall’anno seguente passa alla scuola statale Carlo Tonini. Ama disegnare,
giocare con il teatrino dei burattini e leggere le storie a fumetti del
“Corriere dei Piccoli”; il suo prediletto è il disegnatore Antonio
Augusto Rubino. Frequenta a Rimini il Ginnasio e il Liceo ‘Giulio
Cesare’. Nel 1937 pubblica i suoi primi disegni: caricature di partecipanti a un campeggio di ‘balilla’, al quale Fellini ha preso parte nell’estate del 1936; vengono pubblicate nel numero unico La Diana dell’Opera Nazionale Balilla di Rimini. Esegue per il gestore del riminese
cinema Fulgor ritratti di attori celebri, che vengono esposti come
pubblicità. Apre, con l’amico pittore Demos Bonini, la Bottega del
Ritratto per villeggianti ‘FEBO’ (Fellini-Bonini). Pubblica vignette
umoristiche sul settimanale La Domenica del Corriere, nella rubrica
destinata ai lettori. Offre la sua collaborazione al settimanale politicosatirico fiorentino 420 dell’editore Nerbini, che gli pubblica brevi racconti e disegni firmati Fellas. La collaborazione seguirà nel 1939. Si
trasferisce a Roma insieme con la madre e la sorella, che un anno
dopo torneranno a Rimini. Stringe un’amicizia che durerà tutta la vita
con il pittore Rinaldo Geleng. Comincia a collaborare al “Marc’Aurelio”, bisettimanale umoristico e satirico-politico di grande successo;
diventa ben noto pubblicando vignette, raccontini a puntate, rubriche in serie. Conosce attraverso l’amico Ruggero Maccari il comico
Aldo Fabrizi: ne diventerà l’amico, l’autore di gag, lo scrittore di fiducia per spettacoli di varietà e film. Nel 1940 comincia a collaborare
alla radio (EIAR) con sketch, rubriche e programmi umoristici. Collabora a vari periodici, anche di cinema. Inizia la sua attività di sceneggiatore cinematografico. Nel 1942 conosce Giulia Masina, giovane
attrice del teatro di prosa che è interprete, all’EIAR, nella trasmissione Terziglio delle avventure degli sposi Cicco e Pallina scritte da
Fellini. Lavora per un breve periodo all’ufficio soggetti della Alleanza
Cinematografica Italiana (ACI), di Vittorio Mussolini, figlio di Benito
Mussolini; lì conosce Roberto Rossellini. Nel 1943 è tra gli sceneggia87
tori del film Campo de’ fiori diretto da Mario Bonnard con Aldo
Fabrizi e Anna Magnani; il 30 Ottobre sposa Giulietta Masina. Nel
1944, apre a Roma un negozio di ritratti e caricature, The Funny Face
Shop, insieme con gli amici caricaturisti De Seta, Verdini, Camerini,
Scarpelli, Majorana, Guasta, Giobbe, Attalo, Migneco: lavorano per i
militari alleati, con successo. Collabora alla sceneggiatura del film
Roma città aperta, in particolare per lavorare al personaggio interpretato da Aldo Fabrizi. Partecipa, nel 1946, alla sceneggiatura e alla realizzazione del film Paisà, sempre diretto da Rossellini. Nel 1951 è coregista, in coppia con Alberto Lattuada, del film Luci del varietà (tra
gli interpreti Giulietta Masina), prodotto in cooperativa. Dirige il suo
primo film Lo sceicco bianco, protagonista Alberto Sordi. La musica è
di Nino Rota, il compositore che offirà straordinarie colonne sonore
ai suoi film. Fellini continuerà a scrivere e a dirigire film fino al 1990,
quando uscirà la sua ultima prova: La voce della luna. Nel 1953, aveva
vinto il suo primo premio (il primo di una serie lunghissima): un
Leone d’Argento per I vitelloni alla Mostra del Cinema di Venezia;
mentre nel 1993 riceverà il quinto Oscar, alla carriera. Fellini, il 3 agosto dello stesso anno, viene colpito da un attacco cerebrale al Grand
Hotel di Rimini. Muore il 31 Ottobre 1993, a Roma nell’ospedale
Policlinico.
