leggi un assaggio - Ad est dell`equatore

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ad est dell’equatore
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il più maldestro dei tiri
marco ciriello
ad est dell’equatore
©
2015 ad est dell’equatore
vico orto, 2
80040 pollena trocchia (na)
www.adestdellequatore.com
[email protected]
impaginazione: loredana giudice
A Edmondo Berselli,
Enzo Jannacci, Agostino Di Bartolomei, Gaetano Scirea, Beppe Viola,
Gian Carlo Fusco, Nicola Pugliese, Ezra Pound,
Cesare Zavattini, Omar Sivori, Luigi Meneghello,
sì, apparentemente, giocherei con un 4-3-3
“Legge fondamentale della scienza: si procede alla carlona,
si formulano teorie qualsiasi, poi si agisce una selezione darwiniana,
qualcuno mette un imprimatur sulla teoria meno improbabile
e si forma una scuola”.
Edmondo Berselli, Imre Lakatos, Paul Feyerabend oppure Mino Raiola
“Una volta, da hegeliano, credevo solo nelle astrazioni:
tesi, antitesi, sintesi; struttura, sovrastruttura;
paradigma, sintagma: comunità, società;
secolarizzazione, burocratizzazione (schemi nell’ordine di
Hegel, Marx, Saussure, Tonnies, Weber:
se volete ne aggiungo uno di Heriberto Herrera).
Adesso credo solo negli episodi, anzi, più precisamente negli aneddoti”.
Gianni Agnelli, Eugenio Scalfari o forse Edmondo Berselli
“Ecco Duke Ellington, grande boxeur”.
Paolo Conte, Giuseppe Berto, no, no, piuttosto Julio Cortázar
da corso a pirlo, da moro a berlusconi
passando per mastroianni
È possibile andare da Mariolino Corso ad Andrea Pirlo attraverso
un campo di pallone? Scrivendo un “vangelo apocrifo secondo la
Gamba”? – Come direbbe Vladimir Dimitrijevic, direttore editoriale
ma prima di tutto raccattapalle nel 1952 a Belgrado per IugoslaviaUngheria. È quello che mi sono sempre chiesto dopo aver letto Il
più mancino dei tiri nel 2002, durante i mondiali di Giappone e Corea.
Magari una punizione in due dove il tocco di Corso permette a Pirlo
di tirare, un ideale passaggio dalle punizioni a «foglia morta» a quelle
«maledette» come le chiama – urlando – Fabio Caressa, un ponte che
dall’Italia di Aldo Moro arriva a quella di Silvio Berlusconi, dall’Inter
di Helenio Herrera e Angelo Moratti al Milan e alla Juventus di Andrea Pirlo (che l’Inter si fece sfuggire), dalla vittoria di Felice Gimondi a quella di Nibali, dal 1964 o ‘65 – raccontato da Edmondo Berselli
– al 2014-15: cinquant’anni secchi sui campi di calcio, quando umanamente il retropassaggio non era peccato mentre il masturbarsi sì;
col metodo di Fernand Braudel, che, prigioniero durante la seconda
guerra mondiale, scrisse il suo saggio su Civiltà e imperi del Mediterraneo
nell’età di Filippo II, senza poter consultare né fonti né documenti né
Google, direte facile così: uno scrive di getto e non deve nemmeno
perdere tempo, e invece no, è come tuffarsi all’improvviso in alto
mare senza sapere da che parte c’è la terra, come avere una barriera
davanti e tirare una punizione. Dovendo basare tutto sulla memoria,
pensiero e visione. Cinquant’anni sembrano tanti poi ti volti a cercarli
e non li trovi più, per questo vi risparmierò quello che conoscete
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già, salveremo pochissime cose, senza indugiare come in quelle trasmissioni commemorative dove si cerca il sentimento comune. Mi
interessava Berselli, per questo bisognerà tradirlo, mi piaceva la sua
leggerezza senza perdere di vista il fondo, e allora mi provo, magari
perdo e vien fuori che sono uno scemo, ma intanto vi ho costretto
a cercarlo, voi che potete googlare senza pensarci su. Quando ho
cominciato a scrivere, ho pensato che la mancata carriera di Pirlo
all’Inter – che mi avrebbe consentito un allineamento migliore, quando ho scelto lui come punto finale della parabola di Corso usata da
Berselli – mi ricordava una introduzione a un libro di Giorgio Amendola, forse scritta da Miriam Mafai, dove si rimpiangeva la possibilità
– perduta – di averlo come presidente della Repubblica; e a pensarci
ora dopo anni di un altro migliorista, Giorgio Napolitano, questo ragionamento incrocia una frase che disse Fausto Coppi a Mario Fossati: «ricordati nella vita si ottiene quasi sempre tutto, solo tardi e male».
