I Monsieur del futuro

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I Monsieur del futuro
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NEL NOME DI
MIO FIGLIO
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Per me la famiglia è un punto fisso nell’Universo
C’è un’espressione che evoca in me il ricordo di una piccola parete
di radica, fiorita di pois, linee regimental e graziosi animaletti in una
selva di lane, in un mare di cotone: «Talis pater, talis filius». Quando lo stile lo facevano le piccole botteghe dei sarti, le forbici, il gessetto, quando le tomaie erano tagliate a mano sotto i tuoi occhi e l’odore della colla era profumo per gli astanti (un po’ come quello della stampa nelle tipografie). Nel rito quotidiano del nodo alla cravatta,
osservato con curiosità e sete di scoperta da un bimbo che calza una
scarpa del babbo, si rinnova quel legame che ha cucito le generazioni
dalla notte dei tempi. È un’eredità del passato, ma nel contempo una
proiezione nel futuro. E richiama al ruolo di padri e figli nel grande gioco della vita. Apro così l’armadio dei ricordi che riaffiorano davanti a un’immagine di timeless elegance.
I creativi di Patek Philippe su questo concetto hanno realizzato
una pubblicità che è il sale della vita: padre e figlio nella stessa
identica posizione, l’uno proiezione dell’altro. Un po’ come ha fatto, in un camminamento di generazioni l’italiano Valentini. Un po’
come ciascuno di noi culla gelosamente nei frammenti di memoria
e come, in fondo, auspica sognando il futuro. «Nel nome del padre
e del figlio» potrebbe titolarsi questo articolo. Non che voglia sminuire il ruolo fecondo e solare della «mater», ma se penso all’arte di
tramandare valori, complicità ed essenza, credo che all’uomo continui a spettare la responsabilità del vecchio «pater familias». Anche
se i soliti esperti sostengono, secondo la pubblicistica corrente, che
proprio questo ruolo sarebbe quello più in crisi nella società contemporanea. Ora è un fatto che in questa società a essere in crisi sia
per prima la famiglia trasformata (prim’ancora che da certi disegni
di legge) dal caotico rincorrere una presunta felicità perduta, in
un’unione tra due persone che scoprono, magari dopo vent’anni di
convivenza, di non conoscersi affatto. E proprio da questa incertezza
di fondo deriva la generazione dei figli cui troppo spesso viene trasferito un surrogato di affetto, frainteso nella generosità di oggetti
donati e nella licenza di un’autogestione di tempi e libertà che produce a sua volta un’ulteriore dispersione del senso delle cose, ma soprattutto della vita. E invece, se la natura è stata generosa, non c’è
niente di più stimolante, di più appagante che coltivare con cura quella pianta delicata che è un figlio. Una sfida. Una prova suprema, difficile. Che produce un esito, uno e uno solo: i figli come risultato della propria esistenza. Aristocratici, capitani d’industria, borghesi,
LA GIOIA SEMPLICE MA INCONTENIBILE DELLA PATERNITÀ SI MANIFESTA IN TUTTA LA SUA FORZA EVOCATIVA NELLO SGUARDO RAGGIANTE DI GUGLIELMO MIANI,
30 ANNI, AMMINISTRATORE DELEGATO DI LARUSMIANI, QUI FOTOGRAFATO CON IL FIGLIO LEONARDO NELLA LORO CASA AFFACCIATA SUL LAGO DI COMO.
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operai. Tutti siamo uniti da una missione, indicata con saggezza da
John Adams nell’anno di grazia 1786: «Devo studiare la politica e
la guerra, in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare
la matematica e la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia, la musica e… le porcellane». Ce lo ricorda Donatella Sartorio, autrice di un volume dal titolo Young Italian Gentle
Men (per Valentina edizioni, con fotografie di Cristina Nuñez).
