10 righe dai libri

Transcript

10 righe dai libri
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
1
A Jake
Prima parte
PARCHEGGIO GRATUITO
2
Da ragazzo i miei prendevano sempre le mie difese, non importa quanto grossa l’avessi combinata.
Quando sfasciai la mia Sega Genesis nuova di zecca durante uno scoppio d’ira, diedero la colpa a Sonic, il
videogame, per avermi fato arrabbiare. Quando persi il mio passaporto all’aeroporto, incolparono loro
stessi per averlo afdato a me. Così, quando raccontai loro cosa mi aveva fato Elliot, fui piutosto sorpreso
dalla loro reazione.
«Forse si è tratato di un incidente», disse mio padre. «Gli incident capitano di contnuo».
«Io non credo sia stato un incidente», dissi.
«Sei sicuro di non essertelo immaginato?», chiese mia madre. «Hai un’immaginazione così fervida».
Fu difcile resistere al complimento.
«No», dissi. «Non è stata la mia immaginazione. Questa cosa è successa veramente».
Era la sera del Monopoli, e nonostante mio padre avesse appena lanciato un sete non aveva ancora
mosso il suo carreto, che se ne stava lì, abbandonato sulla casella sbagliata. Alla fne, si alzarono tut e due
e andarono in cucina.
«Ma’? Pa’?».
Non risposero, ma io riuscivo a sentrli parlotare tra loro al di là della porta.
«Mi ha spinto giù per le scale», dissi, forse per la centesima volta quella sera. «Mi ha spinto, di
proposito, davant a un sacco di gente. Una cosa davvero folle».
Alla fne i miei tornarono al tavolo. Notai che mio padre aveva in mano una birra. L’avevo visto bere solo
in occasione di matrimoni o funerali e fui leggermente sconvolto. Esitarono entrambi per un momento,
sperando che l’altro cominciasse a parlare.
«Il fato, riguardo a Elliot», disse infne mia madre, «è che lui è diverso dalla maggior parte dei ragazzi».
Subito accusai una fta di senso di colpa.
«Oh Gesù», dissi. «È ritardato?»
«No», disse mio padre. «Non esatamente».
«Allora che c’è?», chiesi. «Cos’ha di diverso?».
Mia madre si schiarì la voce.
«È ricco», disse.
Mio padre annuì.
«È molto ricco».
Quando ripercorro gli ultmi cinque anni della mia vita, dominat completamente da Elliot Allagash in
qualunque ambito, non posso fare a meno di pensare quanto sia strano il fato di esserci incontrat, prima di
tuto. All’epoca in cui si presentò nella nostra scuola, con un completo bianco e scarpe da barca, Elliot aveva
vissuto in sete cità, tra cui Londra, Bruxelles e Zurigo. Al padre di Elliot, Terry, piaceva cambiare cità in
base ai suoi capricci. L’unico motvo per cui aveva fato trasferire tuta la famiglia a New York, a deta di
Elliot, era che il suo guantaio preferito aveva aperto un negozio su Madison Avenue. La scelta della Glendale
3
Academy era stata meno casuale: era l’unica scuola privata della East Coast disposta ad accetare Elliot
come studente. Nelle sete cità in cui aveva vissuto, era riuscito a farsi espellere da una dozzina di scuole di
prim’ordine. Solo Glendale, con la sua palestra fatscente e le tavole di chimica ormai obsolete, era
abbastanza disperata fnanziariamente da chiudere un occhio sui suoi precedent. Al tempo in cui ci
incontrammo, le sue infrazioni comprendevano vandalismo, assenze ingiustfcate, violenza gratuita,
ubriachezza, aver pagato un impostore per fare un compito al suo posto, e ricato. Aveva solo tredici anni.
È strano che le nostre strade si siano incrociate. Ma è ancora più strano che sia diventato il mio migliore
amico.
Glendale era una piccola scuola e lo diventava ogni anno di più. I tre lunghi tavoli della mensa potevano
ospitare comodamente almeno sessanta student, ma quando ero all’otavo anno 1 ce n’erano solo
quarantuno. Durante il pranzo, i vent ragazzi più popolari sedevano al tavolo in fondo, gli altri vent si
stringevano in quello di mezzo. Io stavo al terzo.
Ora, sono sicuro che se avessi voluto mi sarei potuto intrufolare nel tavolo di mezzo… l’avevo fato una
volta, metendo di traverso il mio vassoio. La verità, però, è che a me piaceva il terzo tavolo. Era spazioso,
tranquillo e, per quanto mi riguardava, collocato al posto giusto. La maggior parte degli student considerava
l’ora del pranzo un’atvità sociale. Io invece preferivo vedere quel momento come una specie di sfda, il cui
obietvo era bere quanto più late al cioccolato fosse possibile. Non consideravo il pranzo un successo se
non ne avevo consumat almeno cinque cartoni. In qualunque altro posto della mensa, tuto questo sarebbe
stato un sogno impossibile. Ma piazzandomi in un raggio di tre metri dalla signora della mensa, e grazie alla
sua collaborazione, riuscivo a otenere un simile risultato pratcamente tut i giorni.
Un pomeriggio ero alle prese con il terzo cartone quando mi accorsi che Elliot era seduto proprio
accanto a me. Davant a sé non aveva da mangiare, solo un grosso block-notes.
Non vedevo Elliot da quando, quatro giorni prima, mi aveva inspiegabilmente spinto giù dalle scale,
durante il suo primo giorno a Glendale. Immaginai che si fosse seduto vicino a me per scusarsi, ma arrivato
al quinto cartone di late fu evidente che non ne aveva intenzione. Non mi rivolse mai nemmeno uno
sguardo, durante il pasto. Teneva invece gli occhi fssi sul suo taccuino, scarabocchiando rumorosamente
con la sua penna stlografca aflata come un rasoio. Venne a sedersi vicino a me anche il giorno dopo e
quello successivo, e in entrambi i casi fu sempre la stessa storia: stava seduto lì e scriveva. A volte strappava
via un foglio dal block-notes, lo appallotolava e lo getava a terra. Ogni tanto, prima di scribacchiare
qualcosa, schioccava le dita con un gesto teatrale. Pensai di chiedergli a cosa stesse lavorando, ma sembrava
una cosa importante e non volevo interromperlo. Solo anni dopo mi venne in mente che forse non lavorava
a niente: tuto quello scribacchiare e accartocciare e schioccare le dita… quello era il suo modo di dire
“ciao”.
1
Negli Stati Uniti l’ottavo grado di istruzione corrisponde alla nostra terza media.
4
Ogni volta che c’era uno scontro fsico tra due student, entrambi fnivano in punizione,
indipendentemente da chi avesse cominciato. Questa politca mi sembrava piutosto ingiusta, ma discuterne
con i professori non serviva a nulla. Inoltre la punizione non mi dispiaceva. Durava solo un’ora e la signorina
Pearl, la bibliotecaria anziana che ci sorvegliava, ci lasciava prendere due gelatne dalla ciotola all’inizio di
ogni ora di punizione. La scuola sembrava afollata e claustrofobica, ma nella sala punizioni non c’era quasi
mai nessuno, a parte me, la signorina Pearl e chiunque mi avesse aggredito nell’arco della setmana. Era un
ambiente piacevole, e a volte, nelle setmane più fatcose, davvero non vedevo l’ora.
Ogni tanto la signorina Pearl ci faceva riempire dei moduli di castgo, ma io sapevo per esperienza che in
realtà non li leggeva nessuno, quindi non mi ci impegnavo più di tanto.
[vedi originale pp. 7-8/inizio]
Nome: Seymour
Anno: otavo
Infrazione: Rissa
Descrivi ciò che è accaduto: Ero davant al mio armadieto, cantcchiando una canzone che avevo
sentto alla radio, quando Lance è arrivato e ha cominciato a colpirmi.
Cosa hai imparato da questo episodio?
A quanto pare, cantcchiare è una cosa che fa arrabbiare Lance e gli fa venir voglia di picchiarmi.
Cosa avrest potuto fare di diverso?
Niente.
Come intendi modifcare il tuo comportamento?
Cercherò di non cantcchiare nei paraggi di Lance.
[vedi originale pp. 7-8/fne]
C’erano parecchie cose piacevoli, nella punizione: la calma, le gelatne. Ma la cosa migliore era la
presenza di Jessica. Durante la scuola, riuscivo solo a darle qualche occhiata fugace. Era sempre circondata
da un nugolo di ragazzi che la seguivano da una classe all’altra e mi impedivano di vederla. Ma durante la
punizione quella nube scompariva e io avevo la possibilità di osservarla da vicino.
Jessica rimediava le punizioni violando platealmente il codice d’abbigliamento della scuola in
contnuazione, facendo del tuto per provocare scandalo. I suoi vestt erano così palesemente inappropriat
per la scuola che regolarmente gli insegnant la obbligavano a indossare una tuta da ginnastca già
all’ingresso, prima ancora dell’inizio delle lezioni. Se diceva di non avere la tuta, la spedivano nella stanza
degli ogget smarrit e la coprivano con qualunque cosa riuscissero a trovare lì dentro. Si muovevano con la
furia di pompieri impegnat a spegnere un incendio da codice rosso.
