Libretto FELLINI
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Libretto FELLINI
r a nca me nte fnuove guide per gli ospiti collana diretta da Giuliano Ghirardelli 1 Il Grand Hotel è presente nell'opera e nella vita di Federico Fellini come un ‘personaggio’ di primo piano. Guida alla Rimini di Fellini a cura di Giuliano Ghirardelli Maggio 2001 Edizione digitale: settembre 2014 ISBN digitale: 978-88-7472-240-2 Si ringraziano: la Regione Emilia Romagna, l'APT Servizi, Italia in Miniatura e Riminiterme. L'immagine di copertina è stata realizzata da PI&EMME GRAPHIC’S, Parma, per conto della Montanari Tour. A pag. 2: il Grand Hotel di Rimini in una foto di Gilberto Ceccarelli. Il Grand Hotel alimentava i sogni degli adolescenti riminesi, come luogo impenetrabile: «la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale» che nelle sere d'estate «diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood…». Fu costruito agli inizi del ’900 dalla ‘Società Milanese Alberghi Ristoranti ed affini’, su progetto dell'architetto svizzero Paolito Somazzi. Ha ospitato nella sua 'lunga carriera' regnanti e magnati, concerti e simposi di rilevanza internazionale. Ma il ‘Fellini's Day’, realizzato domenica 25 settembre 1983, è sicuramente il punto più alto della sua lunghissima storia. Proprietà letteraria riservata © 2001 Panozzo Editore, Rimini - via Clodia, 25 - tel. e fax 0541 24580 [email protected] www.panozzoeditore.com Il Genio e l’operatore turistico C’è chi fa l’operatore turistico a Rimini e parla in continuazione della propria città, della spiaggia, delle novità da offrire agli ospiti, ritrovandosi in bocca, o nella penna, le parole abituali, senza riuscire a liberarsene. Poi ascolti Federico Fellini, un uomo geniale che la sua Rimini l’aveva ‘dentro’ anche se ci tornava raramente, mentre parla o scrive, che so, del Tempio Malatestiano «… che d’estate diventava ancora più bianco, un osso di seppia, e la notte faceva luce come la luna…», oppure di quello strano monumento, in fondo al Corso, verso il ponte di Tiberio, «… la Chiesa dei Servi era quell’immenso muraglione senza finestre che veniva subito dopo il cinema Fulgor. Per anni non mi sono accorto che era una chiesa perché la facciata e l’ingresso erano nascosti in una piazzetta sempre ingombra delle tende di un mercato…»; o, magari, della Rimini del boom, confrontandola con quella dell’ anteguerra: «Ora il buio non c’è più… Luce, dovunque: la notte è sparita, si è allontanata nel cielo e nel mare…». Leggi, o rivedi i suoi film, e rimani sorpreso e felice di aver 5 trovato finalmente chi, con parole ed immagini leggere come bolle di sapone, racconta quello che ognuno di noi ha dentro… senza saperlo. I genii, con il loro coraggio e la loro intelligenza, sono rari come le stelle all’alba! Brillanno e attraggono. Ed è per questo che, da tutto il mondo, c’è gente che viene a Rimini e chiede di visitare i luoghi, e di incontrare i personaggi legati a Federico Fellini, alla sua vicenda di uomo e di artista. Appunto per questo, la Montanari Tour, la mia azienda, specializzata nel turismo della terza età, volendo presentare programmi non solo rivolti allo svago, ma anche ricchi di divulgazione culturale, ha scelto la Rimini e la Romagna di Fellini per le nuove proposte di vacanza. I buoni risultati ottenuti hanno, ora, indotto la Montanari Tour a realizzare una pubblicazione incentrata su Fellini e su Rimini, per suggerire agli ospiti della nostra riviera i luoghi e le atmosfere di quel grande artista. Il linguaggio usato per raccontare l’uomo e la città è di quelli franchi e schietti: cioè, senza nascondere nulla dei nostri limiti ed errori (ad esempio, i ritardi nella realizzazione di una Fondazione a lui dedicata). Non è ora che un po’ di sincerità arrivi anche nel turismo? Fellini in una delle sue ultime lettere - e precisamente in quella inviata al Sindaco Chicchi - scriveva: «Per istinto e per educazione riesco a difendermi dalle insidie della retorica…», confermando la sua preferenza per una visione critica delle cose; però poi, a sorpresa, aggiungeva: «… ma questa volta mi lascio andare. Sono contento di essere nato da queste parti e voglio augurare ai miei compaesani di saper mantenere, nonostante i tempi bui, questo slancio generoso verso i valori dell’amicizia e della vita». Che, tradotto nel nostro linguaggio di operatori turistici, significa: continuate ad essere ospitali, come lo siete sempre stati! Ed è quello che, modestamente, cerchiamo di fare. Buona lettura! Giovannino Montanari Montanari Tour - Rimini 6 «Io a Rimini non ci torno volentieri» Ecco qualcosa che chi non è mai partito non può facilmente capire «Un fatto è, comunque, certo. Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. È una sorta di blocco». È Federico Fellini che scrive della città, la sua, che ha lasciato a 19 anni. A Roma, dove ha vissuto il resto della vita, ha composto più di venti film-capolavoro, scritto tanti testi, soggetti e sceneggiature. I suoi disegni sono straordinari come le sue apparizioni televisive. Le sue riflessioni sulla vita, piccola e grande, hanno fatto il giro del mondo. E continuano tuttora. Da ogni parte del pianeta gli sono giunti applausi e premi: cinque Oscar! (tanto per ricordarne qualcuno). Nella sua opera Rimini è quasi sempre presente: ma lui non vi ha girato una sola scena! Tornava raramente. Poi, quasi dirottando dalle solite scelte, decise di venire a passare un’impegnativa e delicata convalescenza proprio nella sua città. Era tornato… per la sua ultima partenza. Dall’Ospedale di Rimini scrisse al Sindaco: «… Sono contento di essere nato da queste parti e voglio augurare ai miei compaesani di saper mantenere, nonostante i tempi bui, questo slancio generoso verso i valori dell’amicizia e della vita». Dopo poco più di due mesi - il 31 ottobre 1993 - Federico Fellini moriva. Aveva lasciato, tra l’altro, ai suoi ‘compaesani’ un monumento artistico, perenne ed ammirato in tutto il mondo, dedicato interamente e visceralmente a Rimini: Amarcord. È passato già molto tempo dalla sua scomparsa, ma, pian piano, tra alti e bassi, la città sembra trovare la forza 7 per riuscire ad essere all’altezza di questa grande eredità. Non importa poi, se ogni tanto qualcuno, in città, ti blocca per farti una domanda già subita altre volte. Il personaggio in questione ti ferma, ti guarda dritto e sicuro negli occhi e, con quello scetticismo che non ammette repliche e che dà per scontata la risposta negativa, ti chiede: «Dimmi su, cosa ha fatto Fellini per Rimini?» Come dire: ammesso e non concesso che i suoi film siano così belli come dite voi, il vostro amico, diventando molto importante a Roma e in Italia, cosa ha mai fatto per Rimini? Il personaggio che ti ha guardato fisso nelle pupille - ma che non ti ha nemmeno visto, né si attende da te una risposta - alludeva, probabilmente a viadotti, ad altre autostrade, a grandiosi edifici pubblici che la città, grazie al suo interessamento, avrebbe potuto ottenere. Quando finalmente siete riusciti a svincolarvene, il personaggio se ne va, petto in fuori, con quel lieve sorrisino di chi sa come vanno davvero le cose nel mondo: lui non si lascia fregare da tutto quell’ambaradam intorno al nome dell’illustre (lo dite voi) riminese! Ciao. E non lo sfiora minimamente il dubbio che a Fellini piacessero tanto i personaggi come lui. Sbruffoni e un po’ ‘pataca’. Così ingenui da credere che la vita presenti sempre dei retroscena, che loro, solo loro, riescono sistematicamente a smascherare. Fellini provava, nei suoi film e fuori, molta tenerezza per questo tipo di umanità, forse la più indifesa: priva di protezione nei confronti dei misteri della vita, che per loro non esistono! In quell’eterna periferia che è la vita umana, loro si sentono - spontaneamente e candidamente - al centro del mondo. Fellini sapeva, invece, che alla periferia, umile e modesta, alla provincia non si sfugge: a quella dimensione veramente vera della vita non si può voltare le spalle, credendo di poterne fare a meno, chiamandosene fuori. E questi conti Fellini li faceva con la sua Rimini… che 8 Leggero, elegante (già con la sua 'classica' sciarpa), Federico prende il volo… Federico parte per Roma. Gli amici lo accompagnano fino a Bologna. La foto è scattata "alla Montagnola", in via Irnerio. E' il 4 gennaio del '39. Da sinistra: Luigi 'Titta' Benzi, Federico Fellini, Mario Montanari e Luigi Dolci. Gli amici rivedranno Federico solo al termine della guerra, nel 1946, quando tornerà nella Rimini distrutta, per una breve visita. ritrovava, continuamente, dappertutto, tra le pieghe di una metropoli come Roma o nelle tante città reinventata nei suoi film. 10 L’itinerario felliniano Rimini e Fellini. Parliamone a quattr’occhi, passeggiando sul lungomare. Caro ospite, caro lettore, questo libretto è dedicato a te, che prima o poi verrai a visitare la nostra città… Ma è probabile che tu ci conosca già molto bene. La Rimini che ti proponiamo è in gran parte inedita, ed è quella legata alla vicenda umana e all’opera di uno dei più grandi registi della storia del cinema: Federico Fellini, nato e cresciuto nella nostra città. Vorremmo, vorrei parlarti di Rimini evitando il vezzo - falso quanto radicato nel turismo - di professarsi innamorati della propria città: che appare naturalmente la più bella, la più pulita, la più trasparente… Tra l’altro, se c’è qualcuno che ha dimostrato quanto sia difficile vivere e amare la propria città, questi è proprio Federico Fellini. A diciannove anni infatti lasciò la sua, la nostra Rimini, per sempre, conservando per tutta la vita il sottile rimpianto di non essere stato capace di riallacciare rapporti stabili, tranquilli e continuativi con la sua città. Come accade con certi parenti, per i quali conservi il rimorso di averne perduto i contatti, oltretutto senza un chiaro motivo: pian piano ogni rapporto viene annullato per colpa di una scelta che non ricordi di aver fatto, ma che forse non hai potuto evitare. Nella scena finale de I vitelloni tutto questo è chiaramente espresso da uno dei protagonisti: Moraldo (interpretato dall’attore Franco Interlenghi). In lui, sul suo volto, Fellini ha dipinto il disagio di quel distacco, che fu 11 certo doloroso: una lacerazione che egli, il ragazzo di allora, già avvertiva come impossibile da rimarginare. Il film è del ’53, l’uscita felliniana da Rimini risale al ’39. È quindi con diretta competenza e sofferenza che egli scrive, assieme a Flaiano e Pinelli, questa pagina della sceneggiatura: «… la vita riprende come al solito, nella cittadina di provincia. I vitelloni continuano a giocare al biliardo e a fare progetti di partenza. Ma l’unico che parte davvero è Moraldo. Parte un mattino all’alba, senza dire niente a nessuno, quando ancora tutti dormono. Gli sembra di vivere in un sogno, quando si ritrova sotto la pensilina deserta, e il campanellino cessa d’improvviso di suonare, e il treno appare veramente in fondo ai binari. Mentre sta per salire in un vagone di terza classe, tra il fumo degli stantuffi gli appare il piccolo ferroviere, che lo saluta con festosa sorpresa. “Parte? Dove va?” “Non lo so…” “E quando torna?…” “Non lo so…” Moraldo sale sul treno; il capostazione chiude gli sportelli. “Ma allora, che va a fare?” chiede ancora sorpreso il ragazzino, da terra. Il treno si mette in moto. Dal finestrino, Moraldo grida, per vincere il rumore delle ruote: “Non so… Non so niente…” Il treno passa sotto il ponte di ferro, si allontana. Moraldo guarda sfilare le case della cittadina che abbandona; forse l’apparizione del ragazzino contento di sé e del suo lavoro gli ha fatto baluginare alla mente un’improvvisa e spaurita rivelazione…» Forse Rimini, nella vita e nell’opera di Federico Fellini, rappresenta e incarna qualcosa che va ben al di là della sua prima città… Ma, caro ospite, torniamo a noi, al discorso franco e allo stesso tempo amichevole, che potremmo fare… magari passeggiando sul lungomare. Immaginiamo, quindi, di partire dal porto - dalla ‘palata’ - e di dirigerci pian piano verso Piazza Tripoli, passando davanti al Grand Hotel. 12 La tua espressione, mi sembra di intravederla, è incoraggiante. È un ulteriore invito ad aprirsi. Oltretutto quel tuo sorriso lieve, nostalgico ed indulgente lo riconosco: l’ho visto affiorare spesso sul volto di tanti interlocutori, incontrati fuori dalla mia città: appena facevo il nome di Rimini… «Ah! Rimini!…» quasi che il nome fosse associato automaticamente ai ricordi di serate e nottate mai più vissute così nella vita di ciascuno. La nostra città era diventata per molti l’occasione di sperimentare una vita più libera, un ‘corso’ rapido di esperienze nottambule con partners mai conosciuti prima e diventati improvvisamente amici… ed anche qualcosa di più. Mi riferisco in particolare alla Rimini anni ’50 e ’60, quando tutto scorreva facile e festoso… Giornate e nottate vissute all’insegna di una libertà non più rintracciabile nel resto della vita: Rimini come una parentesi schietta e scapestrata allo stesso tempo; una parentesi trasgressiva, permissiva, che ti faceva toccare con mano che cosa mai sarebbe potuta diventare la vita se avesse imboccato quella strada favolosa, quel percorso ideale… E quando si parla di esistenze vissute all’insegna della libertà, non viene in mente subito quella di Fellini? La sua fu un modello di emancipazione dai vincoli imposti da ‘una certa Italia’. Lui si liberò a suo modo - si potrebbe dire affabilmente, ironicamente - di tutti quei lacciuoli. Era sfuggito all’avvenire programmato da mamma Ida, che prevedeva una carriera esemplare da libero professionista: macché artista! glielo dava lei l’avvenire da disegnatore bohémien! La signora Ida aveva persino tolto il saluto al vicino di casa Demos Bonini, maestro e collega del figliolo in imprese artistiche nella Rimini di allora. Federico si iscrisse, sì, a giurisprudenza a Roma, ma frequentò… le redazione dei giornali satirici o dei quotidiani, gli ambienti del cinema e della rivista. Fellini era sfuggito anche… al fascismo, cosa difficilissima per gli adolescenti 13 e i giovani del tempo. Partecipava agli appuntamenti obbligatori del regime, con il sarcasmo e gli sberleffi tipici dell’ultimo della classe. A Titta, suo grande amico e compagno di banco, che gli si presentava di fronte in divisa da capo-avanguardista, tutto orgoglioso di partecipare ai ‘campi Dux’ nella capitale, non risparmiava battute del tipo: «Vai a fare il pataca anche a Roma!?» Fece, soprattutto, il cinema che piaceva a lui, che lui voleva, stravolgendo, passo dopo passo, i canoni tradizionali della cinematografia: con coraggio e duttilità allo stesso tempo, seppe superare gli ostacoli e le censure frapposte dai produttori, dai politici e dagli ambienti clericali. Seppe sopportare le critiche da ‘realismo socialista’, senza lasciarsi sviare: negli anni Cinquanta lo accusavano infatti di non parlare di operai, né di partigiani, né della questione sociale… ma come si permetteva?! Lui non prese mai di petto chi voleva fermarlo, ma quasi con comprensione - cercò sempre di raggiungere i suoi obiettivi e di non farsi irretire. Alzò la voce, negli ultimi anni, contro gli spot pubblicitari che in televisione ‘massacravano’ i film, compresi i suoi. Per il resto, amabilmente sapeva e riusciva ad essere un uomo libero: libero di creare e di vivere pienamente. Tu, caro ospite, magari sei più giovane di me... Tutti e due, però, abbiamo fatto in tempo a vedere, in diretta, man mano che uscivano sugli schermi, i film di Federico Fellini. Tu, come me, probabilmente, sei cresciuto e maturato nella visione dei suoi capolavori. Siamo usciti, con lui, dall’Italietta degli anni Cinquanta. A me sembra che con lui abbiamo imparato ad essere più sinceri, meno ipocriti, a capire quanto difficile fosse essere onesti, e come sarebbe stato bello eguagliare l’umanità di Gelsomina o la purezza di quella giovinetta, cioè di Paolina, interpretata da Valeria Ciangottini, nell’ultima scena della Dolce Vita. Tutte cose per noi amaramente irrag14 Ai giovani di una Rimini in ascesa, il futuro appariva sorridente come quella domenica d'estate. Siamo sul lungomare di Rimini, nel 1937. Da sinistra: 'Lalo' Spazi (la sua famiglia gestiva il Caffè Diana in via IV Novembre), Nelson Cenci (un parente dei Roberti, i proprietari del famoso negozio ‘Quattro Stagioni’), Federico (come al solito in tenuta da ragazzo elegante, con cravatta e fazzoletto sul taschino) e l'atletico Titta. «Io avevo una bicicletta ‘Lombardini’, Federico, con i cerchioni di legno, una ‘Umberto Dei’! Insomma, eravamo figli di buona famiglia», racconta Titta. (Foto Moretti Film) giungibili. Quella che invece purtroppo raggiungemmo fu l’Italia luccicante e cinica dei decenni successivi, nella quale siamo tuttora immersi. Ma vengo facilmente alla tua prima presumibile domanda. «Esiste, e resiste, tuttora la Rimini di Fellini, una Rimini di Fellini?» Il grande regista se ne andò dalla sua città all’inizio del 1939. Aveva appena compiuto i 19 anni. Se ne andò stabilmente, definitivamente in quell’anno, per gettare l’ancora della sua vita in un mare ben più grande e difficile, quello di Roma. La risposta non è semplice. Intanto, però, voglio dirti una cosa: questa di Fellini è l’occasione giusta per conoscere meglio la nostra città, che di Fellini è stata la culla naturale e la vera ispiratrice artistica. Come avrai capito, i protagonisti di questa chiacchierata sono due: Fellini e Rimini. Le loro storie si incrociano, si dividono, tornano a fondersi nel finale, diventando, e confermandosi, inseparabili. Per sempre. Consentimi una aggiunta: anagrafica. Con Fellini gli anni contano davvero. Ho incontrato - ad esempio molti giovani che, pur rispettando (quasi con timore) la grandezza