Ce lo ricorda nell’introduzione di questo suo lavoro, nato con un
obiettivo: «Riuscire a fermare in un libro la voglia di un gruppo di
persone perbene: dimostrare che oggi nella generazione dei 3040enni esiste una caratteristica non rara, ma poco visibile, e giustamente maschile, che rende alcuni di loro diversi, anzi opposti ad altri che appaiono vincenti». Concetto complesso, esigenza di far capire che «l’eleganza esteriore, se autentica, coincide sempre con
quella interiore». Che «il denaro può essere valutato in maniera intelligente e non ossessiva, che le relazioni possono sopravvivere secondo il principio dell’accettare e del restituire, che la nobiltà d’animo non dipende solo dall’educazione né dai privilegi».
E giù con una selezione di caratteri che rifuggono dal plotone dei
soliti noti (e questo è senz’altro un merito dell’autrice) che brillano
nei loro gessati, in barca, in ufficio, davanti a uno specchio ad annodarsi la cravatta, immersi nella natura e nell’armatura. Altra cosa rispetto al tornaconto commerciale di altre pubblicazioni, pronte e prone a raccontare la dinastia dei «figli di».
Al tempo: non che siano ignoti i protagonisti di questa ricerca. Anzi. Solo che prediligono la qualità della vita all’apparenza del successo
comunemente noto. Ma esprimono, tutti, la ricchezza più sublime.
I figli. Che sono sì «piezz’e core» come insegna Eduardo, ma sono soprattutto la somma delle nostre scelte. Ecco allora che il rapporto padre-figlio torna di prepotente attualità. Anche se c’è chi non tarda a
fotografare una realtà ben più amara del sogno. È l’aggiornamento
di Luigi Zoja con il suo Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri editore, Torino). Una lunga ricerca anche questa. Antropologica, mitologica. Dalle Grandi Madri del passato al patriarcato descritto «in
decadenza». È un altro libro interessante, che affronta l’evoluzione della figura del Padre nella storia, nella cultura, «dal mito di Ulisse con
la sua responsabilità familiare, a quello di Ettore, la cui anima “femminile” e paterna si svolge accanto alle virtù militari».
«PIÙ UNA PERSONA CREDE NELLA VITA, PIÙ LASCIA QUALCOSA DI SÉ ATTRAVERSO I FIGLI». PER LUIGI ORLANDO, 40 ANNI (SOPRA, CON LEOPOLDO E FILIPPO),
DIRIGENTE DEL GRUPPO METALLURGICO KME, LA PATERNITÀ È IL MODO SUPREMO PER TRASMETTERE I PROPRI VALORI. ORLANDO HA ANCHE UNA FIGLIA, CARLOTTA.
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Se riesci
a tramandare il
senso di
lealtà, hai reso
onore al
ruolo di padre
Ritengo che il rapporto privilegiato, rispetto al comune sentire, resti però quello tra un padre e un figlio maschio. Perché l’amore per
la prole si moltiplica esponenzialmente per figli e figlie (senza distinzioni), ma è pur vero che molti aspetti del vivere quotidiano appartengono necessariamente alla emulazione-competizione che si crea
tra appartenenti allo stesso sesso. Come altro considerare altrimenti il trasferimento di emozioni che trasmette un vecchio guardaroba? Le giacche allineate, le camicie che profumano di nitore, la
parete con le cravatte che scendono come cascate di colori e disegni,
le scarpe vissute. Ma anche le letture, certe complicità nel raccontarsi le avventure amorose, le conquiste della vita. Il piacere di assaporare una saggezza fatta riposare per anni in un Glen Avon di 25
anni. Il Cohiba fumato sulla terrazza aperta al mare. Una battuta di
caccia. La sempiterna, virile, partita di pallone.
Sono pertinenze dell’essere, non dell’apparire. È un rapporto privilegiato, che richiede tempo per maturare. Ma rimane l’unica strada
per costruire un futuro che non può essere delegato. E per questo richiede dedizione e sacrificio. Ma fare un figlio non è un obbligo.
