Giurisprudenza SS.UU.

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Giurisprudenza SS.UU.
Sommario
MARZO 2009
3
Editoriale
Disposizioni antielusive
Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite
in tema di «utilizzo abusivo di norme fiscali di favore»
di Francesco Moschetti
197
Giurisprudenza comunitaria
Accertamento
L’ordinamento comunitario «impone» il rispetto dei termini per l’esercizio dei diritti di difesa
203
210
Corte di giustizia UE, Sez. II, Sent. 18 dicembre 2008, causa C-349/07
commento di Alberto Marcheselli
Giurisprudenza delle Sezioni Unite
Disposizioni antielusive
Spetta al contribuente provare le ragioni economiche che escludono l’abuso del diritto
216
220
220
229
Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, nn. 30055 e 30056
Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, n. 30057
Cass., Sez. trib., Sent. 21 gennaio 2009, n. 1465
commento di Antonio Lovisolo
Giurisprudenza di legittimità
Reati tributari
Le presunzioni tributarie non hanno valore di piena prova nel processo penale
242
245
Cass., Sez. III pen., Sent. 6 febbraio 2009, n. 5490
commento di Filippo Fontana
Professionisti
Legittima l’imputazione all’associazione professionale dei compensi di arbitro irrituale
249
251
Cass., Sez. trib., Sent. 10 dicembre 2008, n. 28957
commento di Fabrizio Cerioni
Giurisprudenza di merito
Imposte sui redditi
Al Fisco l’onere della prova sulla data di delibera assembleare per la distribuzione di
dividendi
257
258
Comm. trib. prov. di Perugia, Sez. VII, Sent. 21 novembre 2008, n. 153
commento di Mario Ravaccia e Gianluca Settepani
Statuto del contribuente
Avviso di accertamento nullo se preceduto da un pvc non notificato al contribuente
262
264
Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXIV, Sent. 18 novembre 2008, n. 303
commento di Antonio Tomassini
Sanzioni
Non è sanzionabile l’inadempimento causato da grave stato di salute
268
270
Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXI, Sent. 24 ottobre 2008, n. 313
commento di Franco Batistoni Ferrara
Osservatorio
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
a cura di Cesare Glendi e Mariagrazia Bruzzone
271
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
195
Sommario
Indici
Indice degli Autori
Indice cronologico
Indice repertorio della giurisprudenza per materia
281
281
281
Rivista di giurisprudenza tributaria
GT
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Editoriale
Avvisaglie di supplenza
del giudiziario al legislativo,
nelle sentenze delle Sezioni Unite
in tema di «utilizzo abusivo
di norme fiscali di favore»
di Francesco Moschetti
L
e Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sull’esistenza di un «principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto» in materia tributaria (1):
a) fornendo un concetto completo di «utilizzo abusivo di norme fiscali di favore»;
b) seguendo un iter argomentativo proprio;
c) in parte differenziandosi dalla precedente sentenza sullo stesso tema della Sezione tributaria
della Corte Suprema, 17 ottobre 2008, n. 25374
(2).
La precedente sentenza, che aveva affrontato un
caso di artefatto spezzettamento di un unico (in
senso economico e funzionale) contratto di
leasing, finalizzato a restringere la base imponibile soggetta ad IVA, aveva:
a) affermato che il principio generale «di divieto
delle pratiche abusive» era principio del diritto europeo, in quanto tale applicabile a tutte le imposte
(anche quelle non armonizzate) (par. 5.2);
b) nel delineare il concetto, messo in luce più l’aspetto dello «scopo» di realizzare un risparmio di
imposta (par. 5.4 della sentenza), che l’aspetto
(oggettivo) di una architettura contrattuale artefatta;
c) indicato come sufficiente a tal fine che lo scopo
fosse quello «principale» (par. 5.4);
d) chiarito infine che «il meccanismo dell’abuso
del diritto costituisce un superamento della forma
giuridica in vista di cogliere l’esatta finalità economica» (par. 5.8).
Emergeva pertanto una elaborazione dell’istituto
ancora non conclusa: era una derivazione comuni-
taria o un mero criterio interpretativo già patrimonio del nostro ordinamento? Se di derivazione comunitaria, era corretto applicarla anche ai tributi
non armonizzati?
Inoltre, come si è detto, la implicita definizione
contenuta al par. 5.4 non indicava espressamente
l’elemento del «vantaggio indebito», né quello
dell’artificiosità delle forme contrattuali poste in
essere (anche se tali elementi emergevano dalla
descrizione del fatto e dal complesso della sentenza).
e Sezioni Unite, dovendo risolvere, ai fini delle imposte dirette, un caso di dividend wa-
L
Francesco Moschetti - Professore ordinario di Diritto tributario Avvocato in Padova
Note:
(1) Ci si riferisce qui specificamente alla sentenza 23 dicembre
2008, n. 30055, in tema di cd. dividend washing, in Banca Dati BIG,
IPSOA.
Nella stessa data del 23 dicembre sono state depositate la sentenza n. 30056, parimenti in tema di dividend washing e la sentenza n. 30057, in tema di dividend stripping, entrambe in Banca Dati
BIG, IPSOA.
Per la nota a queste sentenze, si vedano R. Lupi e D. Stevanato,
«Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva», in C.T. n. 6/2009, pag. 403 ss.; G. Falsitta, «L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola
generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali», in Corr. Giur. n. 3/2009, pag. 293; G. Corasaniti,
«Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario», in corso di pubblicazione in Obbligazioni e contratti, 2009.
Per alcuni orientamenti dottrinali espressi immediatamente prima delle citate sentenze delle Sezioni Unite, si vedano i contributi di C. Berliri, F. Paparella, R. Lunelli, I. Vacca, I. Caraccioli, G. Marongiu, P. Gentili, nel fascicolo «Elusione fiscale e abuso di diritto», in Neωteρa, n. 1/2009.
(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.
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Editoriale
shing anteriore alla specifica norma antielusiva del
1992 (3), hanno ritenuto di «dover aderire all’indirizzo di recente formatosi nella giurisprudenza
della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass.
10257/2008, 25374/2008) (4), fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio
antielusivo».
Se detto principio era già insito nell’ordinamento,
allora: a) preesisteva alla specifica norma antielusiva; b) non richiedeva una legge che contrastasse
espressamente l’architettura posta in essere; c) non
violava l’affidamento.
Ma come crearlo?
A differenza della sentenza n. 25374/2008, sopra
citata, le Sezioni Unite distinguono tra tributi armonizzati e non: per i primi si affidano all’insegnamento della Corte di giustizia UE, per i secondi «derivano» la norma antiabuso dai principi di
capacità contributiva e progressività di cui all’art.
53 Cost., aggiungendo poi che essa trova conferma
nelle norme specifiche antielusive della legislazione ordinaria.
Da tali norme viene tratta altresì la conseguenza
dell’abuso in termini di «inopponibilità» (degli effetti) all’Amministrazione finanziaria. Sembra
strano che, se la derivazione è dall’art. 53 Cost.,
questa valga solo per i tributi non armonizzati e
non anche per quelli armonizzati, che, parimenti,
rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 53
Cost.
Ma, venendo ad un esame particolareggiato della
sentenza delle Sezioni Unite (5) emergono i seguenti punti:
a) il concetto di «utilizzo abusivo di norme fiscali
di favore»;
b) la «derivazione» di tale concetto dall’art. 53
Cost.;
c) l’asserita conferma tratta dalle norme «specifiche» antielusive della legislazione ordinaria.
l principio che si condivide (e che potrebbe essere «formalizzato» in una, sempre auspicata,
codificazione del diritto tributario) è il seguente:
«il contribuente non può trarre indebiti vantaggi
fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti
giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale».
E ancora affermano correttamente le Sezioni Uni-
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te: «non è lecito utilizzare abusivamente e cioè per
un fine diverso da quello per il quale sono state
create, norme fiscali (lato sensu) di favore».
La definizione sembra apprezzabile, individuando
ogni aspetto, sia la condotta, sia lo scopo.
La condotta è «l’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale». Si
ravvisa qui l’elemento dell’ingegnosa architettura,
del rispetto delle forme e non della sostanza; lo
scopo è l’indirizzo di tale condotta all’ottenimento
di «indebito vantaggio» (laddove «indebito» indica un contrasto con il fine «per il quale sono state
create le norme fiscali di favore») e ciò in «difetto
di ragioni economicamente apprezzabili ... diverse
dalla mera aspettativa di quel risparmio».
Si noti che qui (quanto allo scopo) le Sezioni Unite si allontanano dalla citata sentenza n.
25374/2008. Quest’ultima riteneva sussistente l’abuso malgrado l’esistenza di giustificazioni economiche, se queste non erano «la ragione principale»
(e parallelamente trascuravano, come s’è detto,
nella implicita definizione, l’aspetto della condotta
artefatta) (6); le Sezioni Unite forniscono una defiNote:
(3) Si fa riferimento all’art. 7-bis del D.L. 9 settembre 1992, n.
372, convertito dalla legge 5 novembre 1992, n. 429, che ha inserito nell’art. 14 del T.U.I.R. («credito di imposta per utili distribuiti da società ed enti») i commi 6-bis e 7-bis. Era dunque questa la
norma «specifica» antielusiva in tema di dividend washing e dividend stripping. Sulla differenza tra i due casi, atteso che, nel secondo, il socio ha indirettamente subito la tassazione societaria,
così che l’utilizzo del credito di imposta non è «norma di favore»
ma «norma di sistema», cfr., per tutti, R. Lunelli, «Dividend washing e dividend stripping nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione», in il fisco n. 25/2006, pag. 3810.
(4) Cass., Sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10257, in Banca Dati BIG,
IPSOA; Id., 17 ottobre 2008, n. 25374, cit.
(5) Sono estranee al presente lavoro le questioni processuali riguardanti la natura del giudizio tributario, i poteri del giudice e la
rilevabilità di ufficio in cassazione dell’abuso di diritto. Questioni
da valutare alla luce del principio costituzionale che tutela il diritto al contraddittorio, evidentemente in tutti i gradi del processo.
(6) Aspetto richiesto invece nella sentenza 21 febbraio 2008, causa C-425/06 della Corte europea (cd. sentenza Part Service s.r.l.),
in questa Rivista n. 9/2008, pag. 750, con commento di P. Centore,
«Lo “spettro” dell’abuso sulle operazioni soggette a IVA», in cui,
oltre all’aspetto del «risultato perseguito» (par. 58), si mette in luce, come «secondo criterio» di giudizio, il carattere puramente
«artificioso», «artefatto», delle operazioni (par. 62 della sentenza).
Su tale sentenza, cfr. da ultimo, M. Poggioli, «Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale: elementi costitutivi essenziali e forza di condizionamento rispetto alle scelte legislative
ed interpretative nazionali», in Riv. dir. trib., 2008, IV, pag. 252.
Editoriale
nizione più completa (estesa anche al piano della
condotta) e sono (forse per ciò stesso) più aperte
sul piano dello scopo, applicando il principio antiabuso solo in «difetto di ragioni economicamente
apprezzabili».
La definizione sopra descritta delle Sezioni Unite
sembra condivisibile ed il principio sembra altresì
immanente nella logica di ogni singola norma tributaria «di favore».
Nel disciplinare il credito d’imposta, il legislatore
ha pensato ad un vero socio che abbia indirettamente subito (sul piano economico) il peso della
tassazione societaria. Non ha certo pensato ad un
commercio del credito d’imposta, con acquisto ed
immediata rivendita della partecipazione, del tipo
«mordi e fuggi».
Nel disciplinare la minusvalenza sulla vendita di
partecipazioni, non ha certo pensato ad una creazione artefatta dei presupposti della minusvalenza.
Il legislatore ipotizza comportamenti «leali», fisiologici, normali, non «predisposti ad arte» per creare presupposti di «norme tributarie di favore», disancorati dalla sostanza di una vera realtà di socio
che abbia subito una perdita nella cessione di partecipazioni.
Ma nel contrastare (come è giusto e doveroso)
comportamenti «artefatti» per captare «norme di
favore» pensate dal legislatore per situazioni diverse; nell’affermare che non si può applicare una
«norma di favore» in contrasto con la sua ratio, si
compie nulla più che una operazione di interpretazione della norma.
Non è necessario invocare «derivazioni» da norme
costituzionali o da norme antielusive.
Invero ogni «norma tributaria di favore»:
– corrisponde ad un disegno legislativo;
– si applica ad una fattispecie concreta, che è (e
deve essere) armonica con tale disegno.
Se la fattispecie è artefatta e l’applicazione della
norma sarebbe di conseguenza contrastante con la
ratio legis, quella norma è inapplicabile per mancata realizzazione della norma stessa (quanto alla
ratio e alla condotta).
Ed è vero che non occorre una norma generale che
lo dica (anche se è certo auspicabile «de futuro»
per ragioni di «certezza del diritto»).
Si tratta semplicemente di un principio di serietà,
di non irrisione, di non banalizzazione, di non inganno, che è certamente «insito», ma, senza invo-
care principi generali dell’«ordinamento», in ogni
singola norma che deve essere interpretata logicamente (senza fermarsi alla mera forma) e teleologicamente (7).
Si condivide dunque la non applicazione di «norme di favore» se la condotta è «artefatta» e porterebbe ad una applicazione di tale norma in contrasto con il fine perseguito.
Ma è un principio interpretativo di:
– ricostruzione della realtà al di là della forma;
– valorizzazione della ratio legis.
È vero altresì che, a questa stregua, non è violato
l’art. 23 Cost., perché in tal modo ci si limita ad
applicare la legge vigente (la «legge presa sul serio» e non irrisa).
Più discutibile (per i problemi che fa sorgere di
supplenza del potere giudiziario al legislativo) è
l’asserita «derivazione diretta» dall’art. 53 Cost.
Certamente esiste armonia con l’art. 53 Cost., ma
problema diverso è «chi» debba fare «cosa».
Non condivisibile, poi, l’utilizzo che viene fatto
delle norme «specifiche» antielusive, di cui è colto
solo l’aspetto antielusivo e non il «coessenziale»
aspetto di «certezza del diritto».
assando dunque all’iter argomentativo, le Sezioni Unite parlano di un «generale principio
antielusivo», che è «diretta derivazione» dai principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (primo e secondo comma dell’art.
53 Cost.) (8), che «costituiscono il fondamento sia
delle norme impositive in senso stretto, sia di
quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o
benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi».
Conferma di questo principio generale viene poi
ricavata dalle singole norme antielusive («che appaiono come mero sintomo dell’esistenza di una
regola generale»).
Su un piano generale certamente si condivide il richiamo all’art. 53 Cost. (ed ai principi di capacità
P
Note:
(7) Sulla rilevanza dell’interpretazione a fini antielusivi, cfr. G. Falsitta, «L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della
norma tributaria», in Riv. dir. trib., 2007, I, pag. 569.
(8) «L’interpretazione antiabuso discendente dall’art. 53 Cost.» è
sostenuta altresì recentemente in dottrina da A. Lovisolo, «Abuso
del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio», in Riv. dir. trib., 2009, I, pag. 49.
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contributiva e di progressività) per ricercare la soluzione «giusta» del caso concreto, ma le stesse Sezioni Unite parlano (solo) di «fondamento» di norme impositive e di norme (lato sensu) «di favore»
(9), ed il «fondamento» della norma non è ancora la
norma: richiede un intervento della fonte primaria e
non sempre può supplire ad una norma mancante.
Se si richiamano (come fanno le Sezioni Unite) i
principi costituzionali, non si può invocare l’art.
53 Cost. senza ricordare nel contempo l’art. 23
Cost.: è la legge la fonte diretta della disciplina
tributaria, mentre il principio di capacità contributiva è condizione di legittimità della stessa.
La questione non è di poco momento perché involge una certa concezione della democrazia.
Esistono i valori di giustizia (nella specie, il principio di capacità contributiva); esiste, altresì, un
concetto costituzionale dei valori di giustizia (nella specie, il principio di capacità contributiva, interpretato alla luce del sistema costituzionale); ma,
se il legislatore detta una disciplina delle norme
tributarie in contrasto con tale disegno costituzionale, la conseguenza deve essere il rinvio al giudice delle leggi.
Lo stesso dicasi se la legge contiene una disciplina
lacunosa (ad esempio, lacunosa in tema di contrasto
all’elusione di norme fiscali impositive o alla illecita captazione di norme fiscali di favore): la lacuna
contrastante con il principio di capacità contributiva
non può essere riempita da una regula iuris derivante immediatamente dall’art. 53 Cost., ma deve
essere portata al giudizio della Corte costituzionale.
Diversamente, l’interprete sostituisce se stesso alle
scelte (legittime o illegittime, che siano) del legislatore.
Certo con i migliori intendimenti di adeguamento
ai valori costituzionali di giustizia, ma violando
regole parimenti costituzionali in tema di riparto
di competenza tra potere giudiziario e potere legislativo e sottraendo al giudice delle leggi il dirittodovere di sindacare la lacuna normativa contrastante con l’art. 53 Cost.
on è certo estranea alla sentenza in esame la
considerazione delle scelte del nostro legislatore.
Le Sezioni Unite constatano il «sopravvenire di
specifiche norme antielusive» e le considerano
«sintomo dell’esistenza di una regola generale».
La «fonte diretta» sarebbe il principio di capacità
contributiva; le specifiche norme antielusive sa-
N
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rebbero «sintomo» della regola di «fonte» costituzionale.
Sulla asserita «derivazione diretta» dall’art. 53
Cost., si è già detto.
Dobbiamo ora parlare della «indiretta conferma»
derivante dalle «specifiche norme antielusive».
Orbene, anche qui sembra di dover ravvisare una
non condivisibile semplificazione: non più sul piano (per così dire «verticale») della produzione delle norme, ma sul piano (per così dire «orizzontale») del contenuto delle «specifiche norme» considerate.
Le «specifiche norme» antielusive sono «specifiche» non a caso, perché sono sempre frutto di un
contemperamento tra esigenze antielusive ed esigenze di certezza del diritto.
Sono da decenni (e costantemente) mai disancorate dal riferimento a casi «tipici», perché la voluntas legis è stata proprio quella di perseguire l’equità senza attribuire all’interprete un potere a tal
punto ampio da poter diventare creativo.
Anche l’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973,
n. 600 è diventato ad ampio spettro, ma non disancorato da casi tipici.
Se dunque dalle norme antielusive con tipizzazione, si doveva trarre il «sintomo» di un principio
generale, questo non poteva consistere in un aspetto antielusivo disancorato da quello della tipizzazione, solo nell’aspetto dell’eguaglianza e non anche contemporaneamente in quello della certezza.
Se la tipizzazione rende (come leggiamo nella sentenza in esame) qualche norma «palesemente illegittima per violazione del principio di uguaglianza» (ed è vero), i casi sono due: o esisteva spazio
per l’interpretazione adeguatrice, o, se non esisteva (come non esisteva), era dovuta l’eccezione di
illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza.
i noti poi la sopraggiunta asistematicità sul
piano dei «contrappesi procedimentali». Invero, se oggi si applica l’art. 37-bis, sussistono le garanzie dei commi da quarto a settimo; se si applica
il «principio generale non scritto» di contrasto alle
«pratiche abusive», non solo difettano tali garanzie, ma addirittura il principio potrebbe essere af-
S
Nota:
(9) L’espressione «di favore» è intesa in senso lato, in contrapposizione a norme creative di obblighi o divieti (che potremmo invece chiamare «impositive»).
Editoriale
fermato per la prima volta in Cassazione, senza
previo contraddittorio.
Con il rinvio alla Corte costituzionale i tempi sarebbero stati più lunghi, ma alla fine la soluzione
sarebbe stata assunta dal legislatore in tutti i suoi
aspetti non solo sostanziali e di equità, ma anche
procedimentali (e di garanzia).
uanto all’effetto dell’applicazione del principio antiabuso, esso, nella sentenza in esame, è
tratto dalle specifiche norme antielusive ed è definito in termini di «inopponibilità» all’Amministrazione finanziaria (par. 2.4 della sentenza).
Anche qui ci sembra di dover fare alcune puntualizzazioni.
Ad avviso di chi scrive, nel caso dell’elusione ex
art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, correttamente la
legge parla di inopponibilità soggettiva, atteso che
gli effetti (sia pure con aggiramento della norma
impositiva) sarebbero stati ex se raggiunti: sono
stati ottenuti, ma sono immeritevoli di riconoscimento fiscale, da ciò l’inopponibilità.
Nel caso invece di una realizzazione solo formale e
Q
non sostanziale di «norma di favore», e di contrasto con la ratio legis, la voluntas agevolativa del
legislatore non ha trovato realizzazione nei fatti e
dunque, esistendo contrasto tra fatto e «norma presa sul serio», l’effetto non è mai stato raggiunto.
Prima che inopponibile (all’Amministrazione finanziaria), è inesistente.
n sintesi, le Sezioni Unite, dapprima hanno affermato di ricavare un principio generale antielusivo da una norma costituzionale, che deve invece operare come condizione di legittimità della
norma ordinaria; poi, rivoltesi alla legislazione ordinaria, hanno ricavato da norme riferite a previsioni tipiche, un principio di carattere generale,
scorporando la ratio della parificazione dalla coessenziale ratio della tipizzazione e violando la scelta legislativa (mantenuta e confermata nel tempo)
di coesistenza e contemperamento delle stesse.
Il tutto con riferimento ad una fattispecie (dividend washing) in cui era sufficiente rilevare che il
presupposto della «norma di favore» era stato realizzato nella forma, non già nella sostanza.
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Comunitaria
Giurisprudenza
Accertamento
L’ordinamento comunitario
«impone» il rispetto dei termini
per l’esercizio dei diritti di difesa
Corte di giustizia UE, Sez. II, Sent. 18 dicembre 2008, causa C-349/07 - Pres. Timmermans - Rel. Bonichot
Accertamento - Dogane - Dazi doganali all’importazione - Infrazioni - Osservazioni dell’importatore - Termine da otto a quindici giorni previsto dal diritto nazionale - Compatibilità con il diritto comunitario - Sussistenza - Valutazione del rispetto del diritto al contraddittorio - Giudice
nazionale - Competenza - Valutazione del rispetto del diritto di difesa - Giudice nazionale Competenza
Per quanto riguarda la riscossione di un debito doganale al fine di procedere al recupero a
posteriori di dazi doganali all’importazione, un termine da otto a quindici giorni concesso
all’importatore sospettato di aver commesso un’infrazione doganale affinché questi presenti
le proprie osservazioni è, in linea di principio, conforme alle prescrizioni del diritto comunitario.
Spetta al giudice nazionale adito stabilire se, alla luce delle circostanze particolari della causa, il termine concretamente concesso a detto importatore gli abbia consentito di essere utilmente ascoltato dalle Autorità doganali. Il giudice nazionale deve, inoltre, verificare se, in
considerazione del periodo intercorso tra il momento in cui l’Amministrazione interessata
ha ricevuto le osservazioni dell’importatore e la data in cui ha adottato la sua decisione, sia
possibile o meno ritenere che essa abbia tenuto adeguatamente conto delle osservazioni che
le sono state trasmesse.
Contesto normativo
La Corte (II Sezione), ha pronunciato la seguente
Sentenza
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte
sull’interpretazione del principio del rispetto dei
diritti della difesa.
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di
una controversia che vede contrapposta la società
Sopropé - Organizações de Calçado Lda (in prosieguo: la «Sopropé») alla Fazenda Pública (Erario), in merito ad una richiesta di recupero a posteriori di un debito doganale decisa in seguito ad un
controllo sull’origine delle merci importate in Portogallo dalla suddetta società negli anni 20002002.
La normativa comunitaria
3. Il regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre
1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale
comunitario (G.U. L 302, pag. 1) è stato modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e
del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700 (G.U. L
311, pag. 17; in prosieguo: il «Codice doganale»).
4. Il Titolo VII, capitolo 3, del Codice doganale
disciplina, agli artt. 217-232, il recupero del debito
doganale.
5. L’art. 221, n. 1, del Codice doganale dispone
quanto segue:
«L’importo dei dazi deve essere comunicato al deGT
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Giurisprudenza
Comunitaria
bitore secondo modalità appropriate, non appena
sia stato contabilizzato».
6. Ai termini dell’art. 222, n. 1, lett. a), del Codice
doganale:
«1. Ogni importo di dazi comunicato ai sensi dell’articolo 221 deve essere pagato dal debitore nei
termini indicati in appresso:
a) se questi non fruisce di una facilitazione di pagamento di cui agli articoli da 224 a 229, il pagamento deve essere effettuato nel termine che gli è
stato fissato.
Fatto salvo il secondo comma dell’articolo 244,
questo termine non può eccedere dieci giorni dalla
comunicazione al debitore dell’importo di dazi da
pagare e, in caso di contabilizzazioni globali alle
condizioni stabilite dall’articolo 218, paragrafo 1,
secondo comma, esso deve essere fissato in modo
da non consentire al debitore di ottenere un termine di pagamento più lungo di quello di cui avrebbe
beneficiato se avesse ottenuto una dilazione di pagamento.
(...)».
7. Gli artt. 243-246, inclusi nel titolo VIII del Codice doganale, riguardano il diritto di ricorso.
8. L’art. 245 di tale Codice ha il seguente tenore:
«Le norme di attuazione della procedura di ricorso
sono adottate dagli Stati membri».
La normativa nazionale
9. La legge generale tributaria (in prosieguo: la
«LGT»), approvata con decreto-legge 12 dicembre 1998, n. 398, prevede espressamente il principio di partecipazione al procedimento tributario,
enunciato all’art. 267 della Costituzione della Repubblica portoghese e già previsto, per quanto attiene al procedimento amministrativo, dagli artt.
100 e seguenti del Codice di procedura amministrativa.
10. Ai termini dell’art. 60 di tale legge, nel testo
applicabile ai fatti oggetto della causa principale:
«1. Salvo contraria disposizione di legge, i contribuenti partecipano alla formazione delle decisioni
che li riguardano in uno dei modi seguenti:
a) diritto all’audizione prima del recupero;
(...)
e) diritto all’audizione prima della conclusione
della relazione d’ispezione tributaria.
(...)
4. Il diritto all’audizione deve essere esercitato entro un termine fissato dall’Amministrazione tribu-
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taria con lettera raccomandata inviata a tal fine al
domicilio fiscale del contribuente.
(...)
6. Il termine per esercitare oralmente o per scritto
il diritto all’audizione non può essere inferiore a 8
giorni né superiore a 15 giorni.
(...)».
11. Il regolamento complementare del procedimento di ispezione tributaria è stato adottato con
D.L. 31 dicembre 1998, n. 413.
12. L’art. 60 del predetto decreto legge, relativo
all’audizione preventiva, è formulato come segue:
«1. Terminati gli atti d’ispezione e nel caso in cui
essi diano luogo a provvedimenti tributari o in materia tributaria sfavorevoli al soggetto nei cui confronti si è svolta l’ispezione, il progetto di conclusioni della relazione, comprendente l’individuazione di tali provvedimenti nonché la loro motivazione, deve essere notificato a detto soggetto entro
un termine di 10 giorni.
2. La notifica deve prevedere un termine da 8 a 15
giorni per consentire al soggetto nei cui confronti
ha avuto luogo l’ispezione di pronunciarsi riguardo al progetto di conclusioni in parola.
3. Il soggetto nei cui confronti si è svolta l’ispezione può pronunciarsi in maniera scritta o orale,
in quest’ultima ipotesi le sue dichiarazioni vengono verbalizzate.
4. La relazione definitiva viene elaborata entro 10
giorni dalle dichiarazioni di cui al paragrafo precedente».
Causa principale e questioni pregiudiziali
13. La Sopropé è un’impresa portoghese che vende calzature importate dall’Asia. La controversia
principale riguarda 52 operazioni d’importazione
di calzature dichiarate provenire dalla Cambogia,
che hanno beneficiato, in virtù della loro presunta
origine, di un trattamento doganale preferenziale,
in forza del Sistema delle preferenze generalizzate, nell’arco di due anni e mezzo, dal 2000 alla
metà del 2002.
14. Agli inizi del 2003 la direzione dei Servizi antifrode delle dogane portoghesi ha condotto un’operazione di controllo, nell’ambito di una missione di cooperazione amministrativa avviata dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode della Commissione (OLAF), al fine di verificare l’origine
delle calzature importate dall’Asia.
15. Il 14 febbraio 2003 sono iniziate le verifiche
Comunitaria
da parte dell’autorità doganale presso la Sopropé.
Sulla base di tali verifiche le autorità portoghesi
hanno ritenuto che le 52 operazioni d’importazione sopra menzionate fossero state realizzate presentando certificati d’origine e documenti di trasporto falsificati.
16. I servizi doganali ne hanno dedotto che le merci importate non avessero origine preferenziale e
non potessero pertanto beneficiare del Sistema
delle preferenze generalizzate, e che, di conseguenza, occorresse applicare alle stesse l’aliquota
dei dazi doganali applicabile alle merci provenienti da Paesi terzi.
17. Il 3 luglio 2003 è stato comunicato alla Sopropé che, in applicazione dell’art. 60 della LGT,
essa avrebbe potuto esercitare il suo diritto all’audizione preventiva in merito al progetto di conclusioni della relazione d’ispezione e relativi allegati
entro un termine di otto giorni. La società ha esercitato tale diritto l’11 luglio 2003.
18. Ritenendo che la Sopropé non avesse apportato
alcun nuovo elemento atto a modificare il progetto
di relazione d’ispezione, l’Amministrazione doganale, con lettera datata 16 luglio 2003 e ricevuta il
giorno successivo a tale data, l’ha informata che,
in conformità dell’art. 222 del Codice doganale,
essa avrebbe disposto di un termine di dieci giorni
per pagare i dazi doganali dovuti. Tali dazi doganali ammontavano a euro 212.684,98, maggiorati
di euro 36.757,99 di imposta sul valore aggiunto e
di euro 19,30 d’interessi compensatori, per un totale di euro 249.462,27.
19. Pertanto, tra la data della notifica ai fini dell’esercizio del diritto all’audizione e la data della notifica relativa al pagamento sono trascorsi tredici
giorni.
20. La Sopropé ha rifiutato di pagare il debito doganale che gli era stato notificato entro il termine
stabilito. L’8 settembre 2003 essa ha proposto ricorso dinanzi al Tribunal Administrativo e Fiscal
di Lisbona, lamentando in particolare la violazione
del principio del rispetto dei diritti della difesa,
imputabile all’insufficienza del termine accordatole per far valere le proprie osservazioni. Il giudice
ha nondimeno ritenuto che la decisione di recupero fosse giustificata, non essendo stato prodotto alcun elemento di prova idoneo a metterla in discussione. Esso ha inoltre reputato che i diritti della difesa fossero stati rispettati, posto che l’obbligo di
audizione preventiva, come definito dalla LGT,
Giurisprudenza
era stato soddisfatto e che il Regolamento del procedimento d’ispezione fiscale era stato osservato.
21. La Sopropé ha interposto appello dinanzi al
Supremo Tribunal Administrativo (Corte suprema
amministrativa) avverso tale pronuncia adducendo
in particolare il fatto che il giudice di primo grado
non aveva correttamente applicato il principio dei
diritti della difesa così come garantito dal diritto
comunitario.
22. Nell’ambito del suddetto ricorso il Supremo
Tribunal Administrativo ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti
questioni pregiudiziali:
«1) Se il termine da 8 a 15 giorni stabilito all’art.
60, n. 6, della legge generale tributaria e all’art.
60, n. 2, del Regolamento complementare del procedimento di ispezione tributaria, approvato con
D.L. 31 dicembre 1998, n. 413, ai fini dell’esercizio orale o scritto del diritto del contribuente di essere ascoltato, sia conforme al principio del diritto
di difesa.
2) Se un termine di 13 giorni, calcolato a decorrere dalla data in cui l’autorità doganale ha notificato a un importatore comunitario (nella fattispecie
una piccola ditta portoghese di commercio di calzature) che aveva 8 giorni per esercitare il suo diritto di audizione fino alla data della notifica dell’obbligo di pagare entro 10 giorni i dazi doganali
riguardanti 52 operazioni di importazione di calzature dall’Estremo oriente effettuate ai sensi del Sistema delle preferenze generalizzate nell’arco di
due anni e mezzo (tra il 2000 e la metà del 2002),
possa essere ritenuto un termine ragionevole per
l’importatore per l’esercizio del suo diritto di difesa».
Sulle questioni pregiudiziali
23. Con le sue due questioni, che è d’uopo esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede
alla Corte se un termine di otto giorni concesso ad
un’impresa al fine di far valere le proprie osservazioni in merito ad un progetto di decisione di recupero a posteriori di dazi all’importazione per un
importo di euro 249.462,27, in relazione a 52 operazioni di importazione di merci che hanno avuto
luogo in un arco di tempo di due anni e mezzo,
soddisfi le condizioni imposte dal diritto comunitario e, in particolare, il principio generale del rispetto dei diritti della difesa, considerato, in particolare, che la decisione di recupero è stata adottata
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Giurisprudenza
Comunitaria
dall’Amministrazione cinque giorni dopo lo scadere di tale termine.
Osservazioni presentate alla Corte
24. La ricorrente della causa principale rammenta
che in base alla giurisprudenza della Corte, il principio del rispetto dei diritti della difesa impone
che ogni soggetto nei confronti del quale si intenda assumere una decisione ad esso lesiva deve esser messo in condizione di far conoscere utilmente
il proprio punto di vista (v., in particolare, sentenze 24 ottobre 1996, causa C-32/95 P, Commissione/Lisrestal e a., Racc. pag. I-5373, punto 21; 21
settembre
2000,
causa
C-462/98
P,
Mediocurso/Commissione, Racc. pag. I-7183, punto 36, e 12 dicembre 2002, causa C-395/00, Cipriani, Racc. pag. I-11877, punto 51).
25. La Sopropé pertanto afferma che un termine,
come quello concesso in forza della LGT ad un
importatore per esercitare il suo diritto ad essere
ascoltato, può considerarsi conforme al principio
del rispetto dei diritti della difesa soltanto se consente allo stesso di far conoscere utilmente il proprio punto di vista. Orbene, in circostanze come
quelle della causa principale, a suo giudizio, il termine concessole non è stato sufficiente.
26. La Repubblica portoghese sostiene che il principio del rispetto dei diritti della difesa non si applica rispetto al procedimento di audizione preventiva previsto dalla LGT. Infatti, detto procedimento sarebbe espressione del principio di partecipazione alla decisione, e non del diritto ad esperire
un ricorso. Inoltre, dalla giurisprudenza della Corte ed in particolare dalla sentenza 2 ottobre 2003,
causa C-176/99 P, Arbed/Commissione (Racc. pag.
I-10687) risulterebbe che il principio del diritto ad
essere ascoltato preventivamente fa parte dei diritti della difesa solo nel contesto di un procedimento di sanzione, che non è il caso della causa principale. Di conseguenza, la Repubblica portoghese
stima che il termine di cui all’art. 60 della LGT
non possa essere oggetto di valutazione alla luce
del principio dei diritti della difesa. Tale termine
non può pertanto essere ritenuto irragionevole, atteso che lo stesso non fa altro che aggiungersi ai
vari mezzi di ricorso previsti nei confronti di una
decisione impositiva, rafforzando quindi la possibilità effettiva di esercizio dei diritti della difesa.
27. La Repubblica portoghese aggiunge che, nel
caso in cui la Corte dovesse dichiarare che i diritti
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della difesa si applicano al procedimento di audizione preventiva di cui alla LGT, il termine di cui
si discute nella causa principale è compatibile con
il diritto comunitario, dal momento che rispetta i
principi di equivalenza e di effettività (v., in particolare, sentenza 17 giugno 2004, causa C-30/02,
Recheio - Cash & Carry, Racc. pag. I-6051). Ad
avviso di detto Stato membro, il principio di equivalenza è rispettato, in quanto la LGT prevede un
termine identico per tutti i provvedimenti di liquidazione di introiti fiscali, siano essi fondati sulla
normativa comunitaria ovvero sulla normativa nazionale. Spetterebbe al giudice nazionale giudicare
dell’osservanza del principio di effettività.
28. La Repubblica italiana rileva che il Codice doganale neppure prevede l’audizione del debitore
prima del recupero del suo debito doganale. Essa
si fonda sull’art. 245 di tale codice per sostenere
che le disposizioni sull’attuazione della procedura
di ricorso sono di competenza degli Stati membri.
Tale Stato membro quindi ritiene che la Corte dovrebbe limitarsi a ribadire il principio del diritto di
un operatore ad essere ascoltato, sia nella fase amministrativa che in quella giudiziale, in conformità
della normativa nazionale.
29. La Commissione delle Comunità europee osserva che dalla giurisprudenza della Corte emerge che
il rispetto dei diritti della difesa impone che ogni
destinatario di una decisione che incide sensibilmente sui suoi interessi abbia il diritto di essere
ascoltato, ossia che possa manifestare utilmente il
proprio punto di vista, circostanza che esige il rispetto di un termine ragionevole per presentare le
proprie osservazioni (v., in particolare, sentenze 14
luglio 1972, causa 55/69, Cassella Farbwerke
Mainkur/Commissione, Racc. pag. 887; 29 giugno
1994, causa C-135/92, Fiskano/Commissione, Racc.
pag. I-2885, nonché 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e
Austria/Commissione, Racc. pag. I-7141).
30. La Commissione afferma che le decisioni di
recupero adottate in applicazione del Codice doganale sono idonee ad incidere sensibilmente sugli
interessi di importatori come la ricorrente della
causa principale e che, di conseguenza, i diritti
della difesa devono essere assicurati dagli Stati
membri nell’attuazione delle disposizioni del suddetto codice relative alle modalità di recupero dei
debiti doganali, pur non figurandovi nessuna disposizione attinente al diritto di audizione.
Comunitaria
31. Essa ne deduce che un termine come quello
previsto dalla LGT è compatibile con il principio
del diritto all’audizione se i soggetti i cui interessi
sono sensibilmente lesi da decisioni assunte nell’ambito del diritto comunitario hanno la possibilità di manifestare effettivamente il loro punto di
vista su tali decisioni.
32. A giudizio della Commissione, al giudice nazionale compete valutare se, alla luce del contesto
giuridico, tanto comunitario quanto nazionale, ed
in seguito ad una valutazione complessiva dei fatti
all’origine della controversia principale, le prescrizioni relative al rispetto dei diritti della difesa siano soddisfatte. Essa ritiene che il giudice del rinvio, per decidere in merito al rispetto del diritto all’audizione, possa ispirarsi ai criteri che potrebbero trarsi dalla giurisprudenza della Corte, vale a
dire la finalità delle norme comunitarie applicabili, la complessità dei fatti e dei motivi sottesi alla
decisione, la complessità del contesto giuridico,
l’eventuale possibilità di chiedere una proroga del
termine impartito e, infine, la possibilità di presentare osservazioni supplementari.
Risposta della Corte
33. I diritti fondamentali sono parte integrante dei
principi giuridici generali dei quali la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine, quest’ultima si ispira
alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri oltre che alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o
aderito (v., in particolare, sentenza 6 marzo 2001,
causa C-274/99 P, Connolly/Commissione, Racc.
pag. I-1611, punto 37).
34. D’altro canto, da costante giurisprudenza della
Corte risulta che, quando una normativa nazionale
rientra nella sfera di applicazione del diritto comunitario, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla
valutazione, da parte del giudice nazionale, della
conformità di detta normativa ai diritti fondamentali
di cui la Corte garantisce il rispetto (v., in particolare, sentenze 18 giugno 1991, causa C-260/89, Ert,
Racc. pag. I-2925, punto 42, e 4 ottobre 1991, causa
C-159/90, Society for the Protection of Unborn
Children Ireland, Racc. pag. I-4685, punto 31).
35. Dal momento che le questioni pregiudiziali
vertono sulle modalità in base alle quali le autorità
nazionali devono applicare il Codice doganale co-
Giurisprudenza
munitario, la Corte è competente a fornire al giudice del rinvio tutti gli elementi d’interpretazione
necessari alla valutazione da parte di quest’ultimo
della compatibilità della normativa nazionale in
causa con i diritti fondamentali di cui essa garantisce l’osservanza.
36. Orbene, il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario
che trova applicazione ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di
un soggetto un atto ad esso lesivo.
37. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi
devono essere messi in condizione di manifestare
utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare
la sua decisione. A tal fine essi devono beneficiare
di un termine sufficiente (v., in particolare, sentenze citate Commissione/Lisrestal e a., punto 21, e
Mediocurso/Commissione, punto 36).
38. Tale obbligo incombe sulle Amministrazioni
degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del
diritto comunitario, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente
siffatta formalità. Trattandosi dell’attuazione del
principio in parola e, più in particolare, dei termini
per esercitare i diritti della difesa, si deve precisare che, qualora non siano fissati dal diritto comunitario, come nella causa principale, essi rientrano
nella sfera del diritto nazionale purché, da un lato,
siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall’altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti della difesa conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario.
39. Quanto al principio del rispetto dei diritti della
difesa, il giudice del rinvio si pone due questioni,
vale a dire, da un lato, se un termine da otto a
quindici giorni quale quello previsto come regola
generale dal diritto nazionale affinché il contribuente possa esercitare il proprio diritto ad essere
ascoltato possa ritenersi sufficiente e, dall’altro,
se, alla luce delle circostanze della causa a qua, il
termine di tredici giorni intercorso tra il momento
in cui la Sopropé è stata messa in condizione di far
valere le proprie osservazioni e la data della decisione di recupero sia sufficiente per l’osservanza
del suddetto principio.