dell’artista, avevano visto pochissimi suoi film. Quasi nessuno. Invece la mia generazione - quella, per essere precisi, nata durante la seconda guerra mondiale o subito dopo - ebbe un rapporto particolare ed intenso con Fellini. Specialmente, poi, se si è vissuti in provincia. Parlo di chi fu adolescente e avviò la propria gioventù prima del boom economico. Nonostante tutto, io sono affezionato ai modesti anni Cinquanta, pur avendo conosciuto in quel tempo un’Italia ancora povera, e forse un po’ meschina, lontana mille miglia dai lustrini, dai bagliori e dai fuochi d’artificio del benessere e del malessere successivo. Tutto, allora, contribuiva a restringere, a limitare. Almeno così sembrava. I calzoni corti e con le toppe, le scuole migliori solo per 16 i ricchi, le ragazzine inavvicinabili, gli enormi sensi di colpa indotti dagli ambienti in cui si viveva, più arcigni che severi, con la chiesa in testa… quel mondo cittadino così ristretto, anche fisicamente… tutto lì, in quel Corso d’Augusto così insopportabile, specialmente la domenica pomeriggio, quando le famiglie, bardate a festa, avanzavano a passo lento, misurando, nel confronto con le altre, tutti gli sforzi fatti per raggiungere un minimo di decoro. Sembrava che il ruolo di ciascuno fosse stato definito e sancito una volta per tutte: non rimaneva che ammirare le famiglie di successo, quelle a cui era permessa ogni cosa, anche quanto era difficile da immaginare. In quell’Italia così soffocante ognuno si arrangiava come poteva. Chi aveva trovato una guida sicura nella scuola - o in qualche prete veramente provvidenziale (ce n’è sempre uno) - apparteneva ad una minoranza di privilegiati. La maggioranza dei ragazzi aveva, invece, trovato una propria via d’uscita, per riflettere, per non soccombere sotto la cappa grigia di una società che non permetteva di sognare e di evadere. Quella via si chiamava ‘cinema’: ed era anche la nostra vera scuola di filosofia, di sociologia, di politica, e di tutto quanto si vuole. La nostra aula magna. E dagli schermi ci giungevano tanti incoraggiamenti. Allora le sale cinematografiche erano stracolme, soprattutto di giovani di tutte le estrazioni sociali. E lo schermo di quelle sale aveva un prestigio e un’autorità oggi impensabili, che neppure la televisione ha saputo eguagliare. Fu in quel periodo, nei modesti e poveri anni Cinquanta, che nelle sale arrivarono a raffica i film di Fellini: Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957). In quelle opere, ed in particolare nelle prime due, venivano alla luce tutti i limiti della nostra vita di provincia. Amorevole ed implacabile, allo stesso tempo, era la rappresentazione che Fellini ne faceva. Soprattutto ne 17 I vitelloni: una serie di esistenze velleitarie, come quella di Leopoldo, l’ingenuo aspirante scrittore, o meschine come quella del bellimbusto Fausto, bugiardo e negligente, protagonista nel film (interpretato magistralmente da Franco Fabrizi). Eppure, noi ci sentivamo confortati, nel nostro disagio. Ma, soprattutto, la nostra vita trovava lo specchio giusto: forse tutti noi siamo stati restituiti, anche grazie a lui, a scelte più dignitose, più corrette. Ne La strada e ne Le notti di Cabiria, invece, improvvisamente Fellini cambia registro, abbandona il realismo analitico delle sue commedie di costume e affronta un discorso più ‘politico’: il regista si chiede, con la sensibilità straziante dei personaggi Gelsomina e Cabiria, se ce la faremo, prima o poi, a vivere all’altezza di alcuni sogni che - non si sa come, non si sa perché - ci portiamo dentro, da sempre. C’è un bell’episodio nel film di Cabiria che allora fu tagliato e che oggi è riapparso miracolosamente nelle versioni in commercio; riassume alla perfezione i sentimenti del film. Si tratta del brano conosciuto come ‘l’uomo del sacco’, ed è la storia vera di un tizio che tutte le notti girava per la capitale portando dei generi di conforto ai diseredati e ai barboni. Da solo, senza appartenere ad alcuna organizzazione di beneficenza, egli girava con il suo sacco pieno di piccole cose utili. Una vecchia maglia, un pezzo di cioccolata… Cabiria (Giulietta Masina), povera prostituta continuamente oltraggiata dalla vita, lo incontra e lo segue, curiosa e leggermente scettica, durante un’intera nottata. All’alba, l’uomo, finita la sua perlustrazione, si rende disponibile anche ad accompagnarla, portandola a casa con la sua auto. Prima di lasciarlo, lo sguardo prolungato ed incredulo di Cabiria è come una sorta di interrogativo sconvolgente che prende e cattura fino in fondo ogni spettatore. È qual18 cosa che va oltre l’umanità espressa da Charlot, nei capolavori di Chaplin. Cabiria scruta quel dimesso e incredibile benefattore, e il pubblico lo guarda assieme a lei: l’uomo è al volante della sua auto e se ne sta lì silenzioso, serio, pallido come quell’alba sgualcita; riuscirà, nel commiato, a lanciare un breve sorriso e una parola di conforto a Cabiria che, sempre incredula, scuote leggermente la testa. In anni cupi, come furono quelli della guerra fredda, periodo in cui le persone dovevano contrapporsi politicamente, con determinazione, fino alla faziosità e alla violenza, Fellini offre con questi due film sentimenti controcorrente. Gelsomina, Cabiria, l’uomo del sacco… fanno appello a qualcosa di diverso dalla politica corrente, dalla politica tout court. All’improvviso cambiò tutto E fu proprio verso la fine degli anni Cinquanta che l’Italia si stancò di vestire i panni della povera vittima. Improvvisamente si aprirono tutte le porte, tutto diventò possibile: comprare un auto, far studiare i figli, possedere finalmente una casa col gabinetto interno, andare a vivere e a lavorare in città… i giovani appartenenti alla categoria dei sognatori entrarono per la prima volta in agitazione; per molti il sogno era la Roma del cinema, della letteratura e del giornalismo… lo stesso approdo solitario del Fellini vent’anni prima. Ma, a differenza di allora, negli anni del boom c’era la pressione di una folla di ragazzi alla ricerca di una via d’uscita dal tran tran provinciale. Poteva essere la vita libera dell’artista, o l’impegno politico sotto la volta del nuovo clima di distensione e di ‘coesistenza pacifica’. Allora il sentimento comune spingeva all’assalto del cielo: il progresso 19 stava per ingranare la marcia più potente. Tutto sembrava possibile, anche trasformare la società - in meglio s’intende! - da cima a fondo. E puntuale, puntualissimo arriva il Film. Siamo nel 1960 e giunge sugli schermi, preceduto dalla grancassa del dibattito, la più scandalosa opera cinematografica del momento e del secolo: La dolce vita. Fu il terremoto. Nelle scuole, per la prima volta, in classe, professori ed allievi improvvisarono, con la massima spontaneità, incredibili dibattiti, anticipando, bonariamente, future e movimentate assemblee studentesche. Ma i vertici - artistici e politici - della nostra società erano così corrotti? Fellini si era limitato a descrivere i ‘nuovi mostri’, così come li vedeva lui, in quel trapasso epocale rappresentato dall’Italia che aveva voltato le spalle rapidamente alla campagna, diventando industriale e metropolitana. Era comunque un Fellini che, sotto sotto, aveva fatto propri la speranza e gli entusiasmi della nuova politica progressista. Non a caso, per molti di noi, lo straordinario ‘bianco e nero’ della Dolce vita era un tutt’uno con quello dei paginoni del periodico super-impegnato di allora: «L’Espresso» di Arrigo Benedetti, Alberto Moravia, Andrea Barbato, Guido Piovene… E anche la nostra città all’improvviso apparve tutt’altra cosa: a fianco alla Rimini-dentro-le-mura era nata quasi senza accorgercene un’altra città, più solare, più aperta, che sembrava spazzare via tutta quella vita modesta e contrita… via il vecchiume, basta con la vita da formiche! Era nato una specie di piccolo far west economico, in cui tutto sembrava rapidamente possibile: era esplosa l’attività turistica, erano esplosi gli anni Sessanta! Se a Roma Fellini creava quel capolavoro che è la Dolce vita, a Rimini noi avevamo organizzato un’industria dell’ospitalità di livello internazionale: centinaia e centinaia 20 Gli amici del Caffè Ausonia, quello di Raul. Da sinistra: Luigino Dolci, De Gregorio (morto sul fronte russo), Federico Fellini, Titta Benzi, Antonio Amadori e Mario Montanari. «Mi sembra che quella sia la prima volta che vidi Federico in camicia nera!», sostiene Titta. E qui, oltretutto, Federico, con un pugnale in mano, non sembra prendere molto sul serio gli sforzi militareschi del regime. Siamo in Piazza Giulio Cesare, oggi Piazza Tre Martiri. Da pochissimi anni, l'edicola che si vede alle spalle del gruppo è ritornata al suo posto. (Nel retro della foto: 11 Novembre '38 - XVII) di alberghi e locali notturni, per giovani svedesi e famiglie tedesche, per impiegati di Milano e artigiani di Prato… Ma leggiamo insieme quello che scriveva - a conferma - Federico Fellini, a metà degli anni ’60: «Adesso ci sono 1500 tra alberghi e pensioni, più di 200 bar, sale da ballo, una spiaggia lunga 15 chilometri. Arrivano, ogni anno, mezzo milione di persone, metà stranieri e metà italiani. Gli aerei coprono il cielo ogni giorno, dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Francia, dalla Svezia… Sono tornato a Rimini per via di questo libro (La mia Rimini, Cappelli editore, 1967, ndr). Chi mi dà le notizie è il figlio del mio compagno di scuola. Ora, sono i figli che si incontrano. “Ti ricordi Anteo, il facchino della stazione? Adesso ha una quantità di alberghi”. “I miei contadini - dice Titta - hanno abbandonato i poderi per mettere in piedi quattro ristoranti-alberghi alla Barafonda” … Questa che vedo è una Rimini che non finisce più. Prima, intorno alla città, c’erano molti chilometri di buio e la litoranea, una strada dissestata. Apparivano soltanto, come fantasmi, edifici di stampo fascista, le colonie marine. D’inverno, quando s’andava a Rivabella in bicicletta, si sentiva il fischio del vento dentro le finestre di quegli edifici, perché le imposte erano portate via, per far legna. Ora il buio non c’è più. …» Ma cos’era successo? La città, quasi completamente distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, era stata ricostruita totalmente, anzi si era sviluppata in maniera straordinaria e impensabile. La gente da queste parti, prima della guerra e subito dopo, viveva - nella stragrande maggioranza dei casi - di un lavoro durissimo e povero: nel comune di Rimini quasi la metà della popolazione attiva era impegnata nell’agricoltura. Vuoi avere un esempio di quella vita? Riguardati nel22 l’Amarcord (1973) l’episodio della campagna, quello dello zio Teo, quando viene portato - in libera uscita dal manicomio - al podere di famiglia; e presta, magari, più attenzione ai personaggi di contorno: ai contadini, alla famiglia del mezzadro ‘Minghin’. Fellini ha dipinto in quelle scene, con un tocco lieve e con uno stile grottesco, il manifesto più efficace di denuncia e di condanna di quelle condizioni di vita. Quello che è successo in questa seconda metà del secolo è qualcosa di veramente rivoluzionario. Nei paesi dell’Occidente, diciamo così, il popolo ha rotto le catene che da millenni lo legavano alla brutalità del lavoro manuale, soprattutto nei campi, ha rotto con la miseria nera. Si è riversato nella città, nelle industrie, nel commercio: travaso e capovolgimento assieme. Uno stacco storico formidabile, avvenuto o prima o dopo quasi ovunque. Da noi questa rivoluzione... si è chiamata Turismo. Un proletariato di campagna e di borgata travasò in quel nuovo lavoro tutte le sue doti: la grande capacità di fare, la voglia di stare con gli altri, di servirli… In moltissimi casi, furono proprio gli ex-mezzadri, piccoli imprenditori in embrione, in grado di destreggiarsi in ogni tipo di lavoro, a costruire, un piano alla volta, stagione dopo stagione, gli alberghi che abbiamo davanti. Ti ho voluto fare questa non breve premessa per spiegarti com’è sorta questa lunga ‘barriera’ che abbiamo di fronte. A perdita d’occhio, possiamo scorgere alberghi, ritrovi, ristoranti… Il nostro ‘regno dell’ospitalità’! Un motivo di orgoglio, per noi. Fellini, con la sincerità che lo contraddistingueva, confessava la sua estraneità - pur rispettosa e leggermente compiaciuta - alla Rimini del boom turistico, alla marina degli anni ’60. «Assistevo a una festa che non era più per me… quindici 23 chilometri di locali, di insegne luminose: e questo corteo interminabile di macchine scintillanti, una specie di via lattea disegnata coi fari delle automobili. Luce, dovunque: la notte è sparita, si è allontanata nel cielo e nel mare». Non ti preoccupare, però, anche ‘a marina’ (così diciamo noi) resiste qualcosa ancora fortemente legato al mondo del nostro regista: in particolare, il porto e il Grand Hotel. Il resto del suo mondo lo si trova al di là della ferrovia, nel centro storico, all’interno della mura romane e medioevali. Abbiamo da poco lasciato il molo, ovvero la ‘palata’. La scena iniziale e finale (quella che precede il matrimonio della Gradisca) di Amarcord si svolgono proprio al porto, sempre di primavera. Al termine di quell’anno, raccontato dal film, il ragazzo Titta corre da solo verso la ‘palata’. La mamma è morta, il babbo se ne sta chiuso nel suo dolore, la casa è vuota, spenta. Titta, come fosse improvvisamente maturato, ha bisogno di riflettere. E come i riminesi di tutti i tempi, quando hanno bisogno di rimanere soli con se stessi, anche lui va lungo quella ‘testa di ponte’ che si spinge verso il mare aperto. Ma il luogo, anzi il ‘monumento’ felliniano per eccellenza, lungo questa passeggiata, è il Grand Hotel: mitico ed inaccessibile d’estate, per i ragazzi di quei tempi, «… era la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale…», diventava meta di incursioni appena finiva la stagione. «… Soltanto d’inverno, con l’umidità, il buio, la nebbia, riuscivamo a prendere possesso delle vaste terrazze del Grand Hotel fradice d’acqua. Ma era come arrivare a un accampamento quando tutti sono andati via da un pezzo e il fuoco è spento. Si sentiva nel buio l’urlo del mare: il vento ci soffiava in faccia il pulviscolo delle onde. Il Grand Hotel chiuso come una piramide, le sue cupole e i pinnacoli inghiottiti dalla nebbia, era per noi ancora più estraneo, proibito, irraggiungibile…». 24 Il brano è tratto da La mia Rimini, un libro che l’editore Cappelli presenterà nella nostra città, proprio nelle sale del Grand Hotel, confortato dalla presenza dello stesso Federico Fellini. Siamo agli inizi del 1968. Esattamente il 16 marzo. Il sindaco Walter Ceccaroni, intellettuali ed autorità riminesi, Fellini accompagnato dall’attore Leopoldo Trieste, parteciperanno all’incontro dedicato al libro, curato da Renzo Renzi. La mia Rimini si apre con una autobiografia riminese del regista, che può essere considerata una sorta di soggetto anticipatore di Amarcord (1973). Quel capitolo iniziale si può considerare come una vera guida - quella sì!alla Rimini di Federico Fellini. È considerato un libro cult. Quando uscì non ebbe un gran successo. Oggi è introvabile. Il testo felliniano lo si può, comunque, leggere nel volume Fare un film, pubblicato da Einaudi, che raccoglie gli scritti fondamentali di Fellini, fino a metà degli anni ’70. Ma La mia Rimini ospita anche altri preziosi interventi: quelli di Liliano Faenza, Guido Nozzoli, Sergio Zavoli… Nel capitolo L’attesa del panfilo, Zavoli descrive l’umore cittadino, in quell’estate del 1965, quando finalmente era dato per certo l’arrivo di Fellini, in veste ufficiale ed in grande stile, addirittura in piazza, in occasione dell’anteprima mondiale di Giulietta degli spiriti. Sembrava cosa scontata, ma poi non venne. E la grande manifestazione programmata dall’amministrazione comunale saltò! Zavoli racconta l’attesa dell’evento, da una particolare angolazione: quella di una certa Rimini, disincantata e caustica. Il brano, successivamente ampliato, finirà nel suo libro Socialista di Dio (ed. Mondadori), ed è conosciuto con un titolo curioso, che si è guadagnato strada facendo: «Osta te». Le uniche due parole inviategli per telegramma da Fellini, quando fu nominato, nel 25 1980, presidente della RAI. «Osta te», come dire: però! ne hai fatta di strada… Ma il significato vero, per i riminesi doc, è più complesso, più ironico, più malizioso. E così, Sergio Zavoli per spiegarlo ha utilizzato quel vecchio racconto, potenziandolo e trasformandolo in un piccolo saggio, tutto da gustare; utile soprattutto per capire la quintessenza di una certa Rimini: amaramente demagogica, più a sinistra del ‘presidente Mao’, pronta a bollare, con battute fulminanti, chiunque ‘tradisca la causa’ o si comporti da pataca (che poi è la stessa cosa). Una diffidenza, la loro, che non arretrava neppure di fronte alla grandezza di Fellini: riconosciuta e negata a seconda del ‘garbino’ (un vento nostrano, caldo ed irritante). Il gruppo descritto da Sergio Zavoli, una sorta di piccolo ‘senato’, d’estate pontificava dalle parti della palata e d’inverno ‘da Vecchi’, il caffè di piazza Cavour. Al racconto di Zavoli si è poi aggiunto, nel tempo, quello del compianto Guido Baldini, valente ceramista… e caustico, anche lui, commentatore della vita cittadina. La sua ‘leggenda’ narrava di amministratori in delegazione a Roma, a casa di Fellini. Più di una volta. Sembrava fatta: Fellini sarebbe giunto a Rimini, finalmente in veste ufficiale, a presenziare l’anteprima di Giulietta degli spiriti. Però… l’ultima visita a Roma si era conclusa in modo un po’ sorprendente. Fellini aveva insistito sulla sua trovata scenografica: sarebbe arrivato a Rimini con un panfilo, una sorta di grande barcone, per approdare all’altezza del Grand