«Non sai mai chi ti metti in casa», come ebbe a dire il grande Indro
Montanelli, che aveva ragione, dal suo punto di vista. Osservo l’Italia di oggi. Vedo i giovani sbandare. Sfarsi con bombe alcoliche
servite da coetanei che si improvvisano dietro a un bancone e non
conoscono neppure l’abc del barman. Li vedo disintegrarsi tra droghe sintetiche e una cocaina che ormai si vende al prezzo di un pacchetto di figurine. Vedo crescere pericolosamente il branco, non la
compagnia come usava qualche decennio fa. Vedo attecchire la violenza ovunque: le botte a un giovane portatore di handicap, lo stupro di gruppo, la guerriglia contro chi, lavorando, veste la divisa. Vedo aree urbane trasformate in zone franche dove tutto è lecito al di
fuori delle leggi e del rispetto per gli altri. Vedo tutto questo e non
mi piace affatto. E se ricerco una responsabilità in questo decadimento la trovo nella famiglia che non dialoga (o non lo fa con la fermezza necessaria). È questa la base della società, il nucleo fondante. Solo che oggi la famiglia si riscopre svuotata di valori. Con genitori troppo vocati al carrierismo o al successo personale (non parlo certo di chi lavora sodo per necessità), con tempi sempre più contingentati da dedicare alla prole, con l’effetto-delega di un affidamento ai nonni (dove possibile), che sono diventati «nonni di nuova generazione» e viziano invece che tramandare antichi saperi. Fi-
nisce così che i figli, invece di tirar calci a un pallone all’oratorio (un
tempo anche quando pioveva), si sfidino sì a calcio, ma alla Playstation, privandosi così di quello spirito di gruppo che ha formato
intere generazioni. E non valga qui il discorso dell’offerta televisiva scadente o dei giochi violenti davanti al video nei pomeriggi
degli studenti, perché vorrei sapere chi deve controllare i figli: chi
compila un palinsesto commerciale e programma il file dei videogame
o, appunto, i genitori? Poi mi rendo conto anche di un altro fatto:
la nostra società è minata alle basi da una scuola che non prepara alla vita e alla competizione. E non è solo una questione di filmati su
Internet, di «prof» sorprese in classe con adolescenti o di insegnanti
uomini che entrano in classe con i tacchi alti e di maestre che tagliano
la lingua ai bambini: questo è circo! Il problema è più complesso e
coinvolge ideologie, anarchie... No, quello che serve è un richiamo
ai valori. A questo proposito mi torna alla mente un bel servizio giornalistico. Qualche numero fa, Franz Botré ha pubblicato un pezzo
sulla Scuola Navale Militare Morosini, dove una leva di cadetti si prepara ad affrontare non solo i mari, ma la vita. Seguendo una ferrea
disciplina, uno spirito di corpo, un’educazione rigida e solenne.
Lo ha fatto per raccontare un mondo nel quale muove i propri passi il figlio, Alessandro. Conosco Franz e mai favorirebbe col suo amore una delle due anime della progenie: so quanto ama Cecilia. Ma
quell’articolo era davvero interessante. Non la solita marchetta di cui
pure una certa stampa vive. Raccontava l’essenza di valori che sono
scolpiti nel Dna dell’amico Franz, abituato a trattare ogni materia
con la franchezza che lo contraddistingue. Rimasi piacevolmente colpito da quel servizio. Mi fece tornare alla mente quanto educativo
fosse anche il servizio di leva, che insegnava la disciplina, imponeva le punizioni (non parlo degli eccessi di nonnismo), ma soprattutto
aiutava i giovani a convivere con i coetanei e a rispettare l’altro indipendentemente dal grado. Era, a suo modo, un’altra scuola di vita. Anche se fatto da raccomandato, quantomeno t’insegnava a rifarti il letto e a tener puliti anfibi e divisa. Penso a questo mondo che
non c’è più. E penso alla formazione delle future generazioni di uomini. Alle scuole all’estero dove, non a caso, vanno a studiare i figli
delle migliori dinastie. Qui imparano a condividere con giovani
provenienti da tutto il mondo le esperienze di studio e le scoperte
del vissuto. In quei campus che ancora difettano in un’Italia ricca di
baronie universitarie e lezioni-assembleari. Da noi non c’è educazione
ENRICO HINTERMANN (IN ALTO A SINISTRA), 37 ANNI, DIRIGENTE NELL’AZIENDA CARTOGRAFICA DI FAMIGLIA, CON EDOARDO E SOFIA: «SI IMPARA SOLO
DALL’ESEMPIO», DICE. A DESTRA, TITO CANELLA, 37 ANNI, ARCHITETTO, COL PICCOLO CLEMENTE: «VORREI FARGLI CAPIRE IL VALORE IRRIPETIBILE DELLA VITA».