Ai miei occhi era stupefacente quanto la vita di una persona potesse cambiare in un paio di mesi. Al
5
setmo anno Jessica era tmida e scialba, una ragazza nervosa a cui gli insegnant raccomandavano sempre
di “parlare a voce più alta”. Ma nel giro di un’estate tuto in lei si era fato più vistoso. In qualche modo
aveva subìto tut gli efet positvi della pubertà e scansato quelli negatvi. Il suo viso si era sviluppato
regolarmente senza soccombere all’acne. Era cresciuta in freta di diversi centmetri ma i dent erano rimast
perfetamente drit. Inoltre, mentre alcune part del corpo si erano sviluppate parecchio, tutavia aveva
mantenuto la sua corporatura minuta. Il suo corpo aveva assunto delle proporzioni così provocant che
perfno gli insegnant erano a disagio quando parlavano con lei. Balbetavano o incespicavano sulle parole, e
a volte era lei a dover chiedere loro di “parlare a voce più alta”.
Jessica non portava mai uno zaino o qualunque altro oggeto che potesse far supporre che era una
studentessa della nostra scuola. All’inizio di ogni lezione, alcuni ragazzi si chinavano sul suo banco e le
passavano tuto ciò di cui avrebbe avuto bisogno per i successivi quarantacinque minut. A volte mi è
capitato di sentre delle ragazze defnirla una presuntuosa, ma nessuno la conosceva bene quanto me.
Jessica non era altro che una persona, come chiunque altro. Certo, a volte combinava dei casini e indossava
top striminzit o i brillantni sul viso. Ma chi può dire di non aver mai sbagliato abbigliamento? Io no di certo:
in due distnte occasioni mi ero presentato a scuola con i pantaloni del pigiama. Non era forse la stessa
cosa?
E poi, anche se Jessica violava le regole di proposito, chi poteva biasimarla? Non avevo mai incontrato
un essere umano come lei, ma avevo leto parecchi fumet degli X-Men ed ero convinto che mi avessero
fornito un solido quadro di riferimento. Nella mia mente Jessica era come un nuovo supereroe che aveva
appena scoperto i suoi poteri da mutante. Doveva per forza indossare un costume assurdo. È la prima cosa
che si fa quando ci si trasforma in supereroe.
Anche se sono passat diversi mesi, ricordo ancora la nostra prima conversazione. Eravamo sedut
nell’aula delle punizioni, all’inizio dell’anno, quando lei si girò improvvisamente verso di me e sorrise.
«Ti do le mie gelatne per una matta», disse.
«Va bene», risposi.
Era lo scambio verbale più lungo che avessimo mai avuto, e più volte lo ripercorsi nella mia testa.
Da quel giorno in poi, mi accertai di avere delle matte in più durante l’ora di punizione, in caso lei ne
avesse avuto bisogno. All’apparenza la nostra relazione era piutosto superfciale: io le davo una matta ogni
setmana in cambio di una gelatna. Ma era molto di più di una semplice transazione economica. Io le avrei
dato grats le mie matte, anche se le gelatne non fossero state inserite nella tratatva. E mi piace pensare
che Jessica me le avrebbe comunque regalate, anche se non avessi avuto matte da ofrirle.
Non ci conoscevamo molto bene, ma lei aveva cura di ringraziarmi ogni volta per nome.
«Grazie, Seymour!», diceva. O anche: «Grazie mille, Seymour!».
E io rispondevo: «Figurat, quando vuoi!».
Era uno dei moment salient della mia setmana, insieme al fato stesso di mangiare le gelatne.
Stavo giusto disponendo sul mio banco un assortmento di matte per Jessica quando comparve Elliot,
6
venuto a scontare la sua ora di punizione per avermi spinto giù dalle scale. Anche se ci eravamo sedut vicini
tut i giorni durante il pranzo, non ci eravamo ancora parlat. Aveva un quarto d’ora di ritardo ma si
muoveva con una lentezza incredibile.
«Sembra che qualcuno abbia bisogno di un orologio», disse la signorina Pearl.
Elliot non rispose. Notai che portava un orologio da polso grosso e appariscente.
«Be’, puoi comunque avere una gelatna», disse lei ofrendogli il cestno.
Elliot la ignorò e andò a sedersi in fondo.
«Niente gelatne?», esclamò la signorina Pearl. «Andiamo, a tut i ragazzi piacciono le gelatne!».
Elliot abbassò lo sguardo sul modulo di punizione posato sul suo banco. Dopo un lungo sospiro, lo
sollevò e lo tenne a distanza di un braccio, reggendolo tra pollice e indice come spazzatura. Non appena la
signorina Pearl gli diede le spalle, allentò la presa e lo lasciò futuare a terra. Quindi trò fuori il suo blocknotes e cominciò a scrivere.
Eravamo in quatro: io, Jessica, Elliot e Lance. Lance non aveva aggredito nessuno in partcolare, quella
setmana, ma era stato spedito comunque in punizione per “violenza generica”. Stava scarabocchiando una
saeta a margine del modulo quando la punta della sua matta si spezzò per la pressione. La sollevò alla luce
e bofonchiò.
Sorrisi, mentre Lance frugava nel suo zaino, cercando inutlmente un temperino. Certo, mi bateva in
parecchie cose: era più forte, più divertente, più popolare, meno spaventato dai rumori ecc. Ma quando si
tratava di preparazione scolastca vera e propria avrei potuto insegnargli un paio di cosete. C’era un
motvo se Jessica veniva da me ogni setmana per le matte. Perché quando le cose si facevano delicate,
sapeva di poter contare su di me. E non solo per le matte: le gomme, lo scotch, qualunque cosa di cui
avesse bisogno.
Jessica arrafò una manciata di matte dalla mia scrivania e atraversò l’aula di corsa.
«Ehi, Lance», sussurrò. «Ti serve una matta?».
Gliele sventagliò soto il naso in modo che potesse vederle tute quante. Lui le osservò per un istante,
sorridendo.
«Posso prenderne due?».
Jessica annuì rapidamente e Lance scelse le due che preferiva.
«Grazie, Jess», disse.
Lei distolse lo sguardo, imbarazzata.
«Figurat!», disse. «Quando vuoi!».
Lasciò cadere le matte rimanent sul mio banco, tornò al suo posto e osservò in un silenzio rapito Lance
che fniva di scarabocchiare la sua saeta.
Alcune delle mie matte rotolarono sul pavimento e quando mi piegai per prenderle mi accorsi che Elliot
mi stava guardando. Contnuò a guardarmi per tuta l’ora di punizione, anche mentre toglieva il cappuccio
alla penna e girava pagina sul block-notes.
7
Era raro che i miei genitori mi facessero domande sulla scuola. Non che non fossero interessat, la posta
in gioco era troppo alta. Glendale non era partcolarmente sfarzosa per gli standard di Manhatan. Costava
decisamente meno delle rinomate scuole che circondavano Central Park e costellavano le colline di
Riverdale. Ma era pur sempre una scuola costosa, la più costosa che i miei potessero permetersi. Non
avevano mai fato riferimento ai soldi davant a me, ma il nostro appartamento non era molto grande e se
rimanevo alzato fno a tardi li sentvo discutere delle loro difcoltà fnanziarie atraverso il muro che
divideva le nostre camere da leto, in quel tono sommesso e serioso che riservavano solo a
quell’argomento. Pagavano una percentuale altssima dei loro guadagni per mandarmi a Glendale ed erano
segretamente spaventat all’idea che il loro investmento si risolvesse in un fallimento.
Se i miei mi avessero deto che la mia istruzione costava cento dollari o un milione, ci avrei creduto in
ogni caso. Il denaro per me non aveva alcun signifcato fnché non veniva convertto in caramelle. Mio padre
aveva cominciato da poco a darmi cinque verdoni a setmana per insegnarmi il valore dei soldi, ma la
pagheta da cinque dollari che mi allungava ogni sete giorni avrebbe potuto tranquillamente essere un
buono con su scrito “valido per una confezione media di caramelle”, visto che era l’unica cosa che mi veniva
in mente di comprarci. Quando cercavo di visualizzare la cifra che stavo sperperando frequentando
Glendale, immaginavo di atraversare una stanza piena di caramelle, che raccoglievo e lanciavo sopra la mia
testa come Zio Paperone. Suonava così trasgressivo.
Nelle rare occasioni in cui i miei mi chiedevano della scuola, ero tentato di confessare tuto: il fato che
fossi l’unico studente al terzo anno di Francese a cui l’insegnante si rivolgeva in inglese; che qualcuno mi
aveva candidato sarcastcamente rappresentante degli student all’assemblea di isttuto, provocando risate
così prolungate e fragorose che il preside aveva dovuto batere una specie di martelleto, mai visto prima,
per farle cessare; che avevo simulato le ultme quatro febbri solo per restarmene a casa e prendermi un po’
di tregua. Non volevo però che mi considerassero un ingrato. Inoltre, avevo la sensazione che fossero già a
conoscenza dei miei problemi, benché io non ne avessi mai parlato. Non approfondivano mai le domande.