Inutile che vi dica che l’introduzione potrebbe essere di Luciana Castellina o Rossana Rossanda ma invece no, sono certo della Mafai
perché era più organica al Pci rispetto alle prime due e quindi molto
meglio disposta a riconoscere le ragioni di uno come Amendola, destro, che ha poi generato uno come Napolitano, entrambi lontani dal
gruppo “Manifesto”. In fondo anche senza il logaritmo di Google,
confrontando dati si arriva a una probabilità alta di risposta, in merito
ai propri dubbi, con un divertimento maggiore, una volta sciolto il
nervoso rispetto alla propria memoria. Ma torniamo ad Andrea Pirlo,
che calcia di destro, e la mia certezza viene da un suo lancio da centrocampo a Roberto Baggio: che stoppa dribblando il portiere della
Juventus; entrambi giocano nel Brescia allenato da Carletto Mazzone
(venerato maestro con riserva) che è il padre dell’arretramento di Andrea Pirlo, mossa che porterà principalmente qualche scudetto e una
Champions League al Milan e un mondiale all’Italia. Lo stesso Mazzone che sarà pure maestro e padre di Pep Guardiola che è un po’ il
Barack Obama del pallone. Perché Pirlo? Perché è l’ultimo italiano
maestro di punizioni, tutto quello che rimane al calcio senza l’atletica, un bandolero stanco, un messicano indolente che passeggiando e
accelerando improvvisamente porta quello che nella politica non c’è
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più: lo stupore. In ogni sua punizione c’è la possibilità di un nuovo
mondo, di un ordinamento del caos nella frazione di tempo tra il suo
calciare il pallone e il raccoglierlo in porta del portiere avversario. E
con lui sopra i campi e le teste c’è Silvio Berlusconi, presidente del
Milan e del Consiglio, portatore a sua volta di stupore e credenze, di
promesse e vittorie, anche se era già passato il tempo da un milione
di posti di lavoro.
Da Moro a Berlusconi, per spiegarla, devo dirvi di una volta che
andai a Sabaudia per un anniversario che riguardava Alberto Moravia, non ricordo se era nascita o morte, era il 2006 quindi googlate
e saprete. Giro, rivedo i suoi posti e poi finisco in un ristorante, mi
siedo, e mentre aspetto il cameriere: «zac» – come direbbe Alessandro Baricco dopo una giusta pausa e guardando dritto in camera –
alzo gli occhi e vedo queste due foto che raccontano tutto, in un
involontario montaggio analogico, avete presente come le foto delle
università americane nei film per far capire come è passato il tempo
e come sono cambiati i costumi? Il regista passa la macchina da presa
lentamente sulle foto virate seppia – per dirla con l’ultrà romanista
Francesco De Gregori – e io vedo l’Italia come meglio non potrei,
meglio dei documentari di Enrico Deaglio e degli editoriali di Eugenio Scalfari, ed è opera di un cameriere, è la piccola storia che
costruisce la grande e ci permette di vederla; vabbè l’ho fatta lunga
ma sapete: le case editrici e l’editoria italiana hanno un problema con
la brevità, gli editor sono spaventati dalla brevità, pensano che dire le
cose in un rigo solo, sia sbagliato, e non sanno che William Faulkner