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al bello. Non c’è abitudine al gusto. Non
c’è rispetto. Ma anche se gravi responsabilità le ha il mondo della scuola, l’errore primordiale resta quello della famiglia. E chiama direttamente in causa
proprio i genitori e in particolare l’uomo.
Mi ritrovo così a fantasticare su mio figlio, Francesco, che già a due anni prendeva la sua seggiolina gialla per mettersi all’altezza dello specchio e
giocava a farsi la barba assieme a me. O, crescendo, a volersi fare il
nodo della cravatta. Sono piccoli gesti quotidiani che riempiono la
vita. E rinnovano quel legame tra padre e figlio di cui stiamo parlando. E anche se non è replicabile l’immagine hollywoodiana di un
padre che davanti a intere vallate cinge il figlio sotto il braccio e gli
dice: «Vedi, tutto questo un giorno sarà tuo», mi è venuto spontaneo immaginare quale sarebbe il più bel dono da fare al mio di figlio (se la natura mi concederà di seguirlo nei suoi passi), che non
vive in villa, non ha il maggiordomo e nemmeno una collezione di
auto storiche o case sparse per il mondo.
Vorrei essere capace di donargli quella che considero la vera ricchezza
dell’uomo. Il senso di lealtà e correttezza, il rispetto per gli altri nel
rispetto prima di tutto per se stesso. Il bagaglio di conoscenze.
L’opportunità di fare la propria scelta di vita dopo aver potuto
ascoltare il lungo racconto di un mondo in costante mutamento. Non
so se saprò esserne capace. Certo, cercherò di non proteggerlo in un
vaso, magari raffinato, di ovatta. Ma spero di riuscire a raccontargli
che l’ignoto futuro è lo stesso solcato dai nostri padri.
Che dietro a ogni abito, corazza del quotidiano c’è una ricerca e una
cura. Che una cravatta è un’elegante appendice dello stile. Che si è
eleganti con un maglione di cashmere come con un jeans, purché
quello sia il proprio sentire. E già che parliamo di vestire torno indietro nel mio ragionamento. Vedo i giovani ormai omologati col
jeans venduto già pieno di tagli (più facile comprarle quelle sdruciture, che procurarsele), li vedo tutti uguali e senza il desiderio di dedicarsi alle raffinatezze di una scelta davvero indipendente rispetto a certe vetrine. Anche in questo caso mi domando dove i padri difettino: non che debbano imporre uno stile, ma certo hanno il dovere di iniziare il figlio all’eleganza. A un’eleganza che non è la pochette, ma una forma di rispetto verso gli altri e soprattutto verso se
stessi. Un po’ come certe letture e in
particolare il gusto per quelle letture.
Un po’ come accompagnare il figlio a
teatro e fargli scoprire che non ci sono
solo i reality o i presunti vip a far parte
del variegato universo dello spettacolo.
O come far ascoltare un brano di musica classica e non solo l’ultima suoneria
del telefonino. Far riscoprire i sapori di una volta, una tavola anche
semplice, una belle fetta di pane con olio e sale, un pomodoro pigiato
con le mani, e non solo il microonde. Far visitare un museo e non
solo camminare per far shopping. È questa l’educazione alla vita.