GT
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Giurisprudenza
Comunitaria
40. Quanto al primo punto, occorre rilevare che è
normale e peraltro opportuno che le disposizioni
legislative e regolamentari nazionali stabiliscano,
nell’ambito di vari procedimenti amministrativi,
regole generali sui termini. La previsione di regole
del genere è altresì in linea con il rispetto del principio di uguaglianza. Per quanto riguarda le normative nazionali che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto comunitario, spetta agli Stati
membri stabilire termini in funzione, segnatamente, della rilevanza che le decisioni da adottare rivestono per gli interessati, della complessità dei
procedimenti e della legislazione da applicare, del
numero di soggetti che possono essere coinvolti e
degli altri interessi pubblici o privati che devono
essere presi in considerazione.
41. Quanto al recupero a posteriori di dazi doganali all’importazione si deve affermare che un termine che consenta al contribuente di esercitare il suo
diritto all’audizione, che non può essere inferiore
ad otto giorni né superiore a quindici giorni, in linea di principio non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
della difesa conferiti dall’ordinamento giuridico
comunitario. Infatti, le imprese che possono essere
coinvolte dal procedimento oggetto della causa
principale sono professionisti che abitualmente ricorrono all’importazione. D’altro canto, la normativa comunitaria applicabile prevede che tali imprese debbano essere in grado di giustificare, a fini di controllo, la regolarità del complesso delle
operazioni da loro effettuate. Infine, l’interesse generale della Comunità europea e, in particolare,
l’interesse a recuperare tempestivamente le proprie entrate impone che i controlli possano essere
realizzati prontamente ed efficacemente.
42. La ricorrente nella causa principale fa tuttavia
valere dinanzi al giudice del rinvio che essa aveva
fruito soltanto di un termine di otto giorni per manifestare la propria posizione e che la decisione di
recupero era stata assunta appena tredici giorni dopo essere stata invitata a presentare le proprie osservazioni. Per tale ragione il giudice del rinvio
chiede alla Corte di chiarire se termini simili siano
compatibili con il diritto comunitario.
43. Sebbene la Corte non sia competente, ai sensi
dell’art. 234 CE, ad applicare la norma comunitaria ad una determinata controversia, e neppure a
qualificare una disposizione di diritto nazionale alla luce di tale norma, tuttavia, nell’ambito della
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collaborazione giudiziaria instaurata dal detto articolo e in base al contenuto del fascicolo, essa può
fornire al giudice nazionale gli elementi d’interpretazione del diritto comunitario che possono essergli utili per la valutazione degli effetti di detta
disposizione (sentenze 8 dicembre 1987, causa
20/87, Gauchard, Racc. pag. 4879, punto 5; 5
marzo 2002, cause riunite C-515/99, da C-519/99
a C-524/99 e da C-526/99 a C-540/99, Reisch e a.,
Racc. pag. I-2157, punto 22, nonché 11 settembre
2003, causa C-6/01, Anomar e a., Racc. pag. I8621, punto 37).
44. In proposito occorre precisare che, quando una
disciplina legislativa o regolamentare nazionale,
come nel caso della normativa di legge applicabile
in esame nella causa principale, fissa il termine finalizzato a raccogliere le osservazioni degli interessati individuando una forbice di tempo, spetta
al giudice nazionale verificare che il termine così
impartito dall’Amministrazione nel singolo caso
sia confacente alla situazione particolare della persona o dell’impresa coinvolta e che abbia loro
consentito di esercitare i loro diritti della difesa
nel rispetto del principio di effettività. Spetta a
detto giudice, in tal caso, tenere debitamente conto
dei dati peculiari alla causa. Nel caso di importazioni effettuate con paesi dell’Asia, possono assumere rilevanza anche elementi quali la complessità
delle operazioni di cui trattasi, la distanza o ancora
la qualità dei rapporti solitamente intrattenuti con
le amministrazioni locali competenti. Deve altresì
tenersi conto delle dimensioni dell’impresa e del
fatto che essa intrattenga o meno abituali relazioni
commerciali con i paesi in questione.
45. Quanto alle operazioni di controllo come quelle di cui alla causa principale, va rilevato che esse
costituiscono un insieme. Quindi, un procedimento d’ispezione che si svolga nel corso di più mesi,
che comporti verifiche in loco e l’audizione dell’impresa coinvolta le cui dichiarazioni sono verbalizzate, consente di presumere che la predetta
impresa sia a conoscenza delle ragioni per le quali
il procedimento d’ispezione è stato intrapreso e la
natura dei fatti che le vengono addebitati.
46. Anche circostanze del genere atte a dimostrare
che l’impresa interessata è stata sentita, con cognizione di causa, nel corso dell’ispezione vanno prese in considerazione.
47. Spetta al giudice investito della controversia
principale esaminare se, alla luce in particolare di
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tali vari criteri, il termine concesso dall’Amministrazione competente all’interno della forbice temporale prevista dalla legge nazionale soddisfi le
prescrizioni del diritto comunitario sopra rammentate.
48. Quanto alla questione di quale incidenza possa
avere sulla decisione contestata nella causa principale il fatto che la stessa sia stata adottata tredici
giorni dopo che la società era stata informata di
avere un termine di otto giorni di tempo per presentare le sue osservazioni, occorre fornire le seguenti precisazioni.
49. La regola secondo cui il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima
che la stessa sia adottata ha lo scopo di mettere
l’autorità competente in grado di tener conto di
tutti gli elementi del caso. Al fine di assicurare una
tutela effettiva della persona o dell’impresa coinvolta, la suddetta regola ha in particolare l’obiettivo di consentire a queste ultime di correggere un
errore o far valere elementi relativi alla loro situazione personale tali da far sì che la decisione sia
adottata o non sia adottata, ovvero abbia un contenuto piuttosto che un altro.
50. In tale contesto, il rispetto dei diritti della difesa implica, perché possa ritenersi che il beneficiario di tali diritti sia stato messo in condizione di
manifestare utilmente il proprio punto di vista, che
l’Amministrazione esamini, con tutta l’attenzione
necessaria, le osservazioni della persona o dell’impresa coinvolta.
51. Spetta unicamente al giudice nazionale verificare se, tenuto conto del periodo intercorso tra il
momento in cui l’Amministrazione interessata ha
ricevuto le osservazioni e la data in cui ha assunto
la propria decisione, sia possibile o meno ritenere
che essa abbia tenuto debitamente conto delle osservazioni che le sono state trasmesse.
52. Occorre pertanto rispondere al giudice del rinvio dichiarando che, per quanto riguarda la riscossione di un debito doganale al fine di procedere al
recupero a posteriori di dazi doganali all’importazione, un termine da otto a quindici giorni concesso all’importatore sospettato di aver commesso
un’infrazione doganale affinché questi presenti le
proprie osservazioni è, in linea di principio,
conforme alle prescrizioni del diritto comunitario.
53. Spetta al giudice nazionale adito stabilire se,
alla luce delle circostanze particolari della causa,
Giurisprudenza
il termine concretamente concesso a detto importatore gli abbia consentito di essere utilmente
ascoltato dalle autorità doganali.
54. Il giudice nazionale deve inoltre verificare se,
in considerazione del periodo intercorso tra il momento in cui l’Amministrazione interessata ha ricevuto le osservazioni dell’importatore e la data in
cui ha adottato la sua decisione, sia possibile o
meno ritenere che essa abbia tenuto debitamente
conto delle osservazioni che le sono state trasmesse.
Sulle spese
55. Nei confronti delle parti nella causa principale
il presente procedimento costituisce un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta
quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da
altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte
non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (II Sezione) dichiara:
1) Per quanto riguarda la riscossione di un debito
doganale al fine di procedere al recupero a posteriori di dazi doganali all’importazione, un termine
da otto a quindici giorni concesso all’importatore
sospettato di aver commesso un’infrazione doganale affinché questi presenti le proprie osservazioni è, in linea di principio, conforme alle prescrizioni del diritto comunitario.
2) Spetta al giudice nazionale adito stabilire se, alla luce delle circostanze particolari della causa, il
termine concretamente concesso a detto importatore gli abbia consentito di essere utilmente ascoltato dalle autorità doganali.
3) Il giudice nazionale deve inoltre verificare se,
in considerazione del periodo intercorso tra il momento in cui l’Amministrazione interessata ha ricevuto le osservazioni dell’importatore e la data in
cui ha adottato la sua decisione, sia possibile o
meno ritenere che essa abbia tenuto adeguatamente conto delle osservazioni che le sono state trasmesse.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
209
Giurisprudenza
Comunitaria
Il diritto al contraddittorio
nel procedimento amministrativo tributario
è diritto fondamentale del diritto comunitario
di Alberto Marcheselli
La Corte di giustizia UE attribuisce al diritto al
contraddittorio, nella fase amministrativa tributaria, valore di principio fondamentale dell’ordinamento comunitario, in base al quale
debbono essere attribuiti al contribuente strumenti per far sentire le proprie ragioni prima
della conclusione del procedimento tributario,
e per far sì che tali ragioni siano effettivamente esaminate dall’Autorità amministrativa.
Tale principio appare dotato di significativa
forza espansiva e idoneo a determinare il ripensamento degli orientamenti conservatori
della Corte costituzionale e della Corte di
cassazione sul contraddittorio nei procedimenti tributari, ad esempio in materia di accertamenti bancari o fondati sugli studi di settore.
Per la terza volta nel volgere di non molti mesi un
organo giudiziario internazionale, con una pronuncia che non concerne fattispecie realizzatesi in Italia, pone le premesse per importanti riflessioni e
per prevedibili stravolgimenti della disciplina vigente nel nostro Paese.
Dopo due sentenze della Corte europea dei diritti
dell’uomo, relative al diritto al contraddittorio orale sulle dichiarazioni di terzo nel processo tributario (1) e al diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo contro le lesioni degli interessi privati conculcati dall’istruttoria tributaria (2), è ora la volta
di una sentenza della Corte di giustizia della Comunità europea in tema di diritto di difesa nel procedimento amministrativo tributario.
Anche la presente sentenza si appalesa di grandissimo interesse, sia pratico che sistematico.
Il contesto normativo e fattuale di riferimento
e la tesi del contribuente
Il contesto, normativo e fattuale, di riferimento,
può così riassumersi. Le autorità doganali porto-
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Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
ghesi contestano a un operatore l’abusivo inquadramento di alcune importazioni in un regime agevolato, all’esito di una verifica presso il contribuente, protrattasi numerose settimane. La Costituzione portoghese prevede (art. 267) il principio
della partecipazione del contribuente al procedimento di accertamento tributario e tale principio
viene attuato da due norme relative alle procedure
amministrative. Sia la legge generale, che le regole supplementari sulle attività di verifica e accertamento prevedono che, prima della conclusione del
procedimento di accertamento (e, anzi, prima della
redazione del verbale), il contribuente sia messo
nelle condizioni di esporre le proprie difese, con la
assegnazione di un termine di durata compresa tra
8 e 15 giorni. In aderenza a tali norme le autorità
portoghesi assegnano un termine di 8 giorni. Il
contribuente rassegna le sue osservazioni l’ultimo
giorno e, solo 5 giorni dopo, gli viene notificata
l’ingiunzione di pagamento.
Il contribuente oppone che tali termini sono iugulatori, cioè tali da rendere praticamente impossibile o irragionevolmente difficile esercitare il proprio diritto. Il giudice portoghese, ritenendo che
nella fattispecie possa essere in gioco (e potenzialmente leso) il diritto di difesa del contribuente, come riconosciuto e tutelato dal diritto comunitario,
provoca l’intervento pregiudiziale della Corte di
giustizia.
Alberto Marcheselli - Professore associato di Diritto tributario
presso l’Università di Torino
Note:
(1) Corte europea dei diritti dell’Uomo, sentenza 23 novembre
2006, n. 73053/01, causa Jussila c. Finlandia, con nota di A. Marcheselli, «Processo tributario. Nelle liti sulle sanzioni fiscali non
può escludersi il contraddittorio orale sulle prove» (con postilla
di C. Glendi), in questa Rivista n. 5/2007, pag. 389.
(2) Corte europea dei diritti dell’Uomo, sentenza 21 febbraio
2008, n. 18497/03, causa Ravon e a. c. Francia, con nota di A. Marcheselli, «Accessi, verifiche fiscali e giusto processo: una importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo», in questa Rivista n. 9/2008, pag. 746.
Comunitaria
Il contribuente allega che la violazione sarebbe avvenuta sotto due profili: sia perché egli avrebbe
avuto a disposizione un termine insufficiente per
articolare le sue difese, sia perché il brevissimo
tempo trascorso tra il ricevimento delle stesse e il
provvedimento finale sembrerebbe rivelatore della
omissione di un esame effettivo delle medesime da
parte delle autorità tributarie.
Le allegazioni degli Stati
Di estremo interesse le allegazioni opposte in contrario dallo Stato portoghese, allegazioni che, in
combinato con le statuizioni della Corte di giustizia, determinano la notevole rilevanza delle decisioni.
Lo Stato portoghese oppone una serie di obiezioni
in via gradata.
In primo luogo, il diritto di difesa concernerebbe il
diritto alla tutela giurisdizionale o comunque il diritto di ricorso (appeal) contro il provvedimento
amministrativo, ma non la fase amministrativa
preparatoria dei provvedimenti.
In secondo luogo, anche ad ammettere che esso si
applichi alla fase amministrativa, esso dovrebbe
essere limitato ai procedimenti volti ad applicare
sanzioni (penalties) e non tributi.
In terzo luogo, una tutela sufficiente sarebbe assicurata dal ricorso giurisdizionale successivo alla
adozione del provvedimento e, comunque, dai rimedi successivi.
In quarto luogo, è comunque assicurata l’equivalenza (tra fattispecie comunitaria e fattispecie interna), posto che gli stessi termini si applicano, sia
che si tratti di tributi di fondamento comunitario,
sia che si tratti di tributi cd. interni.
In quinto luogo, la valutazione della effettività
della tutela andrebbe valutata in via esclusiva dal
giudice nazionale.
Quasi “freudianamente”, la sesta obiezione viene
formulata dal Governo italiano (evidentemente
consapevole della delicatezza della decisione per
le potenziali ricadute nel diritto interno), osservandosi che il codice doganale non prevede espressamente il diritto al contraddittorio nel corso del
procedimento e questa sarebbe materia riservata
alle scelte discrezionali dei singoli Stati.
Il diritto al contradditorio come diritto
fondamentale dell’ordinamento comunitario
La Corte travolge pressoché tutte queste obiezioni
Giurisprudenza
con un ragionamento ricco di corollari applicativi.
Essa riconosce che i diritti fondamentali riconosciuti dalle tradizioni costituzionali degli Stati
membri e dai trattati da essi sottoscritti sono valori
che la Corte deve garantire, rispetto alla applicazione di norme comunitarie, ovvero di norme interne che vadano a interferire con obiettivi o la
sfera di applicazione del diritto comunitario (3).
Essa, nella sua giurisdizione in materia di questioni pregiudiziali, può ben essere chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di normative interne
(o anche comunitarie) con i principi fondamentali
(4).
E il diritto di difesa è un principio fondamentale
comunitario, anche nella sua dimensione procedimentale, inteso come diritto del soggetto i cui interessi possano essere pregiudicati dall’azione amministrativa di esporre le proprie ragioni (5).
Tale diritto viene espressamente colto dalla Corte
come funzionale alla realizzazione di due valori,
convergenti: quello della tutela degli interessi del
soggetto inciso dal procedimento, e quello della
bontà dell’azione amministrativa, atteso che attraverso il contraddittorio essa acquisisce elementi
utili a meglio conoscere la situazione di fatto e,
quindi, a ben provvedere.
La Corte riconosce pertanto la doverosità del contraddittorio nella fase amministrativa tributaria,
come diritto fondamentale riconosciuto dal diritto
comunitario.
I parametri per la definizione
di una tutela effettiva
Posto questo inquadramento concettuale, resta da
individuare se nella concreta fattispecie oggetto
della procedura de qua i diritti della difesa fossero
stati adeguatamente tutelati. La Corte rileva che,
Note:
(3) Corte di giustizia CE, sentenza 6 marzo 2001, causa C274/99, «P. Connolly/Commissione», in Racc., pag. I-1611, punto
37.
(4) Corte di giustizia CE, sentenze 18 giugno 1991, causa C260/89, «Ert», ivi, pag. I-2925, punto 42, e 4 ottobre 1991, causa
C-159/90, «Society for the Protection of Unborn Children Ireland», ivi,
pag. I-4685, punto 31.
(5) Corte di giustizia CE, sentenze 14 luglio 1972, causa 55/69,
«Cassella Farbwerke Mainkur/Commissione», in Racc., pag. 887;
29 giugno 1994, causa C-135/92, «Fiskano/Commissione», ivi, pag.
I-2885, nonché 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C454/05 P, «Land Oberösterreich e Austria/Commissione», ivi, pag. I7141.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
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Giurisprudenza
Comunitaria
da un lato, non rientra nelle sue attribuzioni risolvere singole controversie e che, dall’altro, si tratta,
in buona sostanza, di una questione di fatto, comunque riservata al giudice nazionale competente
sul merito. Ciò non le preclude, tuttavia, di individuare dei criteri guida: quali parametri possano
utilizzarsi per stabilire i limiti entro cui la disciplina contestata (interna o anche comunitaria) e la
sua interpretazione e applicazione assicurino la
concreta soddisfazione del diritto di difesa. Visto
l’oggetto della questione preliminare, l’attenzione
della Corte si concentra principalmente sugli
aspetti dei termini e modalità di espletamento del
diritto di difesa.
Essa rileva che, dal lato dello Stato e della Comunità, non va trascurato l’interesse a una pronta esazione dei tributi spettanti. Tale interesse deve armonizzarsi con quello, convergente, del contribuente a una pronta definizione delle proprie pendenze e quello, potenzialmente divergente, a una
ragionevole esplicazione del diritto di difesa. Lo
spazio (temporale e non solo) di espressione di tale diritto dipende, secondo la Corte, tra l’altro,
dalla rilevanza che le decisioni da adottare rivestono per gli interessati (di tal che, maggiore è l’entità della potenziale lesione, per qualità degli interessi o entità del loro pregiudizio, maggiore spazio
andrà dato alla difesa), dalla complessità dei procedimenti e della legislazione da applicare, (per
cui, a maggiore complessità di norme o procedure,
dovrà corrispondere maggior ampiezza delle possibilità difensive), dal numero di soggetti che possono essere coinvolti (maggiore il numero, più
ampio lo spazio difensivo) e dagli altri interessi
pubblici o privati che devono essere presi in considerazione.
Quanto alla fattispecie concreta, l’ampiezza di termini e modalità di difesa è variabile che dipende
dalla complessità delle operazioni di cui trattasi, la
distanza, qualità e frequenza dei rapporti intrattenuti con le amministrazioni locali competenti e
con gli operatori (di tal che a operazioni più complesse, maggiori distanze e difficoltà di comunicazione, minore consuetudine nei rapporti deve corrispondere maggiore spazio difensivo). Deve, altresì, tenersi conto delle dimensioni dell’impresa o
soggetto contribuente (come fattore indicativo della qualità e complessità della sua organizzazione e
specializzazione dei suoi apparati: entro certi limiti a maggiori dimensioni può corrispondere mag-
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GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
giore agio di esplicare le difese, pur non potendosi
escludere che, in fatto, in certe ipotesi a maggiori
dimensioni corrisponda, al contrario, maggiore
complessità).
Infine, devono verificarsi anche le modalità attraverso le quali si è svolta l’attività ispettiva e il
procedimento tributario in genere: la Corte riconosce espressamente che, nel caso di operazioni prolungate svoltesi presso la sede del contribuente, è
ragionevole pensare che esso già avesse avuto una
rilevante quota di opportunità di conoscere le ragioni delle iniziative subite e interagire con gli
operanti. È molto interessante osservare che la
Corte non si spinge ad ammettere che, nel caso di
operazioni «sul campo» e nella sfera del contribuente, la fase autonoma del contraddittorio possa
essere omessa. In effetti, da un lato, la presenza fisica del contribuente rappresenta, di fatto, una occasione di confronto, ma, dall’altro, nell’ottica
della salvaguardia dei principi, la formalizzazione
di una fase di contraddittorio appare necessaria a
rendere evidente e rilevabile la soddisfazione delle
esigenze difensive. L’effettuazione di operazioni
sul campo, in assenza di una fase documentata e
formale di contraddittorio, insomma, ha un rilievo
più limitato: non soddisfa ex se il diritto della difesa, ma può ridurre lo spazio procedimentale necessario alla sua esplicazione, potendosi ritenere che,
almeno in parte, il contribuente possa aver tratto
informazioni sulla sua posizione dal fatto di assistere diligentemente alle fasi della ispezione.
Il diritto a un esame effettivo
delle proprie doglianze
La Corte sviluppa invece meno, sul piano argomentativo, il secondo profilo, quello della congruità dei termini, non per la formulazione delle
difese da parte del contribuente, ma per il relativo
esame da parte della autorità fiscale. A questo proposito, la regola sembra dover essere relativa: le
norme devono prevedere e la prassi deve rispettare
termini che appaiano congrui a una seria considerazione delle ragioni addotte. Strumentale a tale
congruità è, sul piano legislativo, la previsione di
termini non troppo brevi in assoluto (come potrebbe essere la previsione di un termine unico di 24
ore, qualunque sia la questione da esaminare) e il
riconoscimento di una certa elasticità operativa.
Sul piano della prassi amministrativa, la congruità
dei tempi effettivamente dedicati all’esame delle
Comunitaria
questioni dipende, come variabile, dal tasso di
complessità delle argomentazioni contrapposte.
Grosso modo, tanto più le argomentazioni opposte
salgono nei valori di complessità, novità e apparente pertinenza, tanto maggiore deve essere lo
spatium deliberandi.
Osservazioni sistematiche
Si tratta, effettivamente, di sentenza di grande importanza, per almeno due ordini di motivi.
Il primo è squisitamente concettuale: la Corte percepisce con grande chiarezza l’importanza del
contraddittorio, non solo come strumento per la
soddisfazione di interessi individuali, ma anche
come strumento di attuazione dei principi di buona
amministrazione. Vale la pena di richiamare qui
quanto già rilevato, a proposito di una giurisprudenza italiana assai pigra nel riconoscere il valore
del contraddittorio (ad esempio, in materia di accertamenti bancari e, in misura meno grave, in materia di studi di settore). Si tratta di orientamenti
non condivisibili. Essi trascurano che lo spostamento in avanti (nel giudizio) del contraddittorio
(meglio, dell’offerta di contraddittorio), non è affatto indifferente. La sua attuazione costituisce infatti uno strumento: a) di acquisizione da parte
dell’Ufficio di dati fondamentali per la corretta fotografia della materia imponibile; b) di articolazione delle proprie difese da parte del contribuente.
Questa soluzione è, insomma, contraria, sia al
principio di imparzialità (6), sia a quello di buon
andamento (7) della Pubblica amministrazione.
Inoltre, non è indifferente, per il contribuente e il
suo diritto di difesa (inteso in senso lato), contraddire prima dell’avviso o, successivamente, pendenti i termini dell’impugnazione, pur sospesi, ovvero nel giudizio (8).
Quella della Corte di giustizia è una posizione più
avanzata financo degli arresti più progressivi della
giurisprudenza italiana, che, laddove ha riconosciuto la cardinalità del contraddittorio (ad esempio in materia di studi di settore), lo ha fatto nella
limitata prospettiva dell’idoneità di esso a corroborare l’attendibilità dei risultati dell’accertamento (9).
Corollari applicativi
Il secondo profilo di interesse è pratico e applicativo. Il riconoscimento della necessità del contraddittorio nella fase amministrativa appare decisa-
Giurisprudenza
mente dirompente, se raffrontato alla giurisprudenza, anche costituzionale, italiana (10). Esso,
per il tipico movimento circolare dei principi in
ambito internazionale (tale che i principi fondamentali interni vengono ad essere assunti come rilevanti in ambito comunitario e poi, con un simmetrico movimento di ricaduta, quelli riconosciuti
in ambito comunitario finiscono per assumere il
Note:
(6) Che impone che la Pubblica amministrazione prima di provvedere, accerti diligentemente la situazione di fatto su cui interviene, sia pure con strumenti ragionevoli e non defatigatori.
(7) Che in questo settore impone, nel ragionevole utilizzo delle
risorse, che si eviti l’emissione di accertamenti «al buio», suscettibili di ragionevole modifica o ritiro alla luce degli elementi offerti dal contribuente.
(8) Per approfondimenti, A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto
tributario. Dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, passim.
(9) Cass., sez.V civile, 28 luglio 2006, n. 17229, in questa Rivista n.
12/2006, pag. 1048 ss., con nota di A. Marcheselli, «Per l’applicazione delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attuazione del contraddittorio». Tale sentenza
opina che il previo contraddittorio sarebbe comunque strumento
indefettibile di adeguamento dell’accertamento alla realtà del singolo contribuente. In effetti, tale affermazione, come spesso accade, sembra peccare di assolutezza. Potrebbero forse individuarsi
degli equipollenti al contraddittorio e quindi questo non essere
ritenuto necessario sempre e comunque. Ad esempio, nel caso in
cui l’Ufficio avesse fatto precedere alla applicazione degli studi
una verifica generale, analitica e attenta della sede, della contabilità e della attività del contribuente, si potrebbe forse ritenere
che uno sforzo adeguato di individualizzazione dell’accertamento
sarebbe stato fatto. Sembra allora più convincente quanto
espresso sopra nel testo: il fondamento dell’obbligo del contraddittorio è in realtà duplice (imparzialità e buon andamento da un
lato, difesa del contribuente dall’altro).
(10) La Corte costituzionale, in materia di accertamenti bancari,
non ha ritenuto che il previo contraddittorio, in sé, sia imposto
dal diritto di difesa, affermando che «quanto alla censura di violazione dell’art. 24 della Costituzione, essa non ha fondamento, essendo il contribuente tempestivamente informato delle richieste
di acquisizione delle copie dei conti, e potendo egli esercitare
pienamente, già in sede amministrativa, e quindi in sede giurisdizionale, il suo diritto a fornire documenti, dati, notizie e chiarimenti idonei a dimostrare che le risultanze dei conti non sono in
contrasto con le dichiarazioni presentate o che esse non riguardano operazioni imponibili (art. 51, secondo comma, n. 2, del
D.P.R. n. 633/1972)». È interessante osservare che: a) la portata
della sentenza della Corte esclude solo che l’apposito contraddittorio sia imposto dall’art. 24 della Costituzione (resta pertanto aperta la possibilità di ritenere che sia imposto dalla norma
dell’art. 32); b) essa ritiene che in realtà un contraddittorio sarebbe comunque assicurato dal fatto che il contribuente viene a
conoscenza dell’accertamento bancario (ciò equivale ad affermare che, a fini costituzionali, è necessario e sufficiente la possibilità
di un contraddittorio generico, senza la contestazione delle specifiche risultanze dei conti): Corte cost., 3 luglio 2000, n. 260, in
Banca Dati BIG, IPSOA.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
213
Giurisprudenza
Comunitaria
principio di valori comuni degli stati membri, anche nella dimensione interna), appare verosimilmente dotato di forza espansiva anche nell’ordinamento interno. Al di là, cioè, della area di immediata applicazione, che è comunque la non particolarmente ristretta superficie delle fattispecie nelle
quali norme interne o l’attività delle pubbliche
amministrazioni possano venire a impattare con
obiettivi e valori comunitari, tale principio è idoneo a permeare di sé gli ordinamenti interni, anche
nei settori, sempre più ridotti, non confliggenti o
interferenti con il diritto comunitario.
Sul piano operativo, la Corte sembra allora aver
posto le premesse per la revisione di orientamenti
giurisprudenziali controversi e una pietra angolare
su cui poggiare la soluzione di incertezze interpretative e applicative di notevole rilevanza.
Quanto al primo profilo, sembrano dover avere le
ore contate tutti gli indirizzi svalutativi delle norme che prevedono un contraddittorio procedimentale e, tra di essi, prima fra tutte, la giurisprudenza
in tema di accertamenti bancari (11). In prospettiva, anzi, sembra avviata a diventare recessiva la
posizione conservatrice della Corte costituzionale,
che ha finora escluso l’esistenza di un principio
del «giusto procedimento amministrativo», non
pervenendo a tale risultato neanche valorizzando i
principi di imparzialità e buon andamento della
P.A. di cui all’art. 97 Cost. (12). Non è così inverosimile, anzi, una riforma del procedimento amministrativo tributario che contempli la generale
previsione di una fase contraddittoria (13).
Quanto al secondo profilo, la sentenza della Corte
offre notevole appoggio argomentativo per la soluzione di una questione che agita la giurisprudenza
di merito più recente e, presumibilmente, si avvia
ad assumere sempre maggiore importanza concreta nel prossimo futuro. Si allude alla questione
della valorizzazione, in sede giurisdizionale, del
vizio di omessa considerazione degli elementi ofNote:
(11) In materia di accertamenti bancari, le decisioni, corrispondenti a un orientamento a lungo consolidato, sono prevalentemente riferite alla fattispecie di cui alla prima parte del n. 2 dell’art. 32, ma sul piano letterale la questione si presenta identica
(la norma in quella parte prevede che «sono posti a base delle
rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41
se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la
determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine»): Cass., Sez. trib., 16 settembre
2005, n. 18429; Id., n. 4601/2002, cit.; Id., n. 2814/2002, cit.; Cass.,
214
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Sez. I civ., 6 ottobre 1999, n. 11094; Cass., Sez. trib., 3 agosto
2000, n. 10060, tutte reperibili in Banca Dati BIG, IPSOA, l’ultima
anche in C.T. n. 37/2000, pag. 2724, con commento di C. Nocera,
«Indagini bancarie e contraddittorio: dalla Cassazione un monito
alle diseconomie procedurali». Più variegata la giurisprudenza di
merito, ove non mancano pronunce che ritengono necessario il
previo contraddittorio amministrativo, in genere per gli accertamenti bancari: Comm. trib. distr. Monza, 20 maggio 1996, n. 1392,
in Banca Dati BIG, IPSOA e con nota di A. Benazzi, «Necessario il
contraddittorio fra contribuente e ufficio per l’utilizzo dei dati
bancari», in Riv. giur. trib., 1997, pag. 564 ss.; Comm. trib. prov. di
Varese, Sez. XI, 13 marzo 1997, n. 21, in Banca Dati BIG, IPSOA e
in Dir. prat. trib., 1998, II, pag. 18 ss., con nota di Piccardo, «Per
l’accertamento fondato sui dati bancari è necessario il contraddittorio tra contribuente e fisco»; Comm. trib. prov. di Milano,
Sez. XXVII, 21 luglio 1999, n. 221, in Banca Dati BIG, IPSOA e in
Mass. comm. trib. mil., 1999, n. 4, pag. 31; Comm. trib. prov. di Messina, Sez. X, 6 aprile 2004, n. 362, in Banca Dati BIG, IPSOA e citata in Paladino, «Banche, stretta sui controlli», in Italia Oggi 29
marzo 2005, pag. 31; Comm. trib. di Chiavari, Sez. II, 14 dicembre
1994, n. 527, in Banca Dati BIG, IPSOA.
(12) Corte. cost., 10 dicembre 1987, n. 503. Sul tema, in generale,
si è per esempio affermato che «la disciplina del procedimento
amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali non è da ricomprendere quello del giusto procedimento amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt.
24, primo comma, e 113 della Costituzione» (Corte. cost., 31
maggio 1995, n. 210) e, analogamente, Corte. cost., 19 marzo
1993, n. 103.
(13) Più avanzata la dottrina, tra cui si segnala, fuori dall’ambito
strettamente tributario, Vignera, «In difesa dell’unilateralità del
procedimento monitorio», su Riv. es. forzata, 2008, pag. 497 ove si
rileva che «in forza (anche) degli artt. 7-10 l. 7 agosto 1990, n.
241, la dialetticità integra attualmente un requisito coessenziale
alla stessa nozione giuridica di procedimento amministrativo (Caringella, Corso di diritto amministrativo, 2, pag. 1291 ss. il quale rimarca che oggi «il principio del giusto procedimento, e con esso
il principio del contraddittorio, è inderogabile in procedimenti
che si concludono con provvedimenti afflittivi della sfera giuridica
del privato».). Più esattamente, oggi «l’avviso d’avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, 1° comma, l. 7 agosto 1990, n.
241, costituisce principio generale dell’ordinamento ed è strettamente connesso con i canoni costituzionali dell’imparzialità e del
buon andamento dell’azione amministrativa, onde non tollera interpretazioni che ne limitino arbitrariamente l’applicazione generalizzata a tutti i procedimenti, anche vincolati, perché la partecipazione al procedimento ha la sua ragion d’essere pure quando i
presupposti dell’atto da adottare, pur se stabiliti in modo preciso
e puntuale dalla legge, richiedano comunque un accertamento,
nel cui ambito si deve garantire il contraddittorio con il privato»
(Cons. Stato, 22 maggio 2001, n. 2823).
Nello stesso senso v. ex plurimis Cons. Stato, 30 dicembre 2006,
n. 8259, «L’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento
amministrativo (art. 7 della legge n. 241/1990) introduce la cultura della dialettica processuale, finalizzata alla realizzazione di
un’effettiva partecipazione democratica allo svolgimento dell’attività amministrativa, attuata mediante l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti che possano prevedibilmente
subire gli effetti diretti e pregiudizievoli di un provvedimento in
corso di emanazione».
Comunitaria
ferti dal contribuente in sede di contraddittorio.
Un profilo, ad esempio, già emerso in materia di
accertamenti fondati su studi di settore.
Dalla sentenza della Corte risulta corroborata la
conclusione che eventuali norme che sacrificassero la valorizzazione degli elementi offerti dal contribuente sarebbero irragionevoli (14). Ma, soprattutto e assai più significativamente sul piano pratico, che provvedimenti che, per i tempi di emissione o la tecnica motivazionale, non appaiano aver
dato conto, sia pure implicitamente ma univocamente, degli elementi offerti dal contribuente sarebbero di per sé viziati. A seguire l’impostazione
Giurisprudenza
tracciata dalla Corte essi, prima e indipendentemente dalla verifica della loro fondatezza nel merito sarebbero invalidati per la evidente lesione del
diritto di difesa del contribuente e del principio di
imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione.
Nota:
(14) E, ad avviso di chi scrive, incostituzionali, nel quadro della
compressione dei descritti valori del diritto alla difesa in sede
procedimentale e buon andamento e imparzialità della Pubblica
amministrazione.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
215
Giurisprudenza
SS.UU.
Disposizioni antielusive
Spetta al contribuente provare
le ragioni economiche
che escludono l’abuso del diritto
Cassazione, SS.UU., Sentt. 23 dicembre 2008 (2 dicembre 2008), nn. 30055 e 30056 Pres. Carbone - Rel. D’Alessandro
Accertamento - Disposizioni antielusive - Acquisto di azioni e successiva rivendita alla società
venditrice dopo la percezione dei dividendi al fine di godere del credito d’imposta sui dividendi e
del computo delle minusvalenze - Esclusiva finalità di ottenere un vantaggio fiscale - Abuso del
diritto - Configurabilità
In applicazione di un principio generale antielusivo desumibile dall’art. 53 Cost. sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria i benefici fiscali derivanti dalla combinazione dell’acquisto di azioni da un fondo comune d’investimento o da una SICAV con la successiva
rivendita delle medesime azioni alla stessa società venditrice, dopo la percezione dei dividendi, ad un prezzo inferiore (cd. «dividend washing»), qualora tale operazione sia configurabile come abuso del diritto, essendo posta in essere al solo scopo di consentire al fondo o alla
SICAV di avvalersi del credito d’imposta sui dividendi previsto dall’art. 14 del T.U.I.R. ed
all’acquirente-venditore di ridurre il reddito d’impresa mediante il computo della minusvalenza costituita dal differenziale tra il prezzo d’acquisto e quello di rivendita
Svolgimento del processo
La P. s.p.a. propose opposizione dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Arezzo avverso
un avviso di accertamento ai fini IRPEG/ILOR ad
essa notificato dall’Ufficio imposte dirette di ...,
conseguente ad un verbale di constatazione della
Guardia di finanza.
Con detto accertamento l’Ufficio, ai sensi del
combinato disposto dell’art. 6, comma 2, del
T.U.I.R., D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973,
disconosceva come fiscalmente deducibili le minusvalenze conseguenti ad operazioni di acquisto
e rivendita di titoli, dopo la riscossione dei dividendi, effettuate con la I. s.p.a., gestore di fondi
comuni di investimento, in quanto asseritamente
poste in essere a soli fini di elusione fiscale.
Il giudice tributario di primo grado accolse il ricorso e la sentenza venne confermata in appello.
216
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Secondo la Commissione tributaria regionale l’operazione posta in essere dalla P., solo successivamente contemplata come operazione elusiva dall’art. 14, comma 6-bis, del T.U.I.R., aggiunto dall’art. 7-bis del D.L. n. 372/1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 429/1992, era all’epoca dei fatti del tutto lecita e riconducibile ad un
procedimento negoziale indiretto non simulato.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’economia e
delle finanze propone ricorso per cassazione affidato ad un motivo, illustrato da successiva memoria, e la P. resiste con controricorso, a sua volta illustrato da memoria.
Con ordinanza depositata il 24 maggio 2006 la V
Sezione civile, rilevato che la soluzione della controversia postula l’esame di questioni di massima
di particolare rilevanza, ha rimesso gli atti al primo Presidente, il quale ha disposto l’assegnazione
del ricorso alle Sezioni Unite.
SS.UU.
La società contribuente ha depositato una memoria
ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo il Ministero ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.
2350 e 2433 c.c., degli artt. 14, commi 1 e 4, 56,
comma 2, 66, comma 1, e 95, del T.U.I.R., e dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973, oltre al vizio di motivazione.
Deduce in sostanza il Ministero che il prezzo di
acquisto dei titoli incorporanti il diritto alla riscossione dei dividendi non può ritenersi omogeneo
con il prezzo di vendita degli stessi titoli dopo la
riscossione di detti dividendi, cosicché l’esposta
minusvalenza risulterebbe in realtà fittizia.
Resterebbero perciò deducibili le sole spese accessorie per bolli, erroneamente riprese a tassazione,
con conseguente diminuzione dell’accertamento
quanto all’imponibile di lire 23.792.000 e con proporzionale riduzione della penalità.
2. Premessa l’intervenuta cessazione della materia
del contendere quanto alla pretesa tributaria relativa alla ripresa a tassazione delle spese accessorie e
alla conseguente penalità, il ricorso appare per il
resto fondato, pur se per motivi diversi da quelli
prospettati dal Ministero, riguardanti la stessa opponibilità all’Amministrazione del negozio (cd.
dividend washing) da cui deriverebbe la pretesa
minusvalenza.
2.1. Occorre in primo luogo affrontare la questione relativa alla natura del giudizio tributario ed ai
poteri di indagine del giudice tributario in ordine
al rapporto d’imposta; poteri che - secondo la giurisprudenza di questa Corte - sono necessariamente limitati al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria
con l’atto impositivo, alla stregua dei presupposti
di fatto e di diritto in esso enunciati (da ultimo,
Cass. n. 20516/2006).
Siffatto principio, che si traduce nella tradizionale
affermazione secondo cui l’amministrazione è attore in senso sostanziale e perciò gravata dall’onere di provare la fondatezza della pretesa tributaria
così come azionata con l’atto impositivo, merita di
essere precisato.
Affermare, infatti, che nel giudizio tributario
l’Amministrazione finanziaria (e, adesso, l’Agenzia delle entrate) è attore e che la sua pretesa è
quella risultante dall’atto impugnato vuol dire ri-
Giurisprudenza
conoscere che l’Erario aziona una specifica pretesa impositiva - e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il
pagamento - e che il processo che nasce dall’impugnativa dell’atto autoritativo è, si, delimitato nei
suoi confini, quanto a petitum e causa petendi,
dalla pretesa tributaria, ma solo nel senso che il
fondamento e l’entità di questa non possono avere
latitudine diversa da quanto dedotto nell’atto impositivo.
Se, in altre parole, l’Amministrazione - come nel
caso di specie - fonda il proprio accertamento sull’integrale disconoscimento di una minusvalenza,
la pretesa tributaria resta in tal modo individuata cosicché la domanda dell’Amministrazione non
può fondarsi su altro che il disconoscimento di tale minusvalenza - ma è evidente che il tema relativo all’esistenza, validità e opponibilità all’Amministrazione dei negozi (nella specie la combinazione tra i contratti di acquisto e di successiva vendita delle azioni) da cui si assume che origini la dedotta minusvalenza è acquisito al processo per effetto dell’allegazione da parte del contribuente,
ovviamente gravato dell’onere di provare i presupposti di fatto per l’applicazione della norma (quella relativa alla valutazione delle componenti passive del reddito) da cui discende l’invocata diminuzione del reddito d’impresa imponibile; in conformità del resto alla costante giurisprudenza di questa Corte in tema di onere della prova, in materia
tributaria, quanto alle norme di beneficio (cfr.