c’ha provato tutta la vita. In realtà volevo anche cercare di ricordare il
nome del ristorante a Sabaudia o forse era Fregene o Santa Marinella
(si scrive staccato o no?) ma proprio non mi viene, magari è uno di
quelli col nome del proprietario e il mare come sfondo nell’insegna al
neon, comunque lo riconoscete perché entrando sulla destra ci sono
due foto: una di Marcello Mastroianni che non guarda e sorride, e di
fianco: una di Silvio Berlusconi con il suo ghigno che ti fissa, il punto
è lo stesso, entrambi sono stati in quel posto, hanno mangiato e guardato la spiaggia che si apre sotto le finestre. Ci vorrebbe Flaiano per
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avere non una semplice didascalia ma una verità indubitabile oppure
un Flaiano rimodulato da Enzo Biagi adattato per la televisione, una
cosa sulla situazione disperata ma non seria, e intorno: rimpianto e/o
Marziano a Roma che ora l’ha imparata anche Saviano. Non avendo
più Flaiano in squadra, Biagi in panchina da tiggì, tocca arrangiarci.
Molti di voi troveranno la comparazione incongrua, per il diverso ruolo, Mastroianni un portiere timido, e Berlusconi un attaccante
pronto a metterla dentro come e più di Inzaghi da qualunque lato e in
qualunque modo. Ma dovete guardare al salto che li separa, credo che
a separarli ci siano “solo” venti anni, venti campionati di cui almeno
sedici vinti dalla Juve, ingiustamente – aggiungerebbe mezza Italia.
E poi Berlusconi sta alla politica come l’Olanda sta al pallone, la
sua discesa in campo è accelerazione del processo di occidentalizzazione dell’Italia: gioco estremo e pressing alto sull’elettorato. Il perché lo
spiegò Rob Rensenbrinck, filosofo con meno fortuna di Bauman, e
grande ala sinistra di quell’Olanda, quando, anni fa, disse che il calcio
totale, quello della sua squadra, quello che entusiasmò i ragazzi e i
giornalisti, aveva cominciato a rovinare il gioco, introducendo l’idea
di velocità e di fisicità che ha portato all’esasperazione delle partite
di oggi.
Se era in privato – come insegnava proprio Berselli – che eravamo
autorizzati a riconoscere che non potevamo non dirci liberali ripetendo la lezione di Benedetto Croce, a lungo allenatore e padre calcistico
del Napoli; è sempre in privato, e con corredo di grosse quantità di
ostriche, che si può ammettere simpatia per Silvio Berlusconi e riconoscergli anche pregi fuori dall’area di rigore, andando oltre i suoi
numerosi gol in fuorigioco e le sue vittorie. Certo è un attaccante
che tiene troppo il pallone, tanto che da ragazzo, lo chiamavano “Il
Venezia”, almeno stando a quello che racconta Massimo Fini nella
sua autobiografia – Una Vita –, che, però, nei momenti morti riesce a
far ridere tutti, come con la storia della “culona inchiavabile”, che è la
tipica battuta da campo, poi Barbara Spinelli negherà, ma chi è stato
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almeno una volta ad aspettare un calcio d’angolo sa che le discussioni
in area e i rapporti competitivi tra attaccante e difensori passano per
le biografie di madri, sorelle e spose.