Vorrei dire a mio figlio che le mode passano, ma certe scelte (così come certi errori) restano. Che la protesta, per aver ragion d’essere, deve necessariamente venire abbinata a una proposta. Che aveva ragione
Richard Kipling quando scriveva: «Se riesci a conservare il controllo
/ quando tutti intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa; Se
riesci ad aver fiducia in te quando tutti / ne dubitano, ma anche a
tener conto del dubbio; Se riesci ad aspettare e non stancarti d’aspettare / O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne / O se odiano, a non lasciarti prendere dall’odio / Se riesci a
parlare con la folla e a conservarti retto / E a camminare coi Re senza perdere il contatto con la gente / Se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro / Se tutti contano per te, ma nessuno troppo; Se riesci a occupare il minuto inesorabile / dando valore a ogni
istante che passa / Tua è la terra e tutto ciò che è in essa / E, quel
che è più, tu sarai un Uomo, figlio mio!».
Perché un figlio non ha bisogno di soldi che compensino il vuoto di
un rapporto. Non ha bisogno di griffe se non si è procurato prima
qualche graffio. Un figlio ha bisogno di capire i valori della vita, l’educazione, ha bisogno di studiare per prepararsi al lavoro. Ha bisogno di crescere in un ambiente di franca armonia. Ha bisogno di entrare in un’azienda, partendo dai gradini più bassi, facendo esperienza
prima di entrare nella sala dei bottoni. Ha bisogno di capire se il cammino che immagina è adatto alle sue caratteristiche, non di subire
ciò che il padre ha disegnato per lui. Ha bisogno di amore, anche
quando questo lo costringe a rimettersi in discussione. La certezza
della vita deriverà allora dalla consapevolezza che solo una somma
di errori, poi corretti, porta alla soluzione. Non è retorica. È vita.
IN ALTO, A SINISTRA, PIERO MARANGHI, 37 ANNI, IMPRENDITORE, A PASSEGGIO CON LA FIGLIA MADDALENA. AL CENTRO, L’INDUSTRIALE TESSILE BEPPE
BELLORA (40 ANNI): HA TRE FIGLIE, ISABELLA, ANGELICA E CAMILLA. A DESTRA, KEAN ETRO, 43 ANNI E QUATTRO FIGLI (ALICE, JOYCE, SWA NN E GEROLAMO).
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Senza genitore un bambino resta senza identità
LE ORIGINI DEL PADRE? SONO DIETRO UNA CORAZZA
Una domanda capitale per i genitori di sesso maschile: vi
siete mai chiesti che padre siete o che padre vorreste essere?
Se il dubbio vi attanaglia, il libro Il gesto di Ettore - Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (Bollati Boringhieri editore, 25 euro), di Luigi Zoja, psicoanalista di fama internazionale, può esservi utile. Si tratta di un contributo alla comprensione della figura del padre e del suo
ruolo, così come si è sviluppato durante i secoli della storia umana, mettendone in luce il significato psicologico. Il
titolo del libro si riferisce a un momento dell’Iliade in cui
Ettore va ad abbracciare la moglie Andromaca e il figlio
Astianatte sulle mura di Troia, prima della battaglia fatale con Achille. Nel momento in cui Ettore si volge verso
il figlio per prenderlo dalle braccia della madre, il bimbo
scoppia a piangere. Ettore si accorge che è stato spaventato dal suo elmo, e quindi lo toglie. La novità, soprattutto metaforica, è tutta in questo gesto. Ettore, infatti, si mostra al figlio come uomo comune, come essere fragile, e la
corazza assume un valore fortemente simbolico di indumento che protegge, ma sbarra la strada alle emozioni. Togliersi l’elmo significa, dunque, aprirsi alla relazione. Secondo Zoja, pertanto, all’origine del rapporto tra padre e
figlio ci deve essere un atto di riconoscimento: l’autore ha
sviluppato la sua analisi utilizzando, con frequenti citazioni,
la descrizione dei padri presentati nella letteratura di tutte le epoche. Per cominciare, viene fuori che il padre non
è una figura naturale della specie umana. Lo studio dei nostri cugini primati, come orango, scimpanzé e gorilla, lascia supporre che agli albori dell’umanità le femmine
avessero una funzione qualitativa, dato il numero limitato dei discendenti che ognuna di esse poteva generare,
mentre era propria dei maschi una funzione quantitativa
che era però prerogativa dei più forti, gli unici che si accoppiavano con le femmine del branco. Zoja ci rammenta che la vita della maggior parte dei nostri progenitori maschi era «caduca quanto quella di una foglia di insalata» e
aveva, per quanto riguardava la continuità della specie, lo
stesso valore dei loro spermatozoi: nulla. Nel codice dell’antichità, invece, il bambino che restava senza padre rimaneva anche senza identità. Nel tempo, famiglia e società
sono diventate una cosa sola: dunque, senza padre si era anche tagliati fuori dal «civile consesso», fino a scomparire dal
punto di vista sociale. Oggi, invece, l’immagine del padre
si è rarefatta. Per Zoja, è rappresentata dall’immagine dell’assenza. Il padre contemporaneo è assente non perché, come Ettore, è andato a combattere una guerra, ma perché
non affronta il suo ruolo e il rapporto che ne deriva.
Un esempio: il padre che c’è nel corpo ma non nello spirito, perché è «separato in casa». Al padre, ancora più di
quello che ha fatto, viene oggi addebitato quello che non
ha fatto e non ha detto. Il figlio dell’era industriale non vede e non conosce le attività del suo genitore maschio,
non ha più nella sua esperienza un’immagine diretta dell’adulto che sostiene la famiglia. Eppure, conclude Zoja,
i figli hanno bisogno del padre: perché favorisce la crescita, la differenziazione e l’autonomia, e dunque la definizione
dell’identità. Per questo, al contrario del sottotitolo del libro, il padre non scomparirà mai. Forse.
(M.B.)
A L E S SA N D R O D E L B O N O ( S O P R A ) , 4 0 A N N I , C EO D E L L A M E D I O L A N U M FA R M AC E U T I C I , C O N I F I G L I A M I R A E R I N A L D O . « A N OV E A N N I PA P À M I P O RT Ò DA L
S U O SA RTO P E R FA R M I P R OVA R E U N A G I AC CA C O M E L A S UA » , R I C O R DA , « C O S Ì , DA A D U LTO , M I È S E M B R ATO N AT U R A L E C O N T I N UA R E C O N I L S U - M I SU R A » .
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P E R L A N AT U R A E L A L E A LT À » , D I C E . L E I M M AG I N I D I QU E S TO S E RV I Z I O S O N O T R AT T E DA L L I B R O « YOU N G I TA L I A N G E N T L E M E N » ( VA L E N T I N A E D I Z I O N I ) .
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IN PUBBLICITÀ IL PADRE
NON È PIÙ LO STESSO
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www.henrycottons.it
Valori da trasmettere da una generazione all’altra:
ecco il rapporto coi figli visto dai creativi
«Uno dei primi obiettivi della
Secondo Maurizio Sala, vicepubblicità, d’altra parte, è quelpresidente e direttore creativo
lo di generare empatia con il
dell’agenzia di pubblicità Arpotenziale consumatore: il comando Testa (quella di Carinvolgimento è necessario. Quemencita, giusto per citare un suo
sto modello, inaugurato da Volgrande successo), lo spartiacvo, è stato poi applicato nelle
que risale all’anno 1979, ed è
relazioni padre-figlio, con un
rappresentato da una rivoluzioelemento supplementare: quelnaria campagna di Volvo Amelo della trasmissione dei propri
rica. Per la prima volta in una
valori di uomo, oltre che di papubblicità, il ruolo del padre
pà. Senza complicità, la figura
viene rafforzato e modernizzapaterna apparirebbe incompleto. Da austero diventa compliDI MARCO BASILEO
ta». I risultati di una ricerca
ce, passando da classico a conrealizzata dalla facoltà di Scientemporaneo, da educatore a
ze linguistiche per la comunicazione e l’impresa dell’università Catconfidente. Lo scenario è quello di una villetta della campagna ametolica di Milano confermano questa tesi: da alcuni anni la figura paricana. Tutto comincia con un ragazzo che parcheggia e smonta da un
terna ha subito modifiche sostanziali in ambito sociale e pubblicitaimprobabile catorcio, la sua automobile. Sorridente, si avvicina alla porrio: dopo essere stata sottovalutata per lungo tempo, si è riappropriata d’ingresso della villetta e suona il campanello.
ta del suo ruolo nella crescita sociale della prole. «La causa principaApre la porta un uomo serio, che lo guarda di traverso. Alle sue spalle
le», si legge sulla ricerca, «potrebbe derivare dalla situazione demoentra in campo una ragazza, sua figlia: evidentemente, è la fidanzata del
grafica italiana: secondo l’Istat, l’età media del padre al primo figlio
giovane che attende all’uscio. Il padre li osserva mentre si allontanano
si è alzata dai 26,7 anni del 1991, ai 35,6 anni del 2005. Se prima si
insieme, felici, verso il catorcio. Comincia a piovere, ma la capote deldiventava genitori in una fase di non completa maturità, nella sociela macchina del ragazzo sembra sfondata. Così, il padre lo chiama, mettà odierna i “neobabbi” hanno un’identità ben definita e duramente conte una mano in tasca e gli lancia un mazzo di chiavi: «Take my Volvo»,
quistata. Ecco, allora, perché delineare una figura che possa essere padice. «Prendi la mia Volvo». Fine dello spot. «Oggi sembra un comdre, marito e soprattutto uomo, con i suoi desideri e il suo bagaglio di
portamento ordinario», spiega Maurizio Sala, «ma dobbiamo consideesperienze e valori da trasmettere».
rare la grande valenza simbolica di questo gesto: il padre non gli cede
Un concetto raccolto e sviluppato in celebri campagne pubblicitarie, cosolo la macchina, ma passa la sua esperienza. Non è poco: il ragazzo esce
me, giusto per fare qualche esempio, quella di Valentini, che punta sul
con, presumiamo, la sua unica figlia. L’esito dell’incontro romantico popayoff «Modelli da seguire», mostrando un bimbo che, appunto, segue
trebbe essere quello che immaginiamo, perché questo vissuto appartiesuo padre e suo nonno sulla strada dello stile. Anche se, in fatto di apne anche al padre. Che non esita a impegnarsi personalmente, grazie alplicazione del modello inaugurato da Volvo nel 1979, è fondamentale
la sua esperienza, per rendere più confortevole la serata dei ragazzi. Pecitare la campagna di Patek Philippe, che mette un punto conclusivo al
raltro, si rivolge al maschio. Come per una paterna, ma anche complitema, affermando che «Le cose che si amano di più non si posseggono
ce, strizzata d’occhio. Un messaggio molto forte». Era un modello mai
mai veramente, semplicemente si tramandano». Nella fotografia, c’è un
visto prima, perché rompeva gli schemi: «Ma, allo stesso tempo, appadre che trasmette al figlio il valore più prezioso: quello del tempo.
parteneva a quei tempi così come appartiene ai nostri», prosegue Sala.
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IN ALTO, DUE CAMPAGNE CHE RACCONTANO IL RAPPORTO TRA PADRI E FIGLI: VALENTINI (A SINISTRA) PUNTA SUL TEMA DELL’IDENTIFICAZIONE, MENTRE HENRY
COTTON’S MOSTRA UN UOMO E UN BAMBINO TALMENTE COMPLICI DA DIVENTARE UNO IL RIFLESSO DELL’ALTRO. A FIANCO, LA PUBBLICITÀ DI PATEK PHILIPPE.
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