Hotel. «Benissimo! Non ci sono problemi: troveremo sicuramente una bella barca!», in coro gli amministratori lo assecondavano premurosi e soddisfatti di esser passati, finalmente, agli aspetti organizzativi. «Bisogna trovare una barca con una vela bianca, immensa!» «Nessuna difficoltà…» 26 Ed ecco cosa c'era oltre il Ponte… Questa non è un'immagine tratta da Amarcord. È, semplicemente, la realtà che imita i film di Fellini… Siamo al Borgo San Giuliano, in piazzetta Padella. La foto è di Gilberto Ceccarelli, e risale agli anni '70. Alla fine del Corso, al di là del Ponte di Tiberio, c'è il Borgo: un concentrato di piazzette, stradine ed umori che permettono, forse più di ogni altro angolo della città, di capire da dove è partito Fellini. Il primo circolo anarchico d'Italia sembra proprio essere nato qui. A partire dagli anni '50, le numerose osterie e cantine del Borgo si sono trasformate in trattorie e ristoranti di prestigio, senza per questo dimenticare il passato. Fellini, si sa, era un ragazzo di città, non un 'borghigiano': ma a lui, il Borgo, ha dedicato molte manifestazioni e, soprattutto, una serie di simpatici murales. Il 'cuore proletario' della città non si era sentito tradito dai suoi film. Anzi... «Su questa grandiosa vela bianca ci voglio una scritta enorme…», prosegue Fellini. «Benissimo… e cosa dovremmo scrivere su quella vela?» «Viva la f… !», rispose con entusiasmo il regista. Il sindaco abbozzò un sorriso di circostanza: Fellini diceva sul serio o aveva voglia di scherzare? Tornarono a casa con le idee poco chiare. Di lì a poco il grande evento sfumò, e fu l’inizio di un tormentone: quello dei rapporti difficili tra Fellini e Rimini. Passarono diciotto anni, e finalmente Federico Fellini accettò l’abbraccio della città. Fu un evento in grande stile, organizzato da una nuova generazione di riminesi: Mario Guaraldi, Marco Arpesella e il giovane sindaco socialista Massimo Conti, in prima fila. Protagonista sempre il Grand Hotel, che da lì in poi divenne come una specie di ‘cerniera’ nei rapporti fra il regista e la sua città. È il grande ritorno. Omaggio a Fellini fu il titolo di quella articolata manifestazione, realizzata dal 25 settembre al 3 ottobre 1983, in occasione della prima mondiale dell’ultimo film di Fellini E la nave va, al Teatro Novelli. Ma il clou, il ‘Fellini’s Day’, è tutto in quella giornata memorabile: domenica 25 settembre. Fellini venne festeggiato al Grand Hotel con un lungo collegamento televisivo, durante la trasmissione più seguita: la Domenica in… di Pippo Baudo. La città toccava le stelle: come un palloncino, Rimini saliva nel cielo felliniano. Il momento tanto sospirato era giunto. Fino ad allora, Fellini, schivo e diffidente, non aveva mai abboccato. Finché Guaraldi, editore e uomo di pubbliche relazioni, sorretto dal mecenate Marco Arpesella, non riesce in questa operazione di ‘riconciliazione’ con la città: diretta TV, pubblico selezionato (attori, autorità, giornalisti da mezzo mondo…), raggi laser ed il Grand Hotel trasformato nel ‘Rex’, grazie ad un gran pavese di luci. E poi, una indimenticabile confe28 renza stampa, all’interno di un programma che offrì tante occasioni interessanti. Ma… sono proprio le ciambelle più ghiotte che non riescono col buco! A rovinare tutto, nel tempo, fu l’improvvisata - ed improvvisa - idea di regalare a Fellini, così su due piedi, una casa lungo il canale: la famosa ‘casina sul porto’. Quel gesto, che commosse tanto il regista, proprio in diretta TV, si rivelò col passare dei mesi un bluff! La casa promessa non fu mai consegnata al destinatario. Un passo indietro. Nelle giornate entusiasmanti che precedettero l’avvenimento, tra gli organizzatori scaturì l’idea di offrire al grande regista una casina a schiera, sul Porto. Mancavano pochissimi giorni, la casa fu trovata e ‘bloccata’, in via Sinistra del Porto, al numero civico 146. Fellini dirà poi: «Quando ero piccolo, questa parte del canale la vedevo sempre dall’altra sponda. Era uno scenario irreale, con un fascino misterioso; un mondo fluttuante, come fra le nebbie, sembrava un palcoscenico. Per anni rimase un mondo lontano…» A garantire la fattibilità economica dell’operazione c’era Marco Arpesella, patron del Grand Hotel e del ‘Fellini’s Day’. Era entusiasta dell’idea. Ma dopo pochi mesi gli affari, per lui, incominciarono a prendere una brutta piega. Marco ci teneva comunque moltissimo ad onorare l’impegno nei confronti del suo illustre ospite. Non volle, però, l’aiuto di nessuno. Pensò di farcela da solo. Mentre Rimini… non poteva smentire, così su due piedi, la propria fama di città paladina di ideali collettivistici. E la demogogia, che tutti contribuimmo ad alimentare, in quella occasione diede i suoi frutti: la gente si chiedeva chi avesse pagato la ‘casina’ e se c’entrava il Comune… A fronte di centinaia di sfrattati e di senza-casa, come si poteva…? Il sindaco Conti dovette mettere le mani avanti, e garantire che il Comune non faceva parte della 29 rosa dei donatori! Era la ‘piccola provincia’, magari quella esclusa dai festeggiamenti, che mostrava il suo muso duro. Fellini fece finta di niente. E Titta Benzi riuscì, come al solito, a sdrammatizzare le cose. Raccontò che in passato, su sua segnalazione, Federico aveva già acquistato una casetta sul porto; prontamente rivenduta, a seguito di un deciso intervento da parte di Giulietta Masina: «Cosa ci dovete fare, una garçonnière?!» Per un po’ non si parlò più di Fellini a Rimini. La nostra passeggiata ‘a marina’ sta per finire. Oltre la barriera della ‘città albergo’, esiste un’altra Rimini, che molti nostri ospiti distratti (o mal consigliati) non hanno mai visto: la parte più intima, uno scrigno di storia e di arte. Ed è tutto per i riminesi, come era una volta, nelle vecchie case, la cucina. Il sentimento è rimasto lo stesso, anche se di Rimini, oggi, ne esistono quattro o cinque: quartieri residenziali, centri direzionali, frazioni turistiche, periferie che si sono mangiate con disinvoltura la campagna, capannoni industriali, artigianali e fieristici… Fare un salto in centro, rimane sempre, per noi indigeni, una ‘piccola festa’, un regalo che ci concediamo, per attenuare il peso delle nevrosi, dell’anonimato, dell’isolamento. Lì, la civiltà super-competitiva dell’auto è bandita, i tavolini dei caffè occupano allegramente le piazze; le librerie, le sale cinematografiche e i piccoli negozi di qualità affiancano le chiese medioevali e i monumenti romani. La festa aumenta, poi, quando il mercoledì e il sabato mattina ‘esplode’ il mercato ambulante, per le strade, in piazza Cavour e in piazza Malatesta. In quelle due mattinate sembra che il centro storico, così animato, sia tornato quello di una volta. «Allora, noi si stava sempre in città… il ‘passeggino’ lungo il Corso: tutte le sere, mezzo chilometro compiuto a passo di lumaca. Dalla pasticceria Dovesi fino al caffè Commercio…», così Fellini, ne La mia Rimini, dipinge la vita riminese degli anni ’30. 30 La vita era tutta lì Sul Corso con Federico e Titta Ora andiamocene a spasso per la città di Rimini, con Federico Fellini. A guidarci è ‘Titta’, l’avvocato Luigi Benzi, allora e sempre grande amico - fedele e leale - del regista. È una passeggiata datata anni ’30. Titta e Federico hanno da poco dismesso i calzoni corti; e il pomeriggio del sabato vanno ad ingrossare quei curiosi plotoni di ragazzini, oggi difficili da immaginare, allora tutti in camicia nera. Poi Federico se ne andò a Roma. Titta invece restò a Rimini, laureandosi, e riuscendo in pieno nella propria carriera: è ancora oggi uno dei personaggi più generosi e più amati dai riminesi. Perfettamente integrato nella vita cittadina… con un equilibrio invidiabile. Era stato giovane fascista convinto, poi conclusa la guerra ha abbracciato la fede repubblicana diventando consigliere comunale di quel partito: senza mai cadere nel fanatismo e nella faziosità. Lo si può incontrare, indifferentemente, la domenica pomeriggio nella bagarre popolare dello stadio o in qualche serata mondana al raffinato Casino Civico. Non nega mai la sua collaborazione o un contributo, o la sua presenza, a nessuno. Generosità e pubbliche relazioni, in lui, si fondono mirabilmente. E poi, è un conversatore-oratore spassosissimo. Se è difficile vivere e creare alla stregua di Fellini, non è facile neppure riuscire in quello che Titta ha scelto di 31 fare: vivere da vero riminese, integrale, ed essere amato da tutti in patria. Sono due imprese egualmente ardue, ciascuna a suo modo. Alla Rimini degli anni Trenta, a Titta, alla sua famiglia, alla sua casa, Fellini dedica il film Amarcord: un inno, ed una caricatura allo stesso tempo, alla calda e umile vita di provincia che, come una sorta di grande zattera, stracolma di personaggi grotteschi, va alla deriva in un mare sempre più cupo. Il film non arriva a parlare dell’incommensurabile tragedia della guerra che scoppierà di lì a poco, ma l’atmosfera che il regista ha voluto ricreare incombe come una pesante premonizione lungo tutta la storia. “Perché devi sapere che Federico era un solitario” Con Titta Benzi - e con gli scritti di Federico Fellini cerchiamo di ricostruire la vita, quella quotidiana, quella minuta, dei giovani riminesi di allora. Dei ragazzi Federico e Titta, dal 1930 al 1939: «perché lui, ai primi di gennaio di quell’anno, se n’è andato a Roma». Dimmi, Titta, c’erano dei locali che frequentavate assieme: che so, il mitico Caffè di Raul, sul Corso…? «No, lì Federico non ci veniva, perché devi sapere che Federico, tutto sommato, era un solitario. Benché fosse un nostro sicuro e grande amico, egli non partecipava alla vita sociale della quale noi eravamo naturalmente protagonisti: anzi, Federico era tutto l’opposto. Non solo: io ero un violento come individuo, aggressivo, sportivo, fascista e, talvolta, anche scazzottatore… lui invece era apertamente negato per l’attività fisica, che spesso irrideva. Anche quando era costretto a fare ginnastica si distingueva; per esempio, in quel periodo alla fine di un 32 anno scolastico, c’era l’obbligo di partecipare al saggio ginnico… e quando ‘Magnaforma’, che era il nostro comandante fascista, ci disse “ragazzi, al saggio fate bene perché dipende dall’andamento di questa cerimonia se io farò carriera e prenderò il posto del console Gigli…” nella testa di Federico balenò subito l’idea di far fallire tutto. Le cose difatti andarono così: eravamo cento giovani sul Prato della Sartona e il comandante dirigeva il saggio “Unooo… dueee… treee… quattrooo!” e a quel punto tutto il gruppo doveva procedere a sinistra… novantanove sono andati a sinistra ed uno, Federico, è andato a destra… rovinando tutto, lui da solo! Ci trovavamo dopo la scuola, lui, io e Mario Montanari, e andavamo a fare le ‘imprese’, che erano tutte fesserie… ma più che di scherzi si trattava di vere e proprie ruberie! Rubavamo una gabbia per canarini, mezzo sacco di farina, e soprattutto il baccalà, in tutti quei negozi che lo tenevano esposto al di fuori, vicino alla porta… noi lo prendevamo per la coda, sfilandolo via, senza esser visti; poi lo portavamo nella sede delle Poste, che allora si trovava al pianoterra, nel palazzo dell’Arengo: in quell’enorme salone, in tempi di estrema indigenza, laggiù in fondo, attaccati al termosifone stazionavano, al caldo, i vecchi pensionati. A loro distribuivamo, da autentici benefattori, il baccalà così guadagnato. C’è l’ho ancora nell’orecchio la voce esultante di quei poveretti che dicevano: ‘Ciò, ve’, l’è arvé Fellini se baccalà!’ C’era poi un negozio che costituiva l’aspirazione massima della nostra golosità: ‘L’Unica’, che un tempo si affacciava nel corso d’Augusto, poi si trasferì in via IV Novembre. La madre, la signora Fellini, che era molto religiosa - mentre io e Federico non lo siamo mai stati!pretendeva che noi facessimo la Santa Comunione e, per invogliarci ci prometteva - dopo il sacramento - una cioccolata in tazza all’Unica. Quasi davanti, poi, a questa 33 pasticceria c’era il negozio di Squadrani, un rivenditore di cartolerie, accanto al quale, Federico e Demos Bonini fondarono quella piccola e oggi celebre società - FEBO di disegni e caricature (visi incollati su fondali di carta colorata, frutto di un lavoro ingegnoso), nel palazzo Malatesta, angolo via Tempio Malatestiano… Ci piaceva anche il Duomo, benché non fossimo praticanti: in chiesa andavamo soprattutto perché c’erano le ragazze e nel mese di maggio frequentavamo quella di San Girolamo (poi distrutta); ci attirava pure il Grand Hotel che noi visitavamo d’inverno - quando non c’era nessuno - perché d’estate non ci permettevano di entrare, neanche di mettere piede sulla terrazza…» Come si svolgeva la vostra giornata di ragazzi? «La mattina naturalmente passava a scuola; uscivo da casa mia in via Roma e Federico dalla sua, in via Dante, nel palazzo Dolci (dove i Fellini abitavano), mentre pochi metri più in là c’era l’abitazione di Demos Bonini. La famiglia Fellini cambiò diverse volte abitazione: da via Dardanelli passò in via Gambalunga, e poi in via Dante. Abbiamo frequentato il Ginnasio all’ultimo piano del palazzo Gambalunga, in quell’aula d’angolo, e di lassù tiravamo dei proiettili cartacei addosso al vigile che là sotto regolava il traffico, tra via Gambalunga e via Tempio Malatestiano … il traffico?! si fa per dire… passava una macchina ogni morte di papa!» Nell’altra parte della strada sorgeva il Vescovado, anch’esso poi distrutto. Al suo posto oggi c’è il palazzo Fabbri, dove ha sede lo studio, nientemeno, di Titta Benzi. E il pomeriggio? «Prima si tentava di studiare, cioè… ero io che comin34 Con quell'aria vagamente scanzonata. Foto di gruppo al Liceo Classico ‘Giulio Cesare’, in palazzo Buonadrata (Corso d'Augusto). Nella fila, in alto, da sinistra: Guerrino Balducci, Alberto Marvelli, Gaetano Frioli, Emilio Baronio, Alberto Soave e Tentoni; nella fila di centro: la Gori, Alberto Balducci (docente), Corrado Bongiovanni (l'insegnante di chimica), la Barillari, Titta Benzi, Giorgio Bertini, Federico Fellini e Fulvio Barillari ('tagliato a metà'); ultima fila in basso: Don Baravelli, la Martelli, la Sapucci, la Miranda Quartara e la segretaria 'Carletta'. ciavo a studiare… e mai a casa mia, ma sempre a casa di Federico. E lì tra una chiacchiera e l’altra… mi impegnavo molto; altrettanto non potrei dire di Federico, che non aveva voglia di far niente: lui aveva un piccolo mandolino che suonava in continuazione ‘Adesso ti faccio sentire il Ramsinger!’ Nei libri di Salgari, che leggevamo allora, c’era il personaggio, a quei tempi veramente famoso, Tremal Naik, che suonava anche lui quello strumento. Dopo di che uscivamo in cerca di ‘avventure’, per il Corso e nei vicoli adiacenti. Allora la città era tutta lì, dentro le mura, dal ponte di Tiberio all’Arco d’Augusto: erano le nostre Colonne d’Ercole. Al di là incominciava il buio. Dopo essere rimasti per tre o quattr’ore a ‘studiare’, quella era una specie di vacanza, di licenza: poter uscire, prima di cena, per la passeggiata sul Corso. Era lo ‘struscio’. Si andava per guardare le ragazze. E lì, a seconda dell’età, avevamo le nostre ‘morosine’, che in genere erano sartine, soprattutto le allieve della signora Mengozzi, che aveva il laboratorio al terzo piano di una casa in via Oberdan, vicino alla piazzetta Plebiscito, il luogo della nostra ‘fogheraccia’» Le ‘fogheracce’ sono i tradizionali falò che ancor’oggi si accendono il 18 marzo alla vigilia della festa di San Giuseppe. Un rito popolare che sta, però, affievolendosi. Fino a qualche anno fa offriva l’occasione per scendere tutti in strada, con in prima fila i bambini e i ragazzi, in una grande serata che festeggiava la fine dell’inverno. Fellini ci restituisce l’evento, mirabilmente, in un episodio all’inizio di Amarcord. Nel film, l’atmosfera della serata è cupa. Una caricatura, lieve e tenebrosa nello stesso tempo, della vita di allora. Una curiosità: c’era un detto popolare, legato a questa tradizione, che suonava così: «La fugaraza grosa la fa crèss 36 al tèti!» (La fogheraccia grossa fa crescere le tette!); si alludeva, naturalmente, alla professione del santo, noto falegname, e alle ragazze che portando molta legna da bruciare avrebbero evitato la sua pialla… sul seno. Il linguaggio della vita popolare in Romagna era intessuto e imbevuto di sesso e di erotismo, con una ricchezza di spunti a volte travolgenti, che andavano ben oltre il proverbio citato. Nella Rimini cinematografica di Fellini non mancano gli esempi, mentre una ricognizione completa di quel lessico, di quella cultura, la puoi trovare nell’opera meticolosa e ‘coraggiosa’ del nostro Gianni Quondamatteo, scrittore e ricercatore riminese, ed in particolare nei suoi almanacchi e dizionari romagnoli. Ma torniamo al racconto di Titta, e alle sue prodezze nella notte dei falò. «Durante le fogheracce mi scatenavo, provocando dei botti a base di zolfo e potassio… andavamo a rubare lo zolfo delle miniere di Perticara, portato a Rimini dai trenini che scendevano da Mercatino Marecchia, e poi ci recavamo nella farmacia di Colantonio, in via Umberto I (oggi Corso Giovanni XXIII), a comprare le pastiglie di potassio: mescolando il tutto si ricavava una polvere pronta per una piccola detonazione, bastava premere con decisione… La Farmacia di Colantonio è ancora lì, al suo posto. E il figlio del farmacista, di allora, era quel nostro compagno di scuola che in “Amarcord” è alla lavagna quando noi facciamo la pipì dentro i tubi di carta… ed è lo stesso che, sempre nel film, va a confessarsi da Don Baravelli.» Si tratta di un sacerdote famoso nella storia del novecento riminese, un prete stimato, con un’aureola di antifascismo… «Ma allora noi non ne sapevamo niente, né potevamo 37 capirlo; lo ricordo come un uomo molto buono, un po’ incazzoso però, così come viene, d’altronde, presentato nel film. Capitava che veniva in classe e, tanto per farsi amica la scolaresca, diceva: ‘Ragazzi, oggi ho deciso una cosa… adesso vi parlo per un momento della Santissima Carestia… poi, dopo, facciamo la battaglia navale e chiacchieriamo tra di noi, ci divertiamo …”, allora uno di noi, che era quasi sempre Barillari, si alzava e diceva: “No, io voglio parlare di figa!” A quel punto don Baravelli diventava paonazzo, s’incazzava e correva dal preside. E quest’ultimo, Olivieri Arduino, un uomo alto e possente, arrivava immediatamente in aula: “ma che fate voi a questo sacerdote?!”, poi alzando il tono: “Io vi trafiggo!! Io vi inchiodo! Madonna, che fate a questo sacerdote???!» Caro Benzi, se ho ben capito, non era quindi il Liceo classico dei ragazzini tranquilli e perbene come siamo oggi abituati a vedere? «Macché, eravamo delle canaglie!! Quando c’era la guerra d’Abissinia, nel ’36, tutti i minuti andavamo dal preside, che allora era Carlo Lucchesi, e con la scusa di festeggiare le ricorrenti vittorie: “Signor Preside possiamo andar via con la bandiera, le truppe italiane hanno conquistato Tucul!!” ‘Tucul?’ ‘Sì, signor Preside, è una città molto importante, sulla strada per Adis Abeba!!’ ‘E va bene, andate…’ E cosi tutti uscivamo per la città, soprattutto per andare a giocare a boccette ‘da Rossini’ (dove oggi c’è il ‘Bar Turismo’, in Piazza Tre Martiri, allora Giulio Cesare). La sede del liceo era lì vicino, sul Corso, nel palazzo Buonadrata, dove è rimasto fino a pochi anni fa. Si trattava ancora di una scuola non statale, infatti siamo 38 dovuti andare a Cesena per sostenere l’esame necessario al passaggio dal ginnasio al liceo, e a Forlì per quello di maturità». Rimini già negli anni trenta era una capitale del divertimento notturno, all’avanguardia per i suoi locali da ballo… voi non li frequentavate? «A quei tempi un ragazzo di sedici, diciassette, diciotto anni non contava niente, non frequentava i locali notturni… ricordo che solo una volta io e Federico siamo andati a ballare, a Santarcangelo, nel Palazzo Comunale, per la ‘Festa dei becchi’… Fellini se ne stava lì in un angolo, era negato per il ballo, anzi era negato per qualsiasi attività fisica… era magro come un chiodo e se ne vergognava. D’estate poteva capitare di andare a vedere quelli che ballavano, e le poche volte che ci siamo andati anche noi, magari sulle terrazze del Kursaal, non ricordo di aver visto in pista Federico, mentre l’amico Mario Montanari sì. Finita la passeggiata sul Corso si tornava a casa, in orario, per l’ora di cena, cioè quando i tuoi ti dicevano di tornare: allora su certe cose non si scherzava! E solo d’estate si usciva dopocena. D’inverno mai! Si andava a letto presto: alle otto e mezza dormivamo tutti (io tra l’altro ho conservato questa abitudine, faccio così anche adesso!). E non mi ricordo neppure della radio: non credo avesse qualche parte nella nostra vita. Allora il tempo libero era impegnato, quasi totalmente, dalle attività del regime fascista: dovevi andare in palestra, alle marce al ‘sabato’, dovevi cantare… e Federico sempre a rimorchio!» Ti ricordi di aver parlato con lui di politica, in quegli anni? «Mai! La situazione era quella che era, ed il fascismo 39 appariva come un fatto naturale. Fellini, però, non lo amava perché era allergico ad ogni ricorso all’uso della forza fisica e qualsiasi forma di violenza lui l’ha sempre odiata: figurati, per lui anche l’esercizio sportivo era assimilabile ad una violenza… salire la fune, a lui, chi glielo faceva fare?! “ma perché devo andarci, lassù in cima?!” In ginnastica di conseguenza andava malissimo, non combinava niente di buono!! Non ha mai saltato gli attrezzi come la cavallina… era gracile… io lo chiamavo Gandhi, per via di quelle gambe magrissime … quando la mattina andavo a chiamarlo per raggiungere insieme la scuola, lui si affacciava sul terrazzo in camicia da notte, corta (come si usava allora), con quei chiodi al posto delle gambe, mi diceva “Mo vengo”. “Arriva Gandhi!” commentavo io. Era timido e insofferente allo stesso tempo… infatti, quando noi dovevamo cantare gli inni della patria lui si tirava indietro, si rifiutava di far parte del coro e diceva “ma a chi la volete dar d’intendere? volete conquistare Malta, Tunisi e non siete nemmeno capaci di prendere Santarcangelo…” allora famosa come paese delle cipolle! C’era in lui inoltre un rifiuto assoluto di sottoporsi all’autorità…» Lui era estraneo alla chiesa, al fascismo… «Lui era estraneo a tutto, anche alla fogheracce… sì, veniva alle fogheracce ma lui non ha mai fatto ‘i botti’ saltando sulle pietre o sui bulloni». Cosa c’è di vero negli episodi di Amarcord che riguardano la tua famiglia? «È chiaro, ci sono tanti personaggi ed episodi reali che nel film subiscono una trasfigurazione: ad esempio, mio padre era un’antifascista ma non ha mai dovuto subire la punizione dell’olio di ricino, né aveva sistemato 40 Una casa come protagonista. Il villino della famiglia Benzi è ancora lì, in via Roma, 41 (vicino alla stazione). E' la casa del grande amico Titta, che Fellini ha ricostruito a Cinecittà per il suo Amarcord. Anch'essa è 'protagonista' del film: fuori e dentro vi si svolgono grandi scene di vita… quelle di una famiglia tipica dell'Italia di ieri e di oggi. (Foto Barbara) il grammofono sul campanile per diffondere le note dell’Internazionale… quello fa parte dell’invenzione; mio padre diceva “me an’marcord miga, me an so andé mai in zima ad un campanil”. I miei genitori videro Amarcord e non furono tanto convinti dell’operazione, soprattutto mia madre che dovette assistere alla sua… morte anticipata, sullo schermo: “A m’ha fat un bel servizi, e tu amig!? M’ha fat murì prima de’ teimp!?” E mio padre: “E tu amig l’è mat!? Cusel? Me ho mes un gramofun in zima de campanil!? Fammi parlare col tuo amico!” Invece le discussioni a tavola, così frequenti nel film, erano autentiche: il clima era proprio quello, con mio padre che tirava via la tovaglia con tutto quello che c’era sopra, che allungava qualche schiaffone ai figli indisciplinati… Fellini voleva molto bene alla mia famiglia, e donò a mio padre il libro La mia Rimini con una dedica che ora ti mostro. “Al Cavalier Ferruccio, con la simpatia, il rispetto e l’amicizia di sempre. Buona fortuna, caro Ferruccio. Federico Fellini - 16 marzo 1968”. “Ho letto questo dono di mirabile rievocazione del grande Regista e scrittore Federico Fellini, ricordando la nostra bella città di Rimini, dal 20 marzo 1968, ultimato lì 23 agosto 1968. In fede. Benzi Ferruccio”.» La notazione - inconsueta - in calce ad una dedica, denota tutta l’ammirazione per Fellini e l’impegno messo nella lettura di quel “librone”. La famiglia Benzi, quella che discende dal nonno di Titta, Antonio, con i suoi nove figli, è una di quelle famiglie che hanno contato in questa città, nel secolo appena trascorso. A fronte di una aristocrazia esangue e debole 42 che viveva di rendita sulla proprietà di poveri poderi (attorno a Rimini c’era l’agricoltura più povera della regione) - e di una borghesia pressoché inesistente, si faranno strada coloro che, lavorando sodo nell’edilizia e nelle attività balneari, sapranno creare delle imprese all’altezza di quello sviluppo fantasmagorico che ha caratterizzato gran parte del secolo passato. Antonio, il nonno di Titta, era un capomastro e, all’occorrenza, caporale dei pompieri. Il figlio Ferruccio, il babbo di Titta, iniziò come muratore ed essendo il maggiore di nove fratelli, s’impegnò a più non posso: andava, perfino, a rifare i nomi sulle lapidi del cimitero; e col tempo divenne un grosso impresario edile, con la ditta ‘F.lli Benzi’. A Rimini erano famosi. E c’era perfino un detto “Paga Benzi!”… la cosa era nata così: stavano costruendo una villa in Viale Principe Amedeo e Ferruccio, andando a dare un’occhiata ai lavori, sorprese un nuovo lavorante, mai visto prima, che tranquillamente fumava una sigaretta: «Dite su, a voi chi vi paga?» «Paga Benzi!» rispose prontamente, e con disinvoltura, il lavoratore, che non sapeva chi fosse la persona che lo stava interrogando. «Chi ti paga, Benzi?» è stata per anni la battuta rivolta a chi non dava dimostrazione di grande impegno sul lavoro. Ferruccio, ricorda il figlio Titta, «cantava sempre brani d’opera, la mattina quando si faceva la barba». In Amarcord non mancano riferimenti alla vita sessuale dei ragazzi di allora… «Vuoi dire le seghe… nel film tutto questo è molto chiaro con la scena dell’automobile! Anche se qualche volta capitava di entrare nei casini accompagnati da ‘Pistolone’, D’Ambrosio Nicola, il nostro compagno di scuola che veniva dal Sud: lui aveva già i calzoni lunghi, mentre noi fino ai 17 anni portammo quelli corti; D’Am43 brosio aveva una certa autorità nei confronti delle maîtresse dei casini e riusciva a farci passare. ‘Pistolone’ in aula, però, era la nostra vittima, perché sui banchi di scuola era sempre davanti a noi, ed era a lui che pisciavamo in tasca, dopo di che Federico gli diceva: “ti ho messo una bella caricatura in tasca…” Perché devi sapere che Federico disegnava caricature in continuazione, in classe non faceva nient’altro… non so come abbia fatto ad essere promosso?! O forse lo so: era un ragazzo di un’intelligenza superiore… sapeva scrivere, ma soprattutto, ti ripeto, sapeva disegnare!! I professori erano tutti affascinati dai suoi bozzetti! Come facevi ad essere severo con un ragazzo così… lui ritraeva tutti gli insegnanti, magari in gruppo, vestiti da bersaglieri alla presa di Porta Pia. Una volta nel casino venne anche Federico, con Pistolone: la nostra intenzione era quella di curiosare… io poi sono finito in camera con una cicciona vestita da marinaretto senza combinare nulla, c’era solo da ridere… o da piangere; anche a Federico successe qualcosa di simile… Allora c’era solo la masturbazione, e tante aspirazioni per il futuro… Qui a Rimini Federico aveva la Bianchina, che era l’amore innocente… ma la mamma di Federico donna severa, imponente e bigotta, non scherzava neppure su queste cose… A me, la Signora Ida, la madre di Federico, faceva una certa soggezione… e non dimenticherò mai quando mi sorprese, in quel pomeriggio, a casa sua, ad emettere rumori ed odori sconvenienti! Federico, con il quale stavo studiando, non resisteva più agli esiti della mia crisi intestinale e mi invitò decisamente: “Titta, ho paura di morire soffocato; se proprio non ne puoi più metti il culo fuori dalla finestra. Falle, ma di fuori!” Ma la finestra, ahimé, dava sul terrazzo di casa Fellini, ed io fui pescato in flagrante dalla Signora Ida: “Bravo, bravo Gigetto! Bel rispetto per la casa 44 altrui!”, e Federico in mia difesa: “Mamma, Titta stava poco bene… gli faceva male la pancia” “Vorrei vedere cosa direbbe mamma sua se tu andassi a casa Benzi a fare certe cose!?” “Mamma io non le faccio le scoregge… le fa Titta”. Rosso come un gambero, evitai la casa dell’amico per una decina di giorni». Quando hai visto per la prima volta I vitelloni, hai capito subito che parlava di Rimini, di voi? «Beh, per forza, ci sono, tra l’altro, degli episodi che mi riguardano direttamente! Ad esempio, la scena in cui Alberto Sordi grida “Lavoratori! Tò!”, facendo seguire un pernacchio, era parte integrante del nostro repertorio: anche se la cosa in realtà accadde in maniera diversa; intanto stavamo andando in due su di una bicicletta, e non in automobile: Federico sul mio cannone, con il grammofono di Torsani in braccio, eravamo diretti alla ‘Carletta’, la villa-castello di proprietà della famiglia Montanari. Ai bordi della strada, che porta a Covignano, nei campi e negli orti, piegati sulla terra lavoravano alcuni contadini… È lì che avvenne il ‘misfatto’! La ‘Carletta’, il castelluccio di campagna della famiglia Montanari, per noi era il non plus ultra dell’aristocrazia e dell’eleganza: lì portavamo le ragazze, in prevalenza sartine; organizzavamo festicciuole in cui poter ballare, divertirci, o fare delle finte sedute spiritiche… per i ‘pataca’ che ci credevano. Era soprattutto l’epoca dei primi bacini, e sul grammofono girava in continuazione il disco del momento: Star dust.» Federico già si distingueva, tra i ragazzi riminesi, anche per quel suo modo di fare: se ne stava per conto suo, era già considerato un’artista fra i giovanissimi, alto, elegante, un 45 bel ragazzo… «E poi, Fellini leggeva molto, in particolare i gialli di Edgard Wallace, al punto tale che affibbiò a ciascuno di noi il nome di un personaggio preso da quei libri: io che ero una spaccaporte, un bastonatore, divenni Tony Thomas, Mario Montanari - il più elegante tra di noi - il conte Jimmy Poltavo e lui, Federico, si autonominò colonnello Black Dan Bondery. Fellini sarebbe potuto diventare un grande pittore… o forse lo è !? Io avevo tanti suoi disegni, ma purtroppo me li ha distrutti la guerra e per me è stato un gran dolore: la nostra casa di via Roma è stata sventrata e scoperchiata.» E della nostra campagna cosa pensava? «Lui amava la nostra campagna: e negli ultimi tempi quando veniva in giro con me, fino all’estate ’92, mi diceva “andiamo a fare un giro in campagna… perché vedi, la nostra campagna è ubertosa, è accogliente, voi mettere le siepi nostre con quelle di Viterbo: da quelle parti lì t’aspetti sempre che dietro che ci sia uno con l’archibugio che t’ammazza!” Quando l’ho portato, tra le nostre colline, a visitare Villa Mattioli - ristrutturata recentemente dalla Fondazione Cassa di Risparmio - lui rimase estasiato. Entrò dentro. C’erano le donne della Fondazione che pulivano le sale, davano lo straccio al pavimento, ed una alzando gli occhi meravigliata disse: “Ciò u ié Fellini, c’è Fellini!?” Si sono alzate in piedi e, dopo essersi asciugate, hanno dato la mano al grande regista, e lui ha non ha voluto essere da meno: “Brave, brave, ho visto che lavorate bene… perché dovete sapere che questa mattina ho comprato la Villa!”» 46 Rimini ispiratrice e casinara Intervista a Gianfranco Angelucci E adesso, gradito ospite, se la cosa ti fa piacere, facciamo un passo in avanti: entriamo con Gianfranco Angelucci - grazie all’intervista che ci ha concesso - nelle ‘viscere’ del rapporto Fellini-Rimini e nella travagliata esistenza della costituenda Fondazione Fellini, che la nostra città cerca affannosamente di realizzare. La famiglia del regista lo aveva chiamato, nel 1997, a dirigere questo organismo, il quale, però, nel 2000 è già entrato in crisi. Angelucci, da studente universitario, aveva conosciuto Fellini nel 1969: stava preparando la tesi proprio sulla sua opera, a partire dal film Satyricon. E, da allora in poi, collaborò sempre con il regista, diventandone amico. Ha curato, per lui ed insieme a lui, la pubblicazione di numerose sceneggiature, volumi fotografici e tanti altri scritti. Ha esordito nella narrativa con L’amore in Corpo e recentemente ha pubblicato il romanzo Federico F., dedicato agli ultimi mesi di vita del grande regista (un libro coraggioso e ‘scandaloso’… ma di questo ne parleremo in un prossimo capitolo). Ha diretto, come regista, importanti produzioni, fra cui Fellini nel cestino (la presentazione di importantissimi brani tagliati ed inediti) e I protagonisti di Fellini (RCS Home Video). Ha firmato assieme a Fellini la sceneggiatura di Intervista (1987). Ed ecco una testimonianza indispensabile, autorevole ed affettuosa: quella dell’ultimo grande collaboratore di 47 Federico Fellini, che risponde con impegno alla mie domande e alle mie provocazioni. Caro Gianfranco, ti ringrazio per la disponibilità; e passo subito alle domande che mi premono. Mi viene subito da chiederti: Fellini come ti parlava della sua città? qual era il suo disagio nei confronti di Rimini? che cosa gli dava fastidio e cosa apprezzava di più? La famosa lettera al Sindaco Chicchi può considerarsi una sorta di testamento, relativamente al patrimonio dei suoi rapporti con la città? «Fellini tornava di rado a Rimini e, qualcuno aggiungeva anche, ‘di malavoglia’. Utilizzando l’avverbio con stizza, alla stregua di uno scappellotto o di una ruvida carezza, un rimprovero venato di sorriso. Certo, in molti sapevano di certe incursioni notturne di Federico, al riparo da ogni pubblicità; la storia dei sassi che gettava contro le imposte di Titta, l’avvocato Luigi Benzi, penalista di grido ma per lui rimasto sempre e soltanto ‘il Grosso’, il quale, a qualsiasi ora, scendeva in strada e gli si metteva al fianco per una passeggiata solitaria verso la ‘palata’, il porto canale, a raccontarsi fantasmi di vita fra spruzzi di salsedine. Mi è sempre parso che fosse giusto così, e che l’atteggiamento schivo, riservato, sfuggente di Federico nei confronti della propria città, rispondesse non soltanto al suo carattere altrettanto affabile che chiuso, da Capricorno nato sotto il plumbeo Saturno, ma anche alla sua profonda, autentica aristocraticità, di chi non sopporta la volgarità che c’è sempre nel mettersi in mostra, nel pretendere il plauso, l’ossequio, l’ammirazione. Gli intellettuali della ‘diaspora’ hanno sempre sofferto intimamente di questa ferita, apertasi nel momento stesso in cui venivano voltate le spalle alle mura del 48 borgo che pure, per tutti gli altri, costituivano protezione e conforto. Un giorno, come Moraldo ne I Vitelloni, qualcuno ha preso il treno, con un piccolo Guido nel cuore, ed è partito senza dare nell’occhio. Ha cercato quel varco nelle mura, perché gli sembrava di non avere altra scelta, ha interrotto il cerchio magico e si è fatto forestiero. Un tradimento senza colpa, di cui pure si porta dentro una traccia indelebile. Tenendo vivo il rapporto, ciascuno a suo modo, con il proprio personale amico Titta - chi non ne possiede! - il quale ha continuato a volergli bene e a ragguagliarlo sornione con le notizie della tribù; nei confronti degli altri viene alimentato – e volentieri ricambiato - il giudizio di diversità. Infatti non fa poi molta differenza la riuscita o il fallimento dell’avventura intrapresa; la savana lascia addosso un altro odore ed è quello che avvertono i Fausto, i Riccardo, gli Alberto, i Leopoldo, restati al riparo delle mura, storcendo il naso, sia pure con il cappello in mano, quando l’ossequio è inevitabile. Così tutti più o meno abbiamo pensato che inseguendo i suoi sogni Fellini si fosse dimenticato di Rimini. Lo credevo anch’io, prendendo per note di colore la ricerca improbabile che Federico faceva in ristoranti romani o toscani, del cascione con le erbe, e della piadina, che mai sarebbe stata neppure paragonabile a quella di Maddalena, sua sorella, erede riconosciuta delle alchimie materne. Sembravano schegge di tenerezza, scivolate sui sentimenti. Trasalimenti del palato. Credevo. E poi invece accadde qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. Nel 1993, dopo aver ritirato a Los Angeles il suo quinto Oscar, questa volta alla carriera, Federico dovette correre in Svizzera, per operarsi d’urgenza di un pericoloso aneurisma all’arteria femorale. Un intervento non poi 49 così complicato, che pure si rivelò insidioso oltre ogni previsione. Il chirurgo elvetico ci scherzò sopra: “Un’operazione raccontata da Fellini”, recitò spiritosamente ai giornali per spiegarne le debordanti conseguenze cliniche, ma anche per esorcizzare le possibili degenerazioni. Invece Fellini non si riprese più; la lunga degenza in Svizzera lo intristì, lo rese insofferente, voleva tornare in Italia anche contro il parere medico, senza rispettare i tempi imposti per la convalescenza. Ero sicuro che intendesse venire a Roma, a cercare quella salute propiziata dall’ambiente, dal lavoro, dai contatti, dai collaboratori, dai riti confortanti della sua città ‘reale’. Mi sbagliavo. Lasciata Zurigo Federico volle rientrare a Rimini, concludere il suo difficile percorso nell’appartamento al Grand Hotel, la suite, di cui andava così fiero da quando il commendator Arpesella, dopo il successo mondiale di Amarcord, l’aveva messo a sua disposizione ‘vita natural durante’, come si fa con un califfo, un principe regnante. E quando, al Grand Hotel, fu colpito dall’ictus cerebrale che lo semiparalizzò e fu ricoverato all’Ospedale Infermi, la prima cosa che mi disse appena lo raggiunsi, e lo trovai coccolato dalle tante infermiere che gli svolazzavano intorno allegre e ciarliere, è stata: “Ma lo senti come parlano? Lo senti il suono di queste voci? Capisci adesso perché sono tornato qui?” Aveva scelto la melodia dell’infanzia, il canto segreto della sua amatissima città, per rientrare nel grembo e, oggi sappiamo, nell’universo, nell’assoluto dell’esistenza. Il rapporto di Federico con Rimini era dunque radicato nel ricordo – un ricordo che poteva risalire anche soltanto al giorno precedente, all’ultima sortita, sia chiaro - più complesso di tutte le schematizzazioni e le semplificazioni, difficilmente riconducibile a formule, e assai meno prevedibile di ogni illazione appollaiata sulla sensatezza. 50 Federico Fellini, sismografo biologico, era troppo sensibile, troppo vulnerabile per sottoporsi al reducismo di chiassose rimpatriate. Rimini preferiva portarsela dentro, in cento modi diversi, forse in mille; prima di tutto raccontandola nel suo cinema così come fioriva dalla propria invenzione: una dolcezza remota e presente assieme, uno smarrimento prezioso, una “sottrazione” imposta da un destino irrefutabile diventata, per questo, motore dell’esistenza. Se qualcuno ha mai subito o inflitto un abbandono d’amore, saprà quel che dico. Rimini aleggiava anche fra lui e me – che non sono di Rimini ma la terra di provenienza è assimilabile – fin da quando laureando in lettere con una tesi dedicata al Satyricon, lo incontrai per la prima volta a Roma, col batticuore, e mi invitò al ristorante dell’Hotel Plaza a pranzare con un fumante piatto di tortellini (“li fanno buoni, quasi come da noi!”); ma oltre ai tortellini in brodo Rimini era anche le telline aperte in padella – sautè – servite in tavola dentro profumate fiamminghe nelle trattorie di Fiumicino o di Fregene, Rimini era il lungomare di Ostia, raggiunto in macchina dalla Cristoforo Colombo ad ogni buona occasione, giorno o notte, pioggia o vento; era il ristorante la Vecchia Pineta, costruito a tolda di nave, con le onde che si infrangono quasi contro le vetrate, era la spianata di cemento che costeggia il lido, diventata poi la passeggiata estiva di Amarcord, era persino la spiaggia, non importa se nera e di grana spessa e ferrosa. In quella sabbia affonda i piedi Gambon, il bagnino guascone della riviera romagnola – anche lui fasullo, reclutato a Pesaro, – infaticabile appagatore di femmine, preferibilmente straniere (“Ogni giorno dovevo punirne anche sei di seguito, nei capanni, in acqua, sul moscone, dove capitava; quando la donna ha bisogno ha bisogno, te lo fa capire... Da cosa? Ma dall’occhio, le viene l’occhio bagarein, l’occhio bagarino.”). 51 Qualcuno se ne ricorderà, era uno speciale televisivo girato durante la preparazione di Casanova, e si intitolava Casanova Rendez Vous con Federico Fellini. La mia prima regia cinematografica all’ombra del Maestro. Ma Rimini era anche Tonino Guerra, santarcangiolese, che custodiva caparbio la lingua e la poesia dell’infanzia; o meglio la ‘poescia’ come ripeteva canzonandolo Fellini che su Sant’Arcangelo, località fuori dal mondo civile, dispersa nella foresta vergine, aveva disegnato la feroce, esilarante vignetta in stile coloniale, con la colonna di negri che appoggiano a terra i fagotti sotto il cartello a freccia Km 10 e la guida che spiega: “I portatori si rifiutano di proseguire”. Rimini era anche Sergio Zavoli, peraltro ravennate, con la sua voce vellutata come bruma di mare, al quale i provvidi, fedeli amici romagnoli inviano regolarmente lo squacquerone fresco – e dove trovarlo altrimenti sui colli romani? - con la prima macchina di passaggio. Rimini, dicevo, era il cascione con la verdura, incongruamente preteso nei ristoranti romani o toscani da compiacenti cuciniere; Rimini era la fotografia del babbo Urbano, sorridente nella cornice d’argento sullo scaffale, apparsa quasi all’improvviso ai miei occhi fra i numi tutelari a cui si chiede consiglio, sempre più spesso, man mano che gli anni si sgranano dietro le spalle. E poi l’amico Titta che gli riservava folate di vento marino, ancora saporoso di scuola, e aveva voluto che un figlio si chiamasse Federico. Rimini era la mamma Ida, romana, che viveva nella palazzina vicino alla stazione e non sapeva nascondere la sua delusione per quel figlio stravagante che non aveva voluto diventare avvocato. Rimini era Gambettola e la fattoria della nonna Francesca, la resdora con la faccia bruciata dal sole come Toro Seduto. Rimini non era, non è, la retorica di Rimini, quella che in troppi sono pronti ad invocare o avrebbero tanto gra52 Federico e il mare. «Federico ha sempre amato il mare, ma gli ha fatto tanta di quella paura! Noi ci buttavamo in mare, al largo, e quando lui veniva a saperlo ci diceva “ma siete matti?! E se c'è un pescione che vi mangia?!”» è sempre Titta che racconta. La 'palata', anni '70, in una foto di Romano Sanchini. dito con campanilistica autoindulgenza. Rimini sono i bagnanti che si tuffano dai trampolini (inesistenti ormai da decenni) e all’annuncio degli altoparlanti che Fellini è dichiarato fuori pericolo dai medici dell’Ospedale Infermi, per la felicità rimangono sospesi a mezz’aria(come Federico descrive nella lettera di congedo ai suoi concittadini indirizzata uno per tutti al Sindaco della città). Rimini è oggi la stele funebre di Arnaldo Pomodoro al cimitero, brillante di ottone in forma di prua di nave spaccata verticalmente, aperta dall’alto in basso, che in tanti reclamano di spostare sulla spianata del porto, di fronte al mare vero, fra la popolazione viva, i pescatori, i turisti, i pescherecci che rientrano all’alba, il ronzio delle biciclette, i gabbiani, e quella voce di vento, indecifrabile, che è entrato a far parte del tessuto sonoro di tanti film di Fellini, forse di tutti. Nel corso delle lunghe sedute di missaggio arrivava sempre il momento in cui Federico chiedeva quel nastrino che i rumoristi conoscevano bene e tenevano pronto ad “anello” con la scritta “vento Fellini”. “Qui ci vorrebbe un po’ di vento...” mormorava Federico e nell’inquadratura prendeva a sibilare debolmente quel soffio particolare che qualche attento esegeta sosteneva alludesse al Soprannaturale, fosse il simbolo stesso della Grazia. Rimini è tutti coloro che non sono partiti. Nel gruppo degli amici – vogliamo ricordare ancora una volta il film I Vitelloni? – è solo Moraldo che parte, salendo sul treno all’alba, quando tutti dormono nelle sicurezza ovattata delle proprie case. E il piccolo ferroviere Guido, creatura fatata presa in prestito al grande Charlot, corre a fianco del finestrino domandando: “Moraldo, ma perché parti? Cosa c’è a Roma?” Già. Cosa c’è a Roma? Credo che a questa domanda Fellini abbia cercato di rispondere in quasi tutti i suoi 54 film, compreso quello specificamente dedicato alla Capitale, col nome nel titolo (Roma, 1972). Ma anche ne La Dolce Vita, in 8 1/2, nei Clown, in Casanova, nella Voce della Luna. Le vera risposta va cercata in quelle storie divenute immortali. Non l’ha sempre detto per primo Federico? “Guardate i miei film.” Cosa potrebbe essere più illuminante di quel suo magico caleidoscopio che ci regala visioni irripetibili, sogni di celluloide?» Caro Angelucci, nel novembre del ’93, noi di ‘Chiamami Città’ (periodico riminese, diffuso capillarmente, ‘porta a porta’, fin dal 1988) partecipammo commossi ed emozionati al funerale del nostro grande e al dibattito che seguì. Nel primo numero di novembre il nostro giornale si apriva con questo titolo: Un’eredità più grande della nostra città. Ma, visto che ci siamo, voglio anche riportarti l’articoletto di fondo che apparve sotto quel titolo: A mezzogiorno di domenica 31 ottobre il più grande tra i registi italiani ci ha lasciato per sempre. Ma definirlo soltanto un regista ci sembra un po’ riduttivo: tutti hanno ben presente, oltre ai capolavori cinematografici, la multiformità del suo genio; i suoi scritti, i suoi disegni, le interviste che ha concesso - in definitiva, il suo talento e la sua arguzia - trovavano un po’ troppo stretto persino lo sterminato mondo del cinema. Farà bene, quindi, la nostra città a dar vita ad un Centro che raccolga per i posteri - non solo italiani - questa poderosa e poliforme eredità di idee, poesia, intuizione… Si sa che Fellini ha lasciato un tesoro di disegni ed un repertorio onirico la descrizione dei suoi sogni - che rappresenta da solo un motivo straordinario per allestire una grande istituzione dedicata a lui. Senza contare gli scritti, gli appunti, l’infinito materiale che - nelle notti insonni - raccoglieva, seguendo sempre le sue curiosità creative e mai l’esaltazione del proprio personag55 gio. Per questo il materiale presente nei vari studi di Fellini - e nella sua casa romana di via Margutta 110 - è tutto proiettato verso l’avvenire. Su questo obiettivo Rimini si gioca la possibilità di riconquistare una credibilità in declino, con un istituto del cinema ed una Fondazione Fellini cui potrebbe convergere tutto il mondo. In questa direzione “Chiamami Città” non mancherà di fare la sua parte fino in fondo. Nel numero successivo, sotto una foto che riproduceva Piazza Cavour durante le onoranze funebri, stracolma di riminesi, rincarammo la dose scrivendo: Una giornata che è già entrata a pieno titolo nella storia della nostra città. Rimini l’ha giurato in piazza: realizzerà la Fondazione dedicata al grande regista, ricostruirà il Teatro, si impegnerà nella propria rinascita culturale… Come vedi, avevamo già intuito - mettendo continuamente le mani avanti - quello che sarebbe accaduto. Non eravamo stati facili profeti… era soltanto che conoscevamo dall’interno la nostra città. Sapevamo quanto poco fosse laica e quanto - per le sue dimensioni - si sarebbe dimostrata ‘gelosetta’ e un po’ meschina. Ora, con la crisi della costituenda Fondazione Fellini, è successo, purtroppo, quello che doveva succedere. Gianfranco, vedi tu quello che puoi fare: tutte le tue ricostruzioni e riflessioni sono cosa gradita; come pure sarebbe utile, per i lettori, capire che cosa si può trovare a Rimini, sull’argomento, nonostante tutto: i preziosi materiali della Fondazione dove sono adesso? Cosa si potrà prendere in visione nell’attuale Associazione, quella diretta da Vittorio Boarini, e quanto si potrà consultare nella casa di Maddalena Fellini, la sorella. «L’intervento di ‘Chiamami città’ mi pare, a posteriori, esemplare. Un’unica, doverosa, puntualizzazione: 56 forse non è esatto affermare che Federico sia stato una eredità troppo grande per la città, lo è stato casomai per la sua classe dirigente – politica e culturale – inadatta e insufficiente. Amministratori complessivamente privi di un progetto culturale capace di interpretare una figura artistica delle dimensioni di Fellini, di sviluppare cioè una visione di insieme che superasse le logiche puramente strumentali all’esercizio del potere e fosse in grado di accogliere e comprendere l’immenso beneficio pubblico che la fortunata coincidenza della nascita di Federico a Rimini avrebbe potuto riversare sull’intera comunità. Mi dicevano gli amici americani: se una tale fortuna fosse capitata a noi avremmo cambiato persino nome alla città, Rimini si sarebbe chiamata Fellini. Ma qui si entrerebbe in una disanima troppo lunga e certamente fuori luogo – per una guida turistica. Per far capire però il divario esistente fra l’eredità morale di Fellini e la nomenclatura cittadina, è sufficiente un solo esempio. Quando ero direttore della Fondazione Fellini, in seguito alla presentazione dei nostri programmi di acquisizione, l’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna aveva deliberato lo stanziamento di seicentosessanta milioni, a petto di un eguale esborso da parte dei soci dell’associazione, così come previsto dalla legge. Di fronte a un tale impegno finanziario il Comune rispose positivamente, alcuni altri soci nicchiarono in attesa di sviluppi, la Provincia di Rimini si rese disponibile per una semplice anticipazione della propria quota societaria annuale, la Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, nella figura del suo Presidente, rispose chiaro e tondo, testualmente: “La Fondazione Fellini non rientra nei nostri programmi culturali”. E chiuse la partita. Per non perdere il finanziamento regionale, l’allora sindaco Giuseppe Chicchi escogitò l’espediente di un 57 prestito garantito dal Comune, e l’operazione poté essere varata. Ma lo scenario che mi si presentò non era certamente quello che mi sarei aspettato, quando, nel gennaio del 1997, M. Maddalena Fellini e il primo cittadino in carica mi chiamarono alla direzione dell’allora Associazione Culturale Federico Fellini, istituita nel maggio del 1995 e rimasta per due anni praticamente inattiva. Avevo immaginato - avevo sognato - che fosse in atto a Rimini un reale processo di cambiamento e che fosse finalmente possibile costruire non un monumento funebre da esibire al cimitero, ma un monumento di vita per la vita stessa della città. Avevo fantasticato ingenuamente che gli amministratori locali avessero in animo di dare il via a ciò che la città, l’intera nazione chiedeva, un vero polmone di cultura, un Beauburg alla francese, un fervoroso centro multimediale dedicato a Federico Fellini, in cui trovassero sede un museo, un archivio organizzato, una biblioteca, una videoteca, una sala da proiezione, e tutte quelle infrastrutture capaci di costituire un richiamo soprattutto per la popolazione giovanile, aggregare forze fresche, pulsanti, intorno a quel genio della creatività che aveva saputo con la sua opera trasformare il destino di milioni di persone, raggiungere i confini della Terra, di qualsiasi lingua e latitudine, catapultare l’Italia sul palcoscenico del Mondo. Avevo sperato che a Rimini, un’amministrazione verosimilmente di sinistra, avrebbe cercato di dare un segno di fiducia, di entusiasmo, di spinta ideale, avrebbe impegnato tutte le proprie forze per proporre un nuovo corso, un cambiamento di rotta, offrire ai ragazzi altri tragitti che non fossero quelli della sistematica mattanza del sabato sera, della corsa in branco verso le cattedrali del vuoto, dell’istupidimento collettivo, nel decerebramento della droga imposti dalla macchina infernale dell’affari58 smo sfrenato e irresponsabile, dal tritacarne del divertimentificio. La gioia della creatività non è inferiore né meno allettante della voluttà distruttiva. Basta, a volte, farla assaporare. Avevo visto a Wolfsburg, in Germania, portandovi una mostra di Fellini, un bellissimo centro culturale, un gigantesco mall, splendido anche architettonicamente, popolatissimo da giovani che lo avevano eletto a naturale luogo di raduno, fra una gigantesca rassegna di Andy Wharol ed altre mostre di pittura. I ragazzi si aggiravano fra sale espositive e sale di lettura, fra proiezioni video e caffetteria, nel divertente book shop ricco delle più fantasiose proposte di merchandising, di memorabilia, di gadget, dove la proposta culturale viene rivissuta anche nel suo aspetto ludico e immaginifico. Avevo visto coppiette abbracciarsi ai tavolini, davanti al cappuccino o alla coca cola, fra cataloghi d’arte, libri e riviste, scambiarsi animatamente impressioni sull’avventura intellettuale che stavano vivendo, sentendosi protagonisti di