RIPASSIAMO LE DECLINAZIONI LATINE

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RIPASSIAMO LE DECLINAZIONI LATINE
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RIPASSIAMO LE DECLINAZIONI LATINE: QUALCHE SPUNTO
Massimo Raffa
Destinatari: studenti dal II Classico e Scientifico in poi.
Prerequisiti: aver studiato le cinque declinazioni della lingua latina.
Obiettivo: giungere a una visione d'insieme delle declinazioni, dei loro tratti
comuni e dei legami con l'italiano, in modo da agevolare la memorizzazione e il
riconoscimento delle terminazioni.
Lavoro preparatorio: le declinazioni latine e quelle italiane
Ricordiamo alcuni fatti ovvi. Nelle frasi italiane
Cesare vede Antonio
Antonio vede Cesare
il senso è deciso soltanto dalla posizione degli elementi del discorso. In Latino
invece si può dire
Caesar videt Antonium
Antonium videt Caesar
Antonium Caesar videt
Caesar Antonium videt
Videt Caesar Antonium
Videt Antonium Caesar
senza che il senso ne risenta: la frase vorrà sempre dire «Cesare vede Antonio»
(tutt'al più vi possono essere sfumature diverse nell'enfatizzazione del predicato,
del sogg. o del compl. ogg., ma non è il caso di entrare in simili sottigliezze in
questo momento). Quindi dove sempre ricordare che che trasporre sic et simpliciter
l'ordine delle parole latine nella traduzione italiana, senza una previa verifica delle
funzioni logiche, è procedura che espone ad errori gravi e frequenti – ossia, come
dico certe volte in classe, «andate a sbattere».
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A questo punto siamo concettualmente pronti per l'approccio al concetto di
declinazione. La 'declinazione' è un'astrazione operata a posteriori rispetto alla realtà
della lingua; un romano dell'età di Cicerone o Seneca rimarrebbe probabilmente
stupito nel sentire parlare delle cinque declinazioni (la quinta, poi, è più che altro
una costruzione artificiosa dei grammatici tardi). Ciò detto, però, è necessario
spezzare una lancia in favore dell'esercizio mnemonico. Studiando le lingue capita
di dover memorizzare stringhe di dati; con l'Inglese saranno i verbi irregolari (go /
went / gone, ecc.), con il Latino le terminazioni dei casi. Non vi sono ricette
portentose per risparmiarvi lo sforzo della memorizzazione: d'altro canto, vi
possono essere dei ragionamenti che diano un senso e una direzione a quello sforzo
e lo facciano sembrare meno terribile.
Partiamo dunque dall'Italiano: anche la nostra lingua ha le sue "declinazioni":
la favola / le favole è diverso da il lupo / i lupi e da il padre / i padri. Le parole italiane
che derivano direttamente da sostantivi latini, come le tre dell'esempio, nella
stragrande maggioranza dei casi sono una continuazione non del nominativo, ma
dell'accusativo del sostantivo latino: fabula(m), lupu(m), patre(m). Questo fatto è
indicato in ogni buon dizionario italiano alla fine del lemma, nella parte dedicata
all'etimologia. Da ciò discendono due corollari abbastanza importanti:
1) se comprendiamo questo fatto, quando ci troviamo di fronte a un sostantivo
latino che sia immediatamente riconoscibile come antenato diretto di una
parola italiana, saremo in grado di individuarne la declinazione di
appartenenza. P. es. una voce come positio è spesso scambiata erroneamente
per un ablativo; il confronto con l'Ital. posizione rivelerà che deve esistere un
acc. lat. positionem e, conseguentemente, che il sostantivo appartiene alla III
decl. D'altro canto, la voce latina consilio non potrà essere erroneamente
equiparata a positio o simili, ove si rammenti che l'Ital. consiglio presuppone
un acc. lat. consilium;
2) il confronto tra gli accusativi latini e i tre tipi di sostantivo italiano
rappresentati dagli esempi ricordati sopra (favola, lupo, padre) ci fa
comprendere agli studenti che anche in Latino ci sono fondamentalmente tre
tipi di sostantivi1:
Nota per i docenti: Questa osservazione è puramente empirica, non ha pretese scientifiche e
trascura molti fatti rilevanti dal punto di vista glottologico; per esempio, per il momento si può
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a. quelli le cui terminazioni sono caratterizzate da una predominanza
della vocale -a- (ossia la I declinaz.: es. rosăm, poētăm > It. rosa, poeta);
b. quelli in cui le terminazioni hanno prevalentemente vocali di timbro
scuro, come -u- e -o- (corrispondenti grosso modo alle declinazioni II e
IV: es. lupŭm, manŭs > It. lupo, mano);
c. quelli nelle cui terminazioni vi è la predominanza delle vocali -e- e -i(ossia le varie tipologie ricadenti nella III declinaz.: es. patrĕm, classĕm,
tussĭm > It. padre, classe, tosse, e le poche parole della cosiddetta V
declinaz.: es. speciĕm > It. specie).