Cass. n. 14381/2007, n. 13559/2007, SS.UU., n.
27619/2006).
Se dunque l’oggetto della domanda è la pretesa
impositiva e non l’accertamento dell’invalidità o
dell’inefficacia di un atto negoziale, e se, al contrario, l’esistenza e l’efficacia del contratto sono
dedotti dal contribuente al fine di paralizzare la
pretesa dell’Amministrazione, ne discende - in
conformità alla giurisprudenza di questa Corte
(Cass. n. 89/2007, n. 11550/2007, n. 12398/2007)
- la sicura rilevabilità d’ufficio delle eventuali
cause di invalidità o di inopponibilità all’Amministrazione del contratto stesso, sempre che, ovviamente, ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla necessità di indagini di fatto.
2.2. Nel merito, ritengono le Sezioni Unite di questa Corte di dover aderire all’indirizzo di recente
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
217
Giurisprudenza
SS.UU.
affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. n. 10257/2008,
n. 25374/2008), fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con
la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario
italiano.
Ed in effetti, i principi di capacità contributiva
(art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività
dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.)
costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi
genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei
principi.
Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione
delle norme costituzionali, il principio secondo cui
il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante
con alcuna specifica disposizione, di strumenti
giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili
che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quel risparmio fiscale.
2.3. Non contrasta con l’individuazione nell’ordinamento di un generale principio antielusione la
constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi - come questa
Corte ha osservato - mero sintomo dell’esistenza
di una regola generale (Cass. n. 8772/2008).
Che il legislatore, in epoca successiva a quella cui
si riferiscono i fatti di causa, introducendo (con
l’art. 1-bis, del D.L. n. 372/1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 429/1992) nell’art.
14 del D.P.R. n. 917/1986, il comma 6-bis, abbia
grandemente ridotto (ma non del tutto eliminato)
la convenienza fiscale delle operazioni di dividend
washing, espressamente escludendo il credito
d’imposta per i dividendi relativamente alle azioni
oggetto di acquisto da fondi comuni di investimento o SICAV, successivamente alla delibera di
distribuzione degli utili stessi, è infatti circostanza
idonea ad offrire indiretta conferma dell’illiceità
fiscale di tali operazioni, atteso che, in caso contrario, la norma - che esclude taluni percettori di
218
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
dividendi da un beneficio fiscale spettante a tutti
gli altri - sarebbe palesemente illegittima per violazione del principio di eguaglianza. Il che evidentemente non è, proprio in ragione del fatto che esiste, nell’ordinamento costituzionale, un principio
per il quale non è lecito utilizzare abusivamente, e
cioè per un fine diverso da quello per il quale sono
state create, norme fiscali (lato sensu) di favore,
essendo d’altro canto, nel caso di specie, in re ipsa
la elusività dell’operazione.
Né siffatto principio può in alcun modo ritenersi
contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto
nell’ordinamento tributario non si traduce nella
imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non
derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento
degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.
2.4. La pacifica inapplicabilità alla fattispecie, ratione temporis, del menzionato comma 6-bis non
esclude perciò la possibilità di rilevare l’abusività
della condotta, tanto più che la norma in questione
non contempla l’intera fattispecie cd. di dividend
washing ed ogni possibile beneficio fiscale indebito ad essa ricollegabile, ma prende in esame la sola operazione di acquisto di azioni, dopo la delibera di distribuzione degli utili, da un fondo di investimento o da una SICAV, al fine di escludere l’attribuzione del credito di imposta di cui allo stesso
art. 14, comma 1.
Come si è detto, per dividend washing si intende
infatti la combinazione di un negozio di acquisto
di azioni da un fondo di investimento o una SICAV con il successivo negozio di rivendita delle
medesime azioni alla stessa società venditrice, dopo la percezione dei dividendi, al fine sia di godere del credito di imposta di cui altrimenti il fondo
o la SICAV non godrebbe (ai sensi dell’art. 9, primo comma, della legge 23 marzo 1983, n. 77), sia
- come nel caso di specie - al fine di consentire all’acquirente-venditore di diminuire le componenti
attive del reddito d’impresa mediante il computo
della minusvalenza costituita dal differenziale tra
il prezzo di acquisto delle azioni prima della distribuzione del dividendo ed il prezzo di vendita
subito dopo la percezione del dividendo stesso.
Che una specifica norma antielusiva abbia espressamente preso in considerazione uno dei benefici
fiscali che tipicamente derivano dal negozio abusi-
SS.UU.
vo non vuol dire, pertanto, che il giudice tributario
non possa, prendendo atto nella specie della valutazione espressa di elusività dell’operazione da
parte del legislatore, utilizzare lo strumento dell’inopponibilità all’Amministrazione (adottato dallo
stesso legislatore in numerose norme specifiche di
carattere antielusivo, quali l’art. 10, comma 1, della legge n. 408/1990 - nel testo dapprima sostituito
dall’art. 28, comma 1, della legge n. 724/1994, e
poi modificato dall’art. 3, comma 26, della legge
n. 662/1996 - e l’art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973, introdotto dall’art. 7 del D.Lgs. n.
358/1997) anche per ogni altro profilo di indebito
vantaggio tributario che il contribuente pretenda di
far discendere dall’operazione elusiva, commessa
anche in data anteriore all’entrata in vigore della
norma suddetta.
2.5. Come correttamente viene sottolineato nella
sentenza n. 25374/2008, l’esistenza di un principio
generale non scritto volto a contrastare le pratiche
consistenti in un abuso del diritto è d’altro canto
riconosciuta da questa Corte anche in campi diversi dal diritto tributario. Ne è testimonianza la sentenza di queste Sezioni Unite n. 23726/2007, nella
quale è definitiva come abusiva la pratica di frazionamento di un credito, nella fase giudiziale dell’adempimento, al fine, essenzialmente, di scelta
del giudice competente.
2.6. Nessun dubbio può d’altro canto sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all’Erario.
In aggiunta alle considerazioni svolte sub 2.1.,
giova ricordare che, per costante giurisprudenza di
questa Corte, sono rilevabili d’ufficio le eccezioni
poste a vantaggio dell’Amministrazione in una
materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile (da ultimo, Cass. n. 1605/2008). Il carattere elusivo dell’operazione può d’altro canto agevolmente desumersi, senza necessità di alcuna ulteriore indagine di fatto, sulla base della compiuta
descrizione che se ne rinviene in atti (in specie
nella stessa sentenza impugnata) e, soprattutto,
della esplicita valutazione proveniente dallo stesso
legislatore, per quanto si è osservato sub 2.3. e
2.4.
3. La sentenza impugnata - fondata sull’implicito
presupposto della inesistenza nell’ordinamento di
un generale principio antielusivo - risulta dunque
erronea e va cassata.
Giurisprudenza
Non essendo necessari, per quanto più sopra osservato, ulteriori accertamenti di fatto, la causa può
essere decisa nel merito, con la declaratoria di cessazione della materia del contendere per quella
parte di accertamento in relazione alla quale l’Ufficio ha dichiarato di abbandonare la pretesa impositiva ed il rigetto, per il resto, del ricorso introduttivo della società contribuente.
La complessità della questione giustifica la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte: accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso
introduttivo della società ricorrente per la parte
per la quale l’Amministrazione non ha dichiarato
di abbandonare la pretesa impositiva ed in relazione a cui dichiara quindi cessata la materia del contendere; spese compensate.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
219
Giurisprudenza
SS.UU.
Cassazione, SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008 (2 dicembre 2008), n. 30057 - Pres. Carbone - Rel. D’Alessandro
Accertamento - Disposizioni antielusive - Usufrutto sulle azioni di una società italiana, possedute
da soggetto non residente al fine di avvalersi del credito d’imposta e di dedurre il costo dell’usufrutto - Assenza di validi ragioni economiche al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario - Abuso del diritto - Configurabilità
È inopponibile all’Erario - in virtù di un generale principio di divieto di abuso del diritto in
materia tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost. - il negozio con il quale viene costituito, in
favore di una società residente nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle azioni o
sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente, in modo da consentire al cedente di trasformare il reddito di partecipazione in reddito di negoziazione
(esente dalla ritenuta sui dividendi di cui all’art. 27, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973) ed
alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire l’applicazione della ritenuta
meno onerosa di cui all’art. 27, primo comma, del D.P.R. n. 600/1973 (oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione annuale), può anche avvalersi del credito di imposta previsto dall’art. 14 del T.U.I.R., ed inoltre di dedurre dal reddito d’impresa, pro quota annuale, il costo
dell’usufrutto, allorché risulti che il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario.
Cassazione, Sez. trib., Sent. 21 gennaio 2009 (17 dicembre 2008), n. 1465 - Pres. Cicala - Rel. Scuffi
Accertamento - Disposizioni antielusive - Operazioni compiute al preminente scopo di ottenere
vantaggi fiscali - Abuso del diritto - Configurabilità - Onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria del disegno elusivo e delle modalità di manipolazione o alterazione degli
schemi negoziali - Configurabilità - Onere della prova a carico del contribuente dell’esistenza di
ragioni economiche alternative o concorrenti - Configurabilità
Una operazione economica, oltre allo scopo di ottenere vantaggi fiscali, può perseguire diversi obiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile ed integra gli estremi del comportamento abusivo qualora e nella misura in cui tale scopo si ponga come elemento predominante ed assorbente della transazione, tenuto conto della volontà delle parti implicate che
del contesto fattuale e giuridico in cui la transazione stessa viene posta in essere, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possono
spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta.
È onere dell’Amministrazione finanziaria - non solo - prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche, ma - anche - le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato, se
non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale; così come incombe al contribuente
allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che
giustifichino operazioni così strutturate.
Svolgimento del processo
In relazione agli esercizi sociali 1995, 1996, 1997
venivano accertati a carico della s.p.a. P&D - con
separati avvisi - maggiori redditi imponibili ai fini
IRPEG ed ILOR, nonché ai fini dell’imposta patrimoniale, specificamente venendo recuperati a tas-
220
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
sazione ammortamenti di impianti e attrezzature
per lire 55.421.986.874 e royalties per lire
2.436.458.872, per preteso difetto di inerenza; interessi passivi per lire 2.436.458.872, sempre per
preteso difetto di inerenza; oneri accessori su licenze per lire 147.160.188 indebitamente detratti a
SS.UU.
seguito di errore di calcolo nella quantificazione
della operata R.A.
Secondo l’Amministrazione finanziaria la società
contribuente rappresentava solo un «centro di imputazione costi», ovvero «una scatola vuota», e
«non una autonoma società» per cui i costi non
erano in rapporto di stretta correlazione con l’attività produttiva dei ricavi imponibili.
Il complesso contesto economico realizzato tra il
1990 ed il 1991 dal quale venivano ricavate dai
verificatori codeste conclusioni si fondava su un
accordo di jont venture tra la P.VE e la D.M. Company finalizzato alla costituzione della s.p.a. P&D
(partecipata da entrambe le società) avente ad oggetto la produzione e distribuzione di veicoli (minivan) su licenza della società giapponese.
La licenza esclusiva ed il relativo know how per la
produzione dei veicoli sarebbe stata compensata
con la corresponsione di royalties mentre i macchinari e gli impianti acquistati per la produzione
da P&D avrebbero dovuto essere concessi in comodato alla P. che diveniva sublicenziataria per la
costruzione dei suddetti veicoli.
Una serie di contratti costellava l’accordo - quadro
in virtù dei quali P. - sublicenziataria di D. - produceva i minivan in esclusiva per P&D che li rivendeva a P. ed alla D. a prezzi competitivi per il mercato.
L’Ufficio riteneva che l’insieme di codesti contratti
conseguenti alla joint venture per regolarne rapporti
e funzionamento rappresentasse una strategia tributaria di gruppo a fini elusivi non svolgendo P&D alcuna attività produttiva per cui impianti e macchinari acquistati e concessi in comodato non potevano
essere ammortizzati posto che quegli investimenti e così gli interessi passivi sopportati per essi - erano
improduttivi di ricavi per la società stessa.
L’adita Commissione provinciale negava la tesi
dell’elusione ed accoglieva i ricorsi riuniti della
società contribuente ritenendo che si fosse al cospetto di una solida e concreta realtà aziendale e
non di un semplice centro di imputazione dei costi
come ipotizzato dall’Amministrazione che vedeva
in essa società un mero tramite di passaggio dei
veicoli interamente prodotti e rivenduti da P.
Di diverso avviso andava la Commissione regionale che - accogliendo l’appello dell’Ufficio dopo
averne dichiarata la ammissibilità contestata ex
adverso - argomentava che i primi giudici avevano
omesso la valutazione del fatto nella sua materialità con travisamento dei suoi aspetti sostanziali.
Giurisprudenza
Assumeva che l’Amministrazione non aveva tanto
contestato forme di elusione a ragione dei propri rilievi quanto la non inerenza di alcune componenti
negative di reddito e preso atto che i contratti non
erano stati prodotti per cui il loro contenuto andava
ricavato dal rapporto redatto dalla GdF evidenziava:
A. che l’intera struttura produttiva acquistata da
P&D era stata ceduta in comodato alla P. che diventava sublicenziataria del know how concesso in
licenza dalla D.;
B. che la P. importava i motori D. dal Giappone e
tutta la componentistica per la produzione di minivan provvedendo all’assemblaggio ed alla costruzione dei mezzi;
C. che la stessa P. provvedeva quindi a vendere il
minivan costruito alla P&D per un prezzo compensativo dei materiali acquistati.
Da tanto emergeva che la P. non agiva in nome e per
conto della società controllata ma esercitava una propria attività produttiva e di commercializzazione
donde l’acquisto delle attrezzature necessarie al ciclo
produttivo restava irrilevante per l’attività di P&D,
acquirente di beni fabbricati in piena autonomia da
terzi, venendo così a mancare vincolo di connessione
funzionale con l’attività della società proprietaria.
Tale carenza di strumentalità rendeva perciò fiscalmente indeducibili gli operati ammortamenti.
Rilevava ancora che la P&D era tenuta per contratto a rivendere i veicoli acquistati - previa apposizione dei relativi marchi - ai rispettivi soci (P. e
D.M.C.) che avrebbero dovuto distribuirli sul loro
territorio e per essere competitivi sul mercato era
stato utilizzato il metodo del prezzo di rivendita
costituito dal costo di acquisizione del prodotto
(prezzo di acquisto da P.) maggiorato di un margine di profitto ad esso percentualmente correlato.
Ora, posto che gli ammortamenti dei macchinari,
gli interessi sui mutui per acquisirli, gli oneri di licenza D.M.C. erano rimasti a carico di P&D e non
erano stati considerati né nei costi di costruzione
né nei corrispettivi di rivendita, i relativi debiti non
trovavano correlazione nell’attività della società
rappresentando oneri non inerenti privi del requisito della deducibilità a sensi dell’art. 75 del T.U.I.R.
Ricorre per la cassazione della sentenza la P&D
svolgendo 7 motivi di censura ed articolando i relativi quesiti così come prescritto dall’art. 366-bis
c.p.c., applicabile alle sentenze pubblicate post 2
marzo 2006 (art. 27, comma 2, del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40).
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
221
Giurisprudenza
SS.UU.
La società ricorrente ha depositato memoria difensiva a sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Le prime tre censure - di natura preliminare svolte dalla società ricorrente sono infondate e
vanno come tali rigettate con l’enunciazione dei
relativi principi di diritto.
Lamenta con primo motivo la P&D violazione degli
artt. 53, 18, 12 e 11 del D.Lgs. n. 546/1992, dell’art.
324 c.p.c., oltre la nullità della sentenza e dell’intero
procedimento stante la mancanza di ius postulandi
in capo al direttore dell’Ufficio del contenzioso della Direzione regionale delle entrate della Toscana
che aveva proposto impugnazione alla decisione di
primo grado, non essendo applicabile all’Agenzia
delle entrate, soggetto estraneo all’Amministrazione, il disposto dell’art. 11 del D.Lgs. n. 546/1992.
Va al contrario statuito - secondo l’indirizzo costante di questa Corte (Cass. 10 marzo 2008, n.
6338 e Cass. 8 febbraio 2008, n. 6338) - che «la
legittimazione processuale (attiva e passiva) degli
Uffici locali dell’Agenzia delle entrate trova fondamento nella norma statutaria (art. 5, comma 1,
del regolamento di amministrazione delle Agenzie) adottato a sensi dell’art. 66 del D.Lgs. n.
300/1999, con la conseguenza che a detti Uffici va
riconosciuta la posizione processuale di parte e
l’accesso alla difesa avanti alle Commissioni tributarie tramite la rappresentanza del direttore (o di
persona da lui delegata), permanendo la vigenza
degli artt. 10 ed 11 del D.Lgs. n. 546/1992».
2. Denunzia con secondo motivo la società ricorrente vizi di motivazione e violazione dell’art. 53
del D.Lgs. n. 546/1992, oltre a nullità della sentenza e/o del procedimento conseguente ad error
in procedendo avendo eccepito l’inammissibilità
dell’appello proposto dall’Agenzia per difetto di
specifiche censure senza che i giudici di quel grado avessero adeguatamente motivato il rigetto della relativa eccezione.
Il rilievo peraltro non coglie nel segno perché la
Commissione regionale ha - sia pur sinteticamente
- esplicitato i motivi per cui era da ritenersi ammissibile l’appello dell’Amministrazione nel far
riferimento alle argomentazioni critiche sviluppate
nel giudizio di primo grado.
Inoltre la lettura dell’atto di appello così come trascritto nel ricorso e raffrontato con i passi motivazionali della sentenza impugnata (pure riportati
222
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
nell’espositiva del ricorso) evidenzia una puntuale
confutazione sotto plurimi profili (di violazioni di
legge e di carenza/contraddittorietà di motivazione) delle ragioni ed argomentazioni addotte dai
primi giudici (che si sono limitati a confermare la
presenza dei requisiti di inerenza e la assenza di
connotati elusivi in una iniziativa industriale di
comune interesse imprenditoriale a negazione della tesi dell’Ufficio sulla creazione artificiosa di un
centro di imputazione dei costi senza esercizio di
attività produttiva), essendo del resto la valutazione di specificità delle censure da calibrare in funzione del contenuto e dello sviluppo dell’iter logico-giuridico della decisione.
Va in ogni modo rimarcato - come già statuito da
questa Corte (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1224) con
enunciato - a maggior ragione - estendibile alla
fattispecie che «il rispetto dell’art. 53 del D.Lgs.
n. 546/1992, non deve necessariamente consistere
in una rigorosa e formalistica enunciazione delle
ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi soltanto una esposizione chiara e senza incertezze, anche se sommaria, dell’ambito della
contestazione che consenta al giudice di cogliere i
punti della controversia su cui è domandato il suo
riesame».
3. Deduce con terzo motivo la P&D vizio di motivazione per avere i giudici di appello operato la ricostruzione e valutazione dei fatti di causa - con
particolare riferimento ai rapporti contrattuali P&D,
D.M.C., P. - in via «mediata» sulla scorta delle risultanze ricavate dal pvc della Guardia di finanza
pur avendo la disponibilità dei contratti, indispensabili per inquadrare la corretta disciplina impositiva,
depositati fin dal primo grado di giudizio.
Per contro omette la società ricorrente di indicare i
profili di pertinenza e rilevanza degli articolati negoziali contenuti nei documenti pretermessi onde
consentire la verifica - attraverso l’integrale trascrizione di quei contratti e di quanto di essi riassunto nel processo verbale di constatazione preso
a base delle determinazioni della Commissione eventuali scostamenti del ragionamento - sul piano
della contraddittorietà o comunque dell’insufficienza di motivazione - provocati da tale carenza
documentale nella sua materialità.
Invero - argomentandosi da principi già affermati
da questa Corte (Cass. 13 febbraio 2006, n. 3075 e
Cass. 17 maggio 2006, n. 11501) - va sul punto ribadito che «il ricorrente per cassazione che denun-
SS.UU.
ci l’esistenza di vizi della sentenza correlati all’omessa valutazione, da parte del giudice di merito,
di un documento erroneamente ritenuto non prodotto in causa, ha l’onere sia di dimostrare la sussistenza di un nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, sia di indicare specificamente riportando il contenuto esatto del
documento nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ivi riportati suscettibili di invalidare, ove presi in esame, l’efficacia delle altre risultanze che hanno determinato il convincimento
del giudice, di modo che la “ratio decidendi” adottata venga a trovarsi per questa sola ragione priva
di fondamento e non invece risulti ciò nonostante
compatibile per la interpretazione globale ed insindacabile del materiale istruttorio già acquisito».
4. Il quarto e quinto motivo possono essere trattati
congiuntamente in quanto investono entrambi il
fulcro decisionale confutato per aver i giudici di
appello concluso - in una ottica sostanzialmente
elusiva - che P&D fungeva da centro di imputazione dei costi per ottenere risparmi di imposta non
potendo riconoscersi in suo capo lo svolgimento di
attività di produzione dal momento che le attrezzature specifiche erano inserite nella struttura produttiva della P.
Era invece incontestabile - secondo la società ricorrente - che una attività industriale poteva essere
svolta anche mediante un procedimento complesso
con esternalizzazione di fasi della produzione mentre le attrezzature di proprietà della comodante P.
erano beni specifici che fornivano utilità a quest’ultima consentendole di acquistare i veicoli prodotti dalla comodataria P&D ad un prezzo inferiore
(e concorrenziale) per non venire caricati i costi.
Inoltre quegli stessi giudici avevano violato gli art.
63 e 75, comma 5, del D.P.R. n. 917/1986, atteso
che era irrilevante verificare se P&D svolgesse attività di produzione in senso stretto o meno essendo invece decisivo - ai fini dell’inerenza dei costi
e della loro deducibilità - accertarne la astratta riferibilità all’impresa non essendo consentito al Fisco entrare nel merito delle scelte imprenditoriali.
Entrambi i motivi sono fondati e non toccano valutazioni di merito incensurabili in sede di legittimità ma piuttosto investono l’approccio interpretativo da seguire - in applicazione della disciplina
vigente e dei principi desumibili dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria - al cospetto di articolate operazioni di strategia commerciale onde
Giurisprudenza
stabilire se il «frazionamento negoziale» che le caratterizzano sottenda la strumentalizzazione di
norme tributarie (e del concetto di inerenza da esse contemplato ai fini della deducibilità dei costi
di impresa) allo scopo di creare vantaggi ingiustificati agli utilizzatori con perdita per lo Stato di
importanti risorse fiscali.
È ben vero che la difesa erariale ha sostenuto che
gli atti impositivi dei quali trattasi in realtà non
contestavano alcuna violazione delle disposizioni
antielusive di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973, ma unicamente la non inerenza di talune componenti negative del reddito indebitamente
portate in deduzione dal contribuente nonostante
non avessero i requisiti previsti dall’art. 75, comma 5, del D.P.R. n. 917/1972.
Ciò peraltro non vale a superare la doverosa ricerca - nell’architettura complessiva delle operazioni
de quibus - dell’obbiettivo economico perseguito,
tramite la regola dell’inerenza, per orientare la imputazione dei costi, solo l’abuso della portata di
quella regola per «minimizzare il carico impositivo» facendo entrare in gioco l’espediente elusivo
vietato e dunque convalidando la legittimità della
ripresa a tassazione senza comprimere il diritto di
libera iniziativa imprenditoriale.
Il corollario elusivo ed i principi dell’abuso del diritto che ne costituiscono ragione sono dunque elementi di riscontro dai quali non è possibile prescindere per inquadrare le deduzioni fiscali sul
piano soggettivo e su quello oggettivo onde verificare il lecito impiego o meno del concetto di inerenza entro il quale si inseriscono.
L’abuso invero costituisce una modalità di «aggiramento» della legge tributaria utilizzata per scopi
non propri con forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico per cui vi è stretta correlazione
tra condotta ipoteticamente elusiva e «portata»
dell’inerenza che sottende l’applicabilità di meccanismi di detrazione e compensazione nella formazione del reddito di impresa, tanto implicando
che i due fenomeni non possano essere vagliati
l’uno indipendentemente dall’altro.
Spetta del resto al giudice - al di là delle deduzioni
delle parti - la «qualificazione giuridica» dei fatti
e dei comportamenti negoziali che debbono essere
interpretati coerentemente con i principi del sistema tributario per ricevere la protezione garantita
dal formale ossequio alle disposizioni di legge.
Né va sottaciuto come questa Corte abbia rifiutato
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
223
Giurisprudenza
SS.UU.
un concetto di rilevanza dell’elusione circoscritta
ai soli settori legislativamente predeterminati od in
ipotesi tassative (come quelle richiamate dall’art.
37-bis, cit.) riconoscendo operante a tutto campo
una clausola generale antiabuso (nucleo fondante
dell’elusione ricavato dall’elaborazione della Corte di giustizia) a valere come regola di rango comunitario applicabile d’ufficio in ogni stato e grado a prescindere da specifiche deduzioni (Cass. 24
settembre 2008, n. 25374) ed utilizzabile per risolvere casi concreti connotati da fumus di elusività
anche in settori tendenzialmente estranei all’impatto del diritto comunitario quali quelli riguardanti l’imposizione diretta (Cass. 13 ottobre 2006,
n. 22023 e Cass. 4 aprile 2008, n. 8772). E su questo percorso evolutivo si pone la pronunzia delle
Sezioni Unite (Cass., SS.UU, 23 dicembre 2008,
n. 30057) che ha puntualizzato - anche in ottica
costituzionale - come il divieto di trarre indebiti
vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non
contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio
fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, rappresenti un principio generale non scritto vigente dell’ordinamento italiano siccome fondato sull’art. 53
Cost.
5. Orbene - per venire al caso concreto - il modello industriale di cui si controverte adotta il sistema
della cd. joint venture formula collaborativa intesa
nel common law da cui deriva, come «business association» in vista del raggiungimento di uno scopo convergente e quindi attuata mediante la crea-
224
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
zione di una organizzazione di affari (di regola internazionale) gestita da due o più imprese al fine
della messa in comune, in stretta collaborazione,
dei reciproci mezzi per l’espletamento di una determinata operazione o di una determinata attività
permanendo tuttavia l’autonomia economica e politica degli associati.
Lo schema attuato mediante una serie intersecata
di agreements - di oggetto incontestato in causa tra la P.VE s.p.a. e la D.M. Company (D.M.C.) per
regolare i rapporti di partnership volti ad estendere all’Europa la produzione e commercializzazione
del minivan giapponese adotta il modello della
corporate joint venture con costituzione di una società ad hoc (partecipata sia da P. sia da D.M.C.)
cioè la P&D incaricata di acquistare - con cospicuo investimento finanziario - linee di produzione,
stampi ed attrezzature specifiche per la costruzione dei veicoli ricevendo in licenza da D.M.C. brevetti e know-how; P&D dava a sua volta in sublicenza a P. la tecnologia di D.M.C. affidandogli in
comodato gratuito le attrezzature e gli stampi acquistati per la realizzazione del minivan; P. costruiva i veicoli con le proprie catene di montaggio e le specifiche attrezzature di proprietà di
P&D cedendo poi a questa ultima il prodotto finito
ad un prezzo inferiore ai costi (in quanto ammortizzati dalla comodante); P&D li rivendeva - dopo
i finali assemblaggi e l’applicazione dei relativi
marchi - ai singoli soci - P. e D.M.C. - che - tramite i propri concessionari - li avviavano alla distribuzione sui rispettivi mercati di destinazione finale.
SS.UU.
La tesi di fondo dell’Amministrazione è che i costi
pluriennali di ammortamento (oneri di natura finanziaria per investimenti ed interessi passivi sostenuti) non potevano essere dedotti che dall’impresa di fabbricazione dei veicoli (P.) e non invece
da P&D che si era spogliata del complesso produttivo a favore della prima fungendo così da mero
tramite di passaggio per scaricare costi privi di
correlazione con l’attività produttiva svolta da
soggetto terzo e dunque non inerenti strategia tributaria di gruppo asseritamene posta in essere a
scopi elusivi.
6. Va a questo punto rilevato come la Corte di giustizia - ancorché nel campo dell’IVA e delle disposizioni della VI direttiva CEE - abbia stabilito
(sentenza 21 febbraio 2006, causa C-225/02, Halifax e sentenza 21 febbraio 2008, causa C-425/06,
Part service) che perché possa parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono
- nonostante l’applicazione formale di quelle disposizioni - procurare un vantaggio fiscale contrario all’obbiettivo da esse perseguito, cioè essere rivolte allo scopo di ottenere un risparmio di imposta illegittimo, sia tale scopo esclusivo (in totale
assenza di diverse ragioni economiche) ovvero essenziale (pur coesistendo marginali profili leciti).
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che
l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di una pratica elusiva - avvalendosi anche dei
meccanismi presuntivi di cui la legislazione tributaria fa largo uso - grava sull’Amministrazione
che intenda procedere alle conseguenti rettifiche
(ex multis Cass. 25 marzo 2003, n. 4317) così come è compito del giudice nazionale verificare se
gli elementi che gli vengono presentati configurino una operazione elusiva.
E questa indagine va svolta con tanta più cautela
al cospetto di disegni e costruzioni finanziarie ancorché non usuali per il tortuoso percorso seguito rispetto ad uno più diretto e lineare - che implichino il parallelo conseguimento di obbiettivi economici ispirati a diverse considerazioni rispetto a
quelle di ottenere un mero risparmio di imposta.
Il sindacato antielusivo di fronte a tali strategie
non può poi non tener conto dell’evoluzione degli
strumenti giuridici necessariamente collegata alle
rapide mutazioni della realtà economico nella quale possono trovare spazio forme nuove non necessariamente collegate a normali logiche di profitto
della singola impresa.
Giurisprudenza
In questa prospettiva spettava dunque all’Amministrazione allegare - non solo - che il ruolo di P&D
nell’economia del sistema non era altrimenti spiegabile se non per conseguire un centro fittizio di
inerenza essenzialmente rivolto a «pianificare»
vantaggi fiscali per il gruppo ma anche esplicitare
tale conclusione mettendo a confronto l’asserito
comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica se non per pervenire a quel risultato elusivo.
Per converso incombeva alla società contribuente
opporre la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente
marginale o teorico che giustificassero quel genere
di operazioni (Cass. 29 settembre 2006, n. 21221).
7. La difesa erariale non ha insistito sul meccanismo di formazione del prezzo e sul presunto intento di generare perdite eccessive (in pratica P&D
non sarebbe stata una autonoma società ma uno
strumento creato appositamente per realizzare l’ottimizzazione fiscale in capo ai soci tramite vendite
sottocosto grazie all’artificio di imputare alla medesima P&D - anziché alla fabbricante P. - gli ammortamenti dei macchinari, gli interessi dei mutui
contratti per il loro acquisto e gli oneri di licenza).
Anche perché - se così fosse - le operazioni implicate nel supposto disegno elusivo avrebbero dovuto - come si è detto - essere dall’Amministrazione
coerentemente ridefinite per configurare la situazione che si sarebbe presentata senza effettuare
quelle operazioni che hanno fondato il comportamento abusivo.
L’Amministrazione ha piuttosto sostenuto che il
prodotto finito era di proprietà della P. che lo aveva realizzato (sia pur con gli impianti della P&D)
e che solo a seguito della cessione a fronte del pagamento del prezzo corrispettivo P&D ne aveva
autonomamente acquistato la proprietà, da questo
passaggio derivando - a suo dire - la forzatura di
far passare la tesi dell’inerenza e della deducibilità
dei costi abusivamente riportati in capo alla comodante anziché alla comodataria.
Questa impostazione peraltro che non regge a
fronte delle plausibili spiegazioni fornite dalla società contribuente mediante una valutazione complessiva delle operazioni inquadrate nel loro generale contesto negoziale dove l’apparente anomalia
di una tessera analizzata indipendentemente dal
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
225
Giurisprudenza
SS.UU.
mosaico d’insieme di quegli accordi viene a perdere pertinenza nell’ambito di un modello industriale essenzialmente proiettato a perseguire
obiettivi concorrenziali: modello dove gli usuali
criteri di remuneratività del prezzo e di correlazione costi-ricavi potrebbero risultare sfalsati ove non
analizzati in un ottica evolutiva globale fondata su
strategie imprenditoriali non necessariamente
orientate a fini elusivi quando da esse conseguano
legittimi risparmi di imposta.
8. Va premesso che l’esigenza di costituire una
joint venture è particolarmente sentita per la condivisione di progetti industriali la cui realizzazione
richieda il possesso di requisiti tecnologici ed economici spesso mancanti in un solo soggetto.
È noto - del resto - che la ricerca, lo sviluppo e lo
sfruttamento di tecnologie costituisce uno dei
campi in cui più significativamente si manifesta
l’esigenza di cooperazione tra imprese sicché l’entità degli investimenti necessari, il conseguente
impegno finanziario in relazione ai tempi, spesso
assai lunghi, di esecuzione e di sfruttamento, l’elevato rischio di insuccesso dell’iniziativa inducono
alla «ripartizione» di oneri e rischi tra più imprese.
Nel caso di specie, P. non possedeva il brevetto, la
tecnologia e il know how per produrre il minivan.
Di contro, P. aveva gli stabilimenti in Italia e l’apparato produttivo (forza lavoro ed organizzazione
aziendale) utilizzati per la costruzione dei veicoli
di sua produzione (in particolare l’A.).
D.M.C. era in possesso dei brevetti, della tecnologia e del know how per produrre il minivan ma
non disponeva di un proprio stabilimento e di un
proprio apparato produttivo in Italia.
La joint-venture realizzata con la costituzione di
P&D metteva perciò insieme tali risorse possedute
separatamente da ciascun partner, facendo in modo che entrambi potessero condividerle.
Il fatto di aver unito le risorse faceva sì che l’unione dei partners attraverso la costituzione della
joint venture implicasse una economia di scala e
richiedesse di conseguenza un investimento da
parte di entrambi di gran lunga inferiore a quello
che ciascuno di essi avrebbe dovuto sostenere se
avesse intrapreso isolatamente e separatamente
dall’altro il progetto.
In questa logica messa a fuoco con puntuali argomentazioni dalla società ricorrente le attrezzature
specifiche acquistate da P&D ben potevano assurgere - dunque - ad elemento essenziale di tutta l’o-
226
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
perazione economico/societaria perché consentivano la produzione dei beni a prezzo concorrenziale
escludendo l’incidenza dei costi caricati non sulla
P. - fabbricante utilizzatore - ma sull’acquirente
proprietario (P&D) che al primo aveva conferito
gratuitamente i mezzi tecnici indispensabili per la
realizzazione del prodotto programmato.
Non si può dunque sostenere ex abrupto che i beni
concessi in comodato in quanto dotati di una loro
autonomia, una volta inseriti nella struttura produttiva dell’impresa comodataria perdevano ogni
connessione funzionale con l’attività della società
proprietaria rendendo fiscalmente indeducibile
l’ammortamento in capo ad essa comodante.
Invero una attività d’impresa può essere svolta anche attraverso un procedimento complesso caratterizzato dalla esternalizzazione di fasi più o meno
ampie di produzione, dove un soggetto conserva la
proprietà ed il controllo dei mezzi di produzione
affidati a terzi per costruire e fornire i beni richiesti che cedono così le proprie utilità all’impresa
proprietaria e non a quella utilizzatrice.
Con la conseguenza che i relativi costi possono
essere ammessi al processo di ammortamento in
capo al soggetto proprietario concorrendo alla
realizzazione del suo programma economico nella
misura in cui consentono - per tornare al caso di
specie - alla comodante di acquistare i veicoli realizzati dalla comodataria ad un prezzo «minore»
di quello che quest’ultima applicherebbe se dovesse affrontare (e caricare sui detti veicoli) gli
oneri relativi all’acquisto ed all’ammortamento
delle attrezzature specifiche occorrenti per quella
produzione.
È questa l’utilità ritratta dall’impresa comodante e
dunque i costi e gli oneri dei beni concessi in comodato a quel precipuo scopo non v’è motivo di
considerarli estranei alla sua attività, specie in
mancanza di una contrapposta ed autonoma iniziativa imprenditoriale della fabbricante, che - quale
comodataria - agiva esclusivamente per conto della prima nella realizzazione del minivan da vendersi sul mercato europeo, costituente la ragione
principale della costituzione della joint venture.
9. La riferibilità di costi ed oneri all’attività (di
produzione tramite terzi e di rivendita) complessivamente esercitata da P&D determina come naturale conseguenza la loro inerenza, concetto oggi come è noto - svincolato dai ricavi dell’impresa e
piuttosto collegato alla sua attività.
SS.UU.
Numerosi precedenti di questa Corte convalidano
questa interpretazione ampia.
È stato in proposito affermato che affinché un costo sostenuto dall’imprenditore sia fiscalmente deducibile dal reddito d’impresa non è necessario
che esso sia stato sostenuto per ottenere una ben
precisa e determinata componente attiva di quel
reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in
senso ampio all’impresa in quanto tale, e cioè sia
stato sostenuto al fine di svolgere una attività potenzialmente idonea a produrre utili (Cass. 30 luglio 2007, n. 16826).
Ancora è stato rimarcato che l’inerenza implica la
presa in esame della funzione dei beni e dei servizi
acquisiti, prescindendo dalla entità della spesa e
dalla circostanza che i versamenti siano stati erogati ad un soggetto diverso dal contribuente il quale abbia a sua volta provveduto alla acquisizione
di quei beni o dei servizi (Cass. 21 aprile 2008, n.
10257) come pure è stato precisato che le spese
per acquisti di beni rientrano nella nozione di inerenza anche se prodromiche all’espletamento di
nuove attività consentite dall’oggetto sociale
(Cass. 21 marzo 2008, n. 7808).
Più perspicuamente è stata ritenuta la deducibilità
dei costi, anche se non direttamente ricollegabili a
ricavi o ad un fine di immediata redditività, nell’ambito di strategie di gruppo (Cass. 1° agosto
2000, n. 10062 e Cass. 26 gennaio 2001, n. 1133)
perché l’attività d’impresa non può essere sempre
ricollegata ad un’esigenza di immediata realizzazione di profitto, soprattutto quando la stessa operi in
contesti più ampi di quelli dell’operatore singolo.
Nel caso di specie, dunque, le operate deduzioni in
applicazione dell’art. 75, comma 5, del D.P.R. n.
917/1986, si rivelavano legittime perché la ratio
dell’inerenza non risulta essere stata «piegata» a
giustificazioni «eccedenti» quelle rinvenibili nella
norma, anche perché supposti e diversi profili di
abuso - non solo - non sono stati dimostrati dall’Amministrazione ma convincentemente esclusi
dalle pertinenti allegazioni della società contribuente.
Può dunque rispondersi sul quarto e quinto motivo
enunciando i correlati principi di diritto nei termini che seguono.
Una operazione economica, oltre allo scopo di ottenere vantaggi fiscali, può perseguire diversi obbiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile ed integra gli estremi del comportamento abu-
Giurisprudenza
sivo qualora e nella misura in cui tale scopo si
ponga come elemento predominante ed assorbente
della transazione tenuto conto sia della volontà
delle parti implicate che del contesto fattuale e
giuridico in cui la transazione stessa viene posta in
essere, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il mero
conseguimento di risparmi di imposta.
È onere dell’Amministrazione finanziaria - non
solo - prospettare il disegno elusivo a sostegno
delle operate rettifiche ma - anche - le supposte
modalità di manipolazione o di alterazione di
schemi classici rinvenute come irragionevoli in
una normale logica di mercato se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come
incombe al contribuente allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale
spessore che giustifichino operazioni così strutturate.
Nell’impianto organizzativo di una corporated
joint venture, gli investimenti effettuati da società
all’uopo costituita per l’acquisto di attrezzature
specifiche e linee di produzione concesse in comodato gratuito a terzi per la realizzazione di veicoli
poi acquisiti dalla comodante ad un minor prezzo
per non essere dalla comodataria inglobati i costi e
gli oneri finanziari in quanto sostenuti e dedotti
dalla prima, non costituisce - secondo un generale
sindacato antiabuso che compete d’ufficio anche
alla materia dell’imposizione diretta - operazione
elusiva pur derivandone un risparmio di imposta
in quanto ragionevolmente spiegabile con l’obbiettivo del gruppo di assicurarsi - pervenendo ad
un prezzo di rivendita più basso - vantaggiose posizioni commerciali di competitività sui mercati
cui quei veicoli sono destinati.
Tali costi - siccome rivolti a fornire utilità alla
proprietaria degli impianti concessi in comodato
gratuito e non all’utilizzatrice dei medesimi - sono
inerenti all’attività propria della comodante così
«esternalizzata» per cui rientrano nel concetto ampio di inerenza riferibile all’attività di impresa in
quanto tale e sono pertanto legittimamente deducibili dalla prima a sensi dell’art. 75, comma 5, del
T.U.I.R. applicabile ratione temporis.
L’inerenza va interpretata infatti come una relazione tra due concetti - la spesa e l’impresa - che implica, un accostamento concettuale tra due circostanze con la conseguenza che il costo assume riGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
227
Giurisprudenza
SS.UU.
levanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta
connessione ad una precisa componente di reddito
bensì in virtù della sua correlazione con una attività «potenzialmente» idonea a produrre utili.