Adesso prima di spiegarvi come siano finiti male alcuni importanti
esponenti della musica e del cinema a causa del calcio e di come persino la nostra capitale sia rimasta segnata più da una sconfitta in Coppa Campioni che dalle minacce di Massimo Carminati, voglio dire
una cosa su Silvio Berlusconi, che non ho mai votato, che ho avversato quando facevo politica attiva e che ho detestato solo una volta:
quando ha offeso Dino Zoff, colpevole di non aver usato Gianluca
Pessotto a uomo su Zidane, durante l’unica finale risolta da un “Golden gol” – una sorta di roulette russa applicata al pallone ma senza
Christopher Walken con i suoi occhioni sbarrati e la fascia in fronte
ma con Marco Del Vecchio che piange –. A parte l’errore tattico, lì
ho capito che la fama di Berlusconi intenditore di calcio era falsa, lui
come per tutto il resto aveva solo un istinto per il gol e molti soldi da
spendere, da qui ecco spiegato Arrigo Sacchi e gli olandesi e persino
Fabio Capello che deve tutto a Dejan Savicevic e se non ci credete
domandate a Vladimir Putin e prima ancora alla regina d’Inghilterra,
che no, non era Pelé.
Però, nonostante questa scoperta, l’ho rivalutato, umanamente,
non politicamente, quando venne fuori il racconto di Alan Friedman
che vedeva Carlo De Benedetti – colpevole di aver affidato una
nazionale a Federico Rampini – sproloquiare di tattica e moduli
senza giocare. E, forse, complice un servizio fotografico che ritraeva
l’imprenditore con Gad Lerner: un calciatore fumoso come il
Gheddafi figlio, deposto a Perugia prima che a Tripoli, pensai che
anche solo per il semplice fatto di aver affrontato le piazze, di aver
attraversato le campagne elettorali, insomma di essere sceso in campo
e di aver giocato la partita, rispetto al cercare di condizionarla dalla
tribuna, Berlusconi meritava una indulgenza, se non plenaria almeno
pallonara. E non so se per il suo sforzo o per quello di Massimo
Moratti di sperperare denari e scelte in una assurda riffa di calciatori
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e allenatori, fino a José Mourinho, ma Milano nonostante la nebbia
non è triste come Roma, calcisticamente parlando.
Tutta colpa di Bruce Grobbelaar, il portiere del Liverpool, dei
suoi riti scaramantici, delle sue danze assurde, che incantarono
Bruno Conti e Ciccio Graziani. Se la Roma di Nils Liedholm non
avesse perso quella finale di Coppa Campioni, gli anni ottanta
italiani sarebbero stati diversi: avremmo un Antonello Venditti
vecchio e non imbalsamato, un Carlo Verdone ancora comico e ci
saremmo risparmiati una serie di film e romanzi inutili, come quello
di Giovanni Floris Il confine di Bonetti, una opera prima esile, priva
di lingua, con una idea non originale, dei dialoghi da fiction-Rai e
soprattutto con degli espedienti veltroniani (il gioco dell’elenco, i
pantheon, gli altarini), che rifanno Tom Waits che dribbla Vazquez
Montalban e Ligabue che passa a Sandro Veronesi che cita Onofri
che ricorda Riccarelli, Pacman, il muro di Berlino, Reagan che mette
in mezzo dove ci sono Piccolo e Berlinguer e torniamo a Grobbelaar,
dimenticando che potevamo anche spiazzarlo e segnare, come fece
Agostino Di Bartolomei.
Il Pasolini del calcio italiano, invece, è Gaetano Scirea, tutti lo tirano per la maglia, a lui che mai era stato espulso; tutti fanno un gran
chiasso citando il suo nome, il nome di uno capace di vincere i mondiali e fumarci su, in silenzio, con Dino Zoff, uscendo dal Santiago
Bernabéu e poi d’andare a dormire. Persino Giorgio Chiellini – uno
molto scarso che supplisce alle sue mancanze tecniche con una esuberanza da spartano, una specie di deputato dell’UdC che si pensa
nella Dc – si dice erede di Scirea, e lo scrive, in una proiezione tutta
immaginifica.
C’è questa inadeguatezza che si dimentica della sua natura, e, spesso, complici le gazzette e le tv, viene raccontata come compostezza,
in una somiglianza che è solo fonetica, e mai reale.
Marco Materazzi che risolve il mondiale tedesco ricorda il Walter
Veltroni che filma Enrico Berlinguer, in una esposizione al ribasso: