La stazione di Cascina La stazione era caduta dal
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La stazione di Cascina La stazione era caduta dal
La stazione di Cascina di Alessandro Angeli La stazione era caduta dal buio, manteneva il suo aspetto spettrale, nessun orario, nessun treno. vento entrava dalle finestre. qualche formica attraversava i binari sotto la coltre della notte. fuori di lì, in quella via a sfondo chiuso, vi era un fornaio. fecero tanto d'occhi a vedermi. la farina dava al posto un connotato esoterico, i fornai erano tre, avevano l'aspetto di tre spiritelli di provincia. dissero ridendo che treni non ce n'erano, che avrei dovuto aspettare la mattina quando i bambini sarebbero andati a scuola. non potevo crederci, i bambini andavano a scuola col treno. ero perduto. poi venne fuori che lì, non eravamo a Cascina. … avevo camminato tanto da arrivare in un altro paese. uno stava con la pala in pugno e mi guardava esterrefatto. dissi ai ragazzi che in qualche modo avrei dovuto farcela. uno di loro mi suggerì di fare la strada al contrario. quando dissi che sapevo una sega della strada fatta fin lì, ci fu un’ovazione generale. perfino dei fantasmini come loro, sarebbero riusciti a tornare indietro. anch'io ridevo, mi scrollavo la farina di dosso. infine mi regalarono la schiaccia, visto che oltre a perduto ero pure squattrinato. ci lasciammo con fraterni cenni di saluto. a quell’ora della notte eravamo complici. il ragazzone più giovane con la pala in mano, era rimasto a bocca aperta, non smetteva un attimo di guardarmi. … avevo lo stomaco come un vasetto di yogurt, poi mi ricordai della schiaccia, cominciai a mangiarla continuando a camminare. le frazioni si avvicendavano, dove stavo andando. verso l'Umbria, l'Emilia Romagna, era una follia. guardai le imposte chiuse, quella gente non sapeva che farsene di uno squinternato che camminasse per strada a quell'ora, volevano solo dormire. dormire, chiudere gli occhi su tutto, scivolare sul buio come su una buccia di banana. provai a fermare le macchine rade che passavano. gli abitacoli erano scuri, privi di espressioni e i volti tiravano a dritto. … mi fermai su una panchina, ero davvero arrivato alla fine. la fine del mondo nel mondo, a Cascina. la campagna scura, la nudità delle cose. il niente. il niente di tutti, mascherato e imbavagliato per milioni di anni, adesso mi veniva sbattuto in faccia così, lì a Cascina. eppure gli altri lì a Cascina avevano capito, se n'erano accorti, era la brina sulle foglie a dirglielo forse. qualcosa mi sussurrava di arrendermi, e mi arresi. …. a che serviva la mia volontà in fondo, nella rete delle necessità che intessevano il mondo. chi ero io per pretendere di realizzare i miei intenti, io che avevo sempre disprezzato la gente e le sue stupide case, adesso con tutto me stesso anelavo a tornarci. avrei fatto carte false pur di riuscirci. le stelle stavano sopra di me. piccoli lumini in un mondo sconfinato. adesso che volevo affogare loro mi riportavano a galla, confondendomi ancora di più. il buio o la luce, a chi dovevo dar retta, quale dei due era vero. potevano coesistere insieme, cosa dovevamo fare per accettarli così com’erano. … vi era nella cristallizzazione dell'istante una spiegazione a queste cose, bisogna forse che vinca una delle due. forse la spiegazione è nella lotta come diceva Hobbes, ma per me era piuttosto nell'astensione ad essa che si traevano le migliori conseguenze. quale fosse poi la verità più profonda adesso lo ignoravo. vivevo le mie immagini come mie e su di loro avrei spiegato i miei passi, in cerca di nessuna correzione, avrei dormito a Cascina se era necessario … … tutto quello che volevo adesso era liberare la zavorra, senza anticipare o precedere, la mia risposta era l'assonanza. c'era un modo limpido di respirare, era questo che mi interessava. mi rimisi in cammino. dal buio del buio, vidi delle luci. sul ciglio della strada, nella carreggiata opposta alla mia, c’era una macchina ferma, le quattro frecce accese. … gli sportelli aperti, le quattro frecce, un motorino fermo, due ragazzi e una ragazza, il buio. dissi qualcosa di patetico, per farmi benvolere. li dissi che cosa mi stava succedendo e che era un miracolo che loro... e che forse dio mi aveva… dissero che non volevano sentire parlare di dio, che erano gogliardi. che cazzo c'entra pensai, ma non glielo dissi. annuivo a qualsiasi cosa. Gogliardi che bello! ma chi sono i gogliardi pensavo, chi sono questi tre cazzoni che alle quattro di mattina per una strada sperduta, in un micropaese di campagna, parlano di gogliardia, pensavo, ma come ho detto prima non glielo dissi. ormai non mi stupivo più di niente. tra qualche ora la realtà in una delle sue peggiori rappresentazioni, mi avrebbe chiamato, ed io, io, avevo bisogno d'aiuto. …nessuna nave sarebbe più partita da qui, questo porto era chiuso, questo porto è chiuso. vi si poteva tornare a guardare l'orizzonte, tra le nuvole e le fiamme del cielo. ma non si poteva più sperare di trovarci una nave, era inutile attendere. si doveva uscire di lì verso altre direzioni, verso altri porti, allora sì, qualcosa sarebbe accaduto. vi era una resa dentro di me da fine del mondo. la fine del mio mondo. era sempre prossima, la sentivo, la sentivo avanzare con spietata determinazione, vi era sempre un fruscello o un nonnulla a salvarmi il culo. in fondo chi mai avrebbe voluto uccidermi. o che cosa. qualcuno volontariamente di sicuro no. qualcosa forse avrebbe potuto farlo. o qualcuno involontariamente, in realtà forse sarebbe stato meglio morire davvero, per rinascere nuovo. ma dentro di me in fondo in fondo avevo paura, avevo paura di cambiare per ricominciare da capo. …vidi loro per quelli che erano, tre ragazzi, tre amici, parlavano, sorridevano e scherzavano. io non c’entravo niente, ero un estraneo io, uno che veniva da un altro mondo, come sempre, uno che si era perso. mi succedeva in continuazione. ero sempre stato bravo ad allontanarmi. la ragazza era mora, mi parlava vicino, ma non sentivo le sue parole. guardavo il suo volto acuminato, i suoi occhi guizzanti. gli altri stavano lì alle sue dipendenze, era lei a decidere. ero stanco, avrei voluto baciarla. discutevano sulle sigarette, perché lui, il ragazzo grasso, non doveva bere né fumare, era stato operato al fegato. fu lui a dire che mi avrebbe accompagnato. non a Cascina, ma a Pisa. non ci volevo credere, anche questa volta qualcosa mi aveva acciuffato per i capelli. non riuscivo a capire perché e se fosse giusto o no. … mi sedetti accanto a lui che guidava lungo la strada di campagna, buia e crudele. guidava sorridendo, aveva un accento del nord e una bontà manifesta. i semafori ballavano. gli altri due in motorino ci seguivano con i fari alti. dai cespugli spuntavano occhi di animali, tra le segnalazioni stradali e l'asfalto, qualche camion grossolano sbadigliava. disse che era stato a giocare ad un gioco a casa di certa gente e per strada casualmente aveva incontrato gli altri due. io ero arrivato un attimo prima dei saluti. guidava con le braccia allungate in modo prevedibile e rilassato, entrammo a Pisa ed io cominciai a tornare in me. … vicino alla strada della stazione lungo il marciapiede tre ragazzi giocavano alla lotta, in lontananza, si sentiva la voce di qualcuno che urlava. fendeva il cielo, basso come una cupola, un tipo in bicicletta mi si accostò, era malconcio. aveva una tanica di vino legata con lo scotch al telaio e un tubo trasparente a fare da cannuccia collegato direttamente alla sua bocca. Mi chiese se avevo le sigarette, dissi no, allora volle offrirmene una lui. l'accettai. si chiamava Gino o Pino o Natalino, ci salutammo come amiconi. a quest'ora si poteva pure pensare all'idea di una rivoluzione gentile. … tiravo a dritto verso la stazione, tra le aiuole di plastica e i fogli di giornale abbandonati, era un rimestare lento di azioni da niente, qualche pedalata, un sorriso a denti rotti. l'ora di mezzo in cui si incontrano persone che non stanno più nel giorno o nella notte, in attesa di trasformarsi in qualche cosa. il marocchino mi veniva incontro nel piazzale. la fontana spruzzava acqua dai riflessi verdi di cristallo, le panchine erano apparecchiate di cartoni. un ragazzo cercava di trattenerlo, era molto più giovane, poteva essere suo figlio. … me lo trovai addosso che rideva imbronciato. era ubriaco, sapeva di cantina e voleva sigarette, gli detti quella che stavo fumando, allungando la mano, la prese. ma non era ancora soddisfatto, mi stava attorno, mi chiese da dove venissi. glielo dissi, lo guardavo come fosse un mio amico. mi chiese i soldi, gli dissi che non li avevo, che ero pulito. non aveva capito, insisteva, mi chiese se ero italiano. voleva dimostrare che era più forte di me, lo era, io non avrei mai fatto una storia del genere. ed era anche più disperato, glielo lessi negli occhi, una specie di ansia profonda, rodeva il suo orgoglio. il ragazzo tentava di portarlo via ridacchiando, lui si divincolava e ricominciava di nuovo, da capo. … mi fermai a fare il biglietto alla macchinetta premendo il dito sullo schermo, il marocchino continuava a importunare la gente, gli si appiccicava addosso, il ragazzo rideva. poco più là sul binario 1 una volante della pula. tra un pò sicuramente lo avrebbero zittito, tormentandolo più di quanto non fosse. …. perlopiù stranieri e disperati giravano annaspando sulle pavimentazioni grigiastre, bagnate dall'umidità, odore di polvere ferraglia e muffa, il cielo basso sfiorava le locandine degli orari dei treni, grugniva un lamento, che le teste distrattamente captavano. gli annunci non erano stati cambiati. uomini calvi, rubati alle case sospingevano vecchie valige di cartone, lungo i binari infiniti. erano stati costruiti per la comodità della gente i binari, per quella gente sradicata, spinta con ogni crudeltà all'adattamento. erano le vene e le arterie di un mostro al quale tutti ci rassegnavamo. un mostro che nascondeva il suo cuore. salendo le scale del sottopassaggio raggiunsi il binario. … sulla piattaforma numero 4 attendevo il treno che mi riportasse a casa, c'erano due ragazze ferme addossate al muricciolo delle scale, un tipo gracile e strano le tartassava di parole. una di loro portava un impermeabile avana, come il tenente Colombo, l’altra aveva capelli scuri raccolti in una coda. una salamandra si arrampicava lungo il muro. il tizio teneva gli occhi fissi, le intratteneva parlando di congiuntivo. stava farneticando. Loro erano straniere, americane. … mi accostai alla ringhiera delle scale, il tipo mi vide, mi puntò gli occhi addosso abbassando la testa e andò via. mi avvicinai, loro non avevano fatto una piega. gli chiesi da dove venissero, New York. dissero. dovevano prendere un aereo. gli chiesi dove andassero. a Praga, mi rispose la più loquace delle due. annuivo senza dire più niente. si era creata una piccola cortina di silenzio. entrambe muovevano gli occhi nell'aria facendo finta di niente, poi arrivò il treno. … gli dissi che potevano fidarsi di me. era la prima volta che dicevo a qualcuno una cosa del genere. non mi riconoscevo più. mi seguirono nello scompartimento. entrai dentro e trovai i resti di un festino. spumante e patate. buttai tutto nel cestino, davanti a me gli occhi della ragazza mora. era carina e molto giovane. l'altra aveva l'aria di una testimone di Geova, faceva questi grandi sorrisi estatici che duravano un'eternità, il treno partì. … la mora si succhiava i denti, l'altra incrociava le mani. una era portoricana, l'altra di Harlem. parlammo un bel pò, di politica, Chaghall, Tokio, Napoli, i Sonic Youth, Lou Reed, il Kebab, la guerra. rientrò il forsennato, era in preda ad un'agitazione incredibile. quando si accorse che nel corridoio c'era il controllore Dormiamo disse secco e chiuse tutto. … mi faceva incazzare il suo arbitrio, mi venne fuori una verve da boy scout, le due erano rimaste sbigottite, dissi al pazzo che non volevamo dormire e riaprii le tende, Ah non volete dormire, No, si agitò ancora di più. Si muoveva ossessivamente sulla poltroncina senza darsi pace. tirò su i calzoni e si frugò negli stivaletti. mentre il controllore si avvicinava allo scompartimento, i movimenti del suo viso erano ancora più convulsi. raccattò la sua borsa e andò via un'altra volta. … il controllore arrivò con la sua assistente, una ragazza dall'ossatura grossa, gli dissi che la macchinetta alla stazione era rotta, ero salito a Pisa. le americane tacevano, era una cosa tra autoctoni, lo capivano. il buio portava via il nostro viaggio. la tipa rimase nello scompartimento a fare il mio biglietto. aggeggiava con un computerino grigio, non sembrava capirci molto, anche se le sue dita battevano decise. lo scompartimento faceva schifo. ci fu un bel po' di silenzio poi ce la fece, sospirò, strappò dalla macchinetta lo scontrino e me lo porse.