Se io raccontavo che la gara di nuoto era andata “bene” e che non era successo “niente di partcolare”, mi
prendevano alla letera e lasciavano che cambiassi argomento. E quando dicevo di avere la febbre, non mi
metevano mai il termometro. Mi davano una pacca sulla spalla, portavano la
TV
in camera mia e mi
dicevano di rimetermi.
I loro standard su di me erano incredibilmente bassi. Si congratulavano con me se prendevo una
sufcienza e appendevano i 7 sul frigorifero. Se riuscivo a portare a casa un 8 in qualunque materia,
chiamavano immediatamente mia nonna, anche se era tardi e lei era malata.
«No!», esclamava. «Non posso crederci! Non ci credo!».
«È vero!», diceva mia madre. «Seymour, diglielo!».
«È vero», mormoravo.
Allora la nonna cominciava a urlare, a urlare davvero, come quella volta che aveva vinto una crociera nel
8
Mediterraneo alla tombola annuale della sinagoga. Io apprezzavo il suo supporto, ma a volte desideravo che
il livello fosse un po’ più alto.
Era passata una setmana da quando Elliot mi aveva spinto giù dalle scale e ancora non mi aveva rivolto
una parola. Contnuava però a sedersi vicino a me a pranzo, scribacchiando sul suo taccuino e lanciandomi
di tanto in tanto delle occhiate inquietant.
Io facevo del mio meglio per ignorarlo. Dopo pranzo c’era un compito di francese e avevo intenzione di
farlo bene, giusto per cambiare. Stavo memorizzando i termini francesi degli animali quando mi senti
batere con decisione sulla spalla sinistra. Quando mi voltai, mi trovai davant Elliot. Era la prima volta che i
nostri sguardi si incrociavano, e fui colpito da quanto apparisse stanco. Il suo viso era pulito e disteso, ma le
borse soto gli occhi erano scure e marcate. Per la sua età, sembrava in qualche modo vecchio e giovane allo
stesso tempo.
«Che problema hai?», chiese.
Finché non cominciò a parlare non mi venne in mente che non avevo mai sentto la sua voce. Era acuta
e vivace, ma anche curiosamente femmatca. Suonava come una vecchia signora inglese con un’antca
dedizione al fumo.
«Che vuoi dire?», chiesi io.
«La campanella sta per suonare», disse. «E tu hai fnito solo due cartoni di late al cioccolato. Di questo
passo non raggiungerai mai i cinque che t servono per arrivare alla fne di ogni singola pausa pranzo».
Mi costrinsi a ridere.
«Non ne bevo sempre così tant».
«Sì, invece», disse scorrendo distratamente le pagine del suo taccuino. «In realtà, spesso arrivi a sei».
I suoi occhi si spalancarono.
«Una volta… ne hai bevut sete».
Abbassai lo sguardo sul mio bibitone.
«Non pensavo che qualcuno l’avesse notato».
«E quindi?», disse. «Che hai? Sei malato?»
«Ma no, solo un po’ nervoso, credo. Sai, il compito di francese».
Aferrò il libro dalle mie mani.
«Perché sei alla pagina degli animali? Il test è sui nomi delle professioni».
«Quando l’ha deto?»
«Non l’ha deto», rispose. «Ma è ovvio».
«Che signifca?».
Piegò le dita e si osservò le unghie con aria tranquilla.
«Il signor Hendricks non inventa mai i test. È troppo ingenuo. Li fotocopia sempre dal libro così come
sono».
9
«E allora?»
«Allora, ci sono solo nove quiz in questo capitolo, e gli altri oto li abbiamo già fat in classe. Ne resta
solo uno».
Aprì il libro alla pagina “Mesteri” e me lo resttuì. Non potevo crederci. Mancavano cinque minut alla
fne del pranzo e io avevo trascurato l’unica pagina importante.
«Come l’hai capito?», domandai.
«Semplice ragionamento».
Cominciai a studiare la pagina, ma a questo punto ero più interessato allo strano libro di Elliot.
«A cosa stai lavorando?», chiesi.
«Niente che t riguardi», rispose.
«Oh. Scusa».
Tornai in freta sul mio libro. Il contadino, l’uomo d’afari, il cuoco…
«Ricerca», disse Elliot. «Sto facendo una ricerca».
«Oh, davvero? Su cosa?»
«Temo di non potertelo dire».
Mi guardò in silenzio per un po’, fnché non fu chiaro che non avevo alcuna intenzione di insistere per
saperne di più. Poi ricominciò a parlare.
«Mio padre ha donato una considerevole quanttà di denaro a questo posto orribile e pare che sarò
costreto a rimanere qui per un periodo piutosto lungo. Sto studiando la scuola in modo da rendere la mia
permanenza qui meno dolorosa possibile».
Sfogliò il block-notes e mi mostrò alcuni diagrammi che aveva fato. Uno descriveva la frequenza e la
durata degli allarmi antncendio. Un altro elencava gli insegnant in ordine di anzianità. C’erano mappe
detagliate della scuola, compreso il locale caldaie e i condot di manutenzione, e alcuni codici sparsi che
sembravano combinazioni degli armadiet.
«Cos’è questo?» chiesi, indicando una lista di nomi di student.
«È un indice di status sociale», disse. «Ho cercato di classifcare la posizione di ciascuno. Vedi? Tu sei in
fondo».
«È parecchio sballato».
«Pensi che dovrest stare più su?»
«No, quella parte è correta. Ma il resto richiede qualche aggiustamento. Ad esempio, Lance dovrebbe
stare più in alto. Non l’hai messo nemmeno tra i primi cinque».
Elliot annuì lentamente.
«Che altro?», chiese.
Esaminai la sua lista. Notai che non si era collocato da nessuna parte.
«Be’, probabilmente dovrest metere Jessica più su», dissi. «E anche la parte bassa è sbagliata. Alcuni di
quest ragazzi hanno parecchi amici».
10
Mi tese la sua stlografca.
«Correggilo», chiese.
Presi la penna un po’ imbarazzato.
«Okay… però, Elliot, posso chiedert una cosa?»
«Cosa?»
«Perché mi hai spinto giù dalle scale?».
Fece spallucce.
«Per divertrmi», disse. «E a scopo di ricerca. Volevo capire fno a che punto mi avrebbero punito».
«Ma perché hai deciso di spingere proprio me?»
«Per otenere un test standardizzato, avevo bisogno di commetere una violazione comune. Abusare di
te sembra sia piutosto difuso da queste part».
«Non fa una piega, direi».
«Lascia che t faccia io una domanda», disse Elliot. «Perché sei così impopolare in questa scuola?».
Si capiva dal suo tono che non c’era nessuna malizia nella sua domanda. Era semplicemente curioso.
«Hai all’incirca gli stessi soldi degli altri ragazzi. Sei sovrappeso, ma non in maniera drammatca. Voglio
dire, cert tuoi compagni di classe sono decisamente obesi».
Li indicò col dito.
«Quindi», disse. «Di che si trata?».
Pensavo più o meno costantemente alla mia impopolarità, ma non ne avevo mai discusso con nessuno.
«Ci sono un sacco di motvi, credo», dissi.
«Ad esempio?»
«Be’, ad esempio… non sono granché negli sport. Sopratuto a pallacanestro».
Gli occhi di Elliot si spalancarono.
«Lo status è determinato dalla prestanza atletca, qui?».
Annuii.
«In buona parte».
«Quindi quel ragazzino nero che salta contnuamente su e giù per arrivare a toccare la cima delle
cose…».
«Chris».
«Non so come si chiama, ma lui. Quel ragazzo è considerato popolare? Anche se è chiaramente qui solo
grazie a una borsa di studio?»
«Alla gente non importa un granché di questoni come i soldi, a Glendale», spiegai. «Si trata più di
quanto sei fgo e quanto sei in gamba nello sport e se la gente pensa o no che tu sia presuntuoso. Roba
così».
«E tu pensi davvero questo?».
Elliot chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, come se il parlare con me lo avesse stremato. I suoi
11
capelli biondi, lisci e così chiari da sembrare quasi bianchi, gli ricaddero sulle mani. Li ricacciò indietro, aprì
gli occhi e mi fssò.
«Nessuno t ha mai deto che il denaro vince su tuto? Che a questo mondo non conta nient’altro?».
Scossi la testa stupidamente.
«Potrei comprart tuta la popolarità di questa scuola», disse. «Con un po’ di ricerca e alcuni
investment ben piazzat, posso fare di te un re. Ammirato dalle ragazze, rispetato dai ragazzi, temuto da
tut».
Risi nervosamente.
«Cosa dovrei fare?».