quell’emozione unica che sorge prepotentemente da dentro a contatto di ogni nuova scoperta emotiva che passa attraverso la creatività. Avevo ingenuamente, da inguaribile sognatore – ma è possibile combinare qualcosa senza un sogno? - pensato che a Rimini si potesse, si volesse, realizzare un contenitore simile, un progetto nobile, una sfida ardita che il nome di Fellini giustificava ampiamente e che sarebbe servita di esempio all’intero Paese. Non era forse l’Emilia Romagna la punta più avanzata secondo l’opinione comunemente diffusa? Non era Fellini l’artista italiano più grande e popolare del Novecento, l’unico campione del nostro Paese iscritto dalla BBC inglese nella centuria dei personaggi mondiali da affidare alla cura e al ricordo del nuovo millennio? Ero certo che uno spazio prestigioso dedicato a Fellini, organizzato per accogliere il più gran numero di 59 memorie, documenti, reperti, studi, potesse diventare davvero un punto di riferimento mondiale, e che dall’archiviazione, dalle tesi, dai convegni, dalle pubblicazioni, dalla diffusione di una Newsletter felliniana in corso d’opera, dai progetti espositivi, dai programmi di recupero avviati insieme alla RAI, agli archivi ministeriali, alla SIAE, dalla pubblicazione dell’Opera Omnia di Fellini in venti e più volumi concordata con l’Archivio Centrale dello Stato, con il sistematico restauro dei film da riproporre nei festival e in eventi appositamente costruiti, il sogno si sarebbe davvero avverato. Non era un’utopia. Per la celebrazione dei 40 anni della Dolce Vita avevo visto con i miei occhi travasarsi più di 5000 persone nella centrale Piazza Cavour di Rimini, in gran parte giovani che per la prima volta avevano l’opportunità di vedere il film su uno schermo regolare (in quel caso addirittura gigante) e che si erano abbarbicati fin sopra le arcate dell’Arengario. Migliaia di richieste di ogni tipo giungevano sul sito Internet da tutte le parti del mondo; innumerevoli iniziative si prendevano quasi quotidianamente attorno all’opera di Federico, a lui venivano intestate per la prima volta Scuole Pubbliche, le tesi di laurea si moltiplicavano, le richieste di mostre, esposizioni, rassegne erano continue. Con l’Istituto di Patologia del Libro di Roma si era stabilita una stretta intesa per il restauro e l’ordinamento sistematico di tutta l’opera grafica, ed erano stati avviati contatti con gli archivi privati fuori d’Italia con cui procedere ad operazioni di scambio e di reciproco arricchimento, parlo della Lilly Library dell’Indiana University, della Diogenes Verlag di Zurigo. Erano state impostate e in parte concluse le trattative con gli eredi Fellini-Masina per l’acquisizione del ‘Libro dei Sogni’, il più segreto e sensazionale lascito felliniano, chiuso, dal giorno della sua morte, anzi della morte di 60 La prima volta. La prima visita ufficiale, anzi semi-ufficiale, di Fellini a Rimini. Siamo agli inizi degli anni '60, e l'Azienda di Soggiorno ha deciso di premiare il famoso concittadino con un ‘Sigismondo d'oro’. Fellini, dopo le solite titubanze, aderirà all'invito: soltanto perché l'amico Titta lo assicurò che si trattava di una rimpatriata, di una cena fra vecchi amici. Infatti tutto si svolse a tavola, nella mitica "Grotta Rossa" di quegli anni. Ed ecco la foto di gruppo, nel dopocena. Da sinistra: il presidente dell'Azienda di Soggiorno, Luciano Gorini, con signora, il preside Arduino Olivieri (seminascosto), il prof. Sega (in alto), la sorella e la madre di Fellini, le signore Maddalena ed Ida, tra loro Nicola D'Ambrosio, Federico Fellini, sopra di lui il Conte Gumberto Zavagli, Glauco Cosmi, Mini Torsani, Nevio Matteini; inginocchiati, da sinistra: Luigino Dolci, Mario Montanari, Titta Benzi e lo scultore Elio Morri. (Foto Davide Minghini) Giulietta, nel caveau di una banca a serio rischio di deterioramento e di perdita irreparabile. Il programma di manifestazioni e di Premi Internazionali nel nome di Fellini avrebbero donato a Rimini e quindi alla nostra Nazione una ribalta planetaria, per eventi che avrebbero potuto competere con lo stesso Nobel o con l’Oscar, e sul piano operativo si stava progettando un Master Internazionale di cinema aperto a tutti gli studenti d’Europa, con la partecipazione di docenti ingaggiati fra i Premi Oscar di ogni categoria artistica in simbiosi con le Università Americane; ne sarebbe seguita una produzione di ipertesti e CD Rom, saggi d’accademia, programmi sperimentali con cui costituire una library preziosa di documentazione, di studio e persino di prodotti commercializzabili. Era in corso una serie di accordi per la riedizione di tutte le colonne sonore scritte da Nino Rota insieme a Fellini, un primo expertise era già stato eseguito da due maestri della Scala sulle carte di pertinenza della Fondazione, e case musicali internazionali, direttori di orchestra del calibro di Gustav Kuhn si stavano accingendo a una rivisitazione di straordinaria modernità del repertorio rotiano. Tutte queste iniziative erano in grado di creare un Centro Studi e Comunicazione di enorme respiro, in cui impiegare e formare i giovani, avviarli a nuove professioni nell’ambito del lavoro culturale e artistico, dare vita a un laboratorio permanente di comunicazione che comprendesse tutti i settori artistici inerenti all’attività cinematografica. E per la parte conservativa altri nomi di registi, altri archivi, altre memorie avrebbero potuto confluire nel Centro Studi, donando all’Emilia-Romagna un serbatoio culturale senza precedenti. Insomma il traguardo consisteva nel trasformare Rimini in una cittadella felliniana della cultura. 62 Inoltre accanto all’impresa più scientifica e filologica, sarebbe sorto un museo turistico, all’interno nel nuovo parco tematico cinematografico progettato da ‘Italia in Miniatura’, dove le straordinarie scenografie di alcuni film felliniani sarebbero state ricostruite in un’ottica da set cinematografico, per comprendere dall’interno la magia, il trucco, il linguaggio specifico del cinema e far accostare alla figura di Fellini e quindi all’arte cinematografica anche il pubblico degli adolescenti, di studenti delle scuole, del turismo di massa, privo di una preparazione specialistica. Così come già succede in America nei musei o nei grandi stabilimenti degli Studios, come quelli della Universal visitati ogni giorno da migliaia di persone affamate di cinema. Tutto questo patrimonio di idee, di entusiasmo, di progetti, di realizzazioni, è stato spazzato via, ingoiato dalla logica di un potere politico autoreferenziale di cui la vera città, io credo, sta soltanto pagando le conseguenze. Mi chiedete quali siano i materiali riuniti in questi anni a Rimini. Tanti, davvero tanti. Fra quelli in dotazione alla ex Fondazione e quelli di proprietà della famiglia, a Rimini esiste oggi il giacimento felliniano più imponente del Globo. Posso qui ricordare, in un rapido resoconto, il tesoro della corona messo insieme nei miei tre anni di attività. Una cospicua raccolta di disegni – si arriva ormai a svariate centinaia - da aggiungere a quelli del cosiddetto Fondo Flaiano, acquisiti dalla vedova di Ennio, Rosetta, 80 reperti a penna biro su vergatina sottile tracciati in anni di non difficile collocazione. C’è il fondo Giacchero, circa 200, 250 disegni fra privati e cinematografici che coprono gran parte della car63 riera artistica del Maestro, fra il 1965 e il 1990: straordinarie tavole ‘dipinte’ su fogli extra strong in tecnica mista, dalla penna biro alla matita, dalla china al pennarello ad alcool, dal carboncino, alla matita grassa, ai pastelli: figure dense di colori, databili con molta precisione, che raccontano da vicino l’evoluzione del segno di Fellini, da filiforme e caricaturale, a pittorico ed espressionista. A ciò va aggiunta la dotazione cinematografica tipica di una segretaria di edizione, che svaria dai trattamenti, ai soggetti, dai copioni di scena, spesso annotati o con presenza di disegni, alle polaroid. Ci sono poi fondi provenienti dalla famiglia Geleng, pittori e scenografi che hanno lavorato accanto a Fellini per decenni. In essi sono presenti materiali assolutamente inediti relativi per esempio alla preparazione degli ultimi film progettati e interrotti a causa dalla morte: L’Attore, la Divina Commedia, Venezia... E, insieme, dipinti di scena, bozzetti preparatori, sketch illustrativi, abbozzi di story board. È stato poi acquisito il fondo di una signora molto vicina a Fellini, un patrimonio di disegni, lettere, messaggi, uno scrigno di biglietti personalissimi che segnano un tragitto raro e riservato nella vita privata del regista, accompagnati da un corredo di giornali, medaglie celebrative, libri con dedica degli scrittori più celebri del mondo. L’associazione possiede inoltre il risultato delle ricerche e dei convegni filologici, un corredo unico relativo agli anni a cavallo della guerra, riproposto nel primo e nel secondo Convegno di Studi attuati con la partecipazione dei massimi studiosi della materia e da prestigiosi testimoni del tempo. La totalità dei materiali appartenenti alla mostra ‘Il Mio Amico Pasqualino’, compresa la ristampa anastatica del volumetto eponimo firmato da Fellini in età molto 64 giovane (fino a quel momento sconosciuto e introvabile), l’intera collezione delle annate originali del ‘Marc’Aurelio’ con le collaborazioni di Fellini, i libri, le fotografie, le locandine, i giornali a fumetti, i periodici, del primo periodo romano dell’artista. Compresa una preziosa collezione di 24 acquarelli originali, a colori, di Attalo. E tutti i testi radiofonici e teatrali del periodo bellico e prebellico, di recente ritrovamento grazie all’alleanza operativa tra Fondazione, Teche Rai, Archivio Centrale dello Stato, SIAE. Gran parte del materiale illustrativo della grande mostra antologica del 1995 all’Eur (curata da Vincenzo Mollica e Lietta Tornabuoni), oltre agli oggetti di merchandising, giornali, fotografie, costumi, nastri magnetici, pellicole, compreso uno stock rilevante dei compendiosi cataloghi. Copioni di tutti i film, alcuni annotati, altri completi di indicazioni di ripresa, fascicoli dattiloscritti a parte in un secondo momento, manoscritti, disegni originali e in fotocopia. Locandine e manifesti in vario formato di tutti i film. L’intera documentazione della collezione Fellini-Rota, comprendente spartiti originali di prima mano, testi musicali stampati e fotocopiati, libretti, dischi in prima edizione. Tutti i materiali originali dell’ultimo set di Fellini, la realizzazione degli spot pubblicitari girati nel 1992 per la Banca di Roma, pubblicati in un libro illustrato di grosse dimensioni dal titolo Gli ultimi sogni di Fellini (due successive tirature da 2.000 copie ciascuna, e ancora acquistabile a 50.000 lire). Un’intera biblioteca specializzata nell’opera felliniana, con edizioni in varie lingue. L’archivio di immagini. La collezione di tutti i film in videocassetta, le antologie di testimonianze, le interviste di 65 Fellini, le riprese degli eventi, la produzione di medaglioni dedicati ai collaboratori tecnici e artistici del regista. La bibliografica completa e aggiornata – esclusa la stampa quotidiana e periodica – appositamente commissionata a un giovane ricercatore. Un’ampia documentazione di tesi di laurea (per le quali era stato istituito un premio apposito). Moltissimi scritti letterari, romanzi, saggi inediti sulla figura di Fellini, in attesa di pubblicazione. E per concludere, persino un abbozzo di museo postmoderno in cui si stavano raccogliendo tutte le opere d’arte, o presunte tali, dedicate al Maestro: ritratti, sculture, collage, opere pittoriche ispirate ai film. Ma tutto questo è poca cosa a confronto con il patrimonio di memorie conservato da M. Maddalena Fellini (già presidente della Fondazione, costretta a rassegnare la sua carica per insanabili dissidi con l’amministrazione cittadina) e Giorgio Fabbri, suo marito, infaticabile raccoglitore di reperti, anche i più impensabili e minuti, preziosissimi nella ricostruzione di itinerari creativi e produttivi. Maddalena possiede l’intera biblioteca di Casa Fellini (rilevata dall’appartamento di via Margutta, venduto subito dopo la morte di Federico e Giulietta insieme a mobili, arredi, e suppellettili). Del fondo familiare fanno parte alcune statuine dei Premi Oscar, e tutti gli altri premi, targhe, Grolle, David, e riconoscimenti ottenuti dai due artisti in 50 anni di carriera; immagini, fotografie, copioni, manoscritti, prove di scena, libretti di sala, campagne giornalistiche, libri collage di memorie, e tutti i faldoni ancora da consultare che appartenevano allo studio privato di Fellini. C’è persino il pianoforte verticale in legno chiaro su cui Nino Rota, con Federico seduto al suo fianco, componeva 66 la musica dei film. Insomma un repertorio museale e archivistico che sarebbe troppo lungo – e forse inutile – elencare. E che, come tutto il resto a cui abbiamo fino ad ora accennato, è lasciato inutilizzato e chiuso nelle casse. Perché tutto questo materiale che c’è a Rimini – il più stupefacente deposito del mondo – non conta nulla, finché non sarà ordinato, duplicato, restaurato, archiviato, riprodotto, esposto e messo a disposizione di studiosi, appassionati, studenti, semplice curiosi. Non bastano certo le promesse di una sede confacente, rinnovate puntualmente dall’amministrazione comunale ad ogni anno, o il progetto fantasma di dare ospitalità all’Associazione presso il ricostruendo palazzetto del Cinema Fulgor (due o tre stanzette previste da un progetto insufficiente e complessivamente asfittico). Non basta la generosità della famiglia che, sulle proprie forze, sta almanaccando di trasformare una parte dell’abitazione privata in un luogo espositivo e di accoglienza per i tanti appassionati che continuamente giungono a Rimini da ogni parte del mondo. È necessario, indispensabile, che attorno alla figura di Federico Fellini la città investa gran parte della propria credibilità civile e culturale; e cioè che si disponga subito un Museo Federico Fellini, centro di irradiazione culturale, multimediale, di forte attrazione per i giovani, in cui tutta la multiforme attività del regista trovi la propria collocazione e la giusta esaltazione. Purtroppo smembrando la Fondazione così come l’aveva concepita M. Maddalena Fellini, è stato disperso un incalcolabile patrimonio umano di conoscenza diretta di Fellini – Tullio Kezich, Vincenzo Mollica, Lietta Tornabuoni, Mario Longardi – in grado come pochi altri di costruire le fondamenta stesse dell’edificio, di contribuire alla sistemazione del materiale e all’avvio di uno studio sistematico da affidare concretamente alla cura 67 delle nuove generazioni. Si è perduto il passaggio del testimone e con esso il senso stesso dell’impresa; non saranno uomini per tutte le stagioni che poco o niente hanno a che vedere con la figura di Fellini a poter riprendere compiutamente le fila, organicamente estranei a quella fitta e complicata rete di relazioni interpersonali che conduce in concreto a una progressiva e costante crescita di acquisizioni, iniziative, consensi. Se gli amministratori di Rimini avessero avuto una pur vaga consapevolezza di ciò che stavano distruggendo, sono convinto che non sarebbe stata imboccata questa strada senza ritorno, sicuramente non voluta né condivisa dalla città». 68 L’illustre ammalato La testimonianza del Sindaco Chicchi «Incontrai Fellini per la prima volta nell’agosto del 1992, lo stesso anno in cui, nel mese di giugno, fui nominato Sindaco di Rimini. Al ritorno dalle ferie, Ermanno Neri, mio segretario, mi disse che al Grand Hotel era arrivato Federico Fellini e che una mia visita sarebbe stata opportuna. Sono sempre stato restio a questi incontri “formali”. Perché Fellini avrebbe dovuto interessarsi al nuovo Sindaco di Rimini? Perché disturbare la sua annuale vacanza a Rimini? Mi trattenevano due sentimenti diversi: la mia naturale timidezza e la conoscenza della grandezza di Fellini che derivava dal mio passato di frequentatore assiduo dei cineforum riminesi e di incallito cinefilo. All’incontro erano presenti anche Titta Benzi e Fabio Zavatta. Chiacchierammo per un paio di ore nel giardino del Grand Hotel, sorseggiando vino rosso. Trovai una persona di ineguagliabile gentilezza, molto curioso delle cose di Rimini, per nulla incline a parlare della sua opera. Mi colpirono soprattutto gli occhi che davano l’impressione di vedere cose che altri non vedevano e che esprimevano curiosità. Dopo quell’incontro sentii Fellini al telefono un paio di volte. Di quelle conversazioni che riguardavano un progetto di produzione di cui avevo parlato con Pierluigi Bersani, allora Presidente della Regione, su sollecitazione di Rosita Copioli, ricordo un sentimento di amarezza nei confronti del cinema italiano, come se si sentisse estraneo 69 e lontano, come se appartenesse ad un’altra epoca. E insisteva perché non lo chiamassi “maestro”, come a me veniva naturale di fare. Poi ci fu l’Oscar alla carriera, l’intervento chirurgico in Svizzera, la convalescenza al Grand Hotel nell’estate del ’93 e la malattia che lo colse ai primi di agosto. La notizia dell’ictus mi raggiunse durante una riunione di Giunta a Palazzo Garampi. Mi precipitai all’Ospedale e incontrai Fellini in un lettino del Pronto Soccorso. Mi fermai un istante ed ebbi solo il tempo di accarezzargli una mano e di dirgli: “Fellini, abbiamo bisogno di lei”. Una frase stupida che nelle mie intenzioni pretendeva di incoraggiarlo. Si posero subito problemi di gestione di un ammalato così noto in tutto il mondo, già giornalisti e fotografi cominciavano ad affollare le corsie dell’Ospedale, qualche foto fu ‘rubata’ durante il trasferimento nel reparto di Medicina, ma complessivamente si ottenne rispetto. Le cure poi, sotto la direzione del primario Angelo Corvetta, diedero buoni risultati e durante il mese di agosto le condizioni di Fellini migliorarono. In quei giorni successe qualcosa. I riminesi, così cinici e sospettosi, così poco inclini a riconoscere i meriti dei loro concittadini, scoprirono ed amarono Federico come non erano mai riusciti a fare... Forse per il clamore dei media, forse per senso di responsabilità, si sentirono partecipi di un’impresa collettiva a cui tutto il mondo guardava con apprensione, quella di ‘salvare la vita’ a Fellini. Egli avrebbe potuto essere, in quei giorni, a Zurigo come a Los Angeles. Quale oscuro significato simbolico aveva il fatto che Federico fosse venuto proprio nella sua città a cercare le risorse per guarire? Sappiamo tutti come andarono le cose in seguito. Ma credo che Federico abbia sentito l’affetto dei riminesi. Prima di partire per l’Ospedale di Ferrara dove doveva sottoporsi alle cure di fisioterapia, mi scrisse una lettera 70 Sull’ultima nave. Nella foto, la tomba-monumento che accoglie le spoglie di Federico Fellini (20.1.1920 - 31.10. 1993), Giulietta Masina (22.2.1921 - 23.3.1994) e del loro figlioletto Pierfederico (22.3.1945 - 2.4.1945), all'ingresso del cimitero di Rimini. La 'grande prua' di Arnaldo Pomodoro, voluta dall'amministrazione comunale, è rivolta verso la città; di bronzo lucentissimo, si specchia su di una lama d'acqua che lambisce la tomba. Nel quarto vialetto, sulla destra, la tomba di famiglia, con i genitori: Urbano Fellini (27.2.1894 - 31.5.1956) e Ida Barbiani (4.11.1896 - 27.9.1984). (Foto Barbara) per ringraziare, attraverso me, tutta Rimini. Nella lettera racconta di aver saputo che il Pubbliphono aveva dato in spiaggia la notizia dello scioglimento della prognosi e, prosegue dicendo: “Mi hanno raccontato di un turista che si era appena tuffato dal trampolino; alla notizia del mio miglioramento, si è fermato a mezz’aria per applaudire”. Una straordinaria immagine di fantasia felliniana.» 72 Palazzo Gambalunga In quel vecchio e prestigioso edificio, dove lui frequentò il Ginnasio, ora è possibile visionare tutti i suoi film, magari sul monitor di un computer Adesso andiamo a far la conoscenza diretta del Palazzo Gambalunga, importante per tanti aspetti: nella storia della nostra città, nella vita di Federico Fellini e come attuale centro di cultura. Lo trovi, caro visitatore, nel cuore del centro storico, nella via omonima, all’angolo di piazza Ferrari. Un palazzo del ’600, in cotto e pietra d’Istria. Lì Alessandro Gambalunga, il personaggio che lo fece costruire, fondò la prima biblioteca civica italiana. Fino a qualche decennio fa quell’importante istituzione - sopravvissuta allo scorrere rovinoso dei secoli occupava solo una parte dello stabile, assieme alla pinacoteca che era al piano terra. Il resto era occupato da istituti scolastici. Negli anni trenta Fellini vi frequentò il Ginnasio, che allora durava cinque anni. L’edificio è a due piani, più un ‘mezzanino’. Ed era proprio lassù - in quella stanzetta d’angolo del terzo piano, che si affaccia sulla piazza - che tutte le mattine si riuniva quella turbolenta scolaresca composta da Federico, Titta, Mario, Luigi… Non solo in Amarcord, ma anche in Roma (proprio a partire dalle prime sequenze), quel ricordo indelebile si trasforma in un racconto cinematografico travolgente. Il fatto che di sotto, in quella sede un po’ tetra, in quella specie di ‘antro’, ci fosse un’importante biblioteca, ricca di testi antichi, di classici e di libri stimolanti, ai gio73 vani studenti di allora diceva poco. Titta Benzi infatti ricorda come nessuno di loro vi abbia mai messo piede. Carlo Lucchesi, direttore della biblioteca dal 1929 al 1952, fu anche preside dello stesso Liceo che Fellini frequentò poi in palazzo Buonadrata, sul Corso d’Augusto. Oggi, il risorto palazzo Gambalunga ospita… la straordinaria avanzata della cultura nella nostra società! Tutto l’edificio, adesso, è destinato alla biblioteca e alle sue varie sezioni; a tutte le ore del giorno è pieno di gente che legge e studia, in prevalenza giovani universitari. «Vado alla Gambalunga», dicono i riminesi, perché così si chiama l’istituzione: Biblioteca Civica Gambalunga. Piena di sale, moderne e antiche, con libri e riviste ben esposti, a portata di mano, in una specie di ‘self service’ di grande civiltà e dignità culturale. Alcuni ambienti ripropongono fedelmente la biblioteca di qualche secolo fa, con le severe scansie di noce e coi dipinti, ma soprattutto con i codici, i fondi antichi di stampa e gli incunaboli; perfino con splendidi mappamondi del Seicento… E poi libri di ogni genere e di ogni epoca, comprese le novità appena sfornate dall’editororia. Il palazzo riserva ancora altre sorprese, come la Cineteca, l’archivio fotografico, la vastissima sezione dedicata ai periodici, i ‘fondi’ documentari, ecc. Come capirai, ce ne sono di cose da vedere e da consultare in quello straordinario palazzo… Ma prima di parlarti della cineteca, ascoltando le parole del suo responsabile, Miro Gori, voglio segnalarti qualcosa di particolare: l’imponente archivio di immagini frutto del lavoro di Davide Minghini, il fotografo riminese per eccellenza. Nato nel 1915 e scomparso nel 1987, Minghini è un coetaneo del nostro grande regista, e con lui ha realizzato numerosi servizi fotografici: ha contribuito con tante sue immagini al successo di quel libro 74 fondamentale che è La mia Rimini, ha svolto ricerche di volti caratteristici per il film Amarcord e sul set di Cinecittà ha realizzato diversi servizi. E nel ’73, a coronamento di questo suo lavoro, Rimini gli ha dedicato una mostra molto significativa: Minghini e l’Amarcord di Fellini. Tutto il suo archivio è lì, disponibile per chi voglia consultarlo. È uno strumento formidabile: la storia della vita pubblica riminese, per gran parte del Novecento. Fellini aveva stima e grande simpatia per questo uomo semplice e mite. Ma Minghini era, soprattutto, il solo fotografo dell’unico quotidiano della città: “Il Resto del Carlino”. Qualsiasi avvenimento importante, per essere tale, aveva bisogno del ‘crisma’ della sua presenza, e delle sue foto. Se non c’era Minghini, a volte non s’iniziava neppure. E la cosa straordinaria è che lui non snobbava nessuno. E, così, tutti si sentivano un po’ in paradiso, sicuri di una benevola notorietà. Quella era la nostra piccola città, e Davide Minghini, col suo volto così dolce e la macchina fotografica a tracolla, ne era il cantore. Fellini lo ha ritratto, sapientemente e affettuosamente, in una ‘caricatura’ che è già nella nostra storia. ‘Mingo’ poi si è rifatto dedicandogli, all’interno del ‘Fellini’s Day’ dell’83, la rassegna ‘Tatarcord’ (ti ricordi): un omaggio alla vita del regista. Ma le sorprese del Palazzo non finiscono qui: a curare l’archivio fotografico c’è la dottoressa Nadia Bizzocchi, che da sola vale più di tutta la montagna di immagini preziose che presiede. È giovane, ma è già penetrata nei segreti delle vicende cittadine del secolo scorso, con competenza e passione: sa collegare volti ed episodi di quell’imponente epopea, tutta in ‘bianco e nero’, come i capolavori felliniani degli anni Cinquanta. In Nadia si fondono, con grande equilibrio, femminilità e carriera. Sarebbe piaciuta anche a Fellini. Per rimanere in tema. 75 La Cineteca Ma veniamo alla Cineteca e al suo responsabile, che tu, caro ospite, puoi incontrare all’interno del Palazzo Gambalunga, proprio dove una volta - fino agli anni Cinquanta - era collocata la biblioteca. Appena superato il mastodontico portale, il primo ingresso a sinistra ti porta direttamente nella Cineteca e dal suo responsabile, Gianfranco Miro Gori. Un personaggio che merita attenzione per i suoi studi sul cinema; a cui non manca un certo potere - tra Rimini e San Mauro Pascoli -, che esercita con intelligenza e con sorniona comprensione; perché, devi sapere, Miro è nato e cresciuto a San Mauro, il paese di Giovanni Pascoli, e lì continua ad operare come amministratore comunale impegnato nelle attività culturali e come presidente di un importante consorzio per la promozione di quella realtà; mentre l’altro polo della sua esistenza è proprio Rimini, la città in cui egli ha creato la Cineteca: perché la sua passione è il cinema, ma anche la letteratura, la poesia in dialetto e la storia locale. Con lui si può parlare a 360 gradi della Romagna di ieri e di oggi, di Pascoli, di Fellini… E a presentarci la Cineteca, adesso, è proprio Miro Gori. «La Cineteca è sorta nel 1987, all’interno della Biblioteca comunale, nell’ambito dell’assessorato alla cultura del municipio di Rimini: nasce dall’idea di dar vita ad una istituzione cittadina che si occupasse di cinema a tutto campo, che lo conservasse, diffondendo la cultura cinematografica. Il suo primo nucleo documentario è costituito dalla ‘Biblioteca del Cineforum’: a Rimini il Cineforum fu, nel secondo dopoguerra, una delle più efficaci forme di organizzazione del pubblico e di diffusione della cultura cinematografica. Questa città, d’altra parte, è stata, sin dall’epoca del muto, una ‘terra di 76 Lassù, dietro quelle finestre d’angolo, l’aula di Federico. Palazzo Gambalunga visto da Piazza Ferrari. Qui ha sede l'istituzione culturale più antica e prestigiosa della città: la biblioteca civica. All'interno del palazzo, oltre all'Istituto storico della Resistenza, anche una importante Cineteca. All'ultimo piano, quella volta, c'era la sede del ginnasio, che Federico Fellini frequentò dal 1930 al '35. (Foto Barbara) cinema’. Siamo partiti, così, subito con la raccolta di pellicole, videocassette, libri e riviste di cinema, provenienti da tutto il mondo, colonne sonore e fotografie. A cui s’è aggiunta anche una buona collezione di manifesti. Particolare attenzione abbiamo posto pure nel reperimento dei filmati, delle pellicole che hanno un riferimento cittadino: le ‘cose’ girate a Rimini, da riminesi e non, che costituiscono l’immaginario audiovisivo riminese. Tra i lungometraggi conservati, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini e Amarcord di Federico Fellini (la copia restaurata); tra i cortometraggi, il documentario Rimini l’Ostenda d’Italia, dell’inizio degli anni ’10, nonché Riminilux di Paolo Rosa. Il primo è una specie di ‘incunabolo’ della Rimini turistica al momento del suo decollo. Realizzato, probabilmente da Luca Comerio, un pioniere del cinema in Italia, presenta, attraverso una serie di quadri, prima la città storica e poi i primordi della città dei bagni: Grand Hotel, spiaggia, mare, qualche turista… Non è azzardato pensare che questo film sia stato commissionato come ‘spot’ pubblicitario. D’altra parte i nessi tra cinema e turismo, entrambi si imponevano in quegli anni, almeno a Rimini, sono fatali. Ho cercato di documentarli - se posso citarmi - in un libretto pubblicato circa quindici anni fa da Maggioli, Il cinema arriva in Romagna. La cineteca ha provveduto al restauro del film che giaceva in una cantina di Ferrara. La copia originale ci è stata affidata da Costanza Cavicchi. Che desidero ringraziare. Il secondo è un film di montaggio realizzato con brani di film Luce girati sulla riviera romagnola. La regia è del riminese Paolo Rosa, oggi residente a Milano… Come è noto, la famiglia del duce passava le vacanze a Riccione, dove lui arrivava in idrovolante - almeno così ce lo mostra l’iconografia del regime -, magari dopo aver sostato al Grand Hotel di Rimini con Claretta Petacci. 78 Ma, al di là dell’aneddotica, è interessante notare come l’immagine ufficiale della riviera romagnola oscillasse tra le colonie (la politica sociale del regime) e i luoghi di puro e semplice divertimento… Tra parentesi aggiungerei che proprio in quegli anni Fellini, tra le altre cose, disegnava caricature di attori e turisti che poi rivendeva agli stessi. La cineteca ne ha acquistate un cospicuo gruppo affidandole poi all’associazione Fellini. I film conservati dalla cineteca si possono ‘consultare’ alla moviola oppure anche visionare in proiezione. Disponiamo infatti di una moviola e di proiettori cinematografici. Tutto ciò, però è piuttosto complicato. Le pellicole si possono rovinare facilmente, quindi se non ci sono copie di sicurezza la visione costituisce sempre un problema. Stampare copie di un film è un’operazione costosa. Per questo ci siamo orientati verso quella grande forma di ‘democrazia’ che è costituita dal videoregistratore e dalle videocassette - anche se ci rendiamo conto benissimo che vedere un film in video è tutt’altra cosa. Insomma abbiamo allestito una videoteca che è in continua crescita, sia dal punto di vista dei titoli, sia dal punto di vista delle attrezzature tecnologiche. Mi aveva sempre colpito, sin da quand’ero studente - dunque molti anni fa -, l’inacessibilità delle cineteche. Che, per altro, si fonda su ragioni - quelle che abbiamo detto sopra - non peregrine. Così, appena ne ho avuto l’occasione, ho cercato di mettere a disposizione di tutti, quanti più film possibili con la massima facilità di accesso. Non dimentichiamo che il cinema è un bene culturale assai importante, forse il più importante del ventesimo secolo. E così oggi siamo in grado di offrire agli utenti migliaia di film in videocassetta. Così come si può consultare un libro in biblioteca, allo stesso modo, gratuitamente, il pubblico può visionare - attraverso uno schermo - qualsiasi film in nostro possesso. 79 Sono a disposizione del pubblico tutti i film di Federico Fellini e gran parte dei filmati e dei programmi televisivi che lo riguardono (per esempio, conserviamo una straordinaria raccolta di ‘materiali’, brani di telegiornale e programmi di diverso genere, relativi alla morte di Fellini e trasmessi in quella data), si tratta, naturalmente, di videocassette. Disponiamo anche di alcune copie dei suoi film in pellicola (Amarcord, Satyricon, La città delle donne…), in questo caso, però, l’accesso - come abbiamo detto - è più complicato. E un panorama assai ampio di ciò che è stato pubblicato in Italia e all’estero sul regista. Gli orari di apertura al pubblico della Cineteca sono i seguenti: dalle 8.15 alle 13.15, dalle 15 alle 19 (chiusa il sabato pomeriggio e la domenica); in luglio e agosto, dalle 8 alle 13.» Anche a Gori chiediamo una sua opinione sul rapporto Fellini-Rimini. «In un periodo che va dagli anni ’50 agli anni ’70 un consistente numero di film, prevalentemente di Fellini, ma non solo, offrono una visibilità internazionale a Rimini. Ma quella rappresentata dal nostro regista è prevalentemente una città invernale. Ed è un aspetto curioso. A questo proposito Renzo Renzi ha proposto una suggestiva teoria, di sapore psicanalitico: Fellini non sa nuotare, proviene da una famiglia, da parte di padre, originaria di Gambettola; la gente di campagna conservava una paura atavica del mare, dal quale in passato, oltretutto, sopraggiungevano pirati a compiere tragiche scorrerie. E così, Fellini alla città del mare preferisce quella invernale, meno ignota, meno preoccupante. Nei sui film, a partire da Amarcord, le scene di spiaggia sono limitate, con una percezione del mare e dell’ambiente in senso negativo. Chi si aggira sull’arenile? La Volpina! C’è lei, la povera ninfomane, e nessun altro… A fare il bagno 80 non c’è anima viva, oppure qualche straniero…. come nella scena con la fugace apparizione di turisti tedeschi che si immergono, fuori stagione, all’inizio della primavera, in acque che agli indigeni sembravano non certo invitanti. Poi c’è l’apparizione del ‘Rex’, ma siamo sempre sul versante dell’ignoto e del favoloso, allo stesso tempo. Anche le sequenze finali, quelle del matrimonio della Gradisca, si svolgono su di una spiaggia periferica, tutta dune ed erbacce. La ‘marina’ si conferma come un luogo separato dalla città storica. Così pure nei Vitelloni non mancano gli episodi che confermano questa tesi: dal tentativo di adescamento omosessuale (la scena in cui il vecchio capocomico invita Leopoldo, di notte, nella bufera, a scendere in spiaggia) al finale drammatico, con la moglie di Fausto che pare si sia suicidata in mare… La sua sembra una spiaggia… da ‘caso Montesi’, la ragazza trovata morta a Torvaianica, sul bagnasciuga. Siamo, non a caso, nel ’53. In Fellini c’è il rifiuto del mare, a tutto vantaggio della rappresentazione di una città storica con forti legami con l’entroterra, in sostanza un borgo non molto distante dai ritmi della civiltà contadina. Ne è un esempio anche la prima parte di Roma, dove Fellini mette in scena una Rimini piantata nella campagna, con un incipit addirittura in puro e stretto dialetto romagnolo. In questo borgo, però, si recita il tema della ‘fuga’ dalla provincia (“A Roma! a Roma!” come il cechoviano “A Mosca! A Mosca!”) non secondario, per altro, anche nei Vitelloni. È curioso notare che un altro film ambientato a Rimini, che abbiamo citato all’inizio e di cui conserviamo copia, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini mostra sempre il tema della fuga, ma in provincia. Dunque un percorso inverso. Credo che la ‘messa in scena’ di Rimini abbia toccato la sua massima potenza con Fellini e Zurlini. Due registi 81 che hanno rappresentato - non riprodotto, si badi bene il genius loci riminese del Novecento. I film successivi, non pochi, dagli anni ’80 a oggi, hanno, più che altro, registrato l’evoluzione del cosiddetto ‘divertimentificio’: colto nei suoi lati ‘comici’ (l’ha fatto per primo Corbucci con Rimini Rimini) oppure altamente drammatici (penso, per esempio, a Vesna va veloce di Mazzacurati). Vorrei concludere parlando anche di Pascoli, visto che l’hai citato, ma non credo sia possibile. Dei suoi legami con Fellini. Di come entrambi nelle rispettive ‘professioni’ siano stati tra i più grandi ‘comunicatori’ dell’Italia unitaria. Di come entrambi siano i cantori di un’Italia preindustriale…» 82 Tre libri su Federico Fellini Di quelli che pesano Gianfranco Angelucci - che ha scritto in comunione con Fellini numerosi testi, assorbendone la creatività e il coraggio - ha pubblicato un libro di rara originalità. Si tratta di un romanzo-verità, almeno per la parte che riguarda il nostro grande regista: un libro dove Fellini è proprio Fellini, attorniato, come al solito e nonostante la situazione, da uno «sfarfallio di presenze femminili»; è il Fellini che fa uso di un linguaggio in cui l’erotismo, il più delle volte, sale le vette della creatività e raramente è soltanto sboccato. L’erotismo cresce, poi, nelle vicende del personaggio Oscar Rinaldi (figura a metà strada tra la finzione completa e la vita vera di Angelucci), che si sente come invaso da quella straordinaria forza vitale che il suo grande maestro sta abbandonando per sempre. Ma in provincia, da noi, qualcuno ha gridato subito allo scandalo. Per fortuna si è trattato solo di livore personale: perché se dovessimo credere al pudore infranto e offeso di chi si è detto scandalizzato… allora, l’ipocrisia diventerebbe preoccupante! E, poi, non ci resta che attendere: in letteratura c’è più giustizia che nella vita ordinaria. Ed è anche più rapida. San Federico, patrono degli scandali La lettura del romanzo Federico F., di Gianfranco Ange83 lucci (Avagliano editore, Napoli) è tra le più interessanti e feconde. Un romanzo di tipo particolare, largamente autobiografico, con al centro della vicenda il personaggio Fellini, di cui Gianfranco è stato collaboratore, allievo e figlio spirituale. La storia narrata nel libro riguarda gli ultimi mesi di vita del grande regista, a partire da quel 3 agosto 1993, quando il regista fu colpito da un ictus. Fellini si trovava allora nel Grand Hotel di Rimini: fu trasportato d’urgenza all’ospedale della nostra città, nel reparto di medicina; e, pochi giorni dopo, trasferito al ‘San Giorgio’ di Ferrara, un centro altamente specializzato nella riabilitazione. Là Fellini non resiste più di tanto e chiede con insistenza, dopo alcuni giorni, di ritornare a Roma, dove morirà il 31 ottobre, al Policlinico Umberto I. Una sequenza quasi ininterrotta di interventi, gravi alterazioni circolatorie, riprese e ricadute, iniziate nel maggio dello stesso anno in un famoso ospedale svizzero. «… ai tre interventi che si erano susseguiti a brevissimi intervalli per l’insorgenza ogni volta di un embolo, avvistato tempestivamente dalle macchine. Quelle tre anestesie, anche a parere di Saraceni, gli erano state fatali, spianando il terreno all’ultimo assalto.» Sono i suoi ultimi mesi di vita raccontati in questo romanzo-verità, che permette al lettore di entrare, quasi in punta di piedi, in tutte le stanze in cui il regista è stato ricoverato, e di assistere, in silenzio e con emozione, al miracolo! Quale miracolo? A quello della sua energia, della sua autorità, del suo carisma… e del suo rovescio, cioè della capacità che Fellini aveva di irridere tutto, di spogliare ogni cosa da qualsiasi orpello formale, il coraggio di guardare la vita tornando ragazzo sfrontato e intelligente, che forza la mano alle situazioni, andando oltre a quello che potrebbe consentire l’insegnante, il genitore o il parroco arcigno… La paralisi non lo blocca. Così Tullio Kezich, grande biografo del regista (e per nulla scandalizzato dal testo di 84 Angelucci), descrive sul Corriere della Sera l’ultimo Fellini, quello rappresentato nel romanzo: «Sebbene agibile solo nella metà destra del corpo, Federico è sempre lui: inventivo e sorprendente, sboccato come un adolescente mascalzoncello quando parla di sesso, eternamente proiettato verso ormai inaccessibili frontiere della creatività». Ferragosto in ospedale Ecco, adesso, Fellini sull’ultimo ‘set’ delle sue varie tappe ospedaliere, così come ce lo restituisce magistralmente Angelucci: «Intanto erano entrate le infermiere addette al massaggio elettrico; le conosceva per nome, si informava di alcune che non le vedeva presenti, controllava mentalmente il suo cast. Il film continuava, con lui al centro della ‘baldoria’, protagonista incontestabile. … In pochi giorni aveva riacquistato gran parte della consueta autorità…» . Era sempre lui che dirigeva, in particolar modo quando dalla stanza uscivano i luminari o la moglie Giulietta: «… uscita la maestra dall’aria severa, era prontamente ricomparsa l’atmosfera da scolaresca indisciplinata che Federico sapeva instaurare appena sollevato da ogni ruolo e responsabilità». Ma anche il personale medico finiva, prima o poi, per essere coinvolto nel suo gioco. Ecco come il romanzo descrive il soggiorno nella clinica di Ferrara: «… Del resto era impossibile non soggiacere alla connaturata attitudine di Federico alla seduzione, e presto o tardi l’intero ospedale, come era già avvenuto a Rimini, avrebbe finito per ruotare intorno a lui. “È un coccodrillo” sentenziava geloso il cattedratico, mettendo in guardia i giovani colleghi, esortandoli a non 85 lasciarsi incantare; “state attenti, vi si mangia tutti a spezzatino!”… » Questo libro ci restituisce per intero l’immagine di un uomo dalla vita sentimentale ed erotica ricchissima. La libertà che lui - il grande individualista - ha sempre invocato, e messo in scena nei film, non era estranea alla sua vita privata: senza enfasi aveva chiesto libertà e aveva donato libertà a chi viveva con lui. È troppo - per noi minuscoli spettatori di provincia chiedere di non falsare la storia, neppure quella intima, dei poeti che abbiamo amato e continuiamo ad amare? Il Fellini seminudo che esce dalla pagine di Angelucci è ancora più grande di quel che si vede nel monumento scolpito da Kezich, nella sua pur straordinaria biografia. È il gigante che, seppure colpito a morte, non cessa di cantare, a modo suo, l’inno alla vita. E, non a caso, corre voce che lo stesso Kezich sia alle prese con la riscrittura della biografia di Fellini. Seppur bravo, ora riconosce di essere stato troppo cauto, troppo discreto… Chissà, forse, è arrivato il momento di rendere giustizia anche alla testimonianza fornita, a suo tempo, da Sandra Milo con quel libretto, pietra dello scandalo, Caro Federico, pubblicato da Rizzoli nel 1982. Sicuramente un’operazione promozionale, ma valida per ricostruire un amore, una passione, un ambiente, un matrimonio… Proviamo a scommettere? Io credo che chiunque voglia avvicinarsi e capire la grandezza di Fellini, dopo aver visto i suoi film e letto i suoi testi, debba accostarsi, soprattutto, alle cose che di lui hanno raccontato Tullio Kezich, Sandra Milo e Gianfranco Angelucci. Tre personaggi che, oltre ad averne scritto, hanno conosciuto ed amato veramente Federico Fellini. 86 Fellini e Rimini, in breve La vita di Federico Fellini, i suoi film, i suoi scritti, i suoi disegni… Federico Fellini nasce a Rimini il 20 Gennaio 1920, da Ida Barbiani e Urbano Fellini, rappresentante di commercio. Frequenta a Rimini la prima classe elementare nella scuola dell’asilo San Vincenzo; dall’anno seguente passa alla scuola statale Carlo Tonini. Ama disegnare, giocare con il teatrino dei burattini e leggere le storie a fumetti del “Corriere dei Piccoli”; il suo prediletto è il disegnatore Antonio Augusto Rubino. Frequenta a Rimini il Ginnasio e il Liceo ‘Giulio Cesare’. Nel 1937 pubblica i suoi primi disegni: caricature di partecipanti a un campeggio di ‘balilla’, al quale Fellini ha preso parte nell’estate del 1936; vengono pubblicate nel numero unico La Diana dell’Opera Nazionale Balilla di Rimini. Esegue per il gestore del riminese cinema Fulgor ritratti di attori celebri, che vengono esposti come pubblicità. Apre, con l’amico pittore Demos Bonini, la Bottega del Ritratto per villeggianti ‘FEBO’ (Fellini-Bonini). Pubblica vignette umoristiche sul settimanale La Domenica del Corriere, nella rubrica destinata ai lettori. Offre la sua collaborazione al settimanale politicosatirico fiorentino 420 dell’editore Nerbini, che gli pubblica brevi racconti e disegni firmati Fellas. La collaborazione seguirà nel 1939. Si trasferisce a Roma insieme con la madre e la sorella, che un anno dopo torneranno a Rimini. Stringe un’amicizia che durerà tutta la vita con il pittore Rinaldo Geleng. Comincia a collaborare al “Marc’Aurelio”, bisettimanale umoristico e satirico-politico di grande successo; diventa ben noto pubblicando vignette, raccontini a puntate, rubriche in serie. Conosce attraverso l’amico Ruggero Maccari il comico Aldo Fabrizi: ne diventerà l’amico, l’autore di gag, lo scrittore di fiducia per spettacoli di varietà e film. Nel 1940 comincia a collaborare alla radio (EIAR) con sketch, rubriche e programmi umoristici. Collabora a vari periodici, anche di cinema. Inizia la sua attività di sceneggiatore cinematografico. Nel 1942 conosce Giulia Masina, giovane attrice del teatro di prosa che è interprete, all’EIAR, nella trasmissione Terziglio delle avventure degli sposi Cicco e Pallina scritte da Fellini. Lavora per un breve periodo all’ufficio soggetti della Alleanza Cinematografica Italiana (ACI), di Vittorio Mussolini, figlio di Benito Mussolini; lì conosce Roberto Rossellini. Nel 1943 è tra gli sceneggia87 tori del film Campo de’ fiori diretto da Mario Bonnard con Aldo Fabrizi e Anna Magnani; il 30 Ottobre sposa Giulietta Masina. Nel 1944, apre a Roma un negozio di ritratti e caricature, The Funny Face Shop, insieme con gli amici caricaturisti De Seta, Verdini, Camerini, Scarpelli, Majorana, Guasta, Giobbe, Attalo, Migneco: lavorano per i militari alleati, con successo. Collabora alla sceneggiatura del film Roma città aperta, in particolare per lavorare al personaggio interpretato da Aldo Fabrizi. Partecipa, nel 1946, alla sceneggiatura e alla realizzazione del film Paisà, sempre diretto da Rossellini. Nel 1951 è coregista, in coppia con Alberto Lattuada, del film Luci del varietà (tra gli interpreti Giulietta Masina), prodotto in cooperativa. Dirige il suo primo film Lo sceicco bianco, protagonista Alberto Sordi. La musica è di Nino Rota, il compositore che offirà straordinarie colonne sonore ai suoi film. Fellini continuerà a scrivere e a dirigire film fino al 1990, quando uscirà la sua ultima prova: La voce della luna. Nel 1953, aveva vinto il suo primo premio (il primo di una serie lunghissima): un Leone d’Argento per I vitelloni alla Mostra del Cinema di Venezia; mentre nel 1993 riceverà il quinto Oscar, alla carriera. Fellini, il 3 agosto dello stesso anno, viene colpito da un attacco cerebrale al Grand Hotel di Rimini. Muore il 31 Ottobre 1993, a Roma nell’ospedale Policlinico. I suoi film, le sue regie: Luci del varietà (regia Alberto Lattuada e Federico Fellini -1950); Lo sceicco bianco (1952); I vitelloni (1953); Amore in città (episodio “Agenzia matrimoniale” - 1953); La strada (1954); Il bidone (1955); Le notti di Cabiria (1957); La dolce vita (1960) Boccaccio ‘70 (episodio: “Le tentazioni del Dr. Antonio 1962); 8 e 1/2 (1963); Giulietta degli spiriti (1965); Tre passi nel delirio (episodio “Toby Dammit - 1967); Satyricon (1969); Block – notes di un regista (1969); I Clowns (1970) Roma (1972); Amarcord (1973); Il Casanova di Federico Fellini (1976); Prova d’orchestra (1979); La Città delle donne (1980); E la nave va (1983); Ginger e Fred (1986); Intervista (1987); La voce della luna (1990). Oltre ai suoi film, ha sceneggiato: Cameriera bella presenza offresi… Il cammino della speranza; Francesco, giullare di Dio; Il miracolo; Il mulino del Po; Senza pietà; Il delitto di Giovanni Episcopo; Il passatore; Roma città aperta; Paisà; Chi l’ha visto? …. I libri che Fellini ha scritto (in collaborazione, di volta in volta, con R. Renzi, G. Angelucci, G. Grazzini, T. Guerra, L. Betti…): Giulietta degli spiriti, Cappelli, 1965; Fellini - Satyricon, Cappelli 1969; Fellini Tv, Cappelli, 1972; Roma, Cappelli , 1972; Quattro film, Einaudi, 1974; Amarcord, con Tonino Guerra, Rizzoli, 1975; Il Casanova di Fellini, con Bernardino Zapponi, Einaudi, 1976; Il Casanova, Cappelli, 1977; Prova d’orchestra, Garzanti, 1980; La città delle donne, Garzanti, 1980; Le notti di Cabiria, Garzanti, 1981; La dolce vita, Gar88 zanti, 1981; E la nave va, Longanesi, 1983; Intervista sul cinema, Laterza, 1983; Giulietta, Melangolo, 1984; Viaggio a Tulum, pubblicato sul “Corriere della Sera”, 1986; Ginger & Fred, Longanesi, 1986; La mia Rimini, Cappelli, 1987; La voce della luna, Einaudi, 1990; Fare un film, raccolta di note autobiografiche e di lavoro, Einaudi, 1993. Come attore ha partecipato ai seguenti film: Intervista, Il tassinaro, C’eravamo tanto amati, Roma, L’amore, Il miracolo… Su Fellini, cosa leggere? C. G. Fava, A. Viganò I Film di Federico Fellini, Gremese Editore,1991; T. Kezich Fellini, Rizzoli 1988; B. Zapponi Il mio Fellini, Marsilio, 1995; Luigi ‘Titta’ Benzi, Patachédi, Guaraldi, 1995; R. Renzi L’ombra di Fellini, Dedalo, 1994; Vincenzo Mollica Fellini, Einaudi, 2000; ecc. ecc. A Rimini, chi incontrare? Nelle guide solitamente si indicano luoghi e monumenti da visitare… Perché, invece, non dare la precedenza alle persone che val la pena conoscere, che è utile contattare, con le quali è interessante scambiare due chiacchiere? Per parlare di Federico Fellini, naturalmente, e della Rimini che ha raccontato nei suoi film. L’elenco delle persone, anzi dei personaggi, validi per questa ‘nuova forma di turismo’ potrebbe essere lunghissimo. Limitiamoci a quelli ‘più in vista’. Titta Benzi e Mario Montanari (i ‘compagni di banco’), la famiglia Fellini (la sorella Maddalena, il cognato Giorgio Fabbri, la nipote Francesca), Liliano Faenza (scrittore e storico; si sentiva spesso con il nostro), Benedetto Benedetti (riminese d’adozione, ha vissuto a Roma la stagione d’oro del cinema, lavorando anche con Fellini), Mario Guaraldi (realizzatore del ‘Fellini’s Day’, editore di numerosi testi sul grande regista), Giorgio Franchini e Mariella Federico (gli architetti che conobbero bene Fellini e la Masina, all’epoca della ‘casina sul porto’), Giuseppe Chicchi (il sindaco-intellettuale della Rimini anni ‘90), Piero Meldini (scrittore ed ex direttore della Biblioteca), Miro Gori e Giuseppe Ricci (gli esperti della Cineteca), Giovanni Luisè e Carla Gentilini (la loro libreria antiquaria è un centro culturale tra i più vivi nella città), Werther Casali (l’addetto stampa del Fellini’s Day), Pietro Arpesella (vero decano del nostro turismo e padre dell’indimenticabile Marco), Mario Pasquinelli e Dino Spadoni (le ‘guide indiane’ del Borgo San Giuliano), Elio Tosi all’ ‘Embassy’ e Quarto al ‘Garbino’ (gli anfitrioni di ‘marina centro’, che Federico andava a trovare ogni volta)… E cosa vedere… Ecco in sintesi un breve pro-memoria, partendo dalla ‘marina’ (come si dice a Rimini): il molo, ovvero la ‘palata’; il Grand Hotel (al centro di tutta la vicenda); la palazzina Dolci, in via Dante, vicino alla stazione (lì abitava il ragazzo Federico); la casa di Amarcord, in via Roma 41 (la casa di Titta); l’associazione “Fonda89 zione Fellini” (attualmente in via Angherà, ospite dell’Università, in attesa di una sistemazione più idonea); il Tempio Malatestiano (il capolavoro del Rinascimento, che “d’estate diventava ancora più bianco, un osso di seppia…” ricordava Fellini); Piazza Ferrari (i nudi del monumento ‘erotico-dannunziano’); il Palazzo Gambalunga (straordinario contenitore culturale, oggi, sede del Ginnasio di Federico e Titta, ieri); Piazza Cavour , il Corso d’Augusto e Piazza Giulio Cesare, oggi Piazza Tre Martiri (il cuore del cuore del nostro universo); il cinema Fulgor (ormai centenario, è ancora lì ad offrire sogni… quelli proposti con il cinema americano, negli anni ‘30, sono da considerare ineguagliabili); il Ponte di Tiberio (ci sono passati sopra duemila anni e… la ‘Mille Miglia’); il Borgo San Giuliano (con i suoi murales, dedicati al regista riminese, e con le testimonianze di una Rimini ‘controcorrente’); e, per finire, la tomba di Federico e Giulietta al cimitero di Rimini (nel piazzale d’ingresso, al centro di uno spazio quasi irreale, isolati dagli altri, come in attesa di chissà che cosa…). Dove informarsi: non mancano a Rimini validi ed efficienti uffici informazioni. Tre recapiti su tutti: quello comunale, sul Corso d’Augusto (accanto al “Fulgor”), tel. 0541/704112; lo IAT (proprio… in piazzale Fellini, 3), tel. 0541/56902; e, nello specifico, l’Associazione “Fondazione Fellini”, in via Angherà, 22 - tel. 0541/50085 Come prenotare: l’agenzia Montanari Tour, in questi ultimi anni, ha realizzato esperienze significative nell’organizzazione di vacanze e di stage legati alla storia, ai personaggi e alle vicende di quest’angolo di Romagna; la sua sede è in via Circonvallazione Occidentale, 104 47900 Rimini - tel. 0541/786501-786517- fax 0541/786159 e-mail: [email protected] http:// www.montanaritour.it Notizie dall’Associazione “Fondazione Fellini”- Ultim’ora! 20/04/2001. Il consiglio di amministrazione dell'Associazione ha deciso di trasferire la propria sede in via Oberdan 1, nella ‘casa Fellini’ (la palazzina di Maddalena Fellini, del marito Giorgio Fabbri e della figlia Francesca, dove la madre di Federico ha vissuto fino al 1984): consentendo, così, di riunire, in un unico ambiente, tutta la ricca documentazione felliniana già presente in città. A piano terra verrà realizzato il ‘museo Fellini’, mentre il primo piano ospiterà la biblioteca, la videoteca e gli uffici della Fondazione. L'apertura è prevista entro il 2001. 90 INDICE Il Genio e l’operatore turistico 5 «Io a Rimini non ci torno volentieri» 7 L’itinerario felliniano 11 La vita era tutta lì 31 Rimini ispiratrice e casinara 47 L’illustre ammalato 69 Palazzo Gambalunga 73 Tre libri su Federico Fellini 83 Fellini e Rimini, in breve 87