Ripassiamo le declinazioni in modo 'trasversale'
Nel ripassare de declinazioni, cerchiamo di trovare un senso complessivo. Isoliamo
alcune costanti che ci aiuteranno a orientarci nella selva di terminazioni da
ricordare:
1) tutti gli accusativi singolari non neutri terminano sempre per -m, quale che
sia la declinazione;
2) tutti gli accusativi plurali non neutri terminano sempre per -s preceduta da
vocale lunga, quale che sia la declinazione;
3) i dativi e gli ablativi plurali sono sempre identici tra loro, in tutte le
declinazioni;
4) i genitivi plurali sono sempre caratterizzati dalla desinenza -ŭm, che può
assumere aspetti differenti nei diversi gruppi di sostantivi (rosārŭm, lupōrŭm,
consŭlŭm, manŭŭm, rerŭm);
trascurare il fatto che nel tipo italiano in -o siano confluiti anche i neutri con tema in -os o -os/-es
rotacizzante della III declinaz. come corpus, tempus, latus, ecc. Tuttavia consente agli studenti di
intuire, nel momento in cui si accostano al ripasso sistematico delle declinazioni, i meccanismi di
massima con cui le parole latine sono diventate parole italiane. Allo stesso tempo, una simile
panoramica dà loro un'idea delle dimensioni globali del "fenomeno declinazione" e consente loro
di inquadrare in una cornice già nota gli sforzi che saranno loro richiesti – e come ognuno sa, un
compito di cui si conosce il senso e la finalità si svolge più agevolmente.
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5) i neutri plurali hanno sempre la desinenza in -ă nei casi diretti del plurale, in
tutte le declinazioni.
Notate la differenza tra la desinenza (il suffisso che identifica un determinato caso,
persona verbale, ecc.) e la terminazione (il risultato dell'interazione della desinenza
con il tema della parola cui si aggiunge, che dipende dai meccanismi fonetici propri
di ciascuna lingua). Talvolta desinenza e terminazione possono coincidere, ma
anche quando ciò accade è dovuto a ragioni accidentali, per cui converrà tenere
distinti i due concetti sul piano teorico e anche didattico ove possibile.
L'esempio migliore è forse l'acc. sing. Quelle che le grammatiche tradizionali
indicano come desinenze (-ăm, -ŭm, -ĕm/-ĭm) sono in effetti terminazioni. La
desinenza è infatti, a rigor di termini, -m; la vocale che precede o appartiene al tema
del sostantivo (rosă-m, *lupŏ-m > lupŭm, *civĭ-m > civĕm, rĕ-m) oppure è "prodotta"
dalla desinenza stessa, che a sua volta è un esito di una nasale sonante indoeuropea
(*consŭl-m > consŭl-ĕm).2
Un altro esempio utile, anche se forse un po' più complicato, è il gen. plur. Anche
qui, se siete al Liceo Classico potrete cogliere la parentela tra la desinenza
-ων delle declinazioni greche e -ŭm del Latino (da un * -ōm indoeuropeo); in caso
contrario vi accontenterete di notare la presenza dell'elemento -ŭm in tutti i genitivi
plurali latini, con le seguenti osservazioni:
a) per i temi in -ā, -ŏ ed -ē (= I, II e V decl.) avviene l'inserimento di una -sche dà -r- per effetto del rotacismo (*rosā-s-um, *lupō-s-um, *diē-s-um <
rosārum, lupōrum, diērum);
b) per i temi in -i (= III decl.), l'unione della vocale finale del tema con la
desinenza dà luogo alla terminazione -ĭum, che le grammatiche
tradizionali presentano sovente come desinenza (il gen. pl. civium va in
effetti pensato come civi-um e non civ-ium).
Dovete diventare tutti glottologi? Niente affatto. Queste osservazioni servono a
farvi capire che nell'insieme di nozioni che dovete mandar giù vi è una logica, e che
il comprendere i fatti principali di quella logica – o anche il fatto stesso di sapere che
Nota per gli studenti del Classico: Si può paragonare questo fenomeno a quanto accade nel Greco: rosă-m e
lupŭm < *lupŏ-m > possono essere accostati rispettivamente a χῶραν < *chôră-n e λύκον < *lykŏ-n, mentre
reg-ĕm < reg-m corrisponde a φλόγ-α < *phlog-m (nel Latino la sonante di fronte a consonante genera una
vocale ma mantiene la sua parte consonantica, mentre nel Greco si vocalizza completamente).
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ve n'è una – è un potente aiuto alla memoria (la quale va in ogni caso usata e
irrobustita con l'esercizio).
In quale ordine ripassare le declinazioni?
A questo punto possiamo proporre un ordine per il ripasso:
1. I declinazione (solo nomi regolari);
2. V declinazione;
3. II declinazione (solo nomi regolari);
4. IV declinazione (solo nomi regolari);
5. aggettivi di I classe;
6. III declinazione (tutti i tre "gruppi", ma senza particolarità);
7. aggettivi di II classe.
Quest'ordine consente di affrontare senza soluzione di continuità gruppi di
sostantivi che hanno caratteristiche simili (la V declinazione, già esigua per quantità
di sostantivi, tende a confluire nella I già in età classica; si pensi ai doppioni
materies, -ēī / materia, -ae; luxuries, -ēī / luxuria, -ae. In più, i due gruppi sono
accomunati dall'assenza di neutri. Allo stesso modo, la IV declinazione è in parte
sovrapponibile alla II, tanto che gli esiti italiani di entrambe coincidono, vd. lupŭs, ī > It. lupo; exercĭtŭs, -ūs > It. esercito). Esso presenta inoltre il vantaggio di agganciare
due declinazioni "minori" per consistenza numerica e frequenza a due "maggiori",
che solitamente gli studenti tendono a imparare meglio. In particolare, la
trattazione ravvicinata di II e IV permette, tra l'altro, di spiegare con più efficacia la
particolare condizione del nome dŏmus. Infine, in questo modo si affrontano in un
unico percorso quasi tutti i temi in vocale, il che significa che si possono coprire
quattro declinazioni su cinque senza doversi occupare del famigerato "nominativo
vario" della III.
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Nota per i Colleghi
L'insegnamento tradizionale delle declinazioni, così come si trova proposto nella maggior parte
dei manuali scolastici, prevede i seguenti passi:
1) studio della cosiddetta I declinazione (= temi in -ā), comprensivo delle particolarità o
"eccezioni";
2) studio della cosiddetta II declinazione (= temi in -ŏ) con le particolarità;
3) aggettivi di I classe (-us/-er, -a, -um);
4) studio congiunto dei temi in consonante e in -i/-ī, -ū (= la cosiddetta III declinazione),
suddiviso nei tre gruppi dei parisillabi, degli imparisillabi e dei neutri in -e, -al e -ar, e con le
particolarità;
5) aggettivi di II classe;
6) temi in -u (cosiddetta IV declinazione) con particolarità;
7) temi in -e (cosiddetta V declinazione) con particolarità.
Questo modo di procedere presenta, soprattutto nelle fasi iniziali, un grave inconveniente: obbliga
gli studenti a lavorare con un materiale lessicale assai monotono e ripetitivo, poiché è evidente che
fino a che non si sarà passati ai temi in -o (e questo richiede un po' di tempo, specialmente se si
vuole che i discenti interiorizzino i temi in -a con tutte le particolarità) si dovranno leggere testi che
contengano solo temi in -a. Inoltre, la necessità di introdurre negli esercizi le cosiddette "eccezioni"
fa sì che in questa fase molti eserciziari non utilizzino materiale d'autore, ma si servano di frasi
fittizie, che non si trovano in nessun'opera pervenutaci e che hanno la mera finalità di stipare in
una riga o due il maggior numero possibile di "regole". Da qui quelle frasi peregrine che
appartengono alla comune memoria di tutti noi, piene di allieve che amano le maestre e ancelle che
obbediscono alle padrone e offrono sacrifici alle dee.
L'esperienza didattica sul campo mostra che le probabilità che lo studente incontri ancora il dativo
deabus dopo la fase dei "latinucci" sono vicine allo zero; eppure si considera spesso normale
impiegare un paio di settimane affinché egli impari questa "eccezione" ed altre consimili, quando
non vi si costruiscano addirittura intorno processi valutativi. Ora, tutto ciò non fa che rafforzare in
lui l'impressione che il Latino sia distante mille miglia dalla realtà e rechi con sé un sentore di
stantio e inautentico. Si ha un bel dirgli che gli esercizi svolti adesso in questo modo gli
consentiranno, negli anni futuri, di godere della bellezza dei testi letterari: l'adolescente in genere,
e quello di oggi in particolare, non è sensibile ad argomentazioni che implichino un premio
differito, tanto più se non comprende bene quale sia questo premio.
A questi innegabili difetti si propone di ovviare il cosiddetto "metodo natura", proposto in Italia
principalmente da L. Miraglia e ispirato all'opera del linguista danese H. Ørberg. Esso prevede un
approccio diretto alla lingua latina, a partire da facili dialoghi che permettono allo studente di
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acquisire le strutture della lingua e il lessico in modo graduale, senza uscire dal sistema linguistico del
Latino, ossia senza passare attraverso la traduzione, ma comprendendo la lingua e parlandola in
modo immediato. Il metodo, che può applicarsi anche al Greco antico, ha incontrato negli ultimi
anni un favore sempre crescente presso i docenti dei Licei, anche a causa della crisi evidente della
didattica tradizionale e degli indirizzi liceali in genere, che spingono a cercare nuove vie. D'altro
canto, esso incontra non poche resistenze che possono ricondursi principalmente a due direttrici.
Da una parte il ricorso a procedure proprie delle lingue "vive" viene visto da taluni come una
deminutio capitis della presunta "serietà" delle lingue classiche. Siffatte obiezioni appaiono viziate
da un pregiudizio fondamentalmente elitario, in base al quale il valore di queste lingue starebbe
nel costituirsi come un sapere atemporale e fine a sé stesso, che va trasmesso con metodi anch'essi
universalmente ed eternamente validi. Ogni deviazione da tali metodi viene considerata, di
conseguenza, come una resa esteriore e propagandistica alle mode del momento.
Dall'altra parte – e sono forse queste le obiezioni più serie – si fa rilevare che lo studio scolastico
del Latino non mira all'utilizzo della lingua come veicolo di comunicazione quotidiano, bensì alla
comprensione del testo scritto, e in particolare della poesia e della prosa d'arte, proprio con quella
finalità prevalentemente metalinguistica – riflessione sui meccanismi grammaticali e sintattici e
sugli aspetti retorico-stilistici – che nella didattica delle lingue parlate in quanto tali passa sovente
in secondo piano. Allorché si fa eseguire un work in pairs in una classe di Latino, come si farebbe in
una d'Inglese o Francese, si crea una situazione comunicativa completamente fittizia, che ha
pochissime probabilità di verificarsi nella realtà, a meno che i nostri studenti non divengano
membri di uno di quei rarissimi collegi di dotti in cui tuttora è prassi parlar Latino. C'è il rischio
insomma, sostengono i critici del "metodo natura", che a furia di allenarsi alla produzione e
comprensione orale del Latino si tralasci di acquisire le competenze necessarie per leggere
Cicerone, Seneca e Tacito, ossia autori che hanno scritto in una prosa altamente formalizzata,
pensata per una diffusione e una fruizione tramite la scrittura, e il cui dettato è talmente lontano
dal registro del sermo cotidianus o popularis da costituire quasi una lingua altra. E infine non bisogna
dimenticare, sotto il profilo istituzionale, che secondo gli ordinamenti e le indicazioni nazionali
attualmente vigenti la finalità dell'insegnamento liceale del Latino è la lettura di questi ed altri
autori, non certo il raggiungimento della spoken fluency.