Elliot sogghignò.
«Tuto quello che dico».
Quando racconto di Elliot alle persone, mi fanno sempre la stessa domanda: perché ha dedicato tanto
tempo e tant sforzi per migliorare la tua vita se t conosceva a malapena e vi eravate appena presentat?
Bella domanda. L’unico modo che ho per rispondere è parlare dei videogiochi.
Prima di incontrare Elliot, giocavo tantssimo ai videogiochi, ogni giorno dopo la scuola. Anche se non
andavo mato per la pallacanestro nella vita reale, quando i miei mi regalarono NBA Slam ’97 ero
eletrizzato. All’epoca quel gioco era unico perché t permeteva di diventare allenatore di una squadra.
Potevi condurre le tratatve, decidere le sosttuzioni durante la partta e giocare un’intera stagione contro le
altre squadre, tute controllate dal computer. Setai il gioco sul livello “facile” perché era la prima volta che
ci giocavo, e scelsi i Sacramento Kings perché mi piaceva la loro divisa, viola e nera con una striscia
argentata.
Il computer mi suggerì una formazione di partenza basata su quali fossero nella realtà i cinque migliori
giocatori, ma io decisi di usare la mia posizione di allenatore per cambiare un po’ di cose. Mitch Richmond,
sei volte negli All Star, era stato scelto come guardia fn dal primo minuto. Ma questo era ciò che tut si
aspetavano. Io decisi di toglierlo dalla formazione e rimpiazzarlo con Derrick Phelps, un panchinaro a caso
che aveva solo tre presenze ufciali in tuta la sua carriera. Appena efetuai la sosttuzione, una scrita rossa
apparve sullo schermo:
“Sei sicuro di voler sosttuire MITCH RICHMOND con DERRICK PHELPS?”
Esitai per un momento, consapevole di aver preso una decisione poco ortodossa per un allenatore. Però
poi mi arrabbiai. Chi era il computer per dirmi chi potevo inserire nella formazione ttolare e chi no? Io ero
l’allenatore dei Sacramento Kings! Cliccai sul pulsante
START
e in pochi secondi Derrick Phelps stava
avanzando sul campo. Vinsi la palla a due, gliela passai e subito gli feci fare un tro da tre. Fu un lancio
terribile, che colpì a malapena il ferro, e l’altra squadra s’impossessò facilmente del rimbalzo. Avevo fato un
12
errore? Decisi di chiamare un tme-out e dare un’occhiata più atenta alle statstche di Derrick della passata
stagione.
Partte giocate: 3
Minut totali: 5
Media punt: 0.0
Non era molto incoraggiante, sopratuto se paragonato ai numeri di Richmond nella stessa annata:
Partte giocate: 82
Minut totali: 3172
Media punt: 22.8
Rimandai in campo Mitch Richmond per un paio di azioni. Rubò immediatamente una palla e lanciò un
perfeto alley-oop alla cieca verso il mio centrale. La folla andò in visibilio, ma il tfo mi lasciava indiferente.
Era troppo facile dominare la partta nei panni di Mitch Richmond. Certo, potevo giocare in maniera
canonica e lasciargli trascinare la squadra per tuto il campionato. Oppure potevo stravolgere il mondo del
basket e creare dal nulla una nuova leggenda. Una leggenda di nome Derrick Phelps. Chiamai un altro tmeout e lo rimandai in campo.
Per la fne del terzo quarto, Phelps aveva fato quasi setanta tri da tre. Era programmato per sbagliare
la maggior parte dei suoi lanci, eppure era riuscito a raccogliere sessantasei punt, e con il gioco setato sul
livello “facile” era tuto ciò che serviva per vincere la partta.
Nell’arco di tre setmane di gioco costante dopo la scuola avevo portato i miei Sacramento Kings al
campionato del mondo. Per allora, Derrick Phelps aveva frantumato ogni record rilevante nella storia
dell’NBA. Concluse la stagione con una media di otanta punt a partta. E non saltò un solo minuto di gioco,
non importa quanto fosse afatcato.
Ogni sera, sdraiato nel mio leto, mi immaginavo all’interno del gioco, mentre tenevo una conferenza
stampa in qualità di allenatore dei miei Sacramento Kings eletronici.
«Dove ha scovato il giovane Derrick? È il futuro Michael Jordan!».
«È meglio di Jordan», rispondevo. «Sta facendo cose in questo campionato che non sono mai state fate
prima. Cose che non sono state mai nemmeno sognate».
«Non le crea problemi la sua scelta di tri? Ieri sera ha tentato trentasete tri da tre, tra cui nove dalla
propria metà campo. Non è il segno di un giocatore egoista?»
«Mi sta a sentre», dicevo, rivolgendomi rabbiosamente al giornalista immaginario. «Phelps ha portato
più tfosi a questo campionato di chiunque altro nella storia. Se vuole trare anche da dicioto metri, be’, io
penso che se lo sia guadagnato!».
Quando avevo scoperto Derrick Phelps, era un giocatore senza esperienza che nessuno rispetava
13
nell’ambiente, e nell’arco di una stagione l’avevo trasformato nella più imponente star che lo sport avesse
mai conosciuto. Era il mio più grande successo.
Non ho mai deto a Elliot niente di tuto questo, ma penso che avrebbe capito. Naturalmente lui non
giocava con i videogiochi. Non ne aveva bisogno.
Sapevo che l’idea di Elliot era folle. La popolarità non era qualcosa che si poteva comprare come un paio
di scarpe da ginnastca. Ci volevano anni per acquisirla o, se eri Jessica, un’estate partcolarmente intensa.
Era divertente immaginare di essere popolare: sedermi dove mi pareva a pranzo, giocare un doppio ai
videogiochi, cantcchiare senza il tmore di essere aggredito. Ma quelle erano solo fantasie e i miei anni a
Glendale mi avevano insegnato a non crogiolarmi in quei pensieri.
Inoltre, la mia situazione non assomigliava neppure vagamente a come Elliot l’aveva descrita. Certo non
ero popolare nel senso tradizionale del termine, ma comunque la gente mi rispetava. Infat ero stato
invitato all’evento sociale più importante dell’anno: la festa di compleanno di Lance. L’invito era arrivato con
qualche giorno di ritardo e io avevo passato l’intero fne setmana nel panico, convinto di essere uno dei
pochi lasciat fuori. Ma alla fne mia madre mi si era presentata con il biglietno rosso lucente, frmato da
Lance in persona. Le cose non erano così male, no? Ero “cordialmente invitato” alla “festa in piscina di Lance
Cooper”. Un ripensamento, forse, ma che importava? Lance mi voleva alla festa. Per me era più che
sufciente.
Ero terrorizzato dall’evento in sé, naturalmente. Non mi ero fato vedere in costume da bagno dai miei
compagni di scuola dai tempi dell’esame di nuoto del setmo anno, e il ricordo di quell’episodio era così
terribile che mi faceva leteralmente sudare. La matna del giorno della festa, ero quasi deciso a fngermi
malato per evitare di dover andare. Ma non era quello il punto. Sdraiato nel mio leto, con l’invito di Lance
Cooper poggiato sul davanzale della fnestra, provai una soddisfazione che non sentvo da mesi. Era la prima
festa a cui mi invitavano da quando mi ero iscrito a Glendale. Chissà, magari la mia vita cominciava a
cambiare.
Stavo per addormentarmi quando un profumo inconfondibile s’insinuò soto la mia porta. Mia madre
stava infornando qualcosa, qualcosa di delizioso. Saltai istntvamente giù dal leto e brancolai lungo il
corridoio buio. Fu solo quando vidi l’orologio della cucina che capii che qualcosa non quadrava. Mamma
non cucinava mai a quell’ora.
La cucina era immersa nell’oscurità, a parte il leggero bagliore giallo della luce del forno. Mi guardai
intorno cercando mia madre, ma era tornata in camera da leto in atesa che la cotura si ultmasse. Io
sbirciai incredulo dentro il forno. Era assurdo: mamma stava facendo i biscot, un’intera teglia di biscot al
burro di arachidi, e non me l’aveva nemmeno deto. Stavo per bussare alla sua porta e afrontarla quando lo
sguardo mi cadde su una scatola di lata poggiata sul piano della cucina. Mamma l’aveva rivestta di carta da
forno e aveva ataccato al coperchio un biglieto di ringraziamento. Era indirizzato alla signora Cooper.
La madre di Lance.
14
Aprii il biglieto.
La ringrazio senttamente per aver acconsentto a invitare Seymour, non potrebbe essere più
emozionato! Riguardo alla nostra discussione, mi assicurerò che Seymour prest atenzione alla sua igiene
personale e che non si ripeta “l’incidente” dell’esame di nuoto.
Sgataiolai in camera mia, vergognandomi un po’. Papà era sembrato eccitato quando a cena gli avevo
deto della festa di Lance. Chissà se era a conoscenza del patetco intervento di mia …e delle condizioni che
aveva accetato. Immaginavo Lance discutere per tre giorni con sua madre prima di frmare con rilutanza il
mio invito. Potevo vederlo mangiare i biscot con i suoi amici, spiegando la triste storia della loro origine.