I suoi film, le sue regie: Luci del varietà (regia Alberto Lattuada e
Federico Fellini -1950); Lo sceicco bianco (1952); I vitelloni (1953);
Amore in città (episodio “Agenzia matrimoniale” - 1953); La strada
(1954); Il bidone (1955); Le notti di Cabiria (1957); La dolce vita
(1960) Boccaccio ‘70 (episodio: “Le tentazioni del Dr. Antonio 1962); 8 e 1/2 (1963); Giulietta degli spiriti (1965); Tre passi nel delirio (episodio “Toby Dammit - 1967); Satyricon (1969); Block – notes
di un regista (1969); I Clowns (1970) Roma (1972); Amarcord (1973);
Il Casanova di Federico Fellini (1976); Prova d’orchestra (1979); La
Città delle donne (1980); E la nave va (1983); Ginger e Fred (1986);
Intervista (1987); La voce della luna (1990).
Oltre ai suoi film, ha sceneggiato: Cameriera bella presenza offresi…
Il cammino della speranza; Francesco, giullare di Dio; Il miracolo; Il
mulino del Po; Senza pietà; Il delitto di Giovanni Episcopo; Il passatore;
Roma città aperta; Paisà; Chi l’ha visto? ….
I libri che Fellini ha scritto (in collaborazione, di volta in volta, con
R. Renzi, G. Angelucci, G. Grazzini, T. Guerra, L. Betti…): Giulietta
degli spiriti, Cappelli, 1965; Fellini - Satyricon, Cappelli 1969; Fellini
Tv, Cappelli, 1972; Roma, Cappelli , 1972; Quattro film, Einaudi,
1974; Amarcord, con Tonino Guerra, Rizzoli, 1975; Il Casanova di Fellini, con Bernardino Zapponi, Einaudi, 1976; Il Casanova, Cappelli,
1977; Prova d’orchestra, Garzanti, 1980; La città delle donne, Garzanti, 1980; Le notti di Cabiria, Garzanti, 1981; La dolce vita, Gar88
zanti, 1981; E la nave va, Longanesi, 1983; Intervista sul cinema,
Laterza, 1983; Giulietta, Melangolo, 1984; Viaggio a Tulum, pubblicato sul “Corriere della Sera”, 1986; Ginger & Fred, Longanesi, 1986;
La mia Rimini, Cappelli, 1987; La voce della luna, Einaudi, 1990; Fare
un film, raccolta di note autobiografiche e di lavoro, Einaudi, 1993.
Come attore ha partecipato ai seguenti film: Intervista, Il tassinaro,
C’eravamo tanto amati, Roma, L’amore, Il miracolo…
Su Fellini, cosa leggere? C. G. Fava, A. Viganò I Film di Federico
Fellini, Gremese Editore,1991; T. Kezich Fellini, Rizzoli 1988; B.
Zapponi Il mio Fellini, Marsilio, 1995; Luigi ‘Titta’ Benzi, Patachédi,
Guaraldi, 1995; R. Renzi L’ombra di Fellini, Dedalo, 1994; Vincenzo
Mollica Fellini, Einaudi, 2000; ecc. ecc.
A Rimini, chi incontrare? Nelle guide solitamente si indicano luoghi
e monumenti da visitare… Perché, invece, non dare la precedenza
alle persone che val la pena conoscere, che è utile contattare, con le
quali è interessante scambiare due chiacchiere? Per parlare di Federico Fellini, naturalmente, e della Rimini che ha raccontato nei suoi
film. L’elenco delle persone, anzi dei personaggi, validi per questa
‘nuova forma di turismo’ potrebbe essere lunghissimo. Limitiamoci a
quelli ‘più in vista’.
Titta Benzi e Mario Montanari (i ‘compagni di banco’), la famiglia Fellini (la sorella Maddalena, il cognato Giorgio Fabbri, la nipote Francesca), Liliano Faenza (scrittore e storico; si sentiva spesso con il nostro),
Benedetto Benedetti (riminese d’adozione, ha vissuto a Roma la stagione d’oro del cinema, lavorando anche con Fellini), Mario Guaraldi
(realizzatore del ‘Fellini’s Day’, editore di numerosi testi sul grande
regista), Giorgio Franchini e Mariella Federico (gli architetti che
conobbero bene Fellini e la Masina, all’epoca della ‘casina sul porto’),
Giuseppe Chicchi (il sindaco-intellettuale della Rimini anni ‘90), Piero
Meldini (scrittore ed ex direttore della Biblioteca), Miro Gori e Giuseppe Ricci (gli esperti della Cineteca), Giovanni Luisè e Carla Gentilini (la loro libreria antiquaria è un centro culturale tra i più vivi nella
città), Werther Casali (l’addetto stampa del Fellini’s Day), Pietro Arpesella (vero decano del nostro turismo e padre dell’indimenticabile
Marco), Mario Pasquinelli e Dino Spadoni (le ‘guide indiane’ del
Borgo San Giuliano), Elio Tosi all’ ‘Embassy’ e Quarto al ‘Garbino’
(gli anfitrioni di ‘marina centro’, che Federico andava a trovare ogni
volta)…
E cosa vedere… Ecco in sintesi un breve pro-memoria, partendo
dalla ‘marina’ (come si dice a Rimini): il molo, ovvero la ‘palata’; il
Grand Hotel (al centro di tutta la vicenda); la palazzina Dolci, in via
Dante, vicino alla stazione (lì abitava il ragazzo Federico); la casa di
Amarcord, in via Roma 41 (la casa di Titta); l’associazione “Fonda89
zione Fellini” (attualmente in via Angherà, ospite dell’Università, in
attesa di una sistemazione più idonea); il Tempio Malatestiano (il
capolavoro del Rinascimento, che “d’estate diventava ancora più
bianco, un osso di seppia…” ricordava Fellini); Piazza Ferrari (i nudi
del monumento ‘erotico-dannunziano’); il Palazzo Gambalunga
(straordinario contenitore culturale, oggi, sede del Ginnasio di Federico e Titta, ieri); Piazza Cavour , il Corso d’Augusto e Piazza Giulio
Cesare, oggi Piazza Tre Martiri (il cuore del cuore del nostro universo); il cinema Fulgor (ormai centenario, è ancora lì ad offrire
sogni… quelli proposti con il cinema americano, negli anni ‘30, sono
da considerare ineguagliabili); il Ponte di Tiberio (ci sono passati
sopra duemila anni e… la ‘Mille Miglia’); il Borgo San Giuliano (con
i suoi murales, dedicati al regista riminese, e con le testimonianze di
una Rimini ‘controcorrente’); e, per finire, la tomba di Federico e
Giulietta al cimitero di Rimini (nel piazzale d’ingresso, al centro di
uno spazio quasi irreale, isolati dagli altri, come in attesa di chissà che
cosa…).
Dove informarsi: non mancano a Rimini validi ed efficienti uffici
informazioni. Tre recapiti su tutti: quello comunale, sul Corso d’Augusto (accanto al “Fulgor”), tel. 0541/704112; lo IAT (proprio… in
piazzale Fellini, 3), tel. 0541/56902; e, nello specifico, l’Associazione
“Fondazione Fellini”, in via Angherà, 22 - tel. 0541/50085
Come prenotare: l’agenzia Montanari Tour, in questi ultimi anni, ha
realizzato esperienze significative nell’organizzazione di vacanze e di
stage legati alla storia, ai personaggi e alle vicende di quest’angolo di
Romagna; la sua sede è in via Circonvallazione Occidentale, 104 47900 Rimini - tel. 0541/786501-786517- fax 0541/786159
e-mail: [email protected] http:// www.montanaritour.it
Notizie dall’Associazione “Fondazione Fellini”- Ultim’ora!
20/04/2001. Il consiglio di amministrazione dell'Associazione ha
deciso di trasferire la propria sede in via Oberdan 1, nella ‘casa Fellini’ (la palazzina di Maddalena Fellini, del marito Giorgio Fabbri e
della figlia Francesca, dove la madre di Federico ha vissuto fino al
1984): consentendo, così, di riunire, in un unico ambiente, tutta la
ricca documentazione felliniana già presente in città. A piano terra
verrà realizzato il ‘museo Fellini’, mentre il primo piano ospiterà la
biblioteca, la videoteca e gli uffici della Fondazione. L'apertura è
prevista entro il 2001.
90
INDICE
Il Genio e l’operatore turistico
5
«Io a Rimini non ci torno volentieri»
7
L’itinerario felliniano
11
La vita era tutta lì
31
Rimini ispiratrice e casinara
47
L’illustre ammalato
69
Palazzo Gambalunga
73
Tre libri su Federico Fellini
83
Fellini e Rimini, in breve
87