Non è questa la sede per dirimere una questione così complessa, che è fonte di dibattiti e divisioni
nel corpo docente (non c'è praticamente Liceo Classico o Scientifico nel nostro Paese in cui non si
sia discusso animatamente se attivare o meno una o più sezioni con il metodo natura); tuttavia non
ci si può esimere da alcune osservazioni generali. Chi ha esperienza di didattica sul campo sa bene
che gli studenti hanno pochissima dimestichezza con il lessico latino; la maggior parte di loro
continua a cercare sul dizionario anche le parole più semplici e frequenti fino all'ultimo anno di
corso. Sono pochi coloro che riescono a farsi un'idea più o meno accurata del significato generale
di un testo a prima vista, senza aprire il dizionario; e questo accade sovente anche a quelli che
conoscono meglio le regole grammaticali e sintattiche. Ora, finché perdura questa dipendenza
esasperata dal dizionario, non si può ritenere che gli studenti abbiano acquisito una vera
competenza traduttiva. Può dire di conoscere il Latino non chi è in grado di elencare con sicurezza
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i cinque casi in cui si deve usare la costruzione impersonale di videor, salvo poi aver bisogno di
cercare per l'ennesima volta castrum, proprietas e consul, ma chi sa riconoscere a colpo d'occhio gli
elementi essenziali di un costrutto sintattico e sa riempire di contenuti semantici – i significati delle
parole – gli scheletri formali così individuati.
Bisognerà quindi ammettere che sotto questo aspetto i metodi tradizionali spesso falliscono.
L'enfasi posta dal metodo natura sul possesso dei contenuti lessicali può rappresentare un valido
antidoto a questa debolezza della didattica tradizionale e dovrebbe spingere anche i docenti di
orientamento più conservatore a cercare strategie efficaci per l'insegnamento del lessico. D'altra
parte, lo studio del Latino è e deve rimanere un mezzo per accedere, soprattutto nell'ultimo
biennio e nell'anno conclusivo degli studi superiori, alla lettura diretta di autori basilari per
l'identità occidentale ed europea in particolare, da Virgilio ad Agostino passando per Orazio,
Seneca e Tacito, e per apprezzarne l'indissolubilità di contenuto e forma. In nessun caso, quindi, la
riflessione metalinguistica dovrà essere sacrificata a vantaggio di una "quotidianizzazione" o
"banalizzazione" del dato linguistico.
È auspicabile, quindi, una proficua osmosi tra didattiche diverse, che lasci da parte gli estremismi
e le petizioni di principio e attinga il meglio dai diversi orientamenti, prendendo spunto dalle
didattiche naturali per il vocabulary building e mantenendo la parte più illuminata delle
grammatiche tradizionali per la costruzione delle competenze metalinguistiche e retoricostilistiche. È qui che entra in gioco il ruolo essenziale del docente e la sua capacità di mediare,
rivivere criticamente la storia della didattica e trovare le soluzioni di volta in volta più adatte alle
necessità della situazione didattica concreta, con uno spirito quasi sartoriale. Va detto onestamente
che tale processo di mediazione trova però un ostacolo importante, sul piano operativo, in una
certa impermeabilità reciproca delle metodologie: basta dare una semplice occhiata ai manuali e
agli eserciziari attualmente in commercio per notare come essi siano per lo più costruiti
rigidamente secondo l'una o l'altra modalità. Sarà quindi necessario che il docente sia preparato a
farsi all'occorrenza produttore dei materiali didattici che gli occorrono.