Erano le undici di sera, parecchio oltre l’orario in cui i ragazzini andavano a dormire, ma in qualche
modo sapevo che avrei trovato Elliot sveglio. Chiusi a chiave la porta, per la prima volta da che ricordassi, e
cercai il suo numero sull’elenco.
«Okay», dissi. «Quando si comincia?».
Elliot rise.
«Subito».
«Insomma, Vlad, non hai mai giocato nell’NBA?»
«Be’… no. Non ufcialmente. Ma un’estate mi sono allenato con i Pacers, e nella
2
CBA
ho giocato con dei
ragazzi dell’NBA».
Elliot roteò gli occhi.
«Be’, lo farai un giorno», disse.
Il giocatore guardò giù verso Elliot con gli enormi occhi sbarrat. Vlad era probabilmente la persona più
alta che avessi mai conosciuto e le sue cosce erano spaventosamente muscolose. Tutavia parlava con il
nervosismo di un ragazzino che si presenta durante il primo giorno di scuola. Fece rimbalzare la palla contro
il parquet e l’eco riverberò tuto intorno. Elliot aveva aftato un’intera palestra, che adesso era
completamente vuota a parte me, lui e Vlad.
Elliot non mi aveva deto dove stavamo andando dopo la scuola, si era limitato a spingermi dentro la
sua limousine. Gli avevo fato alcune domande durante il viaggio, ma era stato troppo impegnato in varie
telefonate per rispondere. Quando arrivammo alla palestra, mi lanciò una borsa di vestt sportvi, ma per il
resto mi ignorò.
Indossava un doppiopeto grigio con un fazzoleto blu che spuntava dal taschino.
«Quand’è che il coach seleziona le matricole?».
Feci spallucce.
2
La Continental basketball association è stata una lega statunitense di basket professionistico, che ha costituito per anni il principale
serbatoio di giocatori per le panchine delle squadre NBA.
15
Prese il telefono e premete un solo tasto.
«Trovami la data esata dei provini di basket dell’otavo anno a Glendale», disse a qualcuno. Richiuse il
telefono e se lo rimise in tasca.
«Be’?», disse. «Che stamo aspetando?».
Per le due ore successive, all’incirca, Vlad mi sotopose a vari test di pallacanestro per valutare il mio
“livello di base”. La prima volta che feci rimbalzare la palla, scagliandola a terra con le due mani tremant, lui
trasalì. Fece del suo meglio per rimanere professionale, incoraggiandomi educatamente dopo ogni tro
sbilenco, ma vedevo chiaramente l’orrore dipinto sul suo viso. Scoprii più tardi che Elliot pagava Vlad sulla
base delle mie prestazioni. Se non fossi riuscito a far parte della squadra, Vlad avrebbe rinunciato a una
quanttà pazzesca di soldi.
Dopo il mio secondo accesso di tosse, Vlad tagliò corto con i test e mi condusse verso le gradinate. Elliot
era assorto in qualche grosso volume di storia militare, roba di navi a giudicare dall’aspeto, e ci vollero un
paio di tentatvi per atrare la sua atenzione.
«Be’, come va?», disse.
«Non male», disse Vlad con un sorriso forzato. «Ci mete il cuore».
Elliot richiuse il libro con un colpo secco e puntò il suo piccolo indice verso Vlad.
«Non mi prendere per il culo!», gridò.
Atese alcuni istant perché l’eco si spegnesse. Quindi contnuò, più calmo.
«Qui non si trata di “sentmento”, Vlad. Non si trata di “autostma”. Qui si trata di vincere. Io t pago
per vincere. Ora dimmelo chiaramente: sei in grado di allenarlo per farlo entrare nella squadra? O devo
cercarmi qualcun altro che sia in grado?».
Vlad sedete sugli spalt.
«Ok», disse. «Onestamente? Non sarà facile. Questo ragazzino sembra non aver mai giocato prima, né
aver mai visto giocare a basket. E non è solo la tecnica. Fisicamente è un disastro. Per avere quatordici anni,
la sua capacità polmonare è parecchio scarsa. E la sua andatura, il modo in cui corre… è assurdo. La prima
volta che abbiamo corso sul terreno di gioco pensavo scherzasse. Invece no. Lui corre veramente così».
Elliot annuì.
«Va bene», disse. «Quindi quanto ci vorrà?».
Vlad alzò lo sguardo verso le travi e lasciò partre un lungo sospiro.
«Io direi un minimo di due ore al giorno. Più potenziamento e condizionamento fsico. Ma queste
sarebbero solo le basi. Senza altri giocatori con cui fare qualche scambio non capirà mai come si gioca».
«Bene, troveremo altri giocatori».
«Come pensi di fare? Voglio dire, non puoi mica reclutare un’intera squadra di…».
Elliot strizzò gli occhi.
«Facciamo così», disse. «Tu evita di dire a me cosa posso e cosa non posso fare. Qualcuno t ha spiegato
la mia situazione? Chi sono, come mi muovo e cose del genere?».
16
Vlad annuì.
«Bene», disse Elliot. «Bene».
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie.
«Mi dispiace di aver alzato la voce, prima», disse. «Sono davvero di pessimo umore».
Diede una pacca sulla gigantesca spalla di Vlad.
«Otmo lavoro, per oggi».
Aprì lo sportellino del cellulare e mormorò qualcosa nel microfono. Pochi secondi dopo le porte della
palestra si aprirono e dei tzi frustrat di mezza età sciamarono sul campo.
«Il posto è aperto al pubblico, adesso», annunciò Elliot abbotonandosi stancamente il lungo cappoto
nero. Uno di loro fece per chiedergli chi fosse e come fosse riuscito a prenotare durante il loro solito turno,
ma il suo amico lo zit. Sembrava che in qualche modo avessero intuito che sarebbe stato un grosso errore
metersi a discutere con Elliot.
«Dì loro che hai fato pratca», disse Elliot. «Dì che t sei allenato duramente per tuta l’estate e ora vuoi
giocare con loro».
Era un venerdì pomeriggio e Lance aveva organizzato la solita partta tre contro tre al John Jay Park.
Quasi tut i ragazzi si afollavano ai bordi del terreno di gioco nella speranza di essere scelt quella
setmana. Le ragazze stavano sedute sulle gradinate a mangiare patatne frite facendo fnta di non
guardare.
«Che stai aspetando?», chiese Elliot. «Fai come t dico!».
Gli spiegai quanto fosse difcile rientrare in uno dei sei post, quanto anche gli student più atletci
dell’otavo anno avevano dovuto arrufanarsi Lance per tuta la setmana per essere presi in
considerazione. Non era possibile che mi scegliessero, gli dissi, e se anche fosse successo, la partta sarebbe
stata imbarazzante. Avevo sicuramente fato dei progressi durante le mie prime cinque setmane di
allenamento: avevo fnalmente capito cosa fosse un “doppio” e, a giudicare dalla quanttà di dolci che mia
madre mi proponeva ogni sera, dovevo aver perso un considerevole numero di chili. Ma non ero ancora
nemmeno vagamente al loro livello.
«Non mi faranno giocare», dissi. «Tu non sai come funzionano le cose qui».
Elliot si allontanò da me di un paio di passi, poi si voltò bruscamente.
«Okay», disse. «Tanto per cominciare, non dirmi mai che non so come funziona qualcosa».
Fece una pausa, in modo da far sedimentare l’ammonimento.
«Dovrai fdart di me», disse. «Il mio piano è troppo elaborato e ingegnoso perché tu lo capisca adesso,
ma è vitale che tu segua alla letera ogni passo. Ora va’ lì e digli, più forte che puoi, che t sei allenato a
pallacanestro per tuta l’estate e che vorrest far parte della squadra».
Elliot sembrava irremovibile. Feci una lunga sorsata di Pepsi per prendermi qualche secondo per
pensare. Normalmente cercavo di limitare i miei contat con Lance. Da qualche tempo aveva cominciato a
17
chiamarmi “Cicciobombo” e io ero terrorizzato che se avesse insistto ancora un po’ con quel soprannome
poi sarebbe diventato di uso comune. D’altra parte, Elliot aveva fato così tanto per me nelle ultme
setmane che non volevo mi considerasse un ingrato. Posai la latna e mi diressi verso il campo.
«Aspeta!», sussurrò Elliot. «Chi è quella “femmina alfa” al centro dell’atenzione, sulle gradinate?
Quella che sorride, con quegli stupidi, stupidi ricci?»
«Oh, quella è Jessica», dissi. «È quella che t avevo deto di spostare più in alto nella tua classifca. È
probabilmente la ragazza più popolare dell’otavo anno.
«Giusto, è lei», disse Elliot . «A me sembrano tute uguali».
Si voltò verso di me.
«Assicurat che t senta».
Quando, trenta secondi dopo, tornai indietro, avevo le guance rosse e gli occhi gonf di lacrime.
«Com’è andata?», mi chiese Elliot.
«Mi ha chiamato Cicciobombo e tut hanno sentto. Non posso crederci… Cominceranno tut a
chiamarmi così. Ora sono Cicciobombo. Questa è la mia vita, adesso».
Guardai verso il campo. Qualcuno passò la palla a Lance e lui segnò immediatamente un tro da tre.
Elliot ghignò e tornò al suo libro.
«Perché sorridi?», dissi. «Ha deto di no. Non ha funzionato».
«Stai scherzando?», disse. «Ha funzionato alla grande».
Vlad mi porse la palla e poi, con le mani, mi sistemò braccia e gambe nella correta posizione di tro.
«Accompagnala, questa volta», disse. «E non dimentcare la rotazione».
Controllai la presa, piegai le ginocchia e saltai sulla linea del tro libero. La palla si staccò dalle mie dita,
descrisse un arco in aria e scivolò al centro del canestro. Mi girai per vedere la reazione di Elliot, ma era
troppo preso dalla letura per accorgersene.
«Ehi, Elliot. Ho fato canestro!».
Vlad poggiò la sua mano gigantesca sulla mia spalla.
«È decisamente troppo presto per festeggiare, ragazzo», disse. «Abbiamo ancora un mare di lavoro da
fare».
Vlad sofò nel fschieto, e un tzio alto in calzoncini da basket e berreto da baseball entrò nella
palestra. Mi sembrava di conoscerlo, ma in quel momento non riuscivo a collocarlo.
«Ho portato i ragazzi che mi avete chiesto», annunciò con voce profonda e piata. «Se ne servono altri,
fatemi sapere».
«Oh mio Dio», dissi. «James?».
Era l’autsta della limousine di Elliot, il tpo che tut i giorni ci accompagnava in palestra. Non l’avevo
mai visto senza l’abito nero e il cappello.
James schioccò le dita, e un gruppo di ragazzi con in dosso magliete uguali corse dentro la palestra.
18
Notai che erano esatamente nove, il numero giusto per una partta regolamentare. Vlad guardò James per
qualche secondo, stupito che avesse reclutato tut quei ragazzini senza il minimo sforzo. Poi si schiarì la
voce, sofò nel fschieto e si rimise al lavoro.
«Come hai convinto quei ragazzi a venire?», domandai mentre tornavamo a casa in limousine.
«Ho fato creare a James un campionato di pallacanestro», mi disse Elliot. «Ci sono più di cento
giocatori».
«Oh Gesù», sussurrai. «Non è chiedere un po’ troppo al tuo autsta?»
«James è più di un autsta», disse Elliot.
«Capisco», risposi. «Però… comunque… non è un po’ folle creare un campionato intero solo per me?»
«Ti servivano dei compagni di gioco. E questo era l’unico sistema per convincere i genitori a mandare i
ragazzi. Qualunque altra cosa li avrebbe insospett».
«Quindi… ci sono, tpo, le partte e tuto il resto? Anche quando non ci sono io?»
«È un campionato regolare», disse. «Ci sono tornei, allenatori, un bolletno. La squadra con cui hai
giocato oggi era convinta di essere qui per un vero allenamento. Si chiamano i Timberwolves».
Viaggiammo in silenzio per un po’.
«Ehi Elliot», dissi. «Hai visto l’ultmo quarto?»
«No», rispose. «Stavo leggendo».
«Oh. Be’, è stato fco. Ho rubato palla un paio di volte e ho fato diversi tri da soto. Non ero il migliore,
là in mezzo, ma ero decisamente sopra la media. Non voglio cullare troppe speranze ma… comincio a
sentrmi tranquillo per i provini».
Elliot annuì.
«Non compiacert troppo. I Timberwolves sono la squadra più scarsa del campionato».
Nelle setmane successive la mia velocità aumentò, i miei tri migliorarono e la mia sicurezza crebbe.
Ogni setmana giocavo contro squadre sempre più fort del campionato di Elliot, e nella setmana dei
provini conducevo regolarmente gli sconclusionat Timberwolves alla vitoria.
Mia madre, terrorizzata dalla mia recente perdita di peso, mi fece vedere da due diversi dotori in cerca
di parassit. Quando spiegai che avevo giocato a basket dopo la scuola, con Elliot, la cosa sembrò
confonderla ancora di più.
«Non t aveva spinto giù dalle scale?», chiese.
«Era solo un esperimento», dissi io.
La faccenda fnì lì.
Volevo giocare nel parco per vedere come me la cavavo contro i miei compagni di classe, ma Elliot mi
ordinò di non farlo.
«Lance potrebbe accorgersi dei tuoi progressi», disse. «Ed è indispensabile che lo prendiamo alla
19
sprovvista».
Scosse la testa, improvvisamente disgustato.
«Il fato che uno della classe di Lance sia importante nella scuola è una perfeta testmonianza del basso
livello di questo posto».
«Che vuoi dire?», chiesi. «Lance non è… sai…».
«Lance non è cosa?»
«Be’, lo sai, dai… non è ricco?»
«Certo che no», rispose. «Suo padre è il proprietario di alcuni magazzini nel Queens. Non è esatamente
un impero».
«Ma ha le nuove Penny Hardaways», dissi io.
«Esato! Le scarpe più spaccone che ci siano sul mercato. Ha bisogno di portare quelle scarpe per far
vedere che la sua famiglia fnalmente se le può permetere. È come un cavernicolo con un pezzo d’avorio al
naso. Certo, Lance è orgoglioso delle sue scarpe. Ma quando i suoi fgli vedranno le foto, saranno
imbarazzat all’idea che il loro padre abbia dovuto darsi così tanto da fare. E i suoi nipot saranno davvero
mortfcat».
Guardai le scarpe di Elliot. Erano mocassini cucit a mano, realizzat in quella che sembrava pelle di
coccodrillo. Avevano la punta d’argento e la fbbia d’oro, e le suole erano color sangue.
«E che mi dici di quelle?», chiesi.
Elliot fece spallucce.
«Gli Allagash sono tornat alle origini».
Lance sarà stato anche il primo a scuola a portare le Penny Hardaways, ma il giorno del provino,
talmente tant ragazzi avevano cominciato a imitarlo che lui aveva sentto il bisogno di un salto di qualità.
Indossava le nuove Air Jordan, delle scarpe scandalosamente costose con lacci dorat e una specie di
lingueta rimuovibile. Nessuno le notò fnché non ci ritrovammo nell’aula di studio a fare i compit, quando
Lance inclinò la sedia e poggiò entrambi i piedi sul banco.
Era un gesto piutosto clamoroso, ma il signor Hendricks tenne la bocca chiusa. Era un ometo nervoso,
un fragile professore di francese a cui tremavano comicamente le mani ogni volta che urlava. Indossava
giacche di tweed e occhiali dalla montatura scura, ma non riusciva a nascondere il fato di essere il
professore più giovane della nostra scuola. Era evidente, si vedeva dalla precisione dei suoi esami, dalla cura
che meteva nel realizzare i murales e dal modo in cui ritratava quando gli student si lamentavano per i
troppi compit a casa. Elliot lo prendeva costantemente in giro – sopratuto per la scarsa qualità dei suoi
complet di tweed – ma senza dubbio era il mio insegnante preferito. Era l’unico con cui riuscivo a
comunicare.
Jessica e Lance cominciarono a bisbigliare e il signor Hendricks trò fuori un libro, facendo fnta di non
accorgersi di nulla. Quando i loro toni di voce crebbero a un livello impossibile da ignorare, andò in bagno
20
così da non doverli sgridare.
«Dovrest venire a vedere i provini», disse Lance a Jessica.
«Ho le prove con le cheerleader».
Ero seduto proprio dietro di loro; notai che a un certo punto Jessica aveva poggiato i piedi vicino ai suoi.
«Potreste chiedere di iniziare la stagione con un po’ di vantaggio, ragazzi», disse Lance. «Fai il tfo per
me, oggi».
Lei avvicinò leggermente i suoi piedi a quelli di lui, fnché non furono pratcamente a contato.
«Ci sarò».
Mi si strinse lo stomaco. Ero già abbastanza nervoso senza la minaccia di un pubblico femminile. Se
fosse venuta Jessica, sarebbero venute tute le ragazze. Mi ero allenato per mesi… e se poi fosse stato un
disastro? L’unica cosa che riuscì a calmarmi fu la vista di Elliot. Stava guardando fuori dalla fnestra, con le
braccia conserte e un sorriso tranquillo sul volto. Per quanto fosse difcile immaginare il mio successo, era
altretanto difcile immaginare un fallimento di Elliot.
Qualche ora prima dei provini, il signor Hendricks ci portò in cortle per la ricreazione. Stavo facendo
degli esercizi di yoga che mi aveva insegnato Vlad, quando senti un vociare dalle part della fontana. Un
tzio con in dosso un enorme costume di gommapiuma a forma di biscoto al cioccolato stava distribuendo
campioni dei prodot Nestlé. Istntvamente cominciai a correre verso di lui, quando senti la mano di Elliot
stringersi sulla mia spalla.
«Sono per loro», disse. «Non per te».
Guardai verso il cortle. Hendricks stava incitando i ragazzi a “prenderne solo uno”, ma era troppo tardi.
Lance aveva già organizzato una specie di sfda mangereccia, e gli altri ragazzi stavano facendo il tfo per lui,
intonando a gran voce il suo nome. L’uomo nel costume di gommapiuma svuotò a terra ciò che rimaneva
del suo cesto e i ragazzi più grossi cominciarono ad accapigliarsi là sopra. Poi annuì una volta in direzione di
Elliot e scomparve.
«Oh mio Dio», dissi. «Ma quello era James?».
Elliot si appoggiò contro le struture da arrampicata del cortle e guardò la folla.
«Guardali, gli animali», disse. «Mangiano il loro zucchero».
Guardò l’orologio.
«A volte è quasi troppo facile».
Di solito il signor Hendricks doveva spegnere le luci per fare in modo che prestassimo atenzione
all’Annuncio Finale. La classe però era stravolta dal sovraccarico di zuccheri. Quasi tut erano riversi sui
banchi, con gli occhi mezzi chiusi. Alcuni dormivano davvero.
«So che siete tut eccitat per i provini di basket e delle cheerleader», disse il signor Hendricks. «Prima
di lasciarvi andare, però, abbiamo un breve annuncio da parte di uno studente. Elliot?».
21
Elliot si diresse verso la lavagna e giunse le mani, come in preghiera.
«Ogni anno», disse, «circa tre dozzine di giovani della nostra comunità sono vitme di avvelenamento
da amianto. Ho deciso di dare vita a un programma extra-scolastco per combatere questa terribile piaga.
Io sarò il presidente, ma avrò bisogno di un segretario che mi aiut nelle faccende amministratve ogni
martedì, giovedì e venerdì. Ovviamente chiunque dovesse ricoprire questo ruolo sarà costreto ad
abbandonare gli impegni di basket o la squadra delle cheerleader. Ma – sono sicuro – siamo tut d’accordo
che un simile sacrifcio è un piccolo prezzo da pagare per aiutarci a rimuovere l’amianto dalle scuole del
circondario. Chiedo dunque a voi, miei compagni Leoni di Glendale, di eleggere lo studente che più ritenete
meritevole di tale incarico».
Alcuni sollevarono lo sguardo mentre Elliot si aggirava per l’aula e posava sul banco di ciascuno una
scheda per votare. Avevo passato abbastanza tempo con lui da essere ormai abituato alle sue stranezze. Ero
avvezzo alle sue dita nodose, la sua voce stridula e il suo sguardo gelido. Ma i miei compagni lo tratavano
come un fantasma, ignorandolo ogni volta che potevano.
«Non sapevo che avessi fondato un club», sussurrai quando tornò a sedersi.
«Non l’ho fato», disse lui.
Avevo altre domande, ovviamente, su James e i dolci, ma decisi di lasciar perdere. C’era qualcos’altro
che volevo dirgli, qualcosa che avevo intenzione di dire da mesi.
«Ehi, Elliot, sent… anche se non dovessi riuscire a entrare nella squadra, volevo dirt, ecco, grazie
per…».
Mi interruppe.
«Non ringraziarmi», disse. «Ricorda, non sto facendo tuto questo per bontà d’animo o per generosità.
Lo sto facendo semplicemente per sport. Un esercizio intelletuale, un modo per tenermi occupato durante
questo infernale momento della mia vita».
«Okay», dissi io. «Comunque sia… volevo ringraziart. Signifca molto per me».
Elliot esitò e giocherellò con il gemello sul polsino. Mi resi conto che era la prima volta che lo vedevo a
disagio.
«Prego», borbotò alla fne.
Poi la campanella suonò e ci dirigemmo verso la palestra.
I provini sembravano andare al rallentatore, come una specie di sogno. Ero migliorato così tanto e così
in freta che sembrava che tut gli altri fossero peggiorat. Rubai palla a Lance alla prima occasione e
sfrecciai atraverso il campo per un facile tro da soto. Lance, un po’ sorpreso, fece del suo meglio per
pareggiare il conto nell’azione successiva, ma io antcipai il suo passaggio, rubai palla di nuovo e mi liberai
per un altro tro a canestro. Questa volta lanciai con la sinistra, tanto per variare. Nel fratempo la mossa
dello zucchero di Elliot stava otenendo l’efeto desiderato. Gli altri ragazzi erano talmente indolent sul
campo che l’allenatore dovete interrompere l’azione durante le gare di scato per fare un discorso sulla
22
“volontà”. Uno dei ragazzi più grossi, che aveva contnuato ininterrotamente a mangiare i dolci omaggio fn
dalla ricreazione, approftò di quel momento per andare in bagno a vomitare.
All’inizio dei provini, quando avevo cominciato a dominare il campo, Lance aveva reagito ridendo. Ma il
suo divertmento lasciò presto il posto alla frustrazione… e poi alla paura. Nei secondi fnali della partta,
fece raddoppiare la marcatura su di me sulla linea di metà campo nel disperato tentatvo di fermarmi. Io lo
superai con una giravolta, saltai l’altro difensore con una fnta e poi lasciai partre un tro da tre proprio sulla
sirena. La palestra piombò in un silenzio reverenziale. L’unico suono udibile era un risolino acuto e stridulo
proveniente dagli spalt. Immaginai fosse una delle ragazze, che erano tute ammassate in prima fla, invece
era Elliot. Stava seduto all’ultmo ordine delle gradinate e beveva quello che sembrava una specie di Martni.
Sorrise alle cheerleader allibite, mi fece un cenno con la testa e scomparve.
Non ero abbastanza aggressivo da farmi strada in mezzo all’assembramento di gente, ma non avevo
bisogno di vedere la lista per sapere che avevo conquistato un posto in squadra. Dei ragazzi che conoscevo a
malapena mi diedero pacche sulle spalle, e perfno Lance mormorò delle congratulazioni. Stavo per
andarmene a casa quando Elliot mi fermò. Allargai le braccia per abbracciarlo, ma lui sollevò le mani in
segno di protesta.
«Non è ancora fnita», disse
«Che intendi?»
«L’obietvo non era fart entrare in qualche pietosa squadra sportva», disse. «Quello era solo il primo
passo. Non cerchiamo l’accetazione da parte degli altri, cerchiamo il predominio».
Si avvicinò e contnuò sotovoce. Aveva l’alito catvo, aveva l’odore della formaldeide che usavamo
quando sezionavamo le rane.
«Fidat di me», disse. «Questo è solo l’inizio».
Montò su una sedia e si rivolse al capannello di student ammassat intorno alla lista. Aveva ricevuto i
risultat delle votazioni per il segretario, disse, e la classe aveva scelto, a stragrande maggioranza, me. I miei
nuovi compagni di squadra lo guardarono basit.
«Non può farlo», disse uno di loro. «Fa parte della squadra».
«Mi rendo conto che la pallacanestro è molto importante», disse Elliot. «Ma questa è l’opportunità di
aiutare ragazzi meno fortunat. Forse dovremmo lasciare a lui la decisione».
I ragazzi ridacchiarono e fecero qualche batuta. Notai che le ragazze, però, avevano una reazione
diversa. Alcune di loro guardavano i maschi alzando gli occhi al cielo, altre mi sorridevano con uno sguardo
rapito.
«Cosa pensi di fare?», mi chiese Jessica, posandomi la mano sull’avambraccio. «Cosa sceglierai?».
Quell’anno circolava una serie di libri molto popolare, chiamata Magic Eye. Ogni libro conteneva un
certo numero di immagini elaborate al computer. Erano prive di signifcato, ma se uno le osservava
abbastanza a lungo e con atenzione cominciava a vedere delle forme tridimensionali. Un cavallo, una
23
corona, una spada. Lo stesso successe in quel momento, quando misi a fuoco i contorni e cominciai
fnalmente a vedere il disegno complessivo.
Atesi che gli occhi fossero tut puntat su di me. Quindi mi schiarii la voce, feci una pausa a efeto e
annunciai la mia decisione.
«Ho deciso di unirmi all’associazione di Elliot», dissi. «La pallacanestro potrà essere più divertente, ma
preferisco fare qualcosa per cambiare il mondo».
Sentvo ancora le ragazze parlotare eccitate mentre seguivo Elliot fuori, in strada. Riuscii a controllare il
mio entusiasmo fnché le portere della limousine non furono chiuse.
«Hai visto quando Jessica mi ha toccato il braccio? L’hai visto?»
«Ho visto».
«Hai visto la faccia di Lance?», dissi. «Quando ho scaricato la squadra? Mio Dio… sono troppo fco
perfno per giocare con quel tpo! Sono troppo fco addiritura per far parte della sua stupida squadreta!».
«Ci sei arrivato, Watson».
«Immagino non esista alcuna associazione contro l’amianto, giusto?»
«Certo che no. Ma comunque ci incontreremo tre volte a setmana».
«Per fare che?»
«Per progetare la nostra prossima mossa. Siamo partt a razzo, ma ancora non siamo nemmeno
vagamente vicini al traguardo».
Aprì il tetno, e la macchina fu inondata di luce e di calore. Io misi fuori la testa e una folata di vento mi
colpì in pieno viso. Immaginai per un atmo che non ci fosse alcuna limousine, ero solo io che correvo su
Park Avenue, sfrecciando per la cità a cinquanta all’ora. Gridai a Elliot di venire su con me, ma rifutò. Alla
fne, dopo qualche isolato, lo aferrai per il polso scheletrico e lo trai su dal sedile. Lui oppose resistenza e si
dimenò per un isolato o due, come un pesce preso all’amo, ma quando la sua testa emerse dal tetno e
l’aria tepida lo colpì sul volto mi guardò e non riuscì a tratenere un sorriso.
«Fai fnta che la macchina non ci sia!», gli urlai, facendo avant e indietro con le braccia. «Che siamo solo
noi che corriamo!».
Quel gesto mi faceva apparire così ridicolo che entrambi scoppiammo a ridere.
Elliot si rintanò nuovamente nella limousine.
«James, accelera!», disse. «Abbiamo da fare, non vedi?».
Se c’è una cosa che ho imparato dalla televisione, è che non devi mai fdart di un genio. Non importa in
che modo usi i tuoi tre desideri, il genio troverà sempre un modo per fregart. Se chiedi un milione di dollari,
quest arriveranno da un’assicurazione sulla vita dopo che tua moglie sarà morta in un incidente aereo. Se
desideri la fama, un’orda di fan t travolgerà a morte.
«Credevo avessi deto di volere i soldi», dirà il genio con un ghigno sul volto. «Credevo volessi la
celebrità».
24
«Non così», risponderai. «Non in questo modo!».
E il genio t riderà in faccia tenendo le muscolose braccia blu incrociate sul peto.
A dieci anni avevo visto una puntata di Ai confni della realtà in cui un negoziante trovava un genio.
Quando esprimeva il desiderio di diventare potente, veniva immediatamente trasformato in Hitler. A me era
sembrato un po’ scorreto, anche per gli standard dei geni. Naturalmente, diedi la colpa al negoziante. Non
avrebbe dovuto desiderare qualcosa di così egoistco e meschino. Avrebbe dovuto accontentarsi della sua
vita da negoziante. Avrebbe dovuto tenere a mente tute le storie educatve che aveva leto da ragazzo sui
geni e i loro trucchi, e quando aveva trovato la lampada d’oro e ne aveva sfregato la liscia, levigata
superfcie, quando aveva inalato quel fumo violaceo e sentto la voce roboante, avrebbe dovuto getarla via.
Facile a dirsi. All’epoca non avevo mai incontrato un genio.
Elliot aveva un’enorme collezione di giochi. Possedeva un intero scafale di inset fossili. Aveva una
vecchia versione di Monopoli degli anni Trenta, con un tabellone circolare e banconote ormai consunte che
arrivavano fno a vent dollari. Aveva addiritura un genio a monete, un automa in turbante, a grandezza
naturale, chiuso in una teca di vetro, che si chiamava Grande Shamba. Inflando un nichelino dentro la
macchina, il genio ruotava per una trentna di secondi e dalla sua bocca spuntava un biglietno, come una
lingua di carta. I cartoncini dicevano sempre la stessa cosa: «Se insist».
La camera da leto di Elliot aveva un montacarichi, collegato tramite un sistema di pulegge diretamente
alla cucina. Non avevo mai visto la cucina, ma doveva essere incredibilmente fornita. Erano in grado di
preparare qualunque piato lui chiedesse, non importa quanto fosse complesso. Ogni volta che Elliot voleva
qualcosa, scarabocchiava l’ordine su un pezzeto di carta, lo getava nella cabina e mandava giù quest’ultma
tramite una grossa manovella circolare che sembrava il tmone di una nave. Diversi piani più in basso doveva
suonare una campana che segnalava l’arrivo dell’ordinazione, e nell’arco di trenta minut la manovella
cominciava a girare nell’altra direzione. Il profumo di cibo sarebbe salito lentamente atraverso il pozzo
fnché il piato non si sarebbe materializzato. Elliot raramente mangiava qualcosa che non fosse un
sandwich al crescione, ma mi incoraggiò a metere alla prova i limit della cucina. Dietro suo consiglio,
assaggiai dozzine di piat strani: tartare di manzo, ostriche gratnate al bacon, fleto alla Wellington. Se
qualcosa non mi piaceva, scribacchiava un altro ordine, girava la ruota e riprovava.
Il montacarichi era progetato per il cibo, ma Elliot lo usava per qualunque cosa. Se era stanco dei suoi
vestt, mandava giù la richiesta per “un nuovo stock di giacche” e prontamente arrivava un carico di vestt
nuovi di zecca. Lui li provava davant a uno dei suoi molt specchi a fgura intera, teneva quelli che gli
piacevano e rimandava giù gli altri. Una volta, mentre cercavo di fnire un compito di matematca e lui mi
raccontava una delle sue lunghe storie, mi strappò il quaderno di mano e lo scagliò nel montacarichi. Pochi
minut dopo arrivò la soluzione, insieme a un foglio a parte con i “passaggi evidenziat”.
A volte Elliot mandava giù la richiesta di qualche oggeto che aveva mollato in giro per casa, come la
stlografca, il telefono o le chiavi. Tuto ciò che doveva fare era scarabocchiare su un foglieto cosa aveva
25
perso e girare la ruota magica: il suono della campana era seguito da uno sferragliare, e poco dopo l’oggeto
smarrito ricompariva tra le mani di Elliot. Quando era partcolarmente annoiato, nascondeva le chiavi in
qualche posto sperduto, tpo soto una scrivania o dietro un arazzo, e cronometrava quanto tempo
impiegava la servitù a trovarle.
Gli Allagash non erano riuscit a trovare un edifcio residenziale abbastanza grande per le loro necessità,
quindi si erano trasferit in un ex palazzo di giustzia che avevano comprato dall’amministrazione municipale
di New York. Avevano rivoltato gli interni lasciando però la facciata com’era, con le colonne, le bandiere e
tuto il resto.
Quella che Elliot defniva la sua “camera da leto” era in realtà un insieme di diverse stanze, distribuite
su due piani. Aveva un ufcio, un camerino, una specie di cineteca che teneva chiusa a chiave e due cabine
armadio. Aveva anche una sala da biliardo, in cui era presente un secondo montacarichi, più piccolo, usato
solo per i drink.
La cosa più incredibile a casa di Elliot era il gigantesco orso a cui suo padre aveva sparato e che poi
aveva fato collocare nella sua biblioteca. L’orso era più alto di Vlad di almeno trenta centmetri e tre volte
più largo. Ma non erano le sue dimensioni a lasciarmi basito: era la sua posa. Gli orsi che avevo visto nei
musei avevano un’aspeto feroce, con le zampe anteriori minacciosamente spalancate e le bocche dai grossi
dent ateggiate in un ringhio perenne. Questo qui invece non sembrava catvo: sembrava terrorizzato.
Aveva gli occhi sbarrat e lucidi e il pelo irto rizzato sulla testa. Le zampe erano sollevate davant al muso in
ateggiamento difensivo. Immaginai il padre di Elliot che seguiva la scia di sangue, inseguendo l’orso ferito
fno al posto in cui questo aveva scelto di morire. L’orso era paralizzato quando il cacciatore aveva puntato il
fucile per fnirlo con un unico, fatale colpo.
C’era anche una scimmia impagliata nell’atrio principale, con indosso uno smoking. Elliot l’aveva uccisa
durante il suo ultmo viaggio in Africa con il padre. Era piccola, più o meno la metà di un bambino dell’asilo.
«Dai a Jeeves il tuo cappoto», ordinò Elliot la prima volta che le passai davant.
Io abbassai lo sguardo verso la scimmia. La schiena irsuta era piegata in un inchino deferente e le labbra
imbalsamate erano state posizionate in un ghigno orribile. Il braccio destro era proteso in avant per
prendere le giacche.
«Non voglio», dissi.
Elliot rise.
«Non essere maleducato», disse. «Jeeves sta aspetando».
«Lo appenderò da qualche altra parte», azzardai.
Elliot smise di ridere, e rimanemmo là in piedi in silenzio fnché non mi decisi a poggiare la mia giacca a
vento viola sul braccio impagliato della scimmia.
Elliot ingessò la stecca, si inchinò sul tavolo e senza difcoltà spedì una palla nella buca d’angolo. Mi
aveva portato nella sala da biliardo per insegnarmi a giocare, ma in tre quart d’ora avevo imbroccato