10. Fondato è pure il sesto motivo con il quale viene denunziata violazione degli artt. 63 e 75, del
D.P.R. n. 917/1986, posto che gli interessi passivi
- secondo la nuova disciplina del citato T.U.I.R. erano deducibili senza che occorresse alcun giudizio di inerenza con i ricavi.
Anche se la doglianza è destinata a seguire l’esito
positivo di quelle precedenti rimanendovi assorbita non si può fare a meno di rilevare la fondatezza
del richiamato principio più volte statuito da questa Corte secondo cui gli interessi passivi hanno
un trattamento differenziato (rinvenibile nell’art.
63, primo comma, del D.P.R. n. 600/1973) rispetto
ai vari componenti negativi del reddito (richiamati
nell’art. 75, comma 5) nel senso che - salva la misura e le modalità di calcolo - il diritto di deducibilità è riconosciuto in via generale (Cass. 21 novembre 2001, n. 14702 e Cass. 13 ottobre 2006, n.
22034).
Va pertanto enunciato il principio secondo cui: resta precluso tanto all’imprenditore quanto all’Amministrazione finanziaria dimostrare che gli interessi passivi afferiscono a finanziamenti contratti
per la produzione di specifici ricavi, dovendo invece esser correlati all’intera attività dell’impresa
esercitata.
Anche gli interessi passivi sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa
nel suo essere e progredire e dunque non possono
essere specificamente riferiti ad una particolare
gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo.
11. Lamenta - infine - la società contribuente con
il settimo motivo violazione dell’art. 75 del D.P.R.
n. 917/1986, posto che la ripresa degli oneri accessori su licenze scaturiva da errori di calcolo nella
quantificazione della RA applicata per cui non entrava in gioco il principio di inerenza mai contestato dall’Ufficio.
Anche questa censura è fondata, non tanto per le
diverse giustificazioni date negli avvisi di accertamento ai recuperi a tassazione di tali oneri (superate dalle statuizioni di merito che hanno comunque coinvolto tali componenti nel discorso sull’inerenza), quanto piuttosto per le ragioni già addot-
228
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
te - cui si fa rinvio - che avvincono nella nozione
anche i costi della licenza senza la qual concessione - dietro corresponsione delle royalties a D.M.C.
- non sarebbe stato possibile stipulare il contratto
di «sublicenza ed acquisto» tra P&D e P.
12. Il ricorso va pertanto accolto in tutte le articolazioni (sub 4 e seguenti) e per l’effetto cassata la
sentenza impugnata.
Non occorrendo ulteriori indagini di fatto andranno di conseguenza accolti i ricorsi introduttivi della società ricorrente mentre la peculiarità e complessità di vicenda che ha visto esiti decisionali alterni nelle precorse fasi di merito consigliano la
compensazione integrale tra le parti delle spese
dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Suprema Corte accoglie il ricorso. Cassa la
sentenza impugnata e - decidendo nel merito - accoglie i ricorsi introduttivi della società ricorrente.
Compensa le spese dell’intero giudizio.
SS.UU.
Giurisprudenza
L’art. 53 Cost. come fonte della clausola generale
antielusiva ed il ruolo delle «valide ragioni economiche»
tra abuso del diritto, elusione fiscale
ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali
di Antonio Lovisolo
In tema di abuso del diritto, le Sezioni Unite
della Cassazione affermano che esiste senza
dubbio un «generale principio antielusivo», la
cui fonte, per i tributi non armonizzati quali le
imposte dirette, va rinvenuta all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (e non in quello
comunitario) ossia nell’art. 53, commi primo e
secondo, Cost.
Dall’art. 53 si ricava direttamente il principio
secondo il quale il contribuente non può trarre
indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur
se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere
un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel
risparmio fiscale.
L’esistenza di questo principio insito nell’ordinamento non contrasta, né con tutte le norme
specifiche antielusive sopravvenute che appaiono mero sintomo dell’esistenza di una regola
generale, né con la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un
generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo
scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.
La necessità che le operazioni commerciali
siano sempre economicamente giustificate
Dalla lettura di numerose sentenze emesse dalla
Corte di cassazione in questi ultimi anni, emerge
un costante dato di fatto: il contribuente che voglia
porre in essere un’attività «fiscalmente irreprensibile» deve mettersi nell’ottica di tenere un comportamento economicamente giustificato.
Occorre prendere atto del fatto che le «valide ragioni
economiche» ricoprono ormai un imprescindibile ruolo da «primo attore» in tutte quelle pronunce della
giurisprudenza (di merito e di legittimità) che hanno
ricondotto le fattispecie esaminate entro quei filoni
«riqualificatori» individuati attraverso le formule
«abuso del diritto», «elusione fiscale» ed «antieconomicità delle scelte imprenditoriali», costituendone
l’imprescindibile minimo comune denominatore.
L’intero sistema tributario vacilla sotto l’evolversi
di un «diritto vivente» che si differenzia sempre di
più in relazione alle norme e ai principi che governano i diversi comparti in cui esso è articolato; si
possono ad esempio, ricordare gli orientamenti (degli Uffici e della giurisprudenza) attraverso i quali:
sono disconosciuti costi e, più in generale, operazioni imprenditoriali oltre i limiti consentiti dalla
legge; sono ritenute esistenti sottofatturazioni laddove il contribuente abbia, in relazione a precise
operazioni, ricavato «di meno» rispetto ai relativi
costi sostenuti; sono disconosciuti i corrispettivi
praticati nell’ambito di operazioni commerciali alla
luce di un asserito principio generale del «valore
normale» applicato oltre i casi normativamente previsti; sono confuse agevolazioni fiscali già previste
nel sistema con illegittime scappatoie fiscali elaborate ad arte dal contribuente e, più in generale, sono
ravvisati indebiti risparmi d’imposta laddove è lo
stesso sistema normativo che consente al contribuente di optare per regimi fiscali differenziati.
Leggendo gli atti dell’Amministrazione finanziaria
e le sentenze dei giudici di merito e di legittimità
di questi ultimi anni, si ha la più che fondata sensazione che (spesso) sia stata intrapresa un’enorme
«caccia alle streghe», «fomentata» dallo spauracchio che (soprattutto) dietro ogni articolata gestione imprenditoriale, si nasconda un’astuta fuga dalAntonio Lovisolo - Professore di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza di Genova - Avvocato in Genova - Studio Lovisolo & Partners Avvocati
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
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Giurisprudenza
SS.UU.
la giusta contribuzione attuata attraverso comportamenti formalmente, ed a prima vista, leciti ma
sostanzialmente diretti al risparmio fiscale: la sentenza della Cassazione n. 1465/2009 è un esempio
di quanto appena detto.
In tale guerra aperta all’evasione ed all’elusione
fiscale, però, soccombono, quali «vittime civili»,
anche quei contribuenti che poco hanno a che fare
con evasori ed elusori, e che non hanno saputo bene evidenziare il raziocinio economico legato alle
operazioni compiute in quanto, si potrebbe dire,
«ciò che l’Amministrazione non conosce, non capisce e ciò che non capisce, demolisce».
Da qui l’importanza che le «valide ragioni economiche» rivestono negli atti dell’Amministrazione finanziaria e nelle sentenze dei giudici: esse sono infatti elette ad «alibi» del corretto comportamento del
contribuente che, (come il passeggero a cui, controllato su di un mezzo pubblico, sia richiesto il titolo di
viaggio), deve poterlo esibire se vuole proseguire la
propria corsa senza incorrere in alcuna sanzione.
Sembra, quindi, che quanto appena accennato sulla
importanza fondamentale che rivestono le «valide
ragioni economiche» sia il dato che accomuna le
tre sentenze delle Sezioni Unite della Corte di cassazione 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e
30057 (1) e la sentenza n. 1465/2009: in particolare, con riguardo alle tre sentenze di fine 2008 citate
su cui occorre ora soffermarsi, le «valide ragioni
economiche» continuano a rivestire un ruolo imprescindibile nella nuova clausola generale antielusiva che le Sezioni Unite (a giudizio di chi scrive
del tutto correttamente) hanno ricondotto al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.
I profili di particolare interesse
emergenti dalle motivazioni
delle sentenze delle Sezioni Unite
Le tre pronunce in esame recano una motivazione
sostanzialmente identica, pur prendendo le mosse,
rispettivamente, da un’operazione di dividend washing (le nn. 30055 e 30056) e di dividend stripping (la n. 30057).
La ragione principale che sta alla base delle tre pronunce delle Sezioni Unite deve essere individuata
nell’esigenza di «sanzionare» operazioni che, al momento in cui sono state poste in essere, non erano
perseguibili in base alla legislazione vigente seppure
fosse manifesto il loro carattere elusivo; inoltre, come corollario di questa ragione principale, ne è deri-
230
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
vato lo svezzamento della clausola generale antielusiva dalle fonti comunitarie, con ciò mettendo la parola «fine» alle vivaci discussioni sorte attorno alla
diretta applicabilità, nel nostro ordinamento e, soprattutto, nel comparto delle imposte dirette, del
principio comunitario dell’«abuso del diritto».
Più in particolare, nella fattispecie relativa al dividend stripping (sent. n. 30057/2008) l’Agenzia
delle entrate aveva contestato alla società contribuente (residente in Italia) la simulazione del contratto concluso tra la stessa ed una società non residente, priva di stabile organizzazione in Italia,
con il quale quest’ultima aveva ceduto alla società
italiana l’usufrutto delle azioni di controllo di
un’altra società residente in Italia, a fronte del pagamento anticipato, a titolo di corrispettivo, di una
somma pari al totale dei dividendi che i contraenti,
concordemente, presumevano che la società italiana avrebbe distribuito nel periodo.
L’Amministrazione, contestando ai sensi dell’art.
37, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600, la simulazione di tale contratto, recuperava a
tassazione nei confronti della società italiana la detrazione dall’imponibile della quota di ammortamento del costo di acquisto dell’usufrutto oltre che
il credito d’imposta relativo ai dividendi incassati,
ritenendo che l’operazione fosse stata posta in essere
«al solo fine di conseguire ingiusti vantaggi fiscali».
Nelle sentenze nn. 30055 e 30056 relative alla diversa fattispecie del dividend washing, invece,
l’Ufficio ha ritenuto le operazioni compiute «poste
in essere a soli fini di elusione fiscale», disconoscendo, ai sensi degli artt. 6, comma 2, del
T.U.I.R., e 37, terzo comma, cit., come fiscalmente deducibili le minusvalenze realizzate in seguito
ad operazioni di acquisto e rivendita di titoli, dopo
la riscossione dei dividendi, effettuati con una società gestore di fondi comuni di investimento.
Dalla lettura delle tre sentenze sopra citate, sostanzialmente identiche nella loro motivazione, possono
schematicamente ricavarsi i seguenti punti fermi.
Le Sezioni Unite, in primo luogo, precisano il recente indirizzo che si era affermato in seno alla V
Sezione tributaria in tema di abuso del diritto, affermando che esiste senza dubbio un «generale
Nota:
(1) Si veda per i primi commenti R. Lupi e D. Stevanato, «Tecniche
interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva», in C.T. n. 6/2009, pag. 403, M. Manca, «Abuso del diritto e
principi costituzionali», in il fisco n. 3/2009, pag. 366.
SS.UU.
principio antielusivo», ma la fonte di tale principio, per i tributi non armonizzati quali le imposte
dirette, va rinvenuta all’interno dell’ordinamento
giuridico italiano (e non in quello comunitario come era stato precedentemente sostenuto) ossia nell’art. 53, commi primo e secondo, Cost.
Dall’art. 53 cit, proseguono le Sezioni Unite, si ricava, in secondo luogo, direttamente il principio
secondo il quale il contribuente «non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se
non contrastante con alcuna specifica disposizione,
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente
apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse
dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».
In terzo luogo, secondo i Supremi giudici, l’esistenza di questo principio «insito nell’ordinamento» non contrasta, né con tutte quelle norme specifiche antielusive sopravvenute che «appaiono (...)
mero sintomo dell’esistenza di una regola generale», né con la riserva di legge prevista dall’art. 23
della stessa Costituzione, in quanto «il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto
nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli
effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali».
In quarto luogo, la circostanza che il legislatore abbia, con specifiche disposizioni antielusive, contemplato soltanto alcuni tra i vantaggi fiscali che possono derivare da un negozio abusivo «censurandoli»
espressamente, non impedisce al giudice, in virtù
dell’immanenza nell’ordinamento del principio generale antielusivo riconducibile all’art. 53 cit., di ritenere inopponibili all’Amministrazione finanziaria
anche tutti quei profili «di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere
dall’operazione elusiva, commessa anche in data anteriore all’entrata in vigore della norma suddetta».
Da ultimo, posto che nel giudizio tributario l’oggetto della domanda è rappresentato e circoscritto
dalla pretesa impositiva risultante dall’atto impugnato, siccome il contribuente, per paralizzare la
pretesa dell’Amministrazione, può allegare l’esistenza e l’efficacia del contratto dal quale sono derivati i costi od i crediti oggetto di disconoscimento, dato che la Corte può sicuramente rilevare d’ufficio le eventuali cause di invalidità o di inopponibilità all’Amministrazione del contratto allegato
Giurisprudenza
dal contribuente (essendo, per costante giurisprudenza, rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell’Amministrazione in una materia, come
quella tributaria, da essa non disponibile), «nessun
dubbio può sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, dell’inopponibilità del negozio abusivo all’Erario».
L’art. 53 Cost. quale principio risolutivo
dell’annosa vicenda del «dividend washing»
Una prima lettura delle tre sentenze in esame porta
a focalizzare l’attenzione sul fatto che, come già
anticipato, le Sezioni Unite abbiano voluto dare un
aggancio normativo al criterio interpretativo dell’abuso del diritto di provenienza comunitaria, criterio che gli stessi giudici di legittimità, con un’operazione di «estradizione normativa», avevano
precedentemente impiantato nel nostro ordinamento impiegandolo nella lotta all’elusione fiscale.
In realtà, la ragione principale che ha spinto le Sezioni Unite ad esprimersi, come hanno fatto, va ricercata nella diversa volontà di risolvere l’annoso
problema della repressione delle operazioni di dividend washing e dividend stripping realizzate per
scopi sostanzialmente elusivi ma che, quando furono poste in essere, non erano espressamente regolamentate da alcuna norma antiabuso.
I problemi legati alla repressione del fenomeno
dell’elusione fiscale traggono principalmente origine dalla difficoltà di definire concettualmente
cosa debba intendersi per «elusione fiscale» e,
conseguentemente, dalla incapacità di distinguere
con certezza il lecito risparmio d’imposta dall’illegittimo risparmio d’imposta.
Capire quando un risparmio fiscale può essere
considerato lecito od illegittimo comporta la risoluzione di un altro problema, ossia se uno strumento negoziale univocamente impiegato per ottenere un risparmio fiscale debba essere considerato
lecito fin tanto che una norma non intervenga ad
impedirne un uso strumentale. Le fattispecie del
dividend washing e del dividend stripping, oggetto
delle pronunce delle Sezioni Unite, pongono proprio un problema di questo tipo.
Al riguardo, volendo concentrarsi sul dividend washing, in giurisprudenza se ne è ammessa la liceità
allorquando tale operazione fosse stata effettuata
prima della specifica disposizione (antielusiva) introdotta con il comma 6-bis dell’art. 14 del D.P.R.
n. 917/1986, aggiunto dall’art. 7-bis del D.L. 9 setGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
231
Giurisprudenza
SS.UU.
tembre 1992, n. 372, convertito, con modificazioni,
dalla legge 5 novembre 1992, n. 429 (2): ciò in
quanto, come ricorda la sentenza 21 aprile 2008, n.
10257 (3), «la prima risposta di questa Corte a questo simile quesito è stata che possono essere qualificati come elusivi (e quindi irrilevanti nei confronti del Fisco) solo quei comportamenti che tali sono
definiti da una legge dello Stato vigente al momento in cui essi sono venuti in essere».
In altri termini, appartiene al sistema (tributario) un
principio generale che vieti l’opportunistico impiego
della normativa fiscale indipendentemente dall’esistenza di una norma che specificamente ne stabilisca
il divieto? Vedremo che, con le sentenze in esame, la
Cassazione ha affermato che tale principio generale
esiste e che deve essere ricondotto all’art. 53 Cost.
(conclusione che ci ritrova del tutto consenziente,
avendola già in precedenza prospettata) (4).
Si ritiene, a parere di chi scrive, infatti, che non sia
necessaria la previsione di una specifica norma impositiva (in osservanza dell’art. 23 Cost.) in quanto
l’interprete, attraverso la ricostruzione anti-elusiva,
non fa che far emergere la realtà economica che il legislatore ha già considerato (in osservanza dell’art.
23 Cost.) nell’ambito della norma impositiva (“aggirata”). In definitiva, quindi, la norma impositiva già
esiste e non è necessario prevederne una “nuova”. La
norma specifica antielusiva (eventualmente introdotta) risponde opportunamente alla necessità di creare
maggiore “certezza” al contribuente il quale, tuttavia,
può (a prescindere dalla introduzione della norma
antielusiva) corroborare la incontestabilità del proprio operare con la consapevolezza della finalità economica (“business purpose”) da lui perseguita.
Il quesito appena posto non può però essere separato dall’analisi e dalla scelta dei meccanismi attraverso i quali contrastare i «fenomeni abusivi»,
una volta che si sia stabilito che le norme non possono essere strumentalmente piegate alla fiscalità
privata dei singoli contribuenti.
Invero, già sul terreno dell’interpretazione si può
tentare di prevenire queste distorsioni del sistema
dilatando o restringendo il significato (meglio sarebbe dire, la «ragione») delle norme impositive,
senza dover aspettare che il legislatore intervenga
puntualmente con una norma ad hoc.
Tuttavia, l’interpretazione in chiave antielusiva,
soprattutto quella cd. «funzionale», non è riuscita
ad assurgere a meccanismo di contrasto (definitivo) all’elusione, prevalendo un stretto rigore for-
232
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
malista, ossequioso del principio vigente in ambito
tributario della riserva di legge (con il contestuale
divieto di analogia) stabilito dall’art. 23 Cost.
Pertanto, mentre gli interpreti si sono «palleggiati» i possibili rimedi antielusivi, ritraendoli, di volta in volta, o dall’interpretazione, o dagli istituti
civilistici della simulazione, del contratto in frode
alla legge, del negozio indiretto, o dalla valorizzazione in chiave antielusiva di norme prettamente
tributarie quali quella sull’interposizione fittizia
(art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973) o
sulla riqualificazione degli atti ai fini dell’imposta
di registro (art. 20 del T.U.R.), il dividend
washing, prima dell’introduzione nel 1992 di una
norma specifica, rimaneva uno stratagemma lecito; odioso, ma comunque formalmente legittimo.
Posta di fronte all’ennesima operazione di dividend
washing, nel mare magnum dei possibili rimedi antielusivi da impiegare efficacemente contro tale operazione, la Corte di cassazione con le sentenze 21
ottobre 2005, n. 20398 e 14 novembre 2005, n.
22932 (5) ha tentato di percorrere la strada della nullità civilistica del contratto per difetto di causa, in
quanto compiuto al fine di ottenere un risparmio fiscale senza conseguire alcun vantaggio economico.
Nello stesso periodo delle sentenze appena citate,
con la pronuncia 26 ottobre 2005, n. 20816 (6),
sempre in tema di dividend washing, la Cassazione
ha altresì affermato il diverso principio di diritto secondo cui l’Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal
contribuente, o la loro nullità per frode alla legge,
Note:
(2) Si ricordano le sentenze della Cassazione 3 aprile 2000, n.
3979, 7 marzo 2002, n. 3345, tutte in Banca Dati BIG, IPSOA. La
sentenza della Cassazione 3 settembre 2001, n. 11351 (in Banca
Dati BIG, IPSOA) si pronuncia su di un caso diverso dal dividend
washing ma ribadisce l’impossibilità di applicare retroattivamente
la norma antielusiva di cui all’art. 10 della legge n. 408/1990.
(3) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(4) Si veda A. Lovisolo, «La Corte di Cassazione crea l’abuso del
diritto e rilancia l’idea di una clausola generale antielusiva» in Riv.
Dir.Trib., n. 1/2009, pag. 49 ss.
(5) In questa Rivista, rispettivamente n. 1/2006, pag. 26, con commento di L. Mariotti, «”Dividend washing” e norme antielusive» e
n. 3/2006, pag. 223, con commento di M. Beghin, «L’usufrutto
azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale».
(6) In Banca Dati BIG, IPSOA.
SS.UU.
ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 c.c.) e secondo il quale la relativa prova può essere fornita
con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni.
Queste tre sentenze sono state pertanto considerate
un «arresto giurisprudenziale» rispetto al precedente orientamento secondo il quale, nell’impossibilità di applicare retroattivamente la norma specifica anti - dividend washing, questo doveva essere
considerato legittimo.
Investita nuovamente nel 2006 della questione della liceità del dividend washing realizzato ante
1992, la Corte di Cassazione si è trovata di fronte:
da un lato, ad un primo orientamento secondo il
quale tale istituto (non potendolo considerare un’ipotesi di interposizione soggettiva o di simulazione), era lecito in assenza di una norma ad hoc; dall’altro, ad un secondo orientamento, rappresentato
dal trittico di sentenze di fine 2005, che invece lo
contrastavano con rimedi di carattere civilistico;
da un altro lato, ancora, alla digressione operata
dalle sentenze nn. 20398 e 22932 del 2005 citate
sul principio dell’«abuso del diritto» sviluppatosi
in ambito comunitario, aspetto comunque da dover
gestire e sviluppare in qualche modo.
Infatti, le sentenze nn. 20398 e 22932 del 2005
avevano richiamato, sebbene ancora a livello di
obiter dictum (7), il principio comunitario
dell’«abuso del diritto», suggerendo agli interpreti
di ricercare, specificamente all’interno dell’ordinamento nazionale, uno strumento «anti-abuso»
che (si legge fra le righe) potesse prendere spunto
dal principio affermato dalla Corte di giustizia e
che avesse una portata generale.
Posta di fronte a questi tre diversi «filoni», la Corte di cassazione ha trasferito la «spinosa questione» alle Sezioni Unite con due ordinanze (24 maggio 2006, nn. 12301 e 12302) (8), chiedendo ad
esse «di affrontare questioni di diritto involgenti
massime di particolare importanza», ma anche e
soprattutto, di risolvere il contrasto di orientamenti generatosi sul dividend washing.
Pertanto, nonostante sia stato ritenuto (non a torto), anche dalla stessa Corte di cassazione (4 aprile
2008, n. 8772) (9), che con le due ordinanze sopra
citate fosse stato richiesto alle Sezioni Unite di
esprimersi, sostanzialmente, su due quesiti, ossia,
da un lato, sulla possibilità per l’Amministrazione
finanziaria, quale terzo interessato, di dedurre legittimamente, prima in sede di accertamento e poi
in sede contenziosa, la simulazione (assoluta e re-
Giurisprudenza
lativa) dei contratti stipulati dal contribuente o la
loro nullità per «abuso del diritto» e, dall’altro,
sulla possibilità per il giudice tributario, innanzi
ad un atto impositivo in cui fosse stato dedotto un
procedimento negoziale indiretto, di ritenere comprese nel thema decidendum eventuali cause di
nullità dei contratti, la cui validità ed opponibilità
all’Amministrazione abbia costituito oggetto dell’attività assertoria delle parti, la questione di fondo che la Sezione tributaria chiedeva alle Sezioni
Unite di risolvere era fondamentalmente un’altra.
Note:
(7) In tale obiter la Corte di cassazione rilevava: «innanzitutto, che il
principio affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte
(...), secondo cui, prima dell’introduzione, da parte dell’art. 7, comma 1, del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, del nuovo testo dell’art. 37bis, non esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento
fiscale italiano, deve essere riveduto, alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria sul
concetto di abuso del diritto. La Corte ha, infatti, ripetutamente affermato, anche se in settori diversi da quello dell’imposizione fiscale
(...) che i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme
comunitarie.Tale principio, applicato in diversi settori del diritto comunitario, è stato ritenuto operante dalla Corte di Lussemburgo
anche nel campo doganale, nel senso che non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi
tali agevolazioni. Nella sentenza 14 dicembre 2000 in causa C110/99, Emsland - Starke GmbH c. Hauptzollamt Hamburg - Jonas, La
Corte ha ritenuto abusive le cd. operazioni di esportazione “a U”,
nelle quali, al fine di usufruire della restituzione di dazi doganali per
l’esportazione di prodotti agricoli, le merci vengono consegnate al
destinatario estero e da questi immediatamente restituite, senza alcuna utilizzazione, all’esportatore. Nondimeno, l’esistenza di una
clausola generale antiabuso, così come definito nella citata sentenza, nell’intero campo dell’imposizione fiscale non è stato ancora affermata dalla giurisprudenza comunitaria. È evidente, d’altra parte,
che l’esistenza di un tale principio svolgerebbe un innegabile effetto
d’irraggiamento sull’intero sistema impositivo, anche per tributi, come quelli diretti che, pur ricadendo nella competenza degli Stati
membri, sono comunque soggetti, secondo una costante giurisprudenza della Corte di giustizia, ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. Per quanto riguarda le fonti comunitarie, le
stesse, a volte si limitano a rimettere al legislatore nazionale o alle
convenzioni internazionali la previsione di clausole anti abuso, altre
volte ne contengono una diretta definizione (...). Pertanto, pur non
essendo stata affermata in modo radicale, e valevole per tutti i settori dell’imposizione fiscale, l’esistenza di una regola che reprima attraverso l’inopponibilità dell’atto all’Amministrazione finanziaria il cd. “abuso dei diritto”, non pare contestabile l’emergenza di un
principio tendenziale, che - in attesa di ulteriori specificazioni della
giurisprudenza comunitaria - deve spingere l’interprete alla ricerca
di appropriati mezzi all’interno dell’ordinamento nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno».
(8) In questa Rivista n. 10/2006, pag. 882, con note di riferimento
di C. Pino, «Ancora dubbi sulle operazioni di “dividend washing”».
(9) In questa Rivista n. 8/2008, pag. 695, con commento di S. Orsini, «L’abuso del diritto rende l’atto inefficace: sul contribuente
l’onere della prova contraria».
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
233
Giurisprudenza
SS.UU.
Il vero motivo del rinvio alle Sezioni Unite era
quello di trovare, anche grazie all’input fornito dal
richiamo operato dalle sentenze del 2005 al criterio generale antiabuso di matrice comunitaria, un
principio generale antielusivo da applicare prima
del 1992, ossia, in sostanza, di trovare un modo
per poter «sostanzialmente» applicare retroattivamente l’art. 14, come novellato nel 1992, del
T.U.I.R., alle operazioni di dividend washing compiute prima di tale anno, formalmente lecite in
quanto non espressamente vietate (10).
Le sentenze nn. 30055 e 30056 del 2008 hanno la
loro genesi proprio nelle due ordinanze sopra citate,
ed i giudici delle Sezioni Unite hanno piena coscienza del sopra citato «vero» motivo per il quale sono
state investite, non affrontando espressamente i due
quesiti per le quali sono state formalmente investite.
Per inciso, occorre dire che le Sezioni Unite, non
essendosi affatto occupate dell’«arresto giurisprudenziale» avvenuto con le tre sentenze del 2005,
hanno perso l’occasione per chiarire (tra le altre cose) con riguardo al rimedio della nullità del contratto per difetto di causa, quale debba essere il ruolo
che le motivazioni di carattere fiscale possono lecitamente giocare nelle dinamiche imprenditoriali,
essendo innegabile che queste talvolta si accompagnino a quelle di carattere prettamente economico.
Rapporto, quello tra motivazioni di carattere fiscale
e ragioni economiche che, come sopra accennato, ricopre una importanza fondamentale nella dialettica
Fisco-contribuente, costituendo ormai il terreno sul
quale quest’ultimo può (con maggiori possibilità di
successo) difendersi dagli attacchi riqualificatori
operati dall’Amministrazione finanziaria e dai giudici, sia che essi siano ancorati alla norma antielusiva
di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, sia che
essi si concretizzino in accertamenti induttivi ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 giustificati da
una presunta gestione imprenditoriale antieconomica, sia che essi mirino al disconoscimento di costi
non inerenti o di ricavi non congruenti.
Pertanto, anche se si ritiene che sia un bene che
l’orientamento della nullità della causa introdotto
dalle sentenze nn. 20398 e 22932 del 2005 sia «caduto nel dimenticatoio giuridico», in quanto
avrebbe potenzialmente avuto riflessi drammatici
sulle transazioni commerciali, con ciò le Sezioni
Unite hanno comunque perso l’occasione per esercitare quella funzione nomofilattica che rientra essenzialmente tra i loro compiti.
234
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Come visto, in realtà, «altro» era il problema che
alle Sezioni Unite, con le tre sentenze del 23 dicembre 2008, premeva risolvere, ossia la possibilità di
censurare un’operazione sostanzialmente elusiva (il
dividend washing) ma (in allora) normativamente
non vietata. Il punto di partenza della pronuncia è
rappresentato proprio dal richiamo (operato nella
parte in fatto) alla pronuncia della Commissione regionale secondo cui «l’operazione posta in essere
(...), solo successivamente contemplata come elusiva dall’art. 14, comma 6-bis (...), era all’epoca dei
fatti del tutto lecita e riconducibile ad un procedimento negoziale indiretto e non simulato».
Come risolvere la questione? Scartato il nuovo
orientamento civilistico, espresso dalle tre sentenze del 2005, forse perché troppo difficile da gestire, le Sezioni Unite dovevano trovare un modo per
colpire un’operazione chiaramente elusiva anche
se, quando era stata compiuta, era invece normativamente lecita: l’unica maniera per farlo sarebbe
stata quella di rinvenire una «clausola generale antielusiva» che andasse oltre le singole norme specifiche antiabuso espressamente previste dalla legge (quale quella prevista dall’art. 14, cit.).
Per raggiungere tale obiettivo, le Sezioni Unite si
sono servite del nuovo orientamento sull’«abuso
del diritto» comunitario, originatosi dal semplice
richiamo operato dalle due sentenze nn. 20398 e
22932 del 2005, poi sviluppato con le successive
sentenze 5 maggio 2006, n. 10353 e 29 settembre
2006, n. 21221 (11) (attraverso le quali la Corte di
cassazione ha introdotto direttamente nel nostro
ordinamento tale principio in chiave antielusiva,
Note:
(10) Analogo discorso va compiuto con riguardo alla sentenza n.
30057/2008 in tema di dividend stripping: seppure non oggetto di
specifico rinvio, anche in questa ipotesi le Sezioni Unite devono
confrontarsi con il rilievo, accertato dalla sentenza della Commissione tributaria regionale impugnata, che «certamente le parti hanno voluto utilizzare i varchi legislativi allora esistenti per raggiungere un risultato deprecabile dal punto di vista dell’Amministrazione finanziaria (...); di talché si può affermare che esse hanno voluto
esattamente costituire l’usufrutto con quelle determinate modalità
(...) a favore della società M., la quale, in virtù del sistema legislativo
in vigore, poteva legittimamente, attraverso un’operazione estremamente abile ma non per questo contraria ad una specifica norma, ottenere il diritto di deduzione oggetto dell’accertamento».
(11) Che si è avuto modo di commentare con A. Lovisolo, «Il
principio di matrice comunitaria dell’“abuso” del diritto entra
nell’ordinamento giuridico italiano: norma antielusiva di chiusura
o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza
della Suprema Corte», in Dir. Prat.Trib., II, 2007, pag. 723 ss.
SS.UU.
dapprima nel settore dell’IVA e poi anche in quello delle imposte dirette) ed infine precisato e diffuso con ulteriori pronunce, sempre della V Sezione, quali ad esempio le sentenze 4 aprile 2008, n.
8772, 21 aprile 2008, n. 10257, 15 settembre
2008, n. 23633, 17 ottobre 2008, n. 25374 (12).
Il nuovo orientamento sull’abuso del diritto ha fornito ai supremi giudici lo spunto di cui avevano bisogno: la Sezione V della stessa Cassazione, con la
sentenza n. 25374/2008, cit., aveva infatti definitivamente fatto cadere ogni tabù in ordine alla possibilità di immaginare e, conseguentemente, utilizzare una «clausola generale antielusiva» all’interno
del nostro ordinamento. Scriveva infatti il consigliere Altieri nella sentenza citata che «la nozione
[di abuso del diritto] assume il ruolo di General
Klausel antielusiva o di General Anti-Avoidance
Rule nell’ordinamento tributario: pur non esistendo
una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali, la sua applicazione (...) si impone
per essere la stessa di formazione comunitaria».
La possibilità di ricorrere ad una clausola generale
antielusiva sembrava essere ormai «rodata» nella
giurisprudenza della Sezione tributaria e metabolizzata (se non del tutto pacificamente) tra gli interpreti ed i commentatori; inoltre, il fatto di essere
una clausola interpretativa di matrice prettamente
giurisprudenziale, poteva consentirne l’applicazione ad ogni fattispecie abusiva indipendentemente
dal fatto che tale operazione non fosse stata disciplinata da una disposizione antielusiva ad hoc.
Ma ciò non bastava: individuata la possibilità di ricorrere ad uno strumento antielusivo generale,
mancava ancora, per rispondere appieno al quesito
formulato dalle ordinanze di rimessione, il «modo»
per poterlo applicare retroattivamente ad un’operazione compiuta prima del 1992; per potere arrivare
a tale conclusione sarebbe stato infatti necessario
sostenere che tale clausola esisteva già all’epoca
dei fatti, ossia che era una clausola immanente nell’ordinamento seppure non formalmente espressa.
Come fare per arrivare a tale conclusione? Le Sezioni Unite hanno fatto in modo di agganciare la neonata clausola generale ad un principio che sicuramente
esisteva all’epoca dei fatti, ossia ad un principio immanente nel sistema, quale è quello espresso dall’art. 53 Cost.: l’«escamotage» ha permesso, quindi,
alle Sezioni Unite di disegnare una clausola generale
antielusiva «senza spazio e senza tempo», attraverso
la quale risolvere il caso concreto accogliendo il ri-
Giurisprudenza
corso dell’Amministrazione finanziaria, cassando la
sentenza impugnata, decidendo nel merito la vicenda del dividend washing, e rinviando al giudice del
merito quella del dividend stripping.
L’apparente funzione nomofilattica
delle Sezioni Unite sull’abuso del diritto
Si ritiene, alla stregua di quanto sopra espresso,
che le sentenze delle Sezioni Unite in esame vadano, quindi, anzitutto comprese alla luce dei casi in
relazione ai quali sono state emesse.
Ad esse, da questo punto di vista, non può essere
condotto l’esercizio di una vera e propria funzione
nomofilattica strettamente intesa: come già evidenziato, nelle decisioni nn. 30055 e 30056 è mancato ogni riferimento alle problematiche (formalmente) espresse dalle ordinanze di rimessione, tra
le quali quelle vertenti sulla possibilità di applicazione di rimedi di carattere civilistico.
Stupisce inoltre l’assenza di ogni analisi del principio dell’abuso del diritto come tale (ossia sulla
sua qualificazione come principio generale proveniente dalla giurisprudenza comunitaria e sulle diverse tappe in cui è stato sviluppato nel nostro ordinamento), analisi che forse dalle Sezioni Unite
ci si poteva legittimamente aspettare; l’abuso del
diritto, pur essendo una presenza di fondo costante
nelle pronunce in esame (anche se forse più da un
punto di vista nominalistico) è stato, infatti, «liquidato» con il semplice richiamo operato alle due
sentenze nn. 10257 e 25374 del 2008: la spiegazione di questa incomprensibile reticenza sulla genesi dell’«abuso del diritto», sul suo sviluppo, sulle sue implicazioni nell’ordinamento italiano, si
spiega forse con il fatto che oggetto delle tre pronunce in esame non voleva essere affatto l’abuso
del diritto (in sé e per sé considerato), se non in
via incidentale, in quanto questo è stato dalle Sezioni Unite impiegato con lo specifico e limitato
scopo che a loro interessava risolvere, ossia reprimere operazioni di dividend washing e di dividend
stripping altrimenti non sanzionabili.
Si comprende allora come mai, nelle tre sentenze
in esame, non sia riscontrabile alcuna traccia, ad
esempio, della ripartizione dell’onere della prova
del comportamento abusivo e delle motivazioni
economiche, così come accuratamente definito e
Nota:
(12) Tutte in Banca Dati BIG, IPSOA; per la prima cfr. anche nota 9.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
235
Giurisprudenza
SS.UU.
precisato nelle ultime sentenze che hanno fatto il
punto sul principio dell’abuso del diritto (soprattutto la n. 25374/2008).
In quest’ultima sentenza leggesi che «per una corretta applicazione del principio [dell’abuso del diritto]
il Collegio ritiene necessari alcuni chiarimenti sull’affermazione contenuta nella (...) sentenza della
Corte n. 10257/2008, secondo cui l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad
un reale scopo economico, diverso da quello di un
risparmio fiscale, incombe al contribuente. Nel confermare tale principio, la Corte rileva che l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe all’amministrazione finanziaria, la quale
non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare
gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico».
Con riferimento a questo specifico profilo rimane allora il dubbio sul «chi debba provare che cosa», e tale mancata specificazione rafforza l’idea che queste
pronunce abbiano voluto avere un rilievo fine a se
stesso, ossia che abbiano sì affermato una principio
generale ma principalmente con l’idea di «limitarlo»
alla risoluzione di precisi casi concreti (da lungo
tempo irrisolti). Suona strano, infatti, non leggere
nelle motivazioni delle Sezioni Unite qualcosa di
più che un mero riferimento alle «ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione,
diverse dalla mera aspettativa del risparmio fiscale»,
considerato che, come detto, la «partita» sugli accertamenti fiscali si è ormai trasferita sul piano della dimostrazione delle «valide ragioni economiche».
In questo senso, sembra che le sentenze in esame
non vogliano essere delle pronunce, di per sé, sull’abuso del diritto né vogliano sublimare il principio di provenienza comunitaria a clausola generale
antielusiva italiana.
Esse hanno l’effetto di chiudere il cerchio rispetto a
quanto nel 2005 i giudici delle sentenze nn. 20398 e
22932 avevano affermato, ossia «che il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema
Corte (...), secondo cui, prima dell’introduzione, da
parte dell’art. 7, comma 1, del D.Lgs. 8 ottobre
1997, n. 358, del nuovo testo dell’art. 37-bis, non
esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano, deve essere riveduto, alla
luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria sul concetto
di abuso del diritto» e che «non pare contestabile
236
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
l’emergenza di un principio tendenziale, che - in attesa di ulteriori specificazioni della giurisprudenza
comunitaria - deve spingere l’interprete alla ricerca
di appropriati mezzi all’interno dell’ordinamento
nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno».
L’art. 53 Cost. quale fonte della clausola
generale antielusiva: la necessità di una
clausola generale che valorizzi la reale
funzione economica dell’operazione
ed i suoi rapporti con le norme antielusive
Con questo intervento delle Sezioni Unite è stata
radicata, anzi creata, nel sistema tributario italiano
una «clausola generale antielusiva» (il cui spunto,
come visto, è stato fornito dal principio dell’abuso
del diritto comunitario) e normativamente agganciata all’art. 53 Cost.
Si è avuto già modo di evidenziare (13) come nel
nostro ordinamento potesse essere individuato,
senza alcun imbarazzo, un «generale principio antiabuso» immanente di cui, nel diritto tributario,
l’art. 53 Cost. fosse la massima espressione. Da
questo punto di vista le pronunce delle Sezioni
Unite confermano quanto già sostenuto, trovando
quindi il pieno favore di chi scrive.
Le Sezioni Unite, tuttavia, per il fatto (sopra evidenziato) di volere unicamente risolvere le questioni ad esse indirizzate, non hanno fornito una
giustificazione esaustiva dell’aggancio della clausola generale all’art. 53 Cost.: secondo la Corte di
cassazione, infatti, i principi di capacità contributiva (e di progressività dell’imposizione) «costituiscono il fondamento sia delle norme impositive»
che «di quelle che attribuiscono al contribuente
vantaggi o benefici di qualsiasi genere», «con la
conseguenza che non può ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui» il contribuente non può «abusare» delle stesse.
In sostanza, dicono le Sezioni Unite, dal momento
che le norme impositive (e quelle «di favore»)
hanno un fondamento costituzionale, allora è anche costituzionale il principio che ne vieta l’abuso.
In altri termini, nelle motivazioni è indicato il
punto di inizio del ragionamento (ossia il fondamento costituzionale delle norme impositive) ed il
Nota:
(13) Con A. Lovisolo, «La Corte di Cassazione crea l’abuso del
diritto e rilancia l’idea di una clausola generale antielusiva», cit.,
loc. ult. cit.
SS.UU.
punto di arrivo (ossia la derivazione costituzionale
anche della clausola antiabuso), ma manca il «perché», ossia la ragione che lega il rimedio alla sua
fonte. Tale reticenza, invero, rischia di rendere alquanto fragile il fondamento di una clausola che,
in quanto «generale» ed in quanto attributiva di un
potere enorme all’Amministrazione ed ai giudici,
avrebbe richiesto alcune pagine di giustificazione.
Si ritiene (come già espresso nello scritto citato)
che questo «perché» sia da ricercare nella duplice
funzione assolta dall’art. 53 Cost., il quale, nel momento in cui afferma che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro
capacità contributiva» assolve, da un lato, ad una
«funzione solidaristica» attraverso la quale «tutti» i
consociati sono chiamati a contribuire alla «cosa
pubblica» per garantirne la sussistenza, quindi alle
relative spese che saranno necessariamente pubbliche e di conseguenza a carico di tutti i consociati,
e, dall’altro, ad una «funzione garantista», in quanto la misura per la quale «tutti» saranno chiamati a
concorrere sarà esclusivamente quella che deriverà
dalla effettiva capacità di ciascuno di contribuirvi.
Sebbene l’art. 53 Cost. sia stato interpretato tradizionalmente come principio rivolto unicamente al
legislatore, tuttavia, attraverso la valorizzazione
della sua componente solidaristica, il principio di
capacità contributiva manifesta una carica precettiva anche nei confronti di tutti i consociati imponendo loro, in combinato disposto con gli artt. 2 e
3 Cost., di non sottrarsi a quanto è loro richiesto in
qualità di membri della collettività organizzata.
In proposito infatti occorre ricordare quanto già
espresso nelle pagine precedenti, e cioè che la valorizzazione del principio di capacità contributiva
consente l’interpretazione in chiave anti-elusiva
della norma impositiva già esistente non necessitando quindi di un nuovo intervento ex articolo 23
Cost. Anche in questo caso, la certezza dell’operare del contribuente è riconnessa alla consapevolezza della finalità economica (“business purpose”)
sottesa agli atti posti in essere.
Il collegamento tra la clausola antiabuso e l’art. 53
è più comprensibile se si guarda al contenuto che
dovrebbe avere la clausola stessa.
Già da tempo si va sostenendo la necessità di procedere alla maggiore valorizzazione, ai fini fiscali, del
«reale contenuto economico» delle fattispecie da
assoggettare a tributo (14). Il soddisfacimento dell’interesse fiscale al prelievo non lede la certezza
Giurisprudenza
dei rapporti giuridici nel momento in cui non va oltre il principio di capacità contributiva il quale assolve a una funzione garantista della razionalità dell’imposizione, richiedendo, anche, interventi ablativi correlati a situazioni di effettività della ricchezza.
Con riferimento all’individuazione dell’effettivo
possessore del reddito nelle ipotesi di interposizione
soggettiva, si è sostenuto (15) che l’attività di accertamento soddisfa pienamente l’interesse fiscale, ponendosi, al contempo, nel rispetto del principio di
capacità contributiva, qualora tenga conto del contenuto dell’attività e della funzione svolta dall’interposto, piuttosto che esclusivamente della formale
configurazione dei suoi rapporti con l’interponente.
La generalizzazione di quanto appena scritto comporta che una clausola generale antielusiva debba
essere correttamente intesa come un «principio antiabuso delle forme negoziali», attraverso il quale
gli organi dell’Amministrazione finanziaria e gli
organi giurisdizionali siano conferitari del potere
di far emergere il «vero significato economico»
delle operazioni compiute, così da rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria tutte quelle
operazioni «abusivamente» realizzate.
L’«abuso», in questo modo, sarà inteso come la realizzazione di un’operazione economica esattamente
corrispondente alla realtà economica che il legislatore ha (già) voluto considerare oggetto di imposizione, quindi rivelatrice di capacità contributiva, sebbene nel concreto questa realtà economica sia stata realizzata con modalità tali da non trovare alcuna conferma formale nel dettato normativo, sfuggendo al
pieno (o totale) sorgere del presupposto del tributo.
Come si è detto, tale valorizzazione del principio
di “capacità” contributiva” è effettuata in relazione alla norma impositiva già esistente (e sempre
che la sua previsione consenta tale interpretazione), non configurandosi quindi violazione del
principio di riserva di legge (art. 23 Cost.).
La incertezza operativa che può derivare al contribuente dall’assenza di una norma impositiva ad
hoc, deve essere da lui “compensata” attraverso la
consapevolezza della “razionalità” economica della operazione posta in essere, sorretta da un autonomo “business purpose”.
Note:
(14) Si rimanda ad A. Lovisolo, «Possesso di reddito ed interposizione di persona», in Dir. Prat.Trib. n. 5/1993, pag. 1665.
(15) Si veda A. Lovisolo, «Possesso di reddito ed interposizione
di persona», cit., loc. cit., pag. 1710.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
237
Giurisprudenza
SS.UU.
L’aggancio tra l’art. 53 e la clausola generale antielusiva si giustifica allora considerando che se,
proprio in forza dell’art. 53 cit., è imposto a ciascun consociato il dovere di contribuire al manifestarsi dell’idoneità contributiva, contemporaneamente è lo stesso art. 53 Cost. a richiamare a tale
dovere colui che se ne sia abusivamente sottratto.
Ed infatti, a fronte di operazioni formalmente diverse ma dal significato economico identico (di
cui solo l’una prevista espressamente dalla norma
impositiva), il contribuente ha manifestato la stessa idoneità contributiva dovendo quindi subire le
stesse conseguenze.
Semmai, il problema del rapporto tra l’art. 53 e
l’art. 23 della Costituzione si pone allorquando il
legislatore abbia effettivamente previsto una norma antielusiva.
In tal caso si ritiene, a parere di chi scrive, che la
positiva previsione normativa possa solo essere
completata (anche eventualmente ratione temporis,
così come avvenuto nelle annotate pronunce) dall’interpretazione costituzionalmente orientata ai
sensi dell’art. 53 Cost., che quindi funge da norma
di “completamento” dell’espressa previsione normativa, il cui contenuto dispositivo è comunque da
osservare salvo se ne dimostri l’incostituzionalità.
Così, a titolo di esempio, si consideri che l’art. 10
della legge 29 dicembre 1990, n. 408 prevedeva al
suo terzo comma che «le disposizioni del presente
articolo non si applicano alle operazioni di fusione,
concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale deliberate da tutti i soggetti interessati
entro il 30 ottobre 1990»; al riguardo, salvo che se
ne dimostri l’incostituzionalità per violazione dell’art. 53 Cost., è evidente che tale espresso divieto
di retroattività “regge” anche di fronte ad operazioni che anteriormente presentassero il medesimo
contenuto di elusività, solo successivamente ritenuto contestabile dalla norma antielusiva.
In tal caso, tale divieto di retroattività è frutto infatti di una disposizione attuativa dell’art. 23 Cost.
che quindi (salvo che, lo si ripete, si dimostri la
sua incostituzionalità) non può essere posta in discussione da una lettura costituzionalmente orientata effettuata alla luce dell’art. 53 Cost..
È quanto non è avvenuto nel caso di specie nel
quale le norme sul dividend washing e dividend
stripping, non recavano alcun espresso divieto di
retroattività, potendo lasciare intendere, fra l’altro,
che la loro introduzione fosse in attuazione di un
238
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
principio di carattere generale già latente nel nostro ordinamento.
In altre parole, quindi, il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. colma solamente
gli spazi lasciati aperti (anche ratione temporis)
dalla norma antielusiva, e ciò in ossequio anche
all’art. 23 Cost., salvo ovviamente la dichiarazione
di incostituzionalità della norma.
Per dirla ancora in altri termini, un’operazione
compiuta nel rispetto della norma antielusiva (salvo che se ne dimostri l’incostituzionalità) “regge”
anche di fronte alla contestazione della sua “abusività” condotta ex art. 53 Cost.
Ulteriori profili critici delle tre sentenze del 2008.
L’abuso del diritto: la sua rilevabilità d’ufficio
e per di più per la prima volta in Cassazione
Che debbano, o meno, avere una rilevanza circoscritta ai casi concreti, le tre pronunce in esame
comunque costituiscono un autorevole precedente,
e saranno pertanto sicuramente oggetto di attenta
interpretazione.
Ciò che al riguardo «spaventa» (oltre a quanto già
osservato in precedenza) è l’applicazione futura della rilevabilità d’ufficio, nel giudizio di Cassazione,
dell’esistenza del carattere elusivo della fattispecie e
della sua inopponibilità all’Amministrazione.
Si ritiene che debba essere fortemente criticata la
possibilità che il comportamento del contribuente
sia sindacato sotto il profilo dell’abuso del diritto,
al di fuori dell’atto di imposizione ed anzi - come
hanno ritenuto le Sezioni Unite - per la prima volta, d’emblèe, in Cassazione ed anche d’ufficio.
È evidente che la sopravvenuta contestazione della
sua «abusività» comporta il radicale disconoscimento
degli effetti dell’«operazione» posta in essere dal contribuente, potendo rendere del tutto irrilevanti e vanificare le difese svolte nei diversi gradi di giudizio.
Pertanto, ad avviso di chi scrive, è necessario in
proposito instaurare un adeguato contraddittorio,
posto che il contribuente deve essere in grado di
dimostrare l’assenza di qualsivoglia «abuso»: dimostrazione che può richiedere la evidenziazione
di situazioni di fatto la cui valutazione è inammissibile davanti alla Suprema Corte che tale situazione di «abuso» avesse, per la prima volta, sollevato.
A giudizio di chi scrive, in questo caso, una «giurisprudenza degli interessi» dovrebbe imporre il rinvio al Giudice di merito per un doveroso approfondimento anche fattuale dell’operazione contestata.
SS.UU.
Comunque, nel giudizio davanti alla Suprema Corte,
dovrebbe, quantomeno, trovare applicazione la previsione dell’art. 384, terzo comma c.p.c., con l’assegnazione di un termine per il deposito di «osservazioni»
in ordine a tale questione per la prima volta sollevata.
Si consideri invece il fatto che, pur sublimando il
contenuto dei primi due commi dell’art. 37-bis cit.
a clausola generale antielusiva, di fatto attraverso
tale rilevabilità d’ufficio anche in Cassazione, sono stati tralasciati anche tutti gli aspetti procedurali previsti dalla norma stessa.
Ci si riferisce soprattutto alla previsione di cui al
quarto comma e seguenti dell’art. 37-bis, cit. sulla
necessità di instaurare, a pena di nullità, un contraddittorio preventivo tra l’Amministrazione ed il contribuente sul quale dovrà successivamente essere formato l’avviso di accertamento, necessità di preventivo contraddittorio previsto a pena di nullità dalla
norma antielusiva (art. 37-bis, quarto comma) che
mai si concilia con la riscontrata rilevabilità d’ufficio
dell’abuso del diritto, anche per la prima volta in
Cassazione: altro che «preventivo contraddittorio»!
La necessità del contraddittorio è quanto mai evidente quando l’Amministrazione contesti il carattere elusivo di un’operazione in quanto tale tipo di
accertamento ha un carattere estremamente fattuale, rivolto all’analisi delle concatenazioni negoziali realizzate; in tale fase pre-contenziosa, è necessario che il contribuente sia messo in grado di
smontare la ricostruzione elusiva subita, fornendo
quelle giustificazioni economiche che stanno alla
base delle operazioni compiute.
La sentenza della Corte di cassazione
21 gennaio 2009, n. 1465
ed il ruolo delle valide ragioni economiche
Immediatamente successiva alle sentenze delle Sezioni Unite sopra esaminate, si colloca la sentenza
della Suprema Corte n. 1465/2009 alla quale in
questa sede si fa riferimento, non tanto perché (alla
stregua, d’altronde, di quello che si è visto per le
Sezioni Unite) viene fatta stricto sensu applicazione
dell’abuso del diritto, quanto perché in essa si ribadisce come la razionalità economica dell’operazione compiuta deve consentire all’operatore economico di difendersi dalla loro riqualificazione e dal disconoscimento delle relative componenti reddituali
effettuato dall’Amministrazione finanziaria.
Invero, la sentenza che si commenta di per sé non
involge problematiche di diritto particolarmente
Giurisprudenza
complesse (in quanto queste attengono alla mera
contestazione della deducibilità di quote di ammortamento, interessi ed oneri finanziari nell’ambito di una complessa operazione aziendale); tuttavia essa si segnala per i riferimenti che essa assume in relazione alla qualificazione della «antieconomicità/abusività» dell’operazione contestata.
Più in particolare, il caso esaminato dalla Corte di
cassazione riguardava una joint-venture creata tra le
società P. e D.M. Company finalizzata alla produzione e distribuzione di minivan mediante lo sfruttamento della licenza concessa dalla casa giapponese e la costituzione di una società ad hoc (l’accertata P&D) partecipata da entrambe le società.
Attraverso la costituzione di un soggetto «ad arte»,
le due società miravano a ridurre i costi che ciascuna società avrebbe autonomamente sopportato se,
invece, avessero contribuito alla produzione in modo autonomo; come ricorda la Suprema Corte, «la
joint-venture realizzata con la costituzione di P&D
metteva perciò insieme tali risorse possedute separatamente da ciascun partner, facendo in modo che
entrambi potessero condividerle», con la conseguenza che le due società sarebbero riuscite a piazzare sul mercato un prodotto a prezzi vantaggiosi
in quanto questi non sarebbero stati gravati dei costi di produzione (ammortizzati dalla P&D).
La P&D, infatti, aveva acquistato dalla D. la licenza esclusiva ed il relativo know how per la produzione dei veicoli compensandone lo sfruttamento
mediante la corresponsione di royalties, per poi
cedere in comodato gratuito alla P. i macchinari e
le attrezzature acquistati, affinché quest’ultima
realizzasse con le proprie catene di montaggio il
lavoro materiale, divenendo sub licenziataria del
know how concesso dalla D. alla P&D.
In tal modo, mentre P&D si deduceva i costi pluriennali di ammortamento, gli interessi passivi e
gli oneri finanziari, P. rivendeva i veicoli che aveva prodotto a P&D ad un prezzo non inciso dai costi (che erano rimasti a carico della comodante
P&D); P&D, a sua volta, apposti i marchi ed ultimate le operazioni di assemblaggio, li rivendeva
ulteriormente ai soci P. e D., i quali tramite i propri concessionari li avviavano alla distribuzione
sui rispettivi mercati di destinazione finale con
prezzi evidentemente particolarmente competitivi.
L’Amministrazione finanziaria, tuttavia, pretendeva disconoscere i costi che la P&D si era dedotti in
quanto non li riteneva «inerenti»; a suo dire, la soGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
239
Giurisprudenza
SS.UU.
cietà si era spogliata del proprio complesso produttivo a favore della P., la quale era invece la vera artefice della attività produttiva e l’unica deputata a
dedursi legittimamente i costi. P&D risultava essere, nell’opinione dell’Amministrazione, solo un
centro di imputazione di costi non correlabili con
l’attività di fatto svolta dall’altra società del gruppo: i ripetuti passaggi di proprietà del prodotto lavorato dalla P. alla P&D e da quest’ultima di nuovo
alla P. manifestavano lo scarso collegamento tra la
P&D e l’attività di produzione del minivan.
Da questa rapida ricostruzione si può ricavare come
l’oggetto della controversia vertesse sulla qualificazione in termini di inerenza dei costi sopportati dalla
P&D; pregiudiziale alla risoluzione del quesito diveniva quindi la comprensione dell’attività svolta dalla
P&D nell’ambito della più ampia joint-venture.
L’Ufficio non riteneva detti costi inerenti in quanto non riusciva a comprendere l’esatto significato
dell’attività svolta dalla P&D e quale fosse l’«utile» ritraibile da tale attività. Ciò in quanto l’Ufficio qualificava come «attività produttiva» solamente quella più appariscente, ossia la produzione
materiale dei minivan svolta dalla P.: ecco perché
l’Ufficio riteneva che i costi dedotti da P&D andassero in realtà riferiti alla P.
Con questa sentenza, la Corte di cassazione dimostra
di avere ben presente che per poter definire un costo
«inerente», questo deve essere «funzionalmente correlato» all’attività d’impresa in generale piuttosto
che solamente a sue specifiche componenti reddituali; ed infatti ritiene che «l’inerenza va interpretata
(…) come una relazione tra due concetti - la spesa e
l’impresa - che implica, un accostamento concettuale
tra due circostanze con la conseguenza che il costo
assume rilevanza ai fini della quantificazione della
base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito
bensì in virtù della sua correlazione con una attività
“potenzialmente” idonea a produrre utili».
In questo quadro diventava allora indispensabile
capire quale fosse stato lo scopo perseguito dalla
società accertata al momento della realizzazione
del costo, ossia, in altri termini, capire quali fossero state le «valide ragioni economiche» che avevano giustificano l’intera operazione.
Ma nell’ambito di una complessa realtà aziendale
le valutazioni devono essere fatte ad ampio spettro, non considerando i singoli soggetti facenti
parte del gruppo come individui isolati con una
240
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
propria autonoma attività produttiva avulsa dal
contesto in cui sono collocate.
Ecco perché la motivazione della Cassazione va
condivisa: i supremi giudici valutano infatti l’intera fattispecie negoziale in termini estremamente
pragmatici, dando atto dell’evolversi e delle realtà
commerciali e della necessità di creare sinergie fra
soggetti economici diversi in modo tale da mettere
in comune conoscenze e mezzi al fine di massimizzare i profitti riducendo i costi.
In tale valutazione i supremi giudici rifuggono da
una analisi meramente «monistica» delle specifiche
attività svolte dalle singole società facenti parte della
joint-venture, ma indagano e comprendono il quadro
complessivo dell’operazione ed il perché le singole
fasi produttive siano state scomposte ed «esternalizzate» fra più soggetti: ne consegue la legittimità della
deduzione dei costi in quanto questi erano pacificamente inerenti, ossia funzionali alla realizzazione di
ricavi di cui la P&D era un artefice mediato.
Infatti, secondo la Cassazione, «una attività d’impresa può essere svolta anche attraverso un procedimento complesso caratterizzato dalla esternalizzazione di
fasi più o meno ampie di produzione, dove un soggetto conserva la proprietà ed il controllo dei mezzi
di produzione affidati a terzi per costruire e fornire i
beni richiesti che cedono così le proprie utilità all’impresa proprietaria e non a quella utilizzatrice.
Con la conseguenza che i relativi costi possono essere ammessi al processo di ammortamento in capo al soggetto proprietario concorrendo alla realizzazione del suo programma economico nella misura in cui consentono - per tornare al caso di specie
- alla comodante di acquistare i veicoli realizzati
dalla comodataria ad un prezzo «minore» di quello
che quest’ultima applicherebbe se dovesse affrontare (e caricare sui detti veicoli) gli oneri relativi
all’acquisto ed all’ammortamento delle attrezzature specifiche occorrenti per quella produzione.
È questa l’utilità ritratta dall’impresa comodante e
dunque i costi e gli oneri dei beni concessi in comodato a quel precipuo scopo non v’è motivo di
considerarli estranei alla sua attività, specie in
mancanza di una contrapposta ed autonoma iniziativa imprenditoriale della fabbricante, che - quale
comodataria - agiva esclusivamente per conto della prima nella realizzazione del minivan da vendersi sul mercato europeo, costituente la ragione
principale della costituzione della joint venture».
Pertanto, ritengono i Supremi giudici che la conte-
SS.UU.
stazione mossa dall’Amministrazione finanziaria
alla P&D «non regge a fronte delle plausibili spiegazioni fornite dalla società contribuente mediante
una valutazione complessiva delle operazioni inquadrate nel loro generale contesto negoziale dove
l’apparente anomalia di una tessera analizzata indipendentemente dal mosaico d’insieme di quegli
accordi viene a perdere pertinenza nell’ambito di
un modello industriale essenzialmente proiettato a
perseguire obbiettivi concorrenziali: modello dove
gli usuali criteri di remuneratività del prezzo e di
correlazione costi-ricavi potrebbero risultare sfalsati ove non analizzati in un ottica evolutiva globale fondata su strategie imprenditoriali non necessariamente orientate a fini elusivi quando da
esse conseguano legittimi risparmi di imposta».
Salutando con favore la sentenza in commento,
occorre tuttavia rilevare come non si comprenda
appieno il perché i supremi giudici abbiano voluto
impostare la motivazione (anche, se non soprattutto) sul piano dell’elusione e dell’abuso del diritto:
invero, la vicenda atteneva ad un mero problema
di inerenza e su questo terreno è stata bene risolta
nei termini sopra evidenziati.
Tuttavia, la Corte di cassazione ritiene che la valutazione di inerenza di un componente negativo non
possa essere avulsa da una valutazione della complessiva «abusività dell’intera operazione», e partendo da questo presupposto enuncia alcuni principi in linea di massima assolutamente condivisibili
(ma forse eccessivi e non necessari per la risoluzione del caso concreto) tenendo conto che anche
la stessa Amministrazione finanziaria non aveva
impostato la propria contestazione sul carattere
elusivo della complessiva operazione.
Ciò nonostante, ben venga comunque il principio
secondo cui «una operazione economica, oltre allo
scopo di ottenere vantaggi fiscali, può perseguire
diversi obbiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile ed integra gli estremi del comportamento abusivo qualora e nella misura in cui tale
scopo si ponga come elemento predominante ed
assorbente della transazione tenuto conto sia della
volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico in cui la transazione stessa viene
posta in essere, con la conseguenza che il divieto
di comportamenti abusivi non vale più ove quelle
operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il
mero conseguimento di risparmi di imposta».
E ben vengano anche le affermazioni per le quali «è
Giurisprudenza
onere dell’Amministrazione finanziaria - non solo prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche ma - anche - le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di
mercato se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale così come incombe al contribuente allegare la esistenza di ragioni economiche alternative
o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate», e secondo cui «nell’impianto organizzativo di una corporated joint venture, gli
investimenti effettuati da società all’uopo costituita
per l’acquisto di attrezzature specifiche e linee di
produzione concesse in comodato gratuito a terzi per
la realizzazione di veicoli poi acquisiti dalla comodante ad un minor prezzo per non essere dalla comodatario inglobati i costi e gli oneri finanziari in quanto sostenuti e dedotti dalla prima, non costituisce secondo un generale sindacato antiabuso che compete d’ufficio anche alla materia dell’imposizione diretta - operazione elusiva pur derivandone un risparmio di imposta in quanto ragionevolmente spiegabile con l’obbiettivo del gruppo di assicurarsi - pervenendo ad un prezzo di rivendita più basso - vantaggiose posizioni commerciali di competitività sui
mercati cui quei veicoli sono destinati».
I principi testé riportati, condivisibili in linea di
massima (ma non strettamente necessari per la definizione del caso di specie) dimostrano come i
giudici, per la risoluzione delle fattispecie portate
alla loro attenzione, prediligano ormai un particolare punto di osservazione, che è quello della necessaria presenza di una «valida motivazione economica» che giustifichi l’operazione compiuta, in
quanto laddove tali ragioni mancano, sorge nell’organo giudicante il sospetto che la concatenazione negoziale nasconda qualcos’altro rispetto a
quanto dichiarato e sia stata strumentale alla fruizione indebita di un vantaggio fiscale.
In conclusione, non essendo questa la sede per approfondire il variegato e complesso tema delle
contestazioni fondate sull’antieconomicità dell’agire imprenditoriale, si ritiene che oggigiorno l’operatore economico riesca a trovare un più sicuro
riparo da contestazioni fondate sul carattere abusivo, elusivo od antieconomico del proprio agire,
laddove sia in grado di «blindare» il complesso di
atti negoziali in cui si estrinseca la propria attività
dietro solide motivazioni di carattere economico
(cd. “business purpose”).
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
241
Giurisprudenza
Legittimità
Reati tributari
Le presunzioni tributarie
non hanno valore di piena prova
nel processo penale
Cassazione, Sez. III pen., Sent. 6 febbraio 2009 (26 novembre 2008), n. 5490 - Pres.
Altieri - Rel. Lombardi
I. Reati tributari - Omessa dichiarazione - Prova del superamento della soglia di punibilità - Ricorso a presunzioni tributarie - Inammissibilità
La presunzione legale di cui all’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600 di corrispondenza delle partite attive, risultanti dai rapporti tra il contribuente sottoposto a verifica e gli istituti di credito, con i ricavi dell’attività di impresa o professionale, in
assenza della dimostrazione che le stesse non hanno rilevanza ai fini della determinazione
del reddito soggetto ad imposta, non opera in sede penale, sicché il giudice di merito deve
motivare in ordine alle ragioni per le quali i dati della verifica fiscale sono stati considerati
attendibili.
II. Reati tributari - Omessa dichiarazione - Determinazione dell’imposta evasa - Computo dei costi detraibili - Accertamenti d’ufficio da parte del giudice - Necessità
Ai fini della determinazione del reddito imponibile il giudice di merito deve in ogni caso tenere conto dei costi di esercizio fiscalmente detraibili sostenuti dall’azienda. In sede penale
il giudice non può applicare le presunzioni legali o i criteri di valutazione validi in sede tributaria, limitandosi a porre l’onere probatorio in ordine all’esistenza di costi deducibili a
carico dell’imputato, ma deve procedere d’ufficio agli accertamenti del caso, eventualmente
mediante il ricorso a presunzioni di fatto.
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di
Milano ha confermato la pronuncia di colpevolezza di C. in ordine al reato di cui all’art. 5 del
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ascrittogli perché,
quale legale rappresentante della ditta «I.C. di
C.M. e S.M. s.n.c.», al fine di evadere l’imposta
sui redditi, ometteva di presentare la dichiarazione
relativa a detta imposta per l’anno 2000, pur essendovi obbligato per avere conseguito ricavi per
un ammontare pari ad euro 347.793,00, con la
conseguente evasione dell’imposta sui redditi per
l’importo di euro 138.376,17.
242
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Dagli accertamenti della Guardia di finanza era
emerso che la società, della quale era responsabile
legale il C., non aveva mai istituito le scritture
contabili, né aveva mai presentato la dichiarazione
dei redditi ovvero la dichiarazione IVA, pur essendo titolare di due conti correnti bancari sui quali
erano stati eseguiti versamenti per il complessivo
importo costituente i ricavi per l’anno di imposta
di cui alla contestazione.
La sentenza impugnata ha rigettato i motivi di gravame con i quali l’appellante aveva dedotto che il
calcolo dei ricavi doveva essere effettuato, detraendo dall’importo di euro 347.793,00, quello
Legittimità
erogato per gli acquisti pari ad euro 303.853,00,
con la conseguenza che l’utile effettivamente conseguito nell’anno 2000 ammontava ad euro
44.120,00; che, inoltre, egli aveva omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, poiché il suo
socio S. si era affidato ad uno studio di commercialista ed egli aveva ritenuto di poter vantare nei
confronti del Fisco un credito IVA, sicché nella
specie doveva ritenersi inesistente l’elemento del
dolo richiesto per la sussistenza del reato.
Sul primo punto, in particolare, la sentenza ha osservato che vi è carenza di prove in ordine alla destinazione dei prelievi effettuati dal conto corrente
della società all’acquisto di materie prime necessarie per il funzionamento della azienda e, quindi,
della esistenza di importi fiscalmente detraibili.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, che la denuncia per violazione di
legge e vizi della motivazione.
Motivi della decisione
Con un unico, articolato, mezzo di annullamento il
ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, nonché
dell’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600,
omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia ed indebita inversione dell’onere della prova in ordine alla esistenza
degli elementi oggettivo e soggettivo del reato.
In sintesi, si deduce che in ordine all’accertamento
dell’elemento oggettivo del reato i giudici di merito hanno fatto propria la presunzione di cui all’art.
32 del D.P.R. n. 600/1973, secondo la quale tutti
gli accrediti registrati sul conto corrente possono
essere considerati ricavi dell’azienda; che, però, la
norma citata regola i poteri ed i criteri di accertamento degli elementi attivi di reddito da parte degli Uffici finanziari, attribuendo a detti Uffici poteri discrezionali nella valutazione delle giustificazioni e della documentazione fornita dal contribuente; che le risultanze di detta valutazione non
sono affatto intangibili e, in ogni caso, non possono costituire lo strumento per l’accertamento dell’ammontare della evasione fiscale penalmente rilevante.
Sul punto si osserva che la stessa Guardia di finanza aveva avvertito i giudici di merito che le proprie valutazioni discrezionali erano soggette a mutamento nel tempo; che da una attenta lettura degli
accrediti sul conto corrente si sarebbe potuto rile-
Giurisprudenza
vare che molti di essi erano costituiti da titoli versati salvo buon fine e, infatti, ad essi corrispondevano undici addebiti per un totale di lire
83.321.860 con la causale «storno per effetti insoluti e protestati»; che, inoltre, in relazione a numerosi prelevamenti, risultava indicato il beneficiario
e la causale del pagamento, mentre la Guardia di
finanza ha costantemente affermato che la parte
non era stata in grado di indicare i beneficiari dei
pagamenti effettuati.
Sul punto si osserva conclusivamente che i giudici
di merito si sono limitati a recepire acriticamente
un risultato algebrico, intrinsecamente contraddittorio, senza sottoporlo ad adeguato vaglio critico.
Si aggiunge che il C. aveva consegnato alla Guardia di finanza fatture che non sono state prodotte
dalla Pubblica accusa e delle quali la stessa Pubblica accusa avrebbe dovuto dimostrare la irrilevanza.
Nel prosieguo del ricorso si deduce che vi è carenza di prove in ordine alla sussistenza della evasione tributaria ed all’ammontare dell’imposta ipoteticamente evasa.
Si osserva in proposito che le lavorazioni artigianali del tipo di quella esercitata dalla ditta C. necessitano di materie prime, il cui acquisto incide
per il 50% sui ricavi con una redditività media del
30%; che inoltre tali aziende vantano abitualmente
un credito IVA a causa della diversità di aliquota
cui sono assoggettati i materiali acquistati ed il
prodotto realizzato, sicché nella specie doveva ritenersi probabile che l’imputato nulla dovesse allo
Stato a titolo di imposta sui redditi; che la sentenza impugnata ha determinato l’ammontare dell’imposta sulla base della carenza di riscontri documentali, operando una sostanziale inversione dell’onere della prova.
Si osserva, poi, con riferimento all’elemento psicologico del reato, che la sentenza impugnata ha
effettuato un’oggettivazione del dolo specifico richiesto dalla fattispecie criminosa, collegandolo
al mero accertamento della inesistenza di un credito di imposta da parte dell’imputato, mentre non
si è contestato l’assunto che questi fosse convinto
di vantare un credito IVA; che inoltre si è attribuita all’imputato la responsabilità di non avere sorvegliato l’operato dei soggetti ai quali si era affidato per le questioni fiscali, confondendo il dolo
specifico richiesto dal reato, che esclude anche la
punibilità di condotte sostenute dal dolo meraGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
243
Giurisprudenza
Legittimità
mente eventuale, con una ipotesi di culpa in vigilando.
Si osserva, infine, che la norma incriminatrice è
entrata in vigore il 25 marzo 2000 e che parte della condotta ascritta all’imputato risale ai primi mesi di quell’anno, sicché il C. è stato condannato
per una condotta in parte risalente ad epoca in cui
non era vigente la sanzione penale.
Con memoria difensiva il ricorrente ha ribadito le
precedenti censure con le quali erano stati dedotti
vizi logici della motivazione della sentenza, con
particolare riferimento all’errata identificazione da
parte dei giudici di merito dell’imponibile con i ricavi di impresa, senza tener conto dei costi di
esercizio.
Il ricorso è fondato nei limiti che di seguito vengono precisati.
Preliminarmente, per il carattere pregiudiziale della relativa questione, osserva la Corte che i rilievi
del ricorrente in ordine alla erronea applicazione
da parte dei giudici di merito delle disposizioni in
materia di successione delle leggi nel tempo sono
manifestamente infondati.
La fattispecie criminosa, in cui va inquadrata la
condotta dell’imputato, è quella prevista dalla legge (D.Lgs. n. 74/2000) vigente all’epoca in cui
scadeva il termine per la presentazione della dichiarazione (anno 2001) e non certamente quella
vigente all’epoca di percezione, peraltro solo parziale, dei redditi da dichiarare.
Sono altresì, infondate le censure afferenti a vizi
di motivazione della impugnata sentenza in ordine
alla esistenza dell’elemento psicologico del reato.
Nella pronuncia di primo grado, che, per l’uniformità della decisione integra quella di appello, si è
puntualmente rilevato, quale elemento di riscontro
in ordine all’esistenza del dolo specifico, che lo
stesso imputato aveva dichiarato di avere omesso,
su consiglio di terzi, non indicati, di chiedere i
rimborsi IVA e, quindi, di effettuare la corrispondente dichiarazione, presupposto necessario perché sorga il diritto al rimborso, «perché questo
avrebbe determinato controlli».
Sicché l’accertamento della esistenza del dolo specifico richiesto dalla fattispecie criminosa è stata
fondata dal giudice di primo grado su una motivazione assolutamente esaustiva ed immune da vizi
logici «attesa l’intenzione (dell’imputato) di omettere la dichiarazione dei redditi a fini di evasione
di imposta».
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GT
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È, invece, fondata la censura del ricorrente in ordine alla determinazione da parte dei giudici di merito dell’ammontare dell’imposta evasa.
Va in primo luogo precisato in punto di diritto che
l’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. n.
600/1973 contiene una presunzione legale di corrispondenza delle partite attive, risultanti dai rapporti del contribuente sottoposto a verifica con gli
istituti di credito, con i ricavi dell’attività di impresa o professionale, in assenza della dimostrazione che le stesse «non hanno rilevanza» ai fini
della determinazione del reddito soggetto ad imposta.
Detta presunzione, tuttavia, non opera in sede penale, sicché il giudice di merito deve motivare in
ordine alle ragioni per le quali i dati della verifica
effettuata in sede fiscale sono stati ritenuti attendibili.
È stato infatti affermato, sul punto, da una recente
pronuncia di questa Suprema Corte che «ai fini
dell’individuazione del superamento o meno della
soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Lgs. n.
74/2000, spetta esclusivamente al giudice penale il
compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi
o anche ad entrare in contraddizione con quella
eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario.» (Sez. III, 26 febbraio 2008, n. 21213, «De
Cicco»).
Con la stessa pronuncia è stato inoltre precisato
che, ai fini dell’accertamento in sede penale, deve
darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai
criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario (sent. cit.).
Va inoltre osservato che, ai fini della determinazione del reddito imponibile, i giudici di merito
dovevano, in ogni caso, tener conto dei costi d’esercizio fiscalmente detraibili sostenuti dalla
azienda.
In sede penale, peraltro, il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria, limitandosi a porre l’onere probatorio in
ordine alla esistenza di costi deducibili a carico
dell’imputato.
Deve, invece, procedere di ufficio agli accertamenti del caso, eventualmente mediante il ricorso
a presunzioni di fatto.
La sentenza impugnata deve essere, pertanto, an-
Legittimità
nullata con rinvio per una valutazione di merito
che tenga conto degli enunciati principi di diritto
ai fini dell’accertamento dell’ammontare dell’imposta evasa e, quindi, del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Lgs. n.
74/2000.
Giurisprudenza
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.
L’onere probatorio sull’ammontare
dell’imposta evasa
di Filippo Fontana
Il giudice penale deve basare la propria decisione prevalentemente su riscontri di natura
fattuale. Le presunzioni tributarie non hanno
valore di piena prova nel processo penale, potendo solo rappresentare un dato processuale
indiziario, da valutare insieme ad altre e distinte risultanze probatorie, secondo il principio
del libero convincimento del giudice, previsto
dall’art. 192 c.p.p.
Qualora, né l’imputato, né il P.M. abbiano fornito una chiara prova sull’ammontare dei costi
detraibili, è obbligo del magistrato giudicante,
anche attraverso i propri poteri d’ufficio, accertare se esistano costi detraibili, la cui consistenza, impedendo di raggiungere la soglia di
punibilità, elimini la rilevanza penale del fatto.
Il procedimento penale e il procedimento tributario, anche quando hanno ad oggetto i medesimi
fatti, si sviluppano su piani rigorosamente separati
secondo un principio di autonomia reciproca, sancito, anche a livello positivo, dall’art. 20 del
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (1).
Tale autonomia si traduce, tra l’altro, nella previsione in ciascuno dei due procedimenti di distinte
discipline in tema di prova. Anche questo principio trova un’espressa affermazione anzitutto nell’art. 193 c.p.p., che prevede che nel processo penale non si osservano i limiti di prova stabiliti
dalle leggi civili. L’accertamento di fatti aventi
rilevanza penale, dunque, risponde alle specifiche regole probatorie previste dall’ordinamento
penale, in osservanza delle garanzie costituzionali e, in particolare, del principio stabilito dall’art.
27 Cost., secondo cui si presume la non colpevolezza dell’imputato fino alla piena prova contraria, che va tassativamente fornita dalla pubblica
accusa.
La conseguenza di tale principio, negli ambiti in
cui il procedimento penale e quello tributario si
trovano a sovrapporsi, è che i limiti e i divieti probatori previsti e ammessi nel procedimento tributario - e cioè il divieto di testimonianza nel procedimento tributario e le presunzioni tributarie - non
possono trovare spazio nel procedimento penale.
La valenza probatoria
delle presunzioni tributarie
nel processo penale
La sentenza in commento ha affrontato, appunto,
in questi termini il problema della valenza probatoria delle presunzioni tributarie in ambito penale,
per quanto riguarda, in particolare, la prova dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità
prevista dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, secondo
cui la condotta di omessa dichiarazione costituisce
reato se l’imposta evasa è superiore a lire centocinquanta milioni.
Filippo Fontana - Avvocato in Milano
Nota:
(1) Recita l’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000: il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono
essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente
ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
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Giurisprudenza
Legittimità
A questo proposito occorre fare una riflessione
preliminare.
La determinazione dell’ammontare dell’imposta
evasa nel sistema normativo delineato dal D.Lgs.
n. 74/2000, la descrizione delle modalità in cui tale ammontare deve essere accertato, nonché l’individuazione del soggetto cui l’onere probatorio sul
punto viene attribuito, costituiscono temi nevralgici per l’applicazione della normativa penale-tributaria.
I reati contemplati nel sistema penale-tributario
delineato dal D.Lgs. n. 74/2000, ad eccezione di
quello di emissione di false fatture, di cui all’art. 8
del D.Lgs. n. 74/2000 (2), infatti, non prevedono
più condotte di mero pericolo, ma puniscono comportamenti, che determinano un’effettiva e concreta evasione fiscale. In tale contesto è evidente che
l’accertamento dell’ammontare dell’imposta evasa
assume valore decisivo, soprattutto se si considera
che quasi tutti i reati dichiarativi prevedono soglie
quantitative di punibilità, ancorate appunto all’ammontare dell’imposta evasa, mentre, nel caso del
reato di dichiarazione fraudolenta, il contenimento
dell’ammontare dell’imposta evasa entro il valore
quantitativo di lire trecento milioni determina
l’applicazione di una specifica attenuante.
Il superamento (o il non superamento) di tali soglie, pertanto, per alcune fattispecie di reato costituisce il discrimine tra comportamenti punibili e
condotte non penalmente rilevanti, e, nel caso del
reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2
del D.Lgs. n. 74/2000, determina un significativo
contenimento del trattamento sanzionatorio.
La peculiare rilevanza delle soglie di punibilità all’interno della struttura dei reati tributari, previsti
dal D.Lgs. n. 74/2000, ne attesta, dunque, la qualificazione di elemento costitutivo del reato, escludendo, invece, quella di condizione obiettiva di
punibilità (3).
Le conseguenze di tale qualificazione sono duplici.
In primo luogo il dolo specifico del fine di evadere
il Fisco richiesto dalle fattispecie penali descritte
dal D.Lgs. n. 74/2000 dovrà investire anche il superamento della soglia di punibilità: per pervenire
alla punibilità dell’agente, sarà, dunque, necessario che sia offerta la prova che l’entità della evasione di imposta determinata dalla commissione
del reato sia stata voluta e preveduta per un ammontare penalmente rilevante, indicato espressa-
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GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
mente in ciascuna delle fattispecie delittuose, di
cui agli artt. 3, 4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000 (4).
In secondo luogo - ed è su questo tema che si appunta la decisione della S.C. - la prova del superamento delle soglie di punibilità deve essere piena,
certa e rigorosa e non può evidentemente essere
ancorata a presunzioni legali, valide solo nell’ambito tributario.
La sentenza in commento ha affermato tale ultimo
principio, con particolare riferimento alla presunzione tributaria prevista dall’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui gli accrediti registrati sul conto corrente
aziendale corrispondono ai ricavi dell’attività di
impresa, a meno che il contribuente non dimostri
che tali somme non rilevano ai fini della determinazione del reddito imponibile.
La S.C., infatti, ha ribadito che la presunzione sopra citata non può operare in ambito penale quale
prova per l’accertamento del reato di cui all’art. 5
del D.Lgs. n. 74/2000 e, in particolare, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa dal contribuente.
La reciproca autonomia tra i due procedimenti e la
non trasmigrabilità delle regole probatorie valide
nel procedimento tributario in ambito penale, cui
sopra si è fatto riferimento, rendono la conclusione,
cui la S.C. è pervenuta, certamente condivisibile.
Il giudice penale, infatti, non può affidare la propria valutazione esclusivamente a criteri di carattere formale, quali sono le presunzioni, ma deve
dare prevalenza al dato probatorio fattuale, che
può integrare, sovrapporsi o superare il contenuto
meramente indiziario e quindi di per sé insufficiente delle presunzioni.
La presunzione tributaria costituisce un elemento di
natura indiziaria, che può avere valenza probatoria,
purché non sia assunto con l’efficacia di certezza
legale ma come dato processuale, che il giudice deve valutare insieme ad altre e distinte risultanze
probatorie, secondo il principio del libero convincimento del giudice, previsto dall’art. 192 c.p.p. (5).
Note:
(2) Traversi - Gennai, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000, pag. 252.
(3) Per tutti, Musco (cur.), Diritto penale tributario, Milano, 2002,
pag. 160.
(4) Musco, op. loc. cit., pag. 141.
(5) In dottrina cfr. Traversi - Gennai, op. loc. cit., pag. 353; in giurisprudenza cfr. Cass., Sez. III, 12 ottobre 1999, Ghelli, in il fisco,
2000, pag. 479.
Legittimità
Giurisprudenza
Ammontare dell’imposta evasa
e contenuto dell’onere probatorio
Ma qual è, in concreto, il contenuto dell’onere
probatorio relativo al superamento della soglia di
punibilità? In che termini, cioè, deve avvenire
l’accertamento dell’imposta evasa?
La risposta a tale interrogativo è anzitutto suggerita dalla nozione stessa di imposta evasa, fornita
dalla definizione di cui all’art. 1, lett. f), del
D.Lgs. n. 74/2000, che la individua nella differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione ovvero nell’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione.
È evidente che il riferimento della nozione di imposta evasa al concetto di imposta effettivamente
dovuta implichi la necessità per il giudice penale
di ricostruire analiticamente la posizione fiscale
del contribuente, individuando anzitutto il suo reddito imponibile, sia mediante la determinazione
degli elementi attivi del reddito, sia mediante la
sottrazione di costi fiscalmente detraibili. Tale
operazione si presenta inevitabilmente complessa,
dal momento che, quale presupposto per il giudizio penale, impone l’applicazione di norme tributarie, in relazione appunto all’individuazione delle
componenti di reddito, degli elementi passivi detraibili e delle aliquote applicabili (6).
Non solo. È comunemente riconosciuto dalla dottrina che, ai fini della determinazione dell’imposta
dovuta, si debba tenere conto anche dei costi neri,
ossia dei costi effettivamente sostenuti dal contribuente ma non indicati in dichiarazione, né regolarmente contabilizzati (7).
Tale ricostruzione, pertanto, che come si è visto
non può essere agevolata dal ricorso a presunzioni
tributarie, se non a livello puramente indiziario,
rende inevitabile nella maggior parte dei casi il ricorso nel processo penale all’ausilio di consulenti
tecnici, dal momento che la determinazione dell’imposta evasa, pur essendo elemento costitutivo
del reato, richiede una specifica conoscenza della
disciplina tributaria, che può non appartenere alle
competenze del giudice penale.
Come si è sopra accennato, nel processo penale
l’onere della prova grava sul P.M.
Il principio sancito dall’art. 27 Cost., infatti, nonché l’assetto sistematico della disciplina sulla prova contenuta nel codice di procedura penale - secondo cui ai sensi dell’art. 530, secondo comma,
c.p.p. l’insufficienza della prova d’accusa determina l’assoluzione dell’imputato, e ai sensi dell’art.
533, primo comma, c.p.p. la prova della colpevolezza deve essere fornita oltre ogni ragionevole
dubbio - va letto nel senso che spetta al P.M. la ricerca e la presentazione al giudice delle prove a
carico dell’imputato (8).
In termini pratici, per quanto riguarda l’ipotesi di
reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, spetterà al P.M., sia dimostrare che l’imputato esercita
un’attività che lo espone all’obbligo di presentare
dichiarazioni fiscali rilevanti ai sensi del medesimo art. 5, sia determinare l’ammontare del reddito
imponibile, mediante l’applicazione della normativa tributaria, e di conseguenza, l’ammontare dell’imposta evasa, anche attraverso la detrazione degli elementi passivi dalle componenti attive di reddito.
Si deve, d’altra parte, rilevare che l’indicazione di
costi detraibili è un elemento la cui dimostrazione
può comportare una pronuncia assolutoria in favore dell’imputato, ove questi dimostri che l’imposta
evasa ha un ammontare inferiore a quello stabilito
dalla soglia di punibilità.
Ora, è da escludersi che su tali elementi possa sussistere un onere probatorio a carico dell’imputato,
dal momento che spetta semmai al P.M. la dimostrazione che i costi detraibili non sono sufficienti
a evitare il superamento delle soglie di punibilità.
È vero, tuttavia, che anche l’imputato è titolare di
un potere-dovere di dimostrare l’esistenza di situazioni, la cui deduzione possa comportare una pronuncia assolutoria. In questi casi, che di norma riguardano la possibile ricorrenza di circostanze che
escludono o attenuano la pena, si è correttamente
sostenuto che quello che incombe sull’imputato è
un onere di allegazione: il soggetto, cioè, che de-
Ammontare dell’imposta evasa
e attribuzione dell’onere probatorio
Se, dunque, la prova del superamento delle soglie
di punibilità deve essere offerta nei termini sopra
descritti, resta da definire quale sia il soggetto su
cui grava tale onere probatorio.
Note:
(6) Cfr. al riguardo Traversi - Gennai, op. loc. cit., pag. 131.
(7) Sul punto v. Di Amato - Pisano, I reati tributari, Padova, 2002,
pag. 143.
(8) A questo proposito v. diffusamente Corso, «La trasmigrazione
delle regole probatorie non è consentita», in C.T. n. 10/2009, pag.
744.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
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Giurisprudenza
Legittimità
duca una determinata situazione di fatto a sostegno dell’operatività di un esimente, ha l’onere di
allegare gli elementi di indagine per porre il giudice nella condizione di accertare la sussistenza, o
quanto meno la probabilità della sussistenza, di tale esimente (9).
In ambito tributario, dunque, l’individuazione dei
costi da portare in detrazione all’ammontare del
reddito imponibile, ai fini della dimostrazione che
la soglia di punibilità non è stata superata, deve
essere fornita dall’imputato. Tale allegazione, del
resto, soprattutto nel caso in cui i costi detraibili
derivino da elementi passivi non inseriti nelle
scritture contabili - cd. costi neri - che, come si è
visto, sono rilevanti ai fini della determinazione
dell’ammontare dell’imposta evasa, non può che
essere fornita dall’imputato.
Tale ripartizione dell’onere probatorio era stata in
precedenza espressamente affermata dalla stessa
S.C., secondo la quale l’onere della prova dei costi
effettivamente sostenuti, se non registrati, è a carico del contribuente che ne afferma l’esistenza e la
consistenza (10).
Orbene, la sentenza in commento sembra spingersi
ancora più avanti nel liberare l’imputato dall’onere in ordine alla dimostrazione del superamento
della soglia di punibilità, basata sull’ammontare
dell’imposta evasa.
Secondo la S.C., infatti, posto che in ambito penalistico non è ammesso il ricorso alle presunzioni
legali, non è possibile nemmeno porre alcun tipo
di onere probatorio in ordine all’esistenza di costi
deducibili a carico dell’imputato. Spetta, invece,
al giudice, anche disponendo accertamenti d’ufficio, procedere alle verifiche del caso, pure mediante il ricorso a presunzioni di fatto.
Tale rilievo sembra spostare, almeno in parte, la
prospettiva della questione.
L’esclusione dell’onere dell’imputato di provare
l’ammontare dei costi deducibili segnala che tale
quantificazione rappresenta un elemento dell’accusa. L’omessa o l’incompleta dimostrazione di tale elemento, dal momento che può determinare la
colpevolezza dell’imputato (che sia incapace di dimostrare, mediante l’indicazione dei costi detraibili, il mancato superamento delle soglie di punibilità), non può danneggiare l’imputato. Qualora,
dunque, neppure il P.M. abbia fornito una chiara
prova sull’ammontare dei costi detraibili, sarà preciso obbligo del magistrato giudicante, anche at-
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Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
traverso i propri poteri d’ufficio, accertare se esistano costi detraibili, la cui consistenza, impedendo di raggiungere la soglia di punibilità, elimini la
rilevanza penale del fatto.
In altri termini, il giudice penale ha il dovere di
colmare le eventuali lacune probatorie relative all’ammontare dei costi deducibili, sopperendo,
eventualmente anche mediante il ricorso a mezzi
di prova tecnici come la perizia, alle carenze in tal
senso sia da parte del P.M. che, soprattutto, dell’imputato.
Tale conclusione della S.C., di chiaro stampo garantista, si basa su una rigorosa applicazione della
disciplina processual-penalistica in tema di prova.
Pare, peraltro, che anche i poteri officiosi in tema
di prova da parte del giudice trovino un limite nel
rispetto da parte dell’imputato del proprio onere di
allegazione degli elementi a lui favorevoli.
È evidente, infatti, che se sarà preciso dovere del
giudice attivarsi per ricercare la prova di costi detraibili, di cui l’istruttoria dibattimentale abbia
prospettato quantomeno qualche indizio, non si
potrà, invece, addebitare allo stesso giudice il
mancato ricorso ad accertamenti d’ufficio qualora
i costi detraibili non siano contabilizzati e, quindi,
siano conoscibili e dimostrabili esclusivamente su
iniziativa dell’imputato.
Note:
(9) Cfr. Cass., Sez. I, 20 dicembre 2006, n. 7349, P.M. c. S.C., in
C.E.D. Cass. 2006.
(10) Cass., Sez. III, 28 maggio 2008, n. 21213, in C.T. n. 31/2008,
pag. 2524, con commento di P. Corso, «Regole probatorie in tema di superamento della soglia di punibilità».
Legittimità
Giurisprudenza
Professionisti
Legittima l’imputazione
all’associazione professionale
dei compensi di arbitro irrituale
Cassazione, Sez. trib., Sent. 10 dicembre 2008 (6 novembre 2008), n. 28957 - Pres.
Papa - Rel. Cappabianca
Redditi prodotti in forma associata - Società tra professionisti - Prestazioni di arbitrato irrituale
svolte da avvocato associato in studio legale - Imputazione dei compensi spettanti al professionista, anche sul piano fiscale, all’associazione professionale - Legittimità
I compensi percepiti da un soggetto facente parte dell’associazione tra professionisti, legittimamente costituita, per lo svolgimento di un’attività di arbitro irrituale, nonostante la natura strettamente privata di detta attività, sono, anche sul piano fiscale, correttamente imputati all’associazione professionale, nei termini indicati dal titolo associativo, salva l’ipotesi di
comportamenti elusivi da dimostrarsi dall’Amministrazione finanziaria.
Svolgimento del processo
I contribuenti proposero ricorso avverso avviso di
accertamento, con il quale l’Ufficio aveva rettificato gli imponibili dichiarati ai fini IRPEF e ILOR
per l’anno 1992, recuperando a tassazione compensi percepiti dal P., avvocato, in qualità di componente di collegio arbitrale.
A fondamento del ricorso i contribuenti deducevano
l’erroneità del recupero a tassazione, in quanto i
compensi recuperati erano stati puntualmente dichiarati in capo all’associazione professionale di appartenenza del P. In proposito, rilevavano, peraltro,
l’inesistenza di motivi ostativi al riversamento dei
compensi della prestazione individuale nell’ambito
dell’associazione professionale di appartenenza.
Sull’opposizione dell’Ufficio - che assumeva che
l’incarico di arbitro, conferito intuitu personae,
consiste in un impegno esclusivamente individuale
che non coinvolge in alcun modo l’associazione
professionale cui l’incaricato aderisca e la relativa
struttura - l’adita Commissione provinciale accolse il ricorso e annullò l’accertamento e l’appello
successivamente promosso dall’Ufficio fu disatteso dalla Commissione regionale.
Rilevato che le motivazioni del gravame dell’Amministrazione erano «ripetitive» di quelle esposte al primo giudice e dallo stesso disattese, il giudice di appello osservò che nulla ostava, nella fattispecie, all’operatività della previsione degli artt. 5 e 49 del D.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.), in tema di esercizio di attività professionale in forma associata.
Avverso la decisione di appello l’Amministrazione
finanziaria ha proposto ricorso per cassazione in
due motivi.
I contribuenti hanno resistito con controricorso,
deducendo l’inammissibilità del primo motivo di
ricorso e l’infondatezza del secondo.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso - supponendo che,
nel rilevare la ripetitività dei motivi di appello, la
Commissione regionale abbia inteso affermarne
l’inammissibilità - l’Amministrazione finanziaria
deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 53
del D.Lgs. n. 546/1992; sostiene che il giudice del
gravame avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile, perché non specificamente articolato, l’appello proposto dall’Ufficio.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
249
Giurisprudenza
Legittimità
Il motivo appare infondato già con riguardo al suo
presupposto di fatto. Il solo rilievo della «ripetitività» delle deduzioni svolte in sede di impugnazione, rispetto a quelle articolate in primo grado,
non autorizza, infatti, minimamente ad ipotizzare
la ricorrenza di una pronunzia d’inammissibilità
dell’appello.
Con il secondo motivo di ricorso - deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 49 del
D.P.R. n. 917/1986, e art. 815 c.p.c., e art. 1 della
legge n. 1819/1939, nonché omessa o insufficiente
motivazione su punti decisivi della controversia l’Amministrazione finanziaria censura la sentenza
impugnata per non aver ritenuto esclusivamente
pertinenti all’avvocato, e non riversabili quindi in
capo all’associazione professionale di appartenenza, i compensi conseguiti dal professionista in
qualità di arbitro.
Con riferimento al denunziato vizio di motivazione il mezzo si rivela inammissibile.
Il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di
cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., può, invero, concernere esclusivamente l’accertamento e
la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, ma non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, giacché l’errata interpretazione o applicazione delle
norme di diritto ricade nella previsione dell’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., mentre, il vizio di
motivazione in diritto non può avere rilievo di per
sé, in quanto esso - se il giudice del merito ha deciso correttamente le questioni di diritto sottoposte
al suo esame, supportando la sua decisione con argomentazioni inadeguate, illogiche o contraddittorie o senza dare alcuna motivazione - può dar luogo alla correzione della motivazione da parte della
Corte ai sensi dell’art. 384, secondo comma, c.p.c.
(cfr. Cass. n. 3038/2005, n. 13358/2004, n.
11883/2003).
Con riferimento alla denunziata violazione di legge, il motivo risulta infondato.
In tale ottica, l’Amministrazione ricorrente assunto
che, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1819/1939,
sarebbero riferibili all’associazione le sole prestazioni (ed i relativi redditi) in merito alle quali il destinatario della prestazione sia stato reso edotto
dell’appartenenza del professionista all’associazione - prospetta, in primo luogo, che, nel caso di specie, tale contemplatici non sussisteva.
La censura appare inammissibile, in quanto nuova
250
GT
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(almeno in prospettiva di autosufficienza), incidendo su questione di fatto che la sentenza impugnata non riferisce come dibattuta nei pregressi
gradi del giudizio e che il ricorso per cassazione
dell’Amministrazione non indica se e come proposta e trattata davanti al giudice del merito (v. Cass.
n. 14590/2005, n. 13979/2005, n. 6656/2004, n.
5561/2004).
La censura sembra, comunque, infondata, poiché
basata su un presupposto di fatto (la mancata contemplatio) indimostrato e risultante anzi, induttivamente ma significativamente, contraddetto dalla
circostanza, desumibile dalle stesse caratteristiche
della fattispecie dedotta, che i compensi in rassegna furono corrisposti su fatturazione dell’associazione professionale.
Con riferimento alla previsione di cui agli artt. 5 e
49 del D.P.R. n. 917/1986, e art. 815 c.p.c., l’Amministrazione finanziaria censura, poi, la decisione
impugnata per non aver considerato che la prestazione arbitrale non può essere mai imputata ad
un’associazione professionale.
Rileva, in proposito che, dall’intera disciplina dell’arbitrato, e in particolare dal rimando alle cause
di incompatibilità e di astensione obbligatoria del
giudice di cui all’art. 51 c.p.c., si ricava che gli arbitri debbono esercitare il proprio mandato in assoluta indipendenza da rapporti con altri soggetti,
diversi dai componenti stessi del collegio arbitrale. La considerazione dell’inserimento in una associazione sarebbe, quindi, per definizione, esclusa,
allorché una parte designa un professionista come
arbitro di propria fiducia. Tale designazione, non
solo si rivolgerebbe all’individuo per la fiducia
che esso ispira, ma tenderebbe ad ottenere dal designato una prestazione necessariamente individuale e personale di questo, poiché lo inserisce in
un collegio che deve operare in totale indipendenza da rapporti e condizionamenti esterni.
I rilievi non appaiono giovare alla tesi dell’Amministrazione ricorrente.
Occorre, invero, osservare che tutta l’attività professionale per il cui svolgimento è necessario un
titolo abilitativo è caratterizzata, quanto al rapporto con il committente, dall’intuitus personae, e
che, in considerazione di tale caratteristica la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che l’associazione tra professionisti, legittimamente attuata per dividere le spese del proprio studio e gestire congiuntamente i proventi della pro-
Legittimità
pria attività, non comporta il trasferimento all’associazione professionale della titolarità del rapporto di prestazione d’opera, che resta di esclusiva
pertinenza del professionista investito, né l’insorgenza di un vincolo di solidarietà tra i professionisti dello stesso studio per l’adempimento della
prestazione o la responsabilità nell’esecuzione della medesima (cfr., tra le altre, Cass. n. 6994/2007,
n. 22404/2004, n. 13142/2003, n. 4628/1997, n.
1933/1997, n. 79/1993, n. 1405/1989). Né, d’altro
canto, l’indipendenza dell’arbitro può misurarsi in
funzione, più che della stessa appartenenza ad
un’associazione professionale, delle modalità
d’imputazione del reddito correlativo conseguente
a detta appartenenza.
Se ne deve, dunque, inferire che - ove si tratti di
prestazioni individuali ontologicamente inquadrabili nella specifica attività professionale oggetto di
associazione (caratteristica che non sembra potersi
Giurisprudenza
ragionevolmente negare alle prestazioni di arbitro,
tanto più se irrituale, svolte da avvocato associato
in studio legale) - i compensi spettanti al professionista sono, anche sul piano fiscale, legittimamente imputati all’associazione professionale, nei
termini indicati dal titolo associativo (che, nel caso concreto, prevedeva l’obbligo degli associati di
mettere in comune «tutti i proventi dell’attività
professionale personalmente esercitata»), salva l’ipotesi di comportamenti elusivi da dimostrarsi
dall’Amministrazione.
Alla stregua delle considerazioni che precedono,
s’impone il rigetto del ricorso.
Per la natura della controversia e la novità della
questione si ravvisano le condizioni per disporre la
compensazione delle spese di causa.
P.Q.M.
La Corte: respinge il ricorso; compensa le spese.
L’abuso dell’interpretazione giuridica
da parte dell’Amministrazione finanziaria
di Fabrizio Cerioni
La Cassazione fa giustizia di una fantasiosa interpretazione con cui l’Amministrazione finanziaria, al fine di tassare con aliquota più elevata
i compensi percepiti in qualità di arbitro da un
avvocato, membro di un’associazione professionale, aveva disatteso la disciplina fiscale
espressamente dettata dall’art. 5, comma 3,
lett. c), del D.P.R. n. 917/1986, facendo leva sul
carattere personale della prestazione dell’arbitro e sulla necessaria terzietà dello stesso rispetto ai litiganti e al rapporto controverso.
Con questa sentenza la Corte di cassazione ha
chiarito che i compensi spettanti all’avvocato, che
abbia ricoperto l’incarico di componente di un collegio arbitrale, sono legittimamente imputati, anche sul piano fiscale, all’associazione professionale di cui egli faccia parte, nei termini indicati dal
contratto di associazione, salva l’ipotesi di com-
portamenti elusivi che debbono essere dimostrati
dall’Amministrazione finanziaria.
Sintesi dei fatti di causa
La causa in esame ha origine da un avviso di accertamento con cui l’Ufficio delle entrate aveva
rettificato gli imponibili dichiarati da due avvocati
ai fini IRPEF e ILOR per l’anno 1992, assoggettando integralmente a tassazione i compensi percepiti dai contribuenti in qualità di componenti di
collegi arbitrali, nonostante gli stessi compensi
fossero stati devoluti all’associazione professionale di cui i legali facevano parte e da essa dichiarati, con la conseguente imputazione al professionista, in base al principio di trasparenza, della (sola)
quota di reddito commisurata alla partecipazione
Fabrizio Cerioni - Funzionario, Cultore di Diritto tributario presso
l’Università di Parma, Dottorando in Diritto processuale tributario
presso l’Università di Pisa
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
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Giurisprudenza
Legittimità
agli utili stabilita dall’atto costitutivo dell’associazione.
L’Ufficio delle entrate, infatti, riteneva che i predetti compensi non potessero essere legittimamente imputati all’associazione professionale in quanto l’incarico di arbitro, conferito intuitus personae,
consiste in un impegno assolutamente individuale
che «non coinvolge in alcun modo l’associazione
professionale cui l’incaricato aderisca e la relativa
struttura».
I contribuenti, invece, nel ricorso introduttivo deducevano l’inesistenza di motivi ostativi al riversamento dei compensi arbitrali all’associazione
professionale di appartenenza, ai fini della successiva distribuzione dei compensi come contrattualmente stabilito.
La Commissione tributaria provinciale adita accoglieva il ricorso dei contribuenti e la Commissione
tributaria regionale, cui l’Ufficio aveva proposto
appello, respingeva il proposto gravame, rilevando
che non vi era alcuna ragione ostativa all’operatività della previsione degli artt. 5 e 49 (ora art. 53)
(1) del Testo Unico delle imposte sui redditi in tema di esercizio di attività professionale in forma
associata.
L’Amministrazione finanziaria ha quindi proposto
ricorso in Cassazione censurando la pronuncia
d’appello per violazione degli artt. 5 e 49 del
D.P.R. n. 917/1986, nonché 815 c.p.c. e 1 della
legge n. 1819/1939 e per difetto di motivazione
ma, come anticipato, la Suprema Corte ha rigettato
il ricorso ritenendo che l’avvocato membro di
un’associazione professionale possa legittimamente imputare all’associazione stessa i compensi percepiti in qualità di arbitro.
Brevi cenni alla disciplina fiscale
dell’associazione professionale
La disciplina fiscale dell’associazione professionale (da non confondere con il contratto di associazione in partecipazione) (2) è dettata dall’art. 5
del T.U.I.R. (3). La disposizione appena richiamata, dopo aver stabilito che i redditi delle società
semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, e proporzionalmente alla sua quota di
partecipazione agli utili, precisa che le associazioni senza personalità giuridica, costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti
252
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
e professioni, sono «equiparate» ai fini fiscali alle
società semplici.
In pratica, benché il reddito delle associazioni professionali sia qualificato come reddito di lavoro
autonomo, ai sensi dell’art. 53 del T.U.I.R., e alla
determinazione dello stesso si debba pervenire secondo il cosiddetto «criterio di cassa», in base al
quale i compensi e le spese assumono rilievo nel
momento in cui si producono e non quando maturano dal punto di vista economico, il reddito prodotto viene tassato ai sensi dell’art. 5 del Testo
Unico delle imposte sui redditi e, cioè, sulla base
del cosiddetto «principio di trasparenza» applicato
alle società commerciali senza personalità giuridica (4).
In altri termini, l’associazione tra professionisti,
pur avendo una sua rilevanza fiscale, non è soggetto passivo ai fini dell’IRPEF, in quanto i redditi
vengono imputati fiscalmente a ciascun associato
indipendentemente dalla percezione e proporzionalmente alle quote di partecipazione agli utili stabilita nell’atto costitutivo.
Pertanto, dal punto di vista operativo, l’associazione detiene le scritture contabili e presenta sull’apposito modello (UNICO) la dichiarazione ai fini
dell’IRPEF (nonché quelle dell’IVA e dell’IRAP,
di cui risulta soggetto passivo), senza provvedere,
però, al pagamento dell’imposta. Il reddito, infatti,
come si è spiegato, dovrà essere dichiarato direttamente dagli associati, sui quali incombe altresì
l’obbligo di versamento dell’imposta.
Giova precisare che le quote di spettanza di ciaNote:
(1) L’articolo è stato rinumerato dall’art. 1 del D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344.
(2) Su cui si veda G.A. Micheli, «Profili tributari dell’associazione
in partecipazione», in Riv. dir. fin., 1979, I, pag. 279.
(3) In argomento C. Sacchetto, «Aspetti e problemi fiscali degli
studi professionali associati», in Boll. trib., 1993, pag. 1429; P. Filippi, «Profili fiscali delle società tra professionisti», in Giur. comm.,
1977, I, pag. 747 e G. Gallo Orsi, «Società di professionisti», in
Noviss. dig. It., Appendice,Vol.VII,Torino, 1987, pag. 378 ss.. La stessa disciplina è ritenuta applicabile alle società tra avvocati. Su
quest’ultimo tema, cfr. P. Schiavolin, «Prime riflessioni sul trattamento della “neonata società tra avvocati ai fini delle imposte sui
redditi”», in Riv. dir. trib., 2001, I, pag. 1007 e V. Ficari; «La società
tra avvocati nell’imposizione sul reddito: spunti per una riflessione», in Rass. trib., 2002, pag. 891.
(4) Sul principio di trasparenza si veda P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano, 1996 e
G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Il sistema delle imposte in Italia, Milano, 2008, pag. 66 ss.
Legittimità
scun associato sono assoggettate a tassazione nel
periodo d’imposta di riferimento anche nel caso in
cui non sia stato distribuito alcun reddito, ma i
compensi percepiti siano stati accantonati. È ovvio, quindi, che, qualora il reddito sia distribuito
successivamente all’imputazione, tale distribuzione sarà del tutto irrilevante dal punto di vista fiscale (5).
Il regime fiscale di imputazione dei redditi
non condiziona l’imparzialità dell’arbitro
Alla base della controversia dalla quale è scaturita
la sentenza in esame sta una singolare interpretazione dell’Amministrazione finanziaria delle disposizioni che regolano l’arbitrato rituale, concepita, sembra quasi apposta (6), per negare la tassazione dei redditi professionali in base al principio
di trasparenza.
L’Ufficio, infatti, ha ritenuto che dall’intera disciplina dell’arbitrato e, in particolare, dalle disposizioni che regolavano prima della riforma dell’arbitrato (attuata con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40),
le cause di incompatibilità e di astensione obbligatoria degli arbitri (art. 815 c.p.c.) (7), si potesse
fondatamente desumere che i componenti del collegio arbitrale dovessero esercitare il proprio mandato in assoluta indipendenza. Secondo questa linea di pensiero il soggetto designato quale arbitro
avrebbe dovuto recidere qualunque rapporto, non
solo con i soggetti che potessero risultare portatori
di interessi confliggenti con quelli delle parti, ma
pure quello contrattuale avente ad oggetto il versamento del compenso all’associazione professionale di appartenenza. Partendo da tale premessa,
dunque, l’Ufficio ha direttamente imputato al contribuente i compensi derivanti dall’espletamento
della funzione arbitrale, evidentemente di ammontare più elevato da quelli imputabili al professionista secondo il principio di trasparenza di cui all’art. 5 del T.U.I.R. (e, quindi, assoggettabili ad
un’aliquota IRPEF più elevata), sostenendo l’inapplicabilità del normale sistema di tassazione dei
redditi prodotti in forma associata.
È evidente il salto logico compiuto dall’Ufficio finanziario nel momento in cui pretende di far discendere determinati effetti sulla disciplina fiscale
dell’imputazione dei compensi dalle norme sull’arbitrato dirette a garantire l’imparzialità dell’esercizio della funzione decisoria degli arbitri.
L’arbitrato (8), sia esso rituale o irrituale (9), è una
Giurisprudenza
forma di giustizia resa da soggetti privati in virtù
Note:
(5) In questi esatti termini, L. Ferlazzo Natoli, «Il regime fiscale
delle società tra avvocati alla luce del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96», in Boll. trib., 2001, pag. 1525. In argomento anche M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2007, pag.
79 ss.
(6) Già con la risoluzione 16 febbraio 1991, n. 445120, in Banca
Dati BIG, IPSOA, relativa alla ritenuta da effettuare nei confronti
del socio dello studio professionale membro di un consiglio di
amministrazione di una società, l’Amministrazione finanziaria aveva fatto leva sul carattere personale della prestazione dell’amministratore di società per sostenere che il singolo associato avrebbe dovuto munirsi di una partita IVA autonoma da quella rispetto
a quella dello studio.
(7) Va ricordato che prima del D.Lgs. n. 40/2006, la ricusazione
dell’arbitro nominato dalla controparte poteva avvenire «per i
motivi indicati nell’art. 51» (c.p.c.), dizione questa che, per la sua
genericità, sembrava ammettere la ricusazione anche nelle ipotesi
in cui il giudice privato potesse astenersi ricorrendo gravi ragioni
di convenienza (art. 51, secondo comma, c.p.c.). Tuttavia, parte
della dottrina, aveva contrastato questa interpretazione, ritenendo che la previsione codicistica contenesse un richiamo implicito
anche all’art. 52 c.p.c., che ammette la ricusazione nei soli casi in
cui il giudice ha l’obbligo di astenersi, anche al fine di garantire alla controparte il diritto di scegliere un arbitro che non fosse ricusabile in mancanza di ragioni specifiche di incompatibilità. Così
L. Dittrich, «L’imparzialità dell’arbitro nell’arbitrato interno e internazionale», in Riv. dir. proc., 1995, pag. 144. Oggi, invece, l’art.
815 prevede espressamente i casi in cui l’arbitro può essere ricusato essendo a rischio la terzietà dello stesso. Un arbitro può essere ricusato: 1) se non ha le qualifiche espressamente convenute
dalle parti; 2) se egli stesso, o un ente, associazione o società di
cui sia amministratore, ha interesse nella causa; 3) se egli stesso
o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o
commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti, o di alcuno dei difensori; 4) se egli stesso
o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia con una delle
parti, con un suo rappresentante legale, o con alcuno dei suoi difensori; 5) se è legato ad una delle parti, a una società da questa
controllata, al soggetto che la controlla, o a società sottoposta a
comune controllo, da un rapporto di lavoro subordinato o da un
rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza; inoltre, se è tutore o
curatore di una delle parti; 6) se ha prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda
o vi ha deposto come testimone.
(8) Sull’arbitrato in generale, senza pretesa di esaustività, si rimanda a T. Carnacini, «Arbitrato rituale», in Noviss. dig. It.,Vol. I, 2,
Torino, 1958, pag. 874 ss; E. Fazzalari, «Processo arbitrale», in Enc.
dir., Vol. XXXVI, Milano, 1987, pag. 298 ss.; Id., L’arbitrato, Torino,
1997, pag. 3 ss.; C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova,
2000, pag. 140; AA.VV., L’arbitrato, a cura di F. Carpi, Bologna - Roma, 2001, pag. 3 ss.; C. Mandrioli, Procedura civile, Vol. IV, Torino,
2007, pag. 395 ss.
(9) L’arbitrato «rituale» è quello soggetto a determinate regole
positive di legge che ne definiscono la struttura e lo svolgimento;
al contrario, è «irrituale» l’arbitrato non regolato dal codice di
rito. In questi termini S. La China, L’arbitrato, il sistema e l’esperienza, Milano, 2004, pag. 7 ss.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
253
Giurisprudenza
Legittimità
di un atto di autonomia privata, qual è il compromesso, che dà luogo ad un atto avente natura negoziale (il lodo), con il quale l’arbitro impone alle
parti che gli hanno trasferito i propri poteri di accertamento un determinato assetto del rapporto sostanziale (10).
L’arbitro non è solo un giudice su misura, come lo
definiva Carnelutti (11), ma, per quanto qui interessa è soprattutto un giudice privato (12) che è
chiamato ad esercitare le sue funzioni in seguito
ad una nomina rimessa all’autonomia dei privati,
ai quali solo spetta di sindacarne l’imparzialità fino al punto di chiederne l’estromissione dal collegio attraverso il potere di ricusazione previsto dall’art. 815 c.p.c. (13).
Invero, non c’è alcun dubbio che l’imparzialità
dell’arbitro, derivante dalla sua terzietà rispetto al
rapporto controverso e dalla equidistanza dalle
parti (14), pur non essendo espressamente sancita
dal codice di rito, sia «una qualità necessaria» e
«un modo di essere dell’arbitro, un vincolo etico»,
una precondizione per il corretto espletamento della funzione arbitrale. Tuttavia per il nostro legislatore sono sufficienti a garantirla sia il potere di ricusazione dell’arbitro nominato dalla controparte
(art. 815 c.p.c.), sia la possibilità di revocazione
del lodo per dolo degli arbitri (art. 831 c.p.c.) (15)
e, sul piano del costume, il dovere di vigilanza
delle parti e dei loro difensori e la sanzione sociale
del «discredito» ricadente sull’arbitro o sull’istituzione arbitrale che non si ispirassero a questo valore (16). Ne deriva che il controllo sull’imparzialità dell’arbitro è rimesso esclusivamente agli interessati, senza che l’ordinamento appresti alcuno
strumento, idoneo a garantirla a prescindere dall’iniziativa delle parti (17).
Pertanto la Cassazione afferma che l’indipendenza
dell’arbitro non può certo misurarsi in funzione
delle modalità di imputazione del reddito conseguenti all’appartenenza del professionista ad una
associazione professionale, da cui si pretende di
desumere una causa ostativa all’imparzialità del
giudice, addirittura più stringente della stessa appartenenza all’associazione professionale.
In altri termini, se non si fraintende il pensiero
della Suprema Corte, quest’ultima vuole evidenziare che l’appartenenza dell’avvocato ad un’associazione professionale, può assumere rilievo solo
quando, in concorso con altre circostanze, può
pregiudicare l’imparzialità del soggetto giudicante
254
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
(si pensi ad esempio al caso dell’arbitro collega di
studio del difensore o commensale abituale o coniuge della controparte), ma solo ai fini dell’esercizio del potere di ricusazione dell’arbitro che
spetta alla parte, non certo a fini fiscali.
In un caso del tutto analogo anche la Commissione
regionale della Lombardia aveva affermato che il
compenso per l’attività arbitrale svolta dal partecipante ad un’associazione professionale tra avvocaNote:
(10) In questi termini già G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, pag. 108 ss e, ai giorni nostri, E. Fazzalari,
«La cultura dell’arbitrato», in Riv. arb., 1991, pag. 1 ss.; Id., L’arbitrato, cit., loc . cit., pag. 15 ss.; C . Punzi, Disegno sistematico
dell’arbitrato, cit., loc. cit., pag. 140. Questa tesi è stata accolta dalle
Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza 3 agosto 2000, n.
527 (in Corr. giur., 2001, pag. 51), la quale afferma che dopo la soppressione del riferimento alla «sentenza» arbitrale il lodo «è, e
resta, un atto di autonomia privata, i cui effetti di accertamento
conseguono ad un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere
ha fonte nell’investitura conferitagli dalle parti; e che di conseguenza, si deve escludere che si possa parlare di arbitri come di
organi giurisdizionali dello Stato». Pertanto «il giudizio arbitrale è
antitetico a quello giurisdizionale e ne costituisce la negazione».
(11) F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, pag. 77.
(12) Così C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., loc. cit.,
pag. 294 ss.
(13) Va ricordato che dopo la riforma del procedimento arbitrale
attuata con la legge 5 gennaio 1994, n. 25, la ricusazione può essere chiesta anche dopo il decorso del termine perentorio di
dieci giorni dalla notificazione della nomina dell’arbitro altrui, ove
la conoscenza della causa di ricusazione sia sopravvenuta rispetto alla nomina.
(14) Così E. Fazzalari, L’arbitrato, Torino, 1997, pag. 52 ss. Sull’imparzialità dell’arbitro si vedano anche L. Dittrich, «L’imparzialità
dell’arbitro nell’arbitrato interno e internazionale», cit., loc. cit.,
pag. 144 ss. e C. Consolo, «Imparzialità degli arbitri. Ricusazione»,
in Riv. arb., 2005, pag. 727 ss. In argomento anche E. Vullo, «Brevi
note in tema di ricusazione degli arbitri liberi e di condanna alle
spese», in Giur. it., 1992, pag. 41 ss.
(15) In altri ordinamenti (si vedano l’art. 1452 del codice di procedura civile francese, art. 17, comma 3 della legge spagnola sull’arbitrato e il § 1036 dello ZPO tedesco) opera l’istituto della disclosure o dichiarazione, in base al quale l’arbitro è tenuto dichiarare tutti fatti che possono far dubitare della sua terzietà nei
confronti delle parti, dei difensori o degli altri arbitri. Cosi C.
Giovannucci Orlandi, «Ricusazione degli arbitri», in AA.VV., L’arbitrato, a cura di F. Carpi, cit., loc. cit., pag. 203 ss.
(16) Così, S. La China, op. loc. cit., pag. 74 ss.
(17) C. Giovannucci Orlandi, «Ricusazione degli arbitri», cit., loc.
cit., pag. 206 ss. Tuttavia chi ripudia l’impostazione privatistica dell’arbitrato, ormai accolta anche dalle Sezioni Unite (si veda la
precedente nota 9), afferma che l’art. 815 c.p.c., che tutela l’imparzialità dell’arbitro, è espressione di un principio di ordine pubblico e, in quanto tale, inderogabile. Così F. Danovi, «Note in tema di imparzialità, ricusazione e “natura” dell’arbitrato», in Studi
di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia,Vol. III, Milano,
2005, pag. 1981 ss.
Legittimità
ti non va imputato al soggetto che ha svolto quella
attività, ma va tassato come attività tipica dell’associazione, essendo la contraria opinione (dell’Ufficio) insostenibile, sia sul piano logico che giuridico, non potendo effettuarsi alcuna distinzione tra
i compensi percepiti dal professionista sulla base
della personalità della prestazione che l’arbitro sarebbe chiamato a rendere (18).
Irrilevanza della distinzione
tra compensi professionali
e compensi percepiti in qualità di arbitro
Occorre quindi esaminare un altro passaggio della
pronuncia di notevole interesse. La Suprema Corte
precisa che tutta l’attività professionale per il cui
svolgimento è necessario un titolo abilitativo, è
caratterizzata, quanto al rapporto con il committente, dall’intuitus personae (19). In considerazione di tale caratteristica, la giurisprudenza è consolidata nel senso che l’associazione tra professionisti, legittimamente attuata per dividere le spese del
proprio studio e gestire congiuntamente i proventi
della propria attività, non comporta il trasferimento all’associazione professionale della titolarità del
rapporto di prestazione d’opera che resta di esclusiva pertinenza del professionista investito, né
l’insorgenza di un vincolo di solidarietà tra professionisti dello stesso studio per l’adempimento della prestazione o la responsabilità nell’esecuzione
della medesima.
Secondo il giudice di vertice, pertanto, non si possono fondatamente distinguere i compensi professionali in senso stretto da quelli percepiti dall’avvocato in qualità di componente di un collegio arbitrale, perché entrambi i tipi di compenso derivano da prestazioni incentrate su un peculiare rapporto di fiducia tra il committente e il professionista che si esprime nel conferimento del mandato.
Orbene, non c’è dubbio che l’intuitus personae,
che comporta l’obbligo di eseguire personalmente
la prestazione contrattuale, debba caratterizzare
anche il rapporto tra gli arbitri e i compromittenti,
i quali possono procedere direttamente alla nomina degli arbitri (artt. 809 e 810 c.p.c.) e ricusare
quelli non nominati (art. 815 c.p.c.). Tuttavia, la
personalità e, quindi, l’infungibilità della prestazione dedotta, in contratto contraddistingue, per
opinione unanime (20), anche il contratto d’opera
intellettuale alla base dell’esercizio della professione di avvocato.
Giurisprudenza
In questo senso, come ricorda la stessa Suprema
Corte, si è espressa una giurisprudenza ormai consolidata. Invero secondo Cassazione civile, Sez. I,
22 marzo 2007, n. 6994, «i professionisti che si
associano per dividere le spese e gestire congiuntamente i proventi della propria attività non trasferiscono per ciò solo all’associazione tra loro costituita la titolarità del rapporto di prestazione d’opera». Ne deriva che «la responsabilità nell’esecuzione di prestazioni per il cui svolgimento è necessario il titolo di abilitazione professionale è rigorosamente personale perché si fonda sul rapporto
tra professionista e cliente, caratterizzato dell’“intuitus personae”, e perciò, anche se il professionista è associato ad uno studio, ai sensi dell’art. 1
della legge 23 novembre 1939, n. 1815, non sussiste alcun vincolo di solidarietà con i professionisti
dello stesso studio né per l’adempimento della
prestazione, né per la responsabilità nell’esecuzione della medesima» (21).
Data l’impossibilità di tracciare una distinzione di
carattere ontologico tra le attività svolte dall’avvocato come professionista e come arbitro, deve ritenersi pienamente legittimo imputare all’associazione anche i compensi derivanti dall’esercizio
della funzione di giudice privato (22).
Considerazioni conclusive
Nel caso in esame il ragionamento seguito dall’Ufficio finanziario per procedere alla tassazione
dei compensi arbitrali direttamente in capo al professionista (si immagina con un’aliquota IRPEF
più elevata) è il frutto di un’interpretazione del
Note:
(18) Così Commissione tributaria regionale della Lombardia, 15
luglio 1999, n. 184, in Banca Dati BIG, IPSOA.
(19) L’intuitus personae, comporta l’intrasmissibilità del rapporto
contrattuale ad un terzo, anche per effetto di successione mortis
causa, e la possibilità di agire per l’annullamento del contratto nel
caso di errore nella persona del contraente. Così, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, pag. 840 ss.
(20) Cfr. G. Giacobbe, «Professioni intellettuali», in Enc. dir., Vol.
XXXVI, Milano, 1987, pag. 1065 ss.
(21) In questi esatti termini Cass. civ., Sez. II, 29 novembre 2004,
n. 22404.
(22) Va ricordato che la Cassazione ha dichiarato inammissibile,
in quanto tardivamente proposta e contraddetta dalle stesse risultanze processuali, la censura, proposta dall’Amministrazione finanziaria, relativa alla mancata dichiarazione (c.d. contemplatio) di
appartenenza dell’arbitro all’associazione professionale, che, secondo la legge n. 1819/1939, impediva la riferibilità all’associazione dei compensi percepiti dal professionista.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
255
Giurisprudenza
Legittimità
tutto disancorata dai più elementari canoni ermeneutici. In pratica, viene disattesa la disciplina fiscale espressamente dettata dall’art. 5, comma 3,
lett. c), del T.U.I.R. per la tassazione delle associazioni professionali, facendo leva sul carattere personale della prestazione dell’arbitro e sulla necessaria terzietà dello stesso rispetto ai litiganti e al
rapporto controverso. Una tale interpretazione
però, come chiarito in un caso analogo dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, non
ha alcun fondamento né logico né giuridico.
Alla luce dello Statuto del contribuente, sopravvenuto all’instaurazione del procedimento di accertamento del tributo, un’interpretazione siffatta risulta contraria alla buona fede. Peraltro, poiché
l’Amministrazione ha perseverato nel sostenere la
sua posizione fino in Cassazione, nonostante la
soccombenza sia in primo che in secondo grado,
v’è da chiedersi se a quello che si potrebbe definire un vero e proprio «abuso dell’interpretazione
giuridica» (23) non si sia aggiunto l’abuso del processo (24), in grado di far sorgere a favore del
contribuente un diritto al risarcimento del danno
per responsabilità processuale aggravata ex art. 96,
primo comma, c.p.c. (25).
Invero la responsabilità processuale aggravata dell’Amministrazione finanziaria è stata ammessa nel
processo tributario, dopo l’abrogazione dell’art. 39
del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (che escludeva
l’applicabilità al processo tributario degli artt. da
90 a 97 c.p.c.), considerando che i comportamenti
che sul piano sostanziale si traducono in vizi dell’atto o del procedimento, sul piano processuale risultano «contrari a regole generalissime, processuali e morali, di leale e probo comportamento»,
cui l’Amministrazione è assoggettata come ogni
altro litigante (26).
Orbene, nel caso esaminato nella sentenza in rassegna, il comportamento dell’Amministrazione
non è stato solo l’effetto di un macroscopico errore interpretativo ma anche della volontà di riproporre pervicacemente in giudizio la fantasiosa opzione ermeneutica respinta in ciascun grado di merito. Non si condivide quindi la decisione del giudice di legittimità di addivenire alla compensazione delle spese di lite, sembrando più giusta, in
mancanza di un’apposita domanda risarcitoria del
contribuente per responsabilità processuale aggravata, la condanna dell’Amministrazione finanziaria all’integrale pagamento delle spese di lite per
256
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
aver resistito in giudizio in assenza dei presupposti, facendo così sopportare all’apparato pubblico
dei costi del tutto inutili, suscettibili di essere valutati dalla magistratura contabile come fonte di
danno erariale (27).
Note:
(23) Si ricorda che nel diritto civile le fattispecie di abuso vengono ricavate proprio dalla violazione del dovere di buona fede. In
argomento si vedano C. Salvi, «Abuso del diritto», in Enc. Giur.
Treccani, Roma, 1988, pag. 1 ss. (ad vocem); M.C.Traverso, «L’abuso
del diritto», in Nuova giur. civ. comm., 1992, II, pag. 297 ss.
(24) All’abuso del processo fanno riferimento Cass. civ., SS.UU.,
15 novembre 2007, n. 23726 (in Obbl. e Contr., 2008, 1, pag. 3 ss.),a
proposito del frazionamento processuale del credito e Cass. civ.,
Sez.V, 20 luglio 2007, n. 16120 (in Banca Dati BIG, IPSOA), relativa
alla contestazione da parte del curatore dell’ammissione al fallimento di un credito fiscale con un atto, l’avviso bonario, ritenuto,
al tempo dei fatti, non impugnabile.
(25) Sull’ammissibilità del risarcimento per responsabilità processuale aggravata dell’Amministrazione finanziaria si veda Cass. civ.,
SS.UU., 5 febbraio 1997, n. 1082, in Banca Dati BIG, IPSOA, e in
Dir. e Prat.Trib., 1997, II, pag. 1340 ss., con nota di S. La China, «Responsabilità dell’Amministrazione finanziaria per lite temeraria»;
B. Bellè, «Le spese di giudizio», in AA.VV., Il processo tributario, Torino, 1999, pag. 299 ss; C. Gioè, Profili di responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2007, pag. 87 ss.
(26) S. La China, «Responsabilità dell’Amministrazione finanziaria
per lite temeraria», in Dir. e Prat.Trib., 1997, II, pag. 1349 ss. Secondo la Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XXXVI,
28 marzo 2003, n. 31 (in questa Rivista n. 11/2003, pag. 1084, con
commento di T. Ficarelli, «L’istituto della responsabilità processuale aggravata nel processo tributario»), «in presenza di una
condotta negligente dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria nella formazione dell’atto impugnato, unita a colpa grave nella
condotta successiva, sia per il diniego di annullamento di autotutela sia in sede di accertamento per adesione, per cui al contribuente sono stati causati danni e dispendio di energie, la parte
ricorrente ha diritto al risarcimento danni per responsabilità
processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile».
(27) Così C. Gioè, Profili di responsabilità civile dell’amministrazione
finanziaria, cit., loc. cit., pag. 98.
Merito
Giurisprudenza
Imposte sui redditi
Al Fisco l’onere della prova
sulla data di delibera assembleare
per la distribuzione di dividendi
Commissione tributaria provinciale di Perugia, Sez. VII, Sent. 21 novembre 2008 (21
ottobre 2008), n. 153 - Pres. Cossu - Rel. Simone
IRPEF - Crediti d’imposta - Utili distribuiti da società ed enti - Disposizioni antielusive ex art.
40 del D.L. n. 269/2003 - Credito d’imposta superiore al 51,51% - Delibera assembleare - Data
certa - Mancanza - Irrilevanza - Onere della prova in capo all’Amministrazione finanziaria - Sussistenza
Ai fini dell’applicazione delle disposizioni antielusive in materia di crediti d’imposta previste per le dichiarazioni di utili successivamente al 30 settembre 2003 e sino alla data di chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2003 (art. 40 del D.L. n. 269/2003, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 326/2003), non è richiesta la data certa per la delibera dell’assemblea con la quale viene attribuito ai soci un credito d’imposta per la distribuzione di dividendi superiore al 51,51%, qualora la medesima assemblea si sia svolta conformemente alle prescrizioni contenute nel codice civile.
L’onere della prova in merito alla data di una delibera di distribuzione di dividendi non incombe in capo alla società/contribuente ai sensi dell’art. 2704 c.c., che regolamenta fattispecie diverse, bensì rimane a carico dell’Amministrazione finanziaria, la quale deve dimostrare che la data effettiva del verbale è diversa e successiva.
Fatto e diritto
La contribuente con ricorso depositato il 7 febbraio 2008 impugna nei confronti dell’Agenzia
delle entrate l’atto di contestazione relativamente
al «rilievo di cui al punto numero uno» (attribuzione di un credito d’imposta più vantaggioso rispetto a quello spettante per effetto dell’art. 40 del
D.L. n. 269/2003), chiedendone l’annullamento
perché illegittimo e infondato.
Sostiene che la distribuzione dei dividendi deliberata nel corso dell’assemblea del 29 settembre
2003, con conseguente attribuzione ai soci di un
credito di imposta nella misura del 56,25%, anziché del 51,51%, come vuole l’Ufficio, è conforme
alla normativa in vigore.
L’art. 40 del D.L. n. 269/2003, che secondo l’Ufficio sarebbe violato, non richiede che la delibera di
distribuzione dei dividenti abbia data certa, ma richiede semplicemente che vi sia una delibera assembleare entro il 30 settembre 2003.
La Commissione, esaminati gli atti, ritiene le argomentazioni della ricorrente fondate e il ricorso accoglibile.
Come sostiene la L., in presenza di verbale di assemblea ordinaria, regolarmente e validamente
costituita secondo le disposizioni del codice civile, con una delibera registrata entro 20 giorni
presso l’Agenzia delle entrate, adottata nei termini voluti dalla legge, con tutte le prescrizioni di
cui all’art. 2375 c.c. in tema di verbalizzazioni,
con regolare trascrizione nel libro dei verbali dell’assemblea dei soci, con la presenza dell’intero
capitale sociale, dell’organo amministrativo al
completo e tutti i componenti del collegio sindaGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
257
Giurisprudenza
Merito
cale, non sussiste alcun valido elemento per disconoscere il credito d’imposta del 56,25% maturato e spettante su dividendi distribuiti dalla società in data 29 settembre 2003 e per sanzionare
la società ricorrente per «violazione relativa al
contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni».
Nel caso in esame non è prevista dalla normativa
di riferimento la data certa per la delibera, come
sostiene l’Ufficio richiamandosi al codice civile,
che disciplina fattispecie diverse.
L’ a t t r i b u z i o n e d e l c r e d i t o d ’ i m p o s t a d e l
56,25%, pertanto, è legittima, essendo stata deliberata nei termini per poterne usufruire in tale
misura.
In ordine alle spese, sussistono giuste ragioni per
compensarle per il fatto che l’assemblea è stata tenuta all’ultimo minuto.
P.Q.M.
La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.
L’onere della prova sulla data di delibera assembleare
nel processo tributario
di Mario Ravaccia
e Gianluca Settepani
Si condivide il principio dei giudici di merito,
secondo cui l’onere della prova in merito ad
una data di delibera assembleare di distribuzione di dividendi incombe in capo all’Amministrazione finanziaria. Del tutto inconferente,
nel caso di specie, è quindi il richiamo da parte
degli organi accertatori all’art. 2704 c.c. che
disciplina la data delle scritture private nei
confronti dei terzi.
In considerazione del nuovo regime di detassazione dei dividendi e la conseguente eliminazione dei
crediti di imposta derivante dalla riforma dell’imposizione sul reddito delle società (che ha esplicato i propri effetti dai periodi di imposta che hanno
inizio a partire dal 1° gennaio 2004), l’art. 40 del
D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (1) ha disposto alcune limitazioni in ordine alla fruibilità del credito
di imposta sui dividendi relativo a utili la cui distribuzione è stata deliberata successivamente al
30 settembre 2003.
In particolare, l’art. 40 del D.L. n. 269/2003 ha
stabilito che alle distribuzioni di utili accantonati a
riserva deliberate successivamente al 30 settembre
2003 e sino alla data di chiusura dell’esercizio in
corso al 31 dicembre 2003, compete il credito di
258
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
imposta limitato nella misura del 51,51% e non il
più favorevole (sia dal punto di vista quantitativo
che qualitativo) credito di imposta pieno del
56,25% (2).
Senza approfondire le notazioni critiche in merito
alla mancata introduzione di una disciplina transitoria, risulta evidente come la data della delibera
assembleare era assolutamente discriminante in
merito al regime tributario applicabile (3).
In considerazione della importanza della fattispecie, la medesima Amministrazione finanziaria nel-
Mario Ravaccia e Gianluca Settepani - Dottori commercialisti
in Bologna, Studio Gnudi
Note:
(1) Convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003,
n. 326.
(2) È appena il caso di ricordare che il credito di imposta limitato
poteva essere utilizzato da parte dei soci esclusivamente a compensazione della quota di imposta liquidata sul reddito complessivo afferente i dividendi per cui è concesso e che, a differenza del
credito di imposta pieno, non poteva in ogni caso generare una
eccedenza di imposta suscettibile di essere chiesta a rimborso
ovvero riportata a nuovo.
(3) Per approfondimenti critici si rinvia alle circolari Assonime nn.
37 e 38 rispettivamente dell’8 e del 9 ottobre 2003 e a P.R. Sorignani e A. Rocchi, «La normativa transitoria sui crediti di imposta», in C.T. n. 42/2003, pag. 3460.
Merito
la circolare 3 febbraio 2004, n. 4/E (4) affermava
che «gli Uffici attiveranno i necessari controlli al
fine di verificare che la delibera sia stata effettivamente assunta in data antecedente al 1° ottobre
2003».
L’onere della prova nel diritto tributario
Prima di addentrarsi nella disamina della sentenza
in commento e ancorché possa sembrare pleonastico, sembra opportuno, quantomeno viste le considerazioni svolte dall’organo accertatore, effettuare
una breve disamina sull’onere della prova nel processo tributario.
La maggior parte della dottrina nonché la giurisprudenza ritengono che nel processo tributario
l’onere della prova gravi in primis sull’Ufficio, il
quale deve dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa, mentre grava sul contribuente l’onere
della prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa (5).
In altre parole, solo qualora l’organo accertatore
abbia assolto il proprio onere di prova, il contribuente può opporsi alla pretesa erariale contestando i fatti costitutivi sui quali si fonda la pretesa o
ampliando il thema probandum allegando e provando in giudizio fatti diversi da quelli costitutivi
della pretesa stessa (6).
Diversamente da quanto sopra, in presenza di normative che prevedono presunzioni juris tantum si
viene a configurare un’inversione dell’onere probatorio a favore dell’Amministrazione finanziaria,
tale per cui spetterà al contribuente (non più all’organo accertatore) fornire la prova contraria alla
medesima presunzione.
La medesima inversione dell’onere della prova,
inoltre, avviene in talune fattispecie ove la normativa prevede espressamente un onere probatorio in
capo al contribuente, tra i quali, a titolo esemplificativo, appunto la data certa.
A titolo meramente esemplificativo di quanto appena affermato, tra le disposizioni che richiedono
la data certa, si ricordano:
– art. 17, comma 1, lett. c), del T.U.I.R.: «c) indennità percepite per la cessazione dei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, di cui al
comma 2 dell’articolo 49 (7), se il diritto all’indennità risulta da atto di data certa anteriore all’inizio del rapporto»;
– art. 36, comma 23, del D.L. 4 luglio 2006, n.
223 (8), il quale in relazione all’abrogazione del-
Giurisprudenza
l’art. 19, comma 4-bis, del T.U.I.R. ha previsto
che «la disciplina di cui al predetto comma 4-bis
continua ad applicarsi con riferimento alle somme
corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati
prima della data di entrata in vigore del presente
decreto, nonché con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati in
attuazione di atti o accordi, aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore del presente decreto»;
– art. 29, comma 2, del D.L. 29 novembre 2008, n.
185 (9) il quale prevede che «al fine di garantire
congiuntamente la certezza delle strategie di investimento, i diritti acquisiti, nonché l’effettiva copertura nell’ambito dello stanziamento nel bilancio dello Stato della somma complessiva di 375,2
milioni di euro per l’anno 2008, di 533,6 milioni
di euro per l’anno 2009, di 654 milioni di euro per
l’anno 2010 e di 65,4 milioni di euro per l’anno
2011, il credito di imposta di cui all’articolo 1,
commi da 280 a 283, della legge 27 dicembre
2006, n. 296, e successive modificazioni, è regolato come segue:
a) per le attività di ricerca che, sulla base di atti o
documenti aventi data certa, risultano già avviate
prima della data di entrata in vigore del presente
decreto, i soggetti interessati inoltrano per via telematica alla Agenzia delle entrate, entro trenta
giorni dalla data di attivazione della procedura di
cui al comma 4, a pena di decadenza dal contributo, un apposito formulario approvato dal Direttore
della predetta Agenzia; l’inoltro del formulario vaNote:
(4) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(5) In merito all’applicazione dell’art. 2697 del codice civile alla
normativa tributaria è conforme anche l’Amministrazione finanziaria; in ultimo circ. min. n. Circ. n. 2/DF del 26 gennaio 2009 in
Banca Dati BIG, IPSOA.
(6) Per tutti si rinvia a R. Lupi, «L’onere della prova nella dialettica del giudizio sul fatto», in Riv. dir. trib., 1993, n. 11, pag. 1199; S.
La Rosa, «L’istruzione probatoria nella nuova disciplina del processo tributario», in Boll. trib., 1993, pag. 872; L.P. Comoglio,
«Istruzione probatoria e poteri del giudice nel nuovo processo
tributario», in Dir. prat. trib., 1994, I, pagg. 61-62; G.M. Cipolla, «Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario» in Rass.
trib., 1998, pag. 671; A. Ballancin, «La disciplina del transfer price
tra onere della prova, giudizi di fatto e l’(in)esistenza di obblighi
documentali», in Rass. trib., 2006, pag. 1982 ss.
(7) Vedi ora art. 44, a norma dell’ art. 2, comma 3, del D.Lgs. 12
dicembre 2003, n. 344.
(8) Convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n.
248.
(9) Convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
259
Giurisprudenza
Merito
le come prenotazione dell’accesso alla fruizione
del credito d’imposta».
In questi due ultimi casi, vale a dire inversione
dell’onere della prova per presunzione juris tantum ovvero apposita disposizione normativa, il
rinvio a quanto riportato dall’art. 2704 c.c. è certamente pertinente.
Infatti, ai sensi del medesimo articolo 2704 del codice civile, la data di una scrittura privata che è
autenticata nella sottoscrizione diventa certa e
computabile riguardo ai terzi (tra cui l’Amministrazione finanziaria) dal giorno in cui la scrittura
è stata registrata o dal giorno della morte o della
sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno
di coloro che l’hanno sottoscritta o dal giorno in
cui il contenuto della scrittura è stato riprodotto in
atti pubblici o, infine, dal giorno in cui si verifica
un altro fatto che stabilisce in modo egualmente
certo l’anteriorità della formazione del documento.
A tale proposito la certezza della scrittura privata
non autenticata e non registrata può essere determinata, nei confronti dei terzi, anche indirettamente con la prova del fatto idoneo a stabilire in
modo egualmente sicura l’anteriorità della formazione del documento, quale l’apposizione del bollo postale sul foglio contenente la scrittura privata
(10).
Pertanto, solamente nelle ipotesi sopra elencate di
inversione dell’onere della prova mediante presunzione juris tantum a favore dell’Amministrazione
finanziaria ovvero espressa richiesta della normativa della data certa, spetterà al contribuente/ricorrente dimostrare/opporre le proprie ragioni anche
mediante l’utilizzo di scritture private aventi i requisiti di cui all’art. 2704 c.c. (11).
La sentenza in commento
Quanto fin qui riportato è stato correttamente analizzato dai giudici aditi, i quali hanno precisato
che, nel caso di specie, non è prevista, dalla normativa di riferimento (i.e. art. 40 del D.L. n.
269/2003), la data certa per la delibera, come sostiene l’Ufficio richiamandosi al codice civile (art.
2704 c.c.), che invece disciplina fattispecie diverse.
In altre parole, la delibera assembleare presa nel
rispetto di tutte le formalità previste dal codice civile con regolare trascrizione nel libro delle assemblee dei soci - e nel caso di specie altresì registrazione all’ufficio del registro nei termini di leg-
260
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
ge - non fa sorgere alcun elemento valido al fine di
disconoscere la validità della medesima (12).
Quanto appena detto appare ancora più evidente se
si considera che usualmente le delibere di distribuzione dei dividendi sono soggette da parte delle
società solamente alla registrazione in termine fisso presso l’Ufficio del registro. Usualmente non vi
è alcun motivo per dare data certa ai verbali assembleari (13).
Ciò nonostante l’Ufficio ha sostenuto che il contribuente, seppur la disposizione normativa sia stata
approvata dal Governo in data 30 settembre 2003
(e pubblicata in G.U. 2 ottobre 2003), dovesse dare data certa alla propria delibera, letteralmente
anticipando la disposizione in commento.
In altre parole, l’Amministrazione finanziaria ha
preteso dal contribuente, pur non avendone il diritto per le considerazioni sopra svolte in tema di
onere della prova, una scrupolosità, non solo superiore alla normale prassi, ma altresì imprevedibile,
in considerazione che la medesima norma è stata
approvata il giorno stesso del termine ivi indicato.
Si ritiene quindi che, nei casi in cui una società
abbia effettivamente proceduto a una delibera di
distribuzione di utili, anche in sede di assemblea
Note:
(10) Sulle modalità di provare la data certa si veda anche V. Artina, «I versamenti dei soci a titolo di finanziamento», in C.T. n.
16/2001, pag.1182. Per una disamina approfondita del concetto di
data certa si rinvia a V. Rizzo, «Data, data certa», Digesto, 1992,Torino, pagg. 107-120.
(11) Si confronti Cass., 26 febbraio 1997, n. 10539 in Banca Dati
BIG, IPSOA, nella quale si esplicita chiaramente la portata della
presunzione relativa ex art. 9 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637
relativamente alla connotazione nell’attivo ereditario di beni e diritti che siano stati trasferiti a terzi a titolo oneroso negli ultimi
sei mesi di vita del defunto, per la quale si richiede ai fini dell’opponibilità all’Amministrazione finanziaria una scrittura privata
con data certa anteriore. Nel medesimo senso ancora Cass. 17
dicembre 1999, n. 2402; Id., 30 novembre 2007, n. 1172, in Fisconline, con commento di P.Turis.
(12) In tal senso si confrontino M. Nessi, «Criteri di verifica della
data di delibera di distribuzione di riserve di utili», in Pratica Professionale - I casi n. 7-8/2004, pag. 28; G. Gasparoni, «Registrazioni
atti - Verbali di assemblea», in Prat. fisc. e prof. n. 20/2004, pag. 42;
E. Zanetti, «Le limitazioni alla fruizione del credito di imposta sui
dividendi», in Temi on line Eutekne n. 10/2003, scheda n. 674.04,
pag. 9.
(13) Sulla necessità di dare data certa ai documenti societari solamente di fronte ad una pretesa tributaria in tal senso si veda
anche C. Puligheddu, «Le limitazioni di cui all’art. 2704 c.c. non
possono essere applicate al rapporto fisco-contribuente» in questa Rivista n. 1/2000, pag. 81 a commento di Comm. trib. prov. Pisa, Sez. II, 12 ottobre 1998, n. 211.
Merito
totalitaria, prima di venire a conoscenza delle disposizioni di cui all’art. 40 del D.L. n. 269/2003,
non si può certo pretendere che essa abbia adottato
accorgimenti idonei - e peraltro non obbligatori ad attribuire data certa all’assemblea posto che
proprio in forza dell’ignoranza delle disposizioni
del decreto (e quindi in perfetta buona fede) non
poteva sapere della ipotetica necessità di dotarsi di
tali mezzi di prova.
A tal punto si ritiene che i giudici bene abbiano
fatto a respingere le richieste degli organi accertatori, ancorché, a parere di chi scrive, non sembrano delineate le giuste ragioni per compensare le
spese di giudizio.
Infatti, l’art. 15 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.
546 prevede la facoltà per la Commissione tributaria di dichiarare la compensazione parziale o totale
Giurisprudenza
delle spese di giudizio, nei casi previsti dall’art.
92, secondo comma, del codice di procedura civile
e cioè in presenza di soccombenza reciproca o di
giusti motivi.
Peraltro, si segnala come in merito alla compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi, ripetutamente se ne è affermato l’abuso da parte
delle Commissioni tributarie che viceversa nella
prassi hanno ridotto a regola generale ciò che al
contrario è configurata dalla normativa come eccezione (14).
Nota:
(14) G.Verna, «Sulle spese di giudizio e sulla prassi di disporne la
compensazione nel processo tributario», in Boll. trib., 2006, pag.
655; R. Lupi, «La condanna alle spese come valutazione di diligenza», in Dialoghi dir. trib. n. 6/2006, pag. 788.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
261
Giurisprudenza
Merito
Statuto del contribuente
Avviso di accertamento nullo
se preceduto da un pvc
non notificato al contribuente
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XXIV, Sent. 18 novembre 2008
(20 ottobre 2008), n. 303 - Pres. Orsatti - Rel. Ingrillì
Statuto del contribuente - Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica - Avviso di accertamento fondato su processo verbale di constatazione della Direzione regionale - Informazioni
raccolte dalla Guardia di finanza in esecuzione di indagini di Polizia giudiziaria - Notifica del
verbale al contribuente - Necessità - Omissione - Conseguenze - Nullità dell’avviso di accertamento
Ai sensi dell’art. 12 della legge n. 212/2000 (cd. Statuto del contribuente), deve ritenersi illegittimo l’avviso di accertamento fondato su un processo verbale di constatazione redatto
dalla Direzione regionale delle entrate, sulla base di informazioni raccolte dalla Guardia di
finanza in esecuzione di indagini di Polizia giudiziaria, non notificato al contribuente.
Atteso che alle indagini penali non può riconoscersi valenza di verifica fiscale, deve ritenersi
violato l’obbligo di notifica del pvc ritraibile (anche) dall’art. 12 dello Statuto del contribuente, il quale prevede infatti che, in presenza di una verifica fiscale, l’Amministrazione
deve rilasciare al contribuente copia del processo verbale di chiusura ed attendere il termine
di 60 giorni prima di notificare l’avviso di accertamento.
Svolgimento del processo
In data 21 dicembre 2007, l’Agenzia delle entrate
Ufficio di ..., notificava alla ... l’avviso di accertamento n. ... per un valore pari ad euro ... avente per
oggetto un credito IVA, relativo all’anno 2002, risultante dalla dichiarazione presentata dalla ricorrente,
per la predetta annualità, poi definito con adesione
al condono previsto dalla legge n. 289/2002.
In seguito, l’Agenzia delle entrate notificava alla
ricorrente l’avviso di accertamento in oggetto, sulla base di un processo verbale di contestazione redatto dalla Direzione regionale della Lombardia,
in cui veniva disconosciuto il credito IVA di euro
... scaturente dalla dichiarazione per l’anno 2002.
In data ... la ricorrente depositava istanza di adesione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. n. 218/1997,
che si concludeva con esito negativo. Pertanto, in
data ... la ricorrente proponeva ricorso avanti la
262
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Commissione tributaria provinciale, chiedendo: in
via preliminare e pregiudiziale, la sospensione dell’atto impugnato, ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. n.
546/1992; nel merito, l’annullamento dell’avviso
di accertamento. La ricorrente chiedeva, altresì, la
discussione della controversia in pubblica udienza,
ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992.
In particolare, la ricorrente lamentava:
1) l’illegittimità dell’atto impugnato, per violazione dell’art. 12 della legge n. 212/2000, in quanto
non era stato notificato al contribuente il processo
verbale di contestazione redatto dalla Direzione
regionale Lombardia;
2) la violazione dell’art. 9 della legge n. 289/2002,
in quanto l’annualità in oggetto era stata definita
tramite l’adesione al condono, comportando la
preclusione, nei confronti del dichiarante, di ogni
accertamento tributario;
Merito
3) la violazione dell’art. 55 del D.P.R. n.
633/1972, in quanto l’Ufficio aveva operato tramite l’accertamento analitico e non induttivo, stante
che, nel caso di specie, non aveva avuto accesso
alle scritture contabili della ricorrente.
In data ... si costituiva in giudizio l’Agenzia delle
entrate Ufficio di ..., chiedendo il rigetto del ricorso. L’Ufficio, in particolare, lamentava:
1) che il processo verbale della Direzione regionale Lombardia non era un atto per cui esisteva l’obbligo di essere notificato al contribuente;
2) che l’adesione al condono ex legge n. 289/2002,
non privava l’Ufficio della facoltà di contestare il
credito IVA, relativo ad un periodo di imposta, definito mediante tale procedura.
Con decreto, in data ... la Commissione, ritenuto
che l’istituto della sospensione si applica soltanto
ad atti prodromici al compimento di atti esecutivi,
dichiarava inammissibile l’istanza di sospensione,
rinviando la trattazione del merito al ....
In data ... la ricorrente depositava una memoria integrativa, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
Giurisprudenza
to penale a carico di soggetti riconducibili alla società ricorrente, dunque, senza svolgere alcuna verifica fiscale. Secondariamente, in quanto l’utilizzo a fini fiscali di elementi probatori, acquisiti nel
corso di un procedimento penale, non rappresenta
un atto assimilabile al processo verbale di contestazione, redatto alla conclusione delle verifiche
fiscali condotte dall’ente impositore.
La Commissione rileva che le indagini della Guardia di finanza non hanno alcuna valenza, ai fini
degli obblighi di comunicazione previsti dall’art.
12 della legge n. 212/2000, ed inoltre, è incontestabile che la Direzione regionale delle entrate della Lombardia abbia poi eseguito un processo verbale di contestazione, il quale, ai sensi della norma
sopra citata, doveva venire notificato al contribuente, ai fini della decorrenza del termine di 60
giorni, prodromici all’emissione dell’avviso di accertamento.
P.Q.M.
La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.
Motivi della decisione
La Commissione richiama tutto quanto argomentato, dedotto e prodotto dalle parti.
La Commissione ritiene fondato il primo motivo
di gravame prospettato dalla ricorrente: infatti, è
stata fornita prova della violazione, da parte dell’Ufficio, dell’art. 12 della legge n. 212/2000 (cd.
«Statuto del contribuente»), il quale prevede che,
in presenza di una verifica fiscale, l’Amministrazione finanziaria deve rilasciare al contribuente
copia del processo verbale di chiusura delle operazioni e di attendere il termine di 60 giorni, prima
della notifica dell’avviso di accertamento.
L’Ufficio, costituendosi in giudizio, ha confermato
le prospettazioni di parte ricorrente, limitandosi a
rilevare che la fattispecie, oggetto del presente
giudizio, non rientrerebbe fra le ipotesi di cui all’art. 12 della legge n. 212/2000, in particolare
perché non vi sia stata alcuna verifica fiscale a carico della ricorrente.
La Commissione ritiene prive di fondatezza le difese dell’Ufficio, per due ragioni. La prima, perché, nel caso di specie, gli agenti della Guardia di
finanza hanno eseguito operazioni di accesso presso la sede della ..., in esecuzione di incarichi di
polizia giudiziaria, nell’ambito di un procedimenGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
263
Giurisprudenza
Merito
Nell’ambito dei controlli sostanziali
il processo verbale di constatazione
va sempre redatto e notificato al contribuente
di Antonio Tomassini
I giudici della Commissione tributaria di Milano hanno ritenuto meritevole di annullamento
un avviso di accertamento che recepiva le risultanze di un processo verbale di constatazione mai notificato al contribuente, il quale, pertanto, in violazione dell’art. 12 dello Statuto
del contribuente, si era visto precludere la
possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa mediante la presentazione di osservazioni
difensive in relazione al verbale stesso. La sentenza riguarda una serie di interessanti questioni, quali quelle che ruotano attorno all’obbligo di redazione e notifica del processo verbale di constatazione, all’utilizzo di dati acquisiti presso terzi soggetti e alle conseguenze
sull’atto impositivo delle cd. violazioni procedimentali, oggi per la gran parte «cristallizzate»
nello Statuto del contribuente.
La sentenza in commento consente di svolgere alcune riflessioni in ordine all’obbligo, per l’Amministrazione finanziaria, di redigere il processo verbale di constatazione nel caso in cui debba elevare
rilievi di carattere sostanziale, nonché sul correlato obbligo di notificare ritualmente tale atto al
contribuente in modo da concedere a quest’ultimo
la possibilità, nei 60 giorni successivi alla notifica,
di presentare osservazioni difensive ai sensi dell’art. 12, comma 7, legge n. 212/2000 (cd. Statuto
del contribuente).
La sentenza, infatti, seppur in modo un po’ stringato, «tocca» una serie di interessanti questioni,
quali quelle che ruotano attorno all’obbligo di redazione e notifica del processo verbale di constatazione, all’utilizzo di dati acquisiti presso terzi
soggetti e alle conseguenze sull’atto impositivo
delle cd. violazioni procedimentali, oggi per la
gran parte «cristallizzate» nello Statuto del contribuente.
I giudici, in particolare, ritengono meritevole di
264
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
annullamento l’avviso di accertamento che recepisce le risultanze di un processo verbale di constatazione mai notificato al contribuente che, per tale
ragione, in violazione dell’art. 12, comma 7, citato, si è visto precludere la possibilità di esercitare
il proprio diritto di difesa mediante la presentazione di osservazioni difensive in relazione al verbale
medesimo.
La vicenda contenziosa
La causa origina dall’acquisizione da parte della
Guardia di finanza, nel corso di una indagine penale a carico di un soggetto diverso dal contribuente, di elementi dai quali si poteva dubitare
della spettanza di un credito IVA utilizzato da quest’ultimo.
Tali elementi, previa autorizzazione all’utilizzo
degli stessi a fini fiscali rilasciata dall’Autorità
giudiziaria competente, venivano «elaborati» dalla
Direzione regionale della Lombardia che compendiava un rilievo a carico del contribuente parte
della causa in oggetto in un processo verbale di
constatazione mai notificato a quest’ultimo.
Tale processo verbale di constatazione veniva trasmesso all’Agenzia delle entrate competente per
territorio che ne recepiva le risultanze in un avviso
di accertamento con il quale disconosceva la spettanza del credito IVA.
Il contribuente eccepiva, tra l’altro, l’illegittimità
del comportamento dell’Amministrazione finanziaria in relazione alla mancata notifica del processo verbale di constatazione, circostanza che
avrebbe impedito l’esercizio del proprio diritto di
difesa mediante la presentazione di osservazioni
difensive nei 60 giorni successivi alla notifica del
verbale.
L’Agenzia delle entrate, nella propria costituzione
in giudizio, sosteneva che il processo verbale redatto dalla Direzione regionale non fosse un atto
Antonio Tomassini - Avvocato in Milano
Merito
per cui esisteva l’obbligo di notifica al contribuente.
La Commissione tributaria provinciale di Milano
accoglie le doglianze del contribuente, stigmatizzando l’obbligo di notifica del processo verbale di
constatazione e annullando l’avviso di accertamento che ne è scaturito.
L’obbligo di redazione e notifica
del processo verbale di constatazione
L’art. 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (norma
ancor oggi in vigore) sancisce che le violazioni
delle norme contenute nelle leggi finanziarie devono essere «constatate mediante processo verbale».
Tale disposizione chiarisce la funzione svolta dal
processo verbale di constatazione nell’ambito del
procedimento tributario. Con esso i verbalizzanti
compendiano le risultanze delle spesso complesse
operazioni di verifica svolte nei confronti del contribuente (1).
La stessa Corte di cassazione (2) ha sottolineato
come «il processo verbale di constatazione è atto
che si inserisce nell’attività istruttoria espletata
dall’Amministrazione finanziaria» dovendo dare
conto delle prove che giustificano l’emissione dell’avviso di accertamento che conclude il procedimento di imposizione.
Le eccezioni a tale generale principio sono rappresentate dai cosiddetti controlli formali (artt. 36-bis
e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973), dall’invio di questionari e, entro certi limiti, dai cd. accertamenti
parziali, in particolare quando non vi sia necessità
di effettuare riscontri sostanziali e la posizione del
contribuente risulti chiaramente delineata (ad
esempio, in caso di accertamento del socio di società di persone conseguente all’accertamento in
capo alla società), ma, ovviamente, sono ipotesi
che nulla hanno a che vedere con le attività di verifica sostanziale della posizione del contribuente,
come quelle poste in essere nel caso in esame.
Peraltro la scansione degli atti (processo verbale
di constatazione per la fase istruttoria e avviso di
accertamento a conclusione del procedimento impositivo) assume ancor più rilevanza a seguito dell’adozione dello Statuto del contribuente.
L’art. 12, comma 4, dello Statuto riguarda infatti il
processo verbale di constatazione come uno strumento di tutela del contribuente nella fase di verifica (3). E tale disposizione è intimamente connessa alla successiva previsione di cui al comma 7
Giurisprudenza
dello stesso art. 12, che distingue nettamente tra
fase istruttoria (culminante nel processo verbale di
constatazione) e fase impositiva (culminante nell’avviso di accertamento).
La mancata redazione del processo verbale di constatazione nei confronti del contribuente destinatario di un controllo sostanziale determina dunque, a
nostro modo di vedere, oltre che la violazione del
citato art. 24 della legge n. 4/1929, anche la violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, così come correttamente ritenuto dai
giudici nella sentenza in commento.
Del resto se un ormai consolidato orientamento
della giurisprudenza di merito (messo “in crisi”
solo in parte da una stringata quanto discutibile
pronuncia della Suprema Corte) (4) ritiene illegittimo l’avviso di accertamento emesso prima dello
spirare del termine di 60 giorni dalla redazione del
processo verbale di constatazione per violazione
del più volte citato comma 7, a maggior ragione la
stessa conclusione dovrebbe essere raggiunta nel
Note:
(1) Su questi aspetti cfr. M. Fanni, «Processo verbale di constatazione e avviso di accertamento: indagine sulle posizioni della giurisprudenza con riguardo ad un rapporto spesso problematico»,
in Dir. prat. trib., 2005, I, pag. 805.
(2) Cass. civ., Sez. I, 15 gennaio 1998, n. 4312, in questa Rivista n.
3/1999, pag. 217, con commento di A. Renda, «Non impugnabilità
del processo verbale di constatazione e possibilità di tutela per il
contribuente nella fase istruttoria».
(3) Su queste posizioni si vedano anche AA.VV., Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, Milano, 2005, pag. 448.
(4) Sul consolidato orientamento della giurisprudenza di merito
v., tra le altre, Comm. trib. prov. di Brescia, 7 marzo 2002, n.
12/09; Comm. trib. prov. di Roma, Sez. XX, 30 ottobre 2002, n.
556; Comm. trib. prov. di Pordenone, Sez.V, 19 gennaio 2005, n. 1,
in questa Rivista n. 5/2005, pag. 483, con commento di F. Castelli,
«L’avviso di accertamento emanato prima dei 60 giorni dal rilascio del p.v.c. e il regime IVA delle prestazioni proprie delle società di “factoring”»; Comm. trib. reg. di Roma 4 luglio 2007, n.
197, che peraltro riguardava il caso, assimilabile a quello di specie, di un contribuente che si è visto disconoscere la spettanza di
crediti di imposta.
Quanto alla pronuncia della Corte di Cassazione citata nel testo,
che sembra distanziarsi da tale orientamento, si tratta dell’ordinanza 18 luglio 2008, n. 19875, nella quale i Supremi giudici, senza
invero proporre un adeguato percorso argomentativo a supporto, precisano che dal mancato rispetto del termine di 60 giorni di
cui all’art. 12, comma 7, dello Statuto non conseguirebbe ipso iure
la nullità dell’avviso di accertamento in quanto il diritto di difesa
del contribuente resterebbe comunque garantito sia in via amministrativa (autotutela) che giudiziaria (ricorso al giudice tributario). Come a dire, ci sembra, che il comma 7 inquadrerebbe una
disposizione inutiliter data e ciò, invero, suscita qualche perplessità.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
265
Giurisprudenza
Merito
caso ove sia stato emesso direttamente l’avviso di
accertamento, «saltando» tutta la fase istruttoria
propedeutica (5).
Senza voler qui soffermarsi sulla natura del procedimento tributario e su quali siano le eventuali
violazioni procedimentali idonee a travolgere, secondo lo schema dell’invalidità derivata, la legittimità dell’atto conclusivo (i.e. l’avviso di accertamento) del procedimento medesimo, sembra si
possa ritenere che tra queste violazioni debba rientrare la mancata redazione e/o notifica del processo verbale di constatazione: per tale ragione, a nostro avviso, bene hanno fatto i giudici della sentenza in commento ad annullare l’avviso di accertamento impugnato (6) (7).
L’acquisizione e l’utilizzazione di elementi
acquisiti presso soggetti terzi
rispetto destinatario dell’accertamento
È frequente che gli organi verificatori, nell’esercizio delle loro legittime facoltà (anche per finalità
di Polizia giudiziaria, come è avvenuto nel caso di
specie), si trovino in possesso di documenti che riguardano posizioni di altri contribuenti.
La «legittima disponibilità» di tale documentazione non va tuttavia confusa con il suo eventuale
successivo utilizzo ai fini di un controllo sostanziale a carico di soggetti terzi.
Per eseguire un controllo a carico di soggetti terzi
occorre infatti una distinta autorizzazione che consenta di intraprendere una ulteriore e diversa attività ispettiva, attività che deve rispettare le regole
e le garanzie che la legge pone a presidio del corretto estrinsecarsi del procedimento tributario (8).
E, si badi bene, si tratta di un’autorizzazione all’accesso amministrativo che nulla ha a che vedere
con l’autorizzazione all’utilizzo di dati a fini fiscali intervenuta anche nella vicenda contenziosa in
esame. L’autorizzazione all’utilizzo di dati a fini
fiscali da parte dell’Autorità giudiziaria è infatti
prevista a salvaguardia del segreto delle indagini
penali e non ha alcuna finalità di tutela nei confronti del contribuente (9).
Non v’è dubbio dunque, da un lato, che l’Amministrazione finanziaria possa acquisire ed utilizzare dati fiscalmente rilevanti nei confronti di persone diverse da quelle indicate nel provvedimento
autorizzatorio (dell’Autorità giudiziaria o del capo dell’Ufficio) riguardante un dato soggetto. Diversamente opinando, verrebbe meno uno degli
266
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
strumenti investigativi più efficaci a disposizione
Note:
(5) La centralità del rispetto di tale forma di contraddittorio preventivo e delle garanzie procedimentali riconosciute nella fase
istruttoria è richiamata dalla unanime dottrina (cfr., per tutti, Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, IPSOA, 2001,
pag. 431).
(6) Il tema delle violazioni procedimentali in grado di invalidare
l’atto conclusivo del procedimento è tema assai affascinante e dibattuto. La «soluzione» che appare preferibile consiste nel negare che la totalità delle violazioni procedimentali sia in grado, in
ambito tributario, di travolgere la legittimità dell’accertamento.
Secondo la concezione attualmente prevalente, il procedimento
tributario inquadra un procedimento amministrativo atipico, ove
lo schema dell’invalidità derivata non sembra poter operare automaticamente, anche se, allo stato attuale del dibattito, risulta
ancora difficile individuare un criterio risolutivo per distinguere
tra caso e caso ed individuare violazioni «invalidanti» l’atto conclusivo del procedimento. Certo è che laddove vengano a determinarsi lesioni di posizioni giuridiche soggettive qualificate del
contribuente e violazioni alle disposizioni poste a presidio del
buon andamento e del regolare svolgimento del procedimento
tributario, non può non conseguire una declaratoria di illegittimità dell’atto fondato sulle risultanze di tali elementi, come, ribadiamo, deve avvenire nel caso di mancata redazione del processo
verbale di constatazione (sul tema si rimanda, in particolare, all’interessante scritto di D. Cardone e M. Di Siena, «I vizi della fase ispettiva e le conseguenze degli stessi sul provvedimento di
accertamento: considerazioni problematiche alla luce di una recente pronunzia della Cassazione», in il fisco n. 44/2005, pag.
6865).
(7) Ed invero sarebbe interessante indagare (anche se sul tema
non possiamo dilungarci in questa sede) se alla medesima conclusione di illegittimità dell’avviso di accertamento si giunga nei casi
in cui, pur in presenza di un verbale di constatazione regolarmente notificato, non vengano redatti e notificati i verbali di verifica o
giornalieri che dovrebbero precederlo. Si ricorda che tali verbali,
al pari di quello di constatazione, rientrano tra gli atti pubblici e,
essendo assistiti da fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.,
fanno piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che li ha formati nonché delle
dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale
attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Essi non sono
dunque atti interni all’Amministrazione finanziaria ma vanno portati a conoscenza del contribuente. È, nella sostanza, sulla base di
tali considerazioni che la Commissione tributaria centrale, con
sentenze 7 aprile 2005, n. 3170 e 10 novembre 1999, n. 6760, ha
avuto modo di precisare che la stesura del processo verbale di
verifica ha il medesimo rilievo della redazione processo verbale
di constatazione, sicché un avviso di accertamento redatto sulla
base del solo processo verbale di constatazione, non proceduto
da verbali giornalieri, deve essere considerato illegittimo.
(8) Sul tema v. A. Amatucci, «Acquisibilità della documentazione
di terzo in sede di accesso domiciliare», in C.T. n. 19/1996, pag.
1557; A. Mondini, «Accesso al domicilio ed estensibilità soggettiva», in Dir. prat. trib., 1994, pag. 881; A. Tomassini - A. Tortora, «Acquisizione ed utilizzazione di documentazione riferita a soggetti
diversi dal contribuente verificato», in il fisco n. 2/2006, pag. 249).
(9) Come correttamente precisa, tra le altre, Cass., 16 marzo
2001, n. 3852, in Banca Dati BIG, IPSOA.
Merito
dell’Amministrazione medesima, essendo, «l’incrocio di dati e notizie», una delle modalità tipiche con le quali vengono eseguiti i controlli.
Tuttavia va stigmatizzato con forza, dall’altro lato,
che gli organi verificatori devono rispettare i diritti e le garanzie che la legge riconosce al soggetto
terzo. Tra questi v’è sicuramente quello di vedersi
notificare, laddove siano stati destinatari, come nel
caso in esame, di un controllo sostanziale che
prende avvio da dati acquisiti presso terzi soggetti,
un processo verbale di constatazione (10) sulla base del quale presentare osservazioni difensive o
magari definire il procedimento secondo le nuove
modalità contemplate dall’art. 5-bis del D.Lgs. n.
218/1997, pagando la totalità delle imposte liquidabili sulla base dei rilievi elevati e le sanzioni ridotte ad un ottavo del minimo.
Giurisprudenza
L’acquisizione di documentazione presso un soggetto terzo, in definitiva, deve rappresentare solo
il momento di inizio di un nuovo controllo, il quale poi dovrà essere eseguito secondo le prescritte
modalità (11).
A ben guardare, dunque, sembra che le modalità
accertative utilizzate nel caso di specie appalesino
dei profili di illegittimità anche sotto tale connesso
punto di vista.
Note:
(10) Su queste posizioni cfr. Cass., 6 agosto 2008, n. 21153, in Banca
Dati BIG, IPSOA.che ha deciso su un caso molto simile a quello di
specie.
(11) Su tali aspetti, v., amplius, A.Tomassini - A.Tortora, op. loc. cit.,
pag. 252 ss.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
267
Giurisprudenza
Merito
Sanzioni
Non è sanzionabile
l’inadempimento causato
da grave stato di salute
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XXI, Sent. 24 ottobre 2008 (10
ottobre 2008), n. 313 - Pres. Davigo - Rel. Chiametti
Sanzioni - Cause di non punibilità - Grave stato di salute del contribuente - Sussistenza
La sanzione tributaria rappresenta la misura punitiva che il contribuente deve corrispondere al Fisco a causa delle proprie inadempienze, inattività, violazioni o inosservanze di qualsivoglia norma.
Data questa premessa, deve ritenersi non sanzionabile, ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n.
472/1997, il contribuente che non abbia adempiuto agli obblighi tributari a causa del proprio grave stato di salute, tale da escluderne la capacità d’intendere e di volere.
Fatto
Ricorso contro avviso di accertamento ai sensi
dell’art. 41 del D.P.R. n. 600/1973, relativo all’anno 1999, notificato il 27 novembre 2007, riguardante maggiore imposta accertata IRPEF, per redditi non dichiarati rientranti nella categoria dei
redditi diversi disciplinati dall’art. 81 del D.P.R. n.
917/1986.
Con ricorso presentato tempestivamente, il ricorrente contestava l’avviso di accertamento redatto
ai sensi dell’art. 41 relativo al reddito non dichiarato per euro 12.794.000, reddito assimilato a reddito di lavoro dipendente e compensi di attività
commerciale e attività di lavoro autonomo (euro
7.898.000 + euro 1.296.00 + euro 3.000.000) = euro 12.794.000 non dichiarati a suo tempo.
L’Ufficio era venuto a conoscenza di tali importi
in quanto gli stessi compensi erano stati dichiarati
dai sostituti d’imposta con mod. 770 per l’anno
1999, percepiti dal ricorrente.
Nel proprio ricorso parte ricorrente non contestava
le singole voci sopra citate e di conseguenza i relativi importi, ma sottolineava il fatto che era ed è
una persona ammalata (stato di salute molto precario).
268
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Allegava al proprio ricorso copia fotocopiata di
certificati medici, esami clinici e quanto di simile.
Affermava che era disposto a pagare le imposte
ma non le sanzioni vere e proprie, a causa della
malattia.
L’Ufficio si costituiva in giudizio il 25 marzo
2008, affermando la bontà del proprio operato e
sottolineava il fatto che il ricorrente non aveva
contestato le singole riprese, neppure in modo
molto pacato. Non condivideva il comportamento
del contribuente che era dipeso unicamente dal
proprio stato di salute, situazione che gli avrebbe
impedito di rispondere all’invito dell’Ufficio, producendo copiosa documentazione sanitaria.
Alla stregua di ciò, l’Ufficio chiedeva il rigetto del
ricorso.
Presenti all’udienza le parti che hanno insistito
nelle proprie richieste ed eccezioni.
Il Collegio giudicante distingue il problema in due
aspetti; il primo riguardante le imposte, ed il secondo le sanzioni.
Circa il primo punto, il Collegio non può che confermare l’operato dell’Ufficio, tenuto conto che il
maggiore reddito non dichiarato scaturiva da un
avviso di accertamento redatto ai sensi dell’art. 41
Merito
del D.P.R. n. 600/1973, rientrante nella categoria
dei redditi diversi disciplinati dall’art. 81 del
D.P.R. n. 917/1986.
Trattandosi di redditi non dichiarati all’epoca dal
contribuente (l’anno esaminato dall’Agenzia delle
entrate era il 1999) e non contestati nel ricorso
dallo stesso contribuente, al Consesso giudicante
non rimane che confermare «tout court» l’operato
dell’Ufficio.
La ripresa effettuata dall’Ufficio viene confermata
in quanto il reddito a suo tempo prodotto avrebbe
dovuto scontare le relative imposte sin dal momento della sua percezione.
Non avendo assolto all’epoca le imposte, è corretto che il contribuente le corrisponda ora.
Sul problema sanzioni, la Sezione giudicante rileva quanto segue.
È noto che la sanzione è il «quantum», vale a dire
la misura punitiva che il contribuente deve corrispondere al Fisco a causa delle proprie inadempienze, inattività, violazioni o inosservanze di
qualche norma che si concretizza in campo fiscale
nel fatto di non aver corrisposto fin d’allora le relative imposte, calcolate in modo corretto.
Il Collegio giudicante non ritiene di voler sanzionare il comportamento del contribuente tenuto
conto che lo stesso era affetto da gravi malattie le
cui pezze giustificative risultano allegate al fascicolo processuale.
La Sezione giudicante lette attentamente le carte
fornite dalla parte, in particolar modo viste con attenzione il carteggio medico-clinico, tra l’altro
ben nutrito di reperti sanitari e cartelle mediche,
quali: attestato di invalidità civile rilasciato dalla
Commissione Sanitaria della Regione Lombardia,
da cui risultava un’invalidità totale e permanente
nella misura del 100%; nonché documentazione rilasciata da specialista in psichiatria, sulle malattie
o menomazioni di cui il contribuente era ed è affetto, ed altro ancora.
Tutta la documentazione medico-sanitaria che è di
supporto al ricorso ha convinto il Collegio giudicante ad annullare le sanzioni inflitte dall’Ufficio
(cumulo giuridico ed altro) in quanto il comportamento del contribuente era dipeso unicamente dallo stato di salute (sempre peggiorativo) dello stesso ricorrente.
Ritiene corretto il Collegio annullare le sanzioni ai
sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n. 472/1997, che così
recita: «Non può essere assoggettato a sanzione
Giurisprudenza
chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva, in base ai criteri indicati nel codice penale,
la capacità di intendere e di volere».
La Sezione giudicante ha tenuto conto della malattia del ricorrente.
P.Q.M.
In parziale accoglimento del ricorso annulla le
sanzioni ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n.
472/1997. Conferma nel resto l’atto impugnato.
Spese compensate.
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
269
Giurisprudenza
Merito
Sanzione amministrativa tributaria
e capacità d’intendere e di volere del trasgressore
di Franco Batistoni Ferrara
Una patologia accertata compromette l’esistenza della capacità d’intendere e di volere e,
quindi, l’imputabilità del comportamento, requisito indispensabile, ai sensi dell’art. 4 del
D.Lgs. n. 472/1997, per configurare la soggezione alla sanzione, che ha carattere punitivo e
presuppone, per la sua irrogazione, imputabilità ed elemento soggettivo (dolo o colpa).
Il principio di diritto affermato nella sentenza che
si commenta si deve ritenere corretto.
Risulta dalla motivazione che la violazione imputatagli (omissione della dichiarazione ai fini dell’IRPEF) era stata commessa dal trasgressore in
diretta dipendenza da stato di malattia, ampiamente documentato, che ne aveva determinato l’invalidità totale e permanente, per quanto consta non
connessa a comportamento volontario. Secondo i
giudici, la patologia accertata comprometteva l’esistenza della sua capacità d’intendere e di volere
e, quindi, l’imputabilità del comportamento, requisito indispensabile, ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs.
18 dicembre 1997, n. 472, per configurare la sog-
270
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
gezione alla sanzione, che ha carattere punitivo e
presuppone, per la sua irrogazione, imputabilità ed
elemento soggettivo (dolo o colpa).
La fattispecie differisce, perciò, radicalmente, da
quella decisa dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (1), che aveva escluso, invocando la forza maggiore (art. 6 del D.Lgs. n.
472/1997) l’applicazione della sanzione ad una
persona che si era assoggettata a programmi di recupero per tossicodipendenza, senza, peraltro, che
ne risultassero limitazioni alla sua libertà personale, né, (facendo riferimento all’art. 4 dello stesso
decreto) uno stato di malattia che comportasse il
venir meno dell’imputabilità (2).
Franco Batistoni Ferrara - Professore ordinario di Diritto tributario presso l’Università di Pisa
Note:
(1) Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, 16 maggio 2007, n. 290, in
C.T. n. 26/2007, pag. 2109, con commento di Franco Batistoni Ferrara, «I giudici di merito esonerano il contribuente tossicodipendente dall’applicazione delle sanzioni».
(2) Cass. pen., 23 novembre 1998, in Riv. pen. 1989, 792, Id., 5 febbraio 1986, ivi, 1987, 364; Id., 28 aprile 1982, ivi, 1983, 403.
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
Osservatorio
Osservatorio di giurisprudenza tributaria
di Cesare Glendi
e Mariagrazia Bruzzone
Accertamento
Riscossione
Accertamento analitico-induttivo ....
Accertamento bancario ....................
Notificazione dell’avviso di accertamento............................................
Studi di settore ................................
pag. 272
pag. 272
pag. 273
pag. 273
Cartella di pagamento......................
Fermo di beni mobili registrati ........
Ipoteca.............................................
Riscossione coattiva ........................
pag. 279
pag. 280
pag. 280
pag. 280
Condoni
Proroga dei termini per l’accertamento ..............................................
pag. 273
Disposizioni antielusive
Imposte sui redditi...........................
pag. 273
IRPEF
Detrazioni........................................
pag. 274
ONLUS
Caratteristiche e requisiti.................
pag. 274
Processo tributario
Giudizio di appello ..........................
Giudizio di ottemperanza ................
Giurisdizione ...................................
Litisconsorzio ed intervento ............
Onere della prova ............................
pag. 274
pag. 275
pag. 275
pag. 277
pag. 277
Reati tributari
Falsità in atti....................................
pag. 278
Redditi d’impresa
Determinazione ...............................
pag. 278
Rimborso
Imposte sui redditi...........................
pag. 278
«Osservatorio di giurisprudenza tributaria»:
L’Osservatorio consolidato è ora on line
www.ipsoa.it/gtonline
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
271
Osservatorio Ottobre 2008 - Dicembre 2008
ACCERTAMENTO
Accertamento analitico-induttivo
Persiste, nella giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo tendente a sostenere che, nel caso di società a ristretta base sociale, è ammissibile la
presunzione di distribuzione ai soci degli utili non
contabilizzati, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto
non è costituito dalla sussistenza dei maggiori
redditi induttivamente accertati nei confronti della
società, ma dalla ristrettezza della base sociale e
dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale. Pertanto, in presenza di
società di capitali a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli
utili extracontabili; attesa la mancanza - trattandosi di utili occulti - di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio (dopo la quale
soltanto può essere effettuata la distribuzione degli utili dichiarati), la distribuzione si presume
avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli
utili sono stati conseguiti (Cass., Sez. trib., 4 dicembre 2008, n. 28789, in Banca Dati BIG; Id.,
29 gennaio 2008, n. 1906, in C.T. n. 13/2008,
pag. 1049, con commento di V. Ficari; Id., Sez.
trib., 11 ottobre 2007, n. 21415, in C.T. n. 3/2008,
pag. 211, con commento di A. Benazzi; cfr. Cass.,
Sez. trib., 14 maggio 2007, n. 10982, in Banca
Dati BIG, IPSOA). In proposito, correttamente
applicando i principi già espressi dalla Suprema
Corte in tema di motivazione per relationem, i
giudici tributari di merito hanno stabilito che
l’avviso di accertamento nei confronti di società a responsabilità limitata, dal quale si fa discendere la presunzione che i maggiori utili societari sarebbero stati percepiti pro quota dal socio e
sul quale si fonda la rettifica nei confronti del socio stesso, deve essere allegato all’avviso di accertamento notificato nei confronti del socio. Ciò
in quanto l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente è categorico nel prescrivere che, se nella
motivazione dell’avviso si fa riferimento ad un altro atto, questo, a pena di nullità, deve essere allegato per consentire al contribuente di esercitare il
diritto di difesa (Comm. trib. reg. Lazio, Sez.
XXIX, 18 luglio 2008, n. 103, in questa Rivista n.
12/2008, pag. 1087, con commento di S. Muleo,
«Mancata allegazione all’avviso di accertamento
272
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
di altro avviso in esso richiamato e violazione
dello Statuto del contribuente»).
La giurisprudenza di legittimità è costante nell’attribuire rilevanza all’antieconomicità del comportamento tenuto dall’imprenditore per legittimare
rettifiche induttive (per ulteriori riferimenti, cfr.
Osservatorio, Ottobre 2007-Dicembre 2007, in
questa Rivista n. 3/2008, pag. 261; Osservatorio,
Gennaio 2006 - Marzo 2006, ivi n. 6/2006, pag.
531; Osservatorio, Gennaio 2004 - Marzo 2004,
ivi n. 6/2004, pag. 573; Osservatorio, Ottobre
2003 - Dicembre 2003, ivi n. 3/2004, pag. 275;
Osservatorio, Maggio 2002 - Ottobre 2002, ivi n.
12/2002, pag. 1163; Osservatorio, Novembre 2001
- Aprile 2002, ivi n. 6/2002, pag. 577; Osservatorio, Ottobre 2000 - Marzo 2001, ivi n. 12/2001,
pag. 1455; Osservatorio, Ottobre 2000 - Marzo
2001, ivi n. 7/2001, pag. 629). Allineandosi a tale
indirizzo interpretativo, la Suprema Corte ha recentemente cassato la sentenza impugnata nella
parte in cui è stata fondata «sull’erronea affermazione di diritto che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non legittima la indeducibilità dei maggiori costi ingiustificatamente
sostenuti dallo stesso e nella parte in cui con motivazione errata e carente afferma che i prezzi pagati dal contribuente apparivano esagerati soltanto
perché rapportati ai costi (senza tenere conto degli
utili spettanti alla società) e conclude apoditticamente che i prezzi pagati erano congrui se ricaricati degli utili societari» (Cass., Sez. trib., 15 settembre 2008, n. 23635, in C.T. n. 3/2009, pag.
208; cfr. M. Beghin, «Agevolazioni tributarie,
componenti reddituali fuori mercato ed evasione
fiscale»).
Accertamento bancario
I principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità, già segnalati (Osservatorio, Ottobre 2007Dicembre 2007, in questa Rivista n. 3/2008, pag.
259; Osservatorio, Luglio 2007 - Settembre 2007,
ivi n. 12/2007, pag. 108), trovano seguito nell’ordinanza 14 novembre 2008, n. 27186 (annotata da
C. Glendi in C.T. n. 48/2008, pag. 3909, e in Banca Dati BIG, IPSOA), con la quale, pronunciando
in camera di consiglio, la Suprema Corte ha stabilito che in sede di rettifica e di accertamento d’ufficio delle imposte sui redditi l’utilizzazione dei
dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari
acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche
quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente
dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati.
Detta presunzione opera come ordinario criterio di
valutazione degli elementi di fatto la cui introduzione nel giudizio spetta a colui su cui fa carico
l’onere probatorio, così che spetta al Fisco indicare gli elementi concreti, diversi dalla semplice relazione con l’interessato, che collegano il conto al
contribuente, elementi che possono essere anche
di semplice valenza presuntiva, quali l’assenza di
fonti apparenti che giustifichino i versamenti in
conto oppure la coincidenza tra versamenti o prelevamenti e operazioni di presumibile equivalente
valore effettuate dal contribuente o anche l’abnormità delle movimentazioni di denaro rispetto all’attività del titolare del conto.
Notificazione dell’avviso di accertamento
Chiarendo la portata, ed i riflessi sul piano dell’operatività, della sentenza della Corte costituzionale n. 360/2003 (in C.T. n. 6/2004, pag. 471, con
commento di C. Glendi), la Suprema Corte ha precisato che, ai fini delle notificazioni, nel vigore
della disciplina anteriore alle modifiche introdotte
dall’art. 37, comma 27, del D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla legge n. 248/2006,
le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del
contribuente avevavo effetto dal momento stesso
della avvenuta variazione anagrafica e non, come
previsto dall’art. 60, ultimo comma, del D.P.R. n.
600/1973, dal sessantesimo giorno successivo. Ne
conseguiva che la notificazione ex art. 140 c.p.c.
effettuata subito dopo la variazione anagrafica (nel
caso di specie, undici giorno dopo), nel Comune
della precedente residenza, doveva ritenersi nulla
(Cass., Sez. trib., 5 novembre 2008, n. 26542, annotata da C. Glendi in C.T. n. 46/2008, pag. 3746,
e in Banca Dati BIG, IPSOA).
Studi di settore
Tornando a pronunciarsi su rettifiche fondate sulle
risultanze degli studi di settore (per ulteriori riferimenti, si rinvia a Osservatorio, Gennaio 2008 Marzo 2008, in questa Rivista n. 6/2008, pag. 532;
Ottobre 2006 - Dicembre 2006, ivi n. 7/2007, pag.
Osservatorio
261; Osservatorio, Gennaio 2006 - Marzo 2006,
ivi n. 6/2006, pag. 533), la Suprema Corte, decidendo in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., ha
ribadito che la sussistenza dei presupposti per procedere ad accertamento induttivo è questione diversa da quella relativa alla fondatezza di tale accertamento, posto che la possibilità di accertare il
reddito sulla base degli studi di settore non comporta certamente una presunzione iuris et de iure
della fondatezza dell’accertamento stesso e non
impedisce al contribuente di provare l’inattendibilità del risultato - nel caso concreto - per la presenza di elementi di fatto che inducono a ritenere
«eccentrica» la situazione del contribuente rispetto a quella considerata come statisticamente
prevalente dagli studi di settore (Cass., Sez. trib.,
30 ottobre 2008, n. 26204, annotata da C. Glendi
in C.T. n. 47/2008, pag. 3833, e in Banca Dati
BIG, IPSOA).
CONDONI
Proroga dei termini per l’accertamento
La Commissione tributaria provinciale di Cosenza,
Sez. XI, con ordinanza 24 agosto 2007, n. 141,
aveva ritenuto rilevante e non manifestamente
infondata, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 289/2002, con la quale sono
stati prorogati i termini per l’accertamento di cui
all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 57 del
D.P.R. n. 633/1972 per i contribuenti che non si
sono avvalsi dei condoni previsti dagli artt. da 7 a
9 della legge n. 289/2002 (in C.T. n. 43/2007, pag.
3509, con commento di E. De Mita; per approfondimenti, si rinvia a M. Bruzzone, «Profili di incostituzionalità della proroga dei termini per gli accertamenti»). La Consulta, con sentenza 31 ottobre 2008, n. 356 (in Consulta online, www.giurcost.org), ha dichiarato la manifesta inammissibilità e l’infondatezza delle prospettate questioni di
legittimità costituzionale.
DISPOSIZIONI ANTIELUSIVE
Imposte sui redditi
La Corte di cassazione, pronunciando a Sezioni
Unite, supera il principio precedentemente affermato, secondo il quale, prima dell’introduzione
del nuovo testo dell’art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973, per effetto dell’art. 7, comma 1, del
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
273
Osservatorio Ottobre 2008 - Dicembre 2008
D.Lgs. n. 358/1997, non esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano (cfr. Cass., Sez. trib., 7 marzo 2002, n. 3345, in
Banca Dati BIG, IPSOA; Id., 3 settembre 2001, n.
11351, ivi), e, dirimendo il contrasto interpretativo
già segnalato (Osservatorio, Ottobre 2005 - Dicembre 2005, in questa Rivista n. 3/2006, pag.
256), conferma l’orientamento contrario (Cass.,
Sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932, in Banca
Dati BIG, IPSOA; Id., 21 ottobre 2005, n. 20398,
di prossima pubblicazione in questa Rivista, con
commento di L. Mariotti, e in C.T. n. 47/2005,
pag. 3729, con commento di G.M. Committeri e G.
Scifoni), stabilendo che «è inopponibile all’erario - in virtù di un generale principio di divieto di
abuso del diritto in materia tributaria, desumibile
dall’art. 53 Cost. - il negozio con il quale viene
costituito, in favore di una società residente nel
territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle
azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente, in modo da
consentire al cedente di trasformare il reddito di
partecipazione in reddito di negoziazione (esente
dalla ritenuta sui dividendi di cui all’art. 27, terzo
comma, del D.P.R. n. 600/1973) ed alla cessionaria di percepire i dividendi, sui quali, oltre a subire
l’applicazione della ritenuta meno onerosa di cui
all’art. 27, primo comma, del D.P.R. n. 600/1973
(oltretutto recuperabile in sede di dichiarazione
annuale) essa può avvalersi del credito di imposta
previsto dall’art. 14 del D.P.R. n. 917/1986, ed
inoltre di dedurre dal reddito di impresa, pro quota
annuale, il costo dell’usufrutto, allorché risulti che
il negozio stesso non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario» (Cass., SS.UU., 23
dicembre 2008, n. 30057, in Banca Dati BIG,
IPSOA).
IRPEF
Detrazioni
Intervenendo - a quanto consta per la prima volta sulla questione relativa alla spettanza, al convivente more uxorio, delle detrazioni relative alle
spese di ristrutturazione edilizia, la Corte di cassazione ha sostenuto che, ai fini della detrazione
prevista dall’art. 1, comma 1, della legge n.
449/1997 per le spese di ristrutturazione di un
immobile, deve ritenersi che il rapporto di coniu-
274
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
gio non determina una situazione di compossesso
(o di detenzione comune) di tutti gli immobili di
ciascun coniuge, ma solo di quello (o di quelli)
concretamente utilizzato (o utilizzati) anche dal
coniuge non proprietario, alla data di inizio dei lavori, a nulla rilevando la circostanza che le spese
siano eventualmente sostenute dal coniuge non
proprietario. L’applicabilità di detto principio anche al convivente «more uxorio» comporta l’onere per questi di dimostrare la detenzione dell’immobile da epoca anteriore all’inizio dei lavori
(Cass., Sez. trib., 5 novembre 2008, n. 26543, in
C.T. n. 4/2009, pag. 275; cfr. B. Ianniello, «Spese
di ristrutturazione sostenute dal convivente more
uxorio residente in un Comune diverso», ivi, pag.
270).
ONLUS
Caratteristiche e requisiti
Pronunciando sui requisiti per l’iscrizione nell’anagrafe ONLUS, le Sezioni Unite della Corte di
cassazione hanno recentemente affermato che la
solidarietà non si manifesta soltanto con il sostegno economico, in quanto ben può manifestarsi
nei confronti di persone anziane che per condizioni psicologiche, familiari, sociali o per particolari
necessità assistenziali risultino impossibilitate a
permanere nel nucleo familiare di origine. Pertanto non appare incompatibile con il fine solidaristico di una ONLUS lo svolgimento di attività
dietro pagamento. Sempre che attraverso il pagamento non si realizzi, accanto all’intento solidaristico, anche un fine di lucro. La realizzazione di
utili non esclude dunque il fine solidaristico dell’attività; occorre, però, che gli utili stessi vengano
impiegati per la realizzazione di attività istituzionali o connesse o che, comunque, non vengano distribuiti (Cass., SS.UU., 9 ottobre 2008, n. 24883,
in questa Rivista n. 1/2009, pag. 11, con commento di M. Busico, «La giurisdizione sul provvedimento di cancellazione dall’anagrafe ONLUS»;
cfr. F. Pistolesi, «È corretto attribuire al Giudice
tributario le liti sull’iscrizione delle ONLUS», in
C.T. n. 4/2009, pag. 251;cfr. infra, alla voce, Processo tributario - Giurisdizione) .
PROCESSO TRIBUTARIO
Giudizio di appello
La giurisprudenza di legittimità è costante nel ri-
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
conoscere la tassatività delle ipotesi di rimessione della causa in primo grado, previste dall’art.
59, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 (cfr. Cass.,
SS.UU., 8 ottobre 2008, n. 24775, in Banca Dati
BIG, IPSOA; Cass., Sez. trib., 30 agosto 2006, n.
18824, ivi).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, se il ricorso introduttivo o l’appello sono
consegnati alla controparte direttamente o spediti tramite ufficio postale, è causa di inammissibilità, non la mancanza dell’attestazione della
conformità tra il documento incorporante l’atto di
impugnazione depositato nella segreteria della
Commissione tributaria e il documento incorporante l’atto di impugnazione trasmesso alla controparte, ma solo la loro difformità effettiva (Cass.,
Sez. trib., 8 luglio 2005, n. 14430, in Banca Dati
BIG, IPSOA; Id., 27 agosto 2004, n. 17180, ivi).
Recentemente, è stato peraltro rilevato che qualora
l’appellato non si sia costituito, venendo a mancare in radice la possibilità di riscontrare e denunciare la difformità, si impone la declaratoria dell’inammissibilità dell’appello, in quanto, in caso
contrario, la prescritta formalità risulterebbe priva
di qualsiasi reale funzione (Cass., Sez. trib., 3 dicembre 2008, n. 28676, annotata da C. Glendi in
C.T. n. 4/2009, pag. 317, e in Banca Dati BIG,
IPSOA; Id., 22 febbraio 2008, n. 4615, in Banca
Dati BIG, IPSOA).
Si era profilato un contrasto interpretativo sulla
questione relativa alla notificazione dell’impugnazione a più parti presso un unico domiciliatario o procuratore. Prevaleva l’indirizzo tendente ad affermare che detta notificazione dovesse essere eseguita mediante consegna di un numero di
copie pari a quello dei destinatari; se le copie
fossero state in numero inferiore, non essendo
possibile stabilire la persona cui esse fossero dirette, la notificazione stessa, dapprima considerata
inesistente (Cass., Sez. III, 12 novembre 1994, n.
9547, in Banca Dati Foro it., 1981-2009), è stata
in seguito ritenuta nulla (Cass., Sez. II, 10 agosto
1998, n. 7820, in Banca Dati Foro it., 1981-2009;
Cass., SS.UU., 10 ottobre 1997, n. 9859, in Foro
it., 1997, I, col. 3137 con nota di G. Baldacci),
ammettendo la sanatoria del vizio, con efficacia ex
tunc, attraverso la costituzione in giudizio di tutte
le parti cui l’impugnazione è diretta, ovvero con la
rinnovazione della notificazione (Cass., Sez. trib.,
Osservatorio
24 gennaio 2007, n. 1574, in Banca Dati BIG,
IPSOA). Le Sezioni Unite della Suprema Corte,
investite della questione (Cass., Sez. trib., 20 giugno 2007, ord. n. 14355, in Banca Dati BIG,
IPSOA), hanno affermato l’applicabilità al processo tributario dell’art. 330 c.p.c., nella parte in
cui dispone l’eseguibilità della notifica dell’impugnazione «presso» il procuratore costituito, in
quanto la previsione contenuta nell’art. 17 del
D.Lgs. n. 546/1992 costituirebbe eccezione all’art.
170 c.p.c. (relativo alle sole notificazioni endoprocessuali), e non all’art. 330 c.p.c., ed hanno ritenuto valida la notificazione dell’atto d’impugnazione eseguita presso il procuratore costituito per
più parti mediante consegna di una sola copia
(Cass., SS.UU., 15 dicembre 2008, n. 29290, in
Banca Dati BIG, IPSOA).
Giudizio di ottemperanza
La Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha escluso
l’applicabilità dell’istituto civilistico della compensazione nel giudizio di ottemperanza, richiamando una precedente pronuncia della Sezione tributaria (Cass., Sez. trib., 24 giugno 2005, n.
13681, in Banca Dati BIG, IPSOA), e rilevando
che «la dichiarazione di estinzione del debito per
compensazione presuppone un accertamento del
Giudice che travalica i limiti fissati dal contenuto
del giudicato ed è sottratto alla sua competenza.
Ne deriva, per ineludibile sviluppo logico, che il
fermo amministrativo, finalizzato alla compensazione del debito dell’Erario con il credito vantato
a diverso titolo nei confronti del contribuente, non
può essere opposto nel giudizio di ottemperanza
ma solo in quello di cognizione, cosicché va esclusa in radice la necessità di qualsivoglia sindacato
del Giudice dell’ottemperanza sul provvedimento
di fermo, con la conseguente irrilevanza di eventuali errori di diritto commessi, dal Giudice tributario, nell’ambito di tale sindacato» (Cass.,
SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30058, in Banca
Dati BIG, IPSOA).
Giurisdizione
Muovendo da una «lettura innovativa dell’art. 37
c.p.c.» (cfr. la nota di C. Glendi, in C.T. n.
42/2008, pag. 3444, e l’Editoriale, «Tramonta la
rilevabilità “in qualunque stato e grado” del difetto di giurisdizione», in questa Rivista n. 1/2009,
pag. 5), le Sezioni Unite della Corte di cassazione,
nella sentenza 9 ottobre 2008, n. 24883 (citata suGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
275
Osservatorio Ottobre 2008 - Dicembre 2008
pra, ONLUS, Caratteristiche e requisiti), hanno
stabilito che la decisione sul merito implica la
decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti
non impugnano la sentenza o la impugnano ma
non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con
la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dall’art. 329, secondo comma, c.p.c. e dall’art. 324
c.p.c. Ne deriva che il difetto di giurisdizione può
essere dedotto in Cassazione, o rilevato d’ufficio
dal giudice, solo se sul punto non si sia formato il
giudicato implicito o esplicito. Rilevando preliminarmente l’inammissibilità della questione di
giurisdizione sollevata per la prima volta nel ricorso per cassazione, la citata pronuncia non ha superato le incertezze interpretative persistenti relativamente alla sussistenza della giurisdizione amministrativa (Comm. trib. reg. Lazio, Sez. XXII,
18 gennaio 2008, n. 198, in Banca Dati BIG,
IPSOA; TAR Emilia Romagna, Sez. I, 19 dicembre
2007, n. 4480, in Rass. trib. n. 3/2008, pag. 800,
con commento di V. Ficari, «Sulla giurisdizione
tributaria in materia di diniego di iscrizione e di
cancellazione dall’anagrafe ONLUS»; Comm.
trib. prov. Roma, Sez. LXXVII, 4 aprile 2007, n.
77, in Banca Dati BIG, IPSOA;TAR Emilia Romagna, Sez. Parma, 22 marzo 2006, n. 104, in Banca
Dati La Legge plus, IPSOA; Id., 13 dicembre
2005, nn. 552 e 577, ivi; Comm. trib. prov. Bologna, Sez. I, 8 luglio 2005, n. 112, in Banca Dati
BIG, IPSOA;TAR Lazio, Sez. II, 16 novembre
2004, n. 13087, in questa Rivista n. 4/2005, pag.
387, con nota di G. Provaggi, «A chi spetta decidere sulla cancellazione dal registro delle ONLUS») o tributaria (TAR Sicilia, Sez. I, 2 agosto
2007, n. 1903, in Banca Dati La Legge plus,
IPSOA; Id., Sez. III, 7 dicembre 2007, n. 3334, ivi;
Id., Sez. I, 9 luglio 2007, n. 1772, ivi; Comm. trib.
prov. Perugia, Sez. VI, 27 maggio 2004, n. 30, in
Banca Dati BIG, IPSOA; Comm. trib. prov. Ancona, Sez. III, 27 settembre 2004, n. 106, in questa
Rivista n. 4/2005, pag. 388, con nota di G. Provaggi, «A chi spetta decidere sulla cancellazione
dal registro delle ONLUS», in C.T. n. 1/2005, pag.
63, con nota di B. Ianniello, «La cancellazione
dall’anagrafe delle ONLUS comporta la decadenza dai benefici fiscali» e in Dir. prat. trib. n.
1/2006, II, pag. 55, con commento di F. Capello,
276
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
«Anagrafe delle ONLUS: effetti dell’iscrizione e
della cancellazione»; TAR Marche,14 aprile 2004,
n. 169, in www.giustizia-amministrativa.it) sulle
controversie aventi ad oggetto il provvedimento
di cancellazione dall’anagrafe ONLUS.
Secondo l’orientamento costantemente seguito
dalla Corte di cassazione, a Sezioni Unite (Cass.,
SS.UU., 3 dicembre 2003, n. 18508, in Banca Dati
BIG, IPSOA; Id., Ord. 22 luglio 2002, n. 10725, in
questa Rivista n. 3/2003, pag. 227, con commento
di G. Boccalatte e A. Tomassini, «La Cassazione
legittima il ricorso all’azione civile per ottenere il
rimborso delle imposte», e postilla di C. Glendi;
Id., 24 aprile 2002, n. 6036, in Banca Dati BIG,
IPSOA), sussiste la giurisdizione ordinaria qualora «l’Amministrazione abbia comunque riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione
della somma dovuta, sì che non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria,
il quantum del rimborso o le procedure con le
quali lo stesso deve essere effettuato» (Cass.,
SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18120, in questa
Rivista n. 12/2005, pag. 1081, con commento di
M. Bruzzone, «Questioni di giurisdizione e mezzi
di tutela del diritto al rimborso tributario», e in
C.T. n. 44/2005, pag. 3473, con commento di C.
Glendi); la giurisdizione tributaria è stata viceversa affermata in mancanza di una decisione definitiva che contenga una condanna dell’ente impositore al pagamento di somme dovute (della
quale può chiedersi l’esecuzione in via civile ovvero l’ottemperanza), sostenendo che deve sempre
attivarsi il procedimento di rimborso, contro il
cui rifiuto può soltanto esperirsi la tutela dinanzi
alle Commissioni tributarie (Cass., SS.UU., Ord. 8
luglio 2005, n. 14332, in questa Rivista n.
12/2005, pag. 1082). Da ultimo, intervenendo
nuovamente sulla questione, è stato stabilito che
l’art. 68, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992 attribuisce il diritto al rimborso di quanto versato, ma
non dà il titolo giuridico per ottenerlo. La sentenza tributaria di annullamento del titolo in base
al quale si assume pagata la somma di cui si chiede la restituzione non ha gli stessi effetti del riconoscimento del credito da parte dell’Amministrazione; il suo contenuto decisionale si riferisce infatti ai vizi dell’atto senza nessuna considerazione
del pagamento intervenuto nelle more processuali.
La pretesa di ottenere il rimborso di quanto versato in esecuzione dell’atto impugnato e annulla-
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
to dalla Commissione tributaria va fatta valere davanti alla giurisdizione tributaria, a norma degli
artt. 2 e 19 del D.Lgs. n. 546/1992 (Cass., SS.UU.,
8 ottobre 2008, n. 24774, in questa Rivista n.
1/2009, pag. 29, con commento di M. Basilavecchia, «Giurisdizione tributaria ma a caro
prezzo»).
Viene costantemente affermata la sussistenza della
giurisdizione tributaria sulle controversie aventi
ad oggetto avvisi di mora (o intimazioni ad adempiere) per il pagamento di tasse automobilistiche,
estendendola ad ogni questione relativa all’an o al
quantum del tributo e, quindi, anche quando si
controverta sulla decadenza dal potere impositivo,
sulla prescrizione del diritto alla riscossione o sulla regolarità dell’iscrizione a ruolo (Cass., SS.UU.,
8 luglio 2008, n. 18625 e n. 18626, in Banca Dati
BIG, IPSOA; Id., 23 maggio 2008, n. 13359, ivi).
Alla luce dei principi recentemente espressi dalla
Consulta (cfr. Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64, in
questa Rivista n. 5/2008, pag. 376, con il commento di G. Marini, «Incostituzionalità della giurisdizione tributaria e rapporti pendenti»), la Commissione tributaria provinciale di Genova, Sez. XIV,
con ordinanza 4 agosto 2008, n. 272 (in questa Rivista n. 12/2008, pag. 1072, con commento di M.
Lovisetti, «Dubbi di costituzionalità sull’attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie in materia di canone sulla pubblicità»), ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
2, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - come modificato dall’art. 3bis, comma 1, lett. b), del D.L. 30 settembre 2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 nella parte in cui stabilisce che «appartengono alla
giurisdizione tributaria ... le controversie attinenti ... il canone sulla pubblicità ...», in relazione all’art. 102, secondo comma», della Costituzione.
Trova recente conferma l’orientamento già segnalato (Osservatorio, Aprile 2007-Giugno 2007, in
questa Rivista n. 9/2007, pag. 809). E infatti, la
Corte costituzionale, con ordinanza 7 novembre
2008, n. 363 (annotata da C. Glendi in C.T. n.
47/2008, pag. 3831, e in Banca Dati BIG, IPSOA),
ha dichiarato manifestamente inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 3
del D.Lgs. n. 546/1992, sollevata in riferimento
Osservatorio
agli artt. 24, 111 e 113 Cost., nella parte in cui non
consentirebbe al giudice tributario che declini la
giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda, in quanto, nel caso (riguardante una controversia in materia di iscrizione
ipotecaria ex art. 77 del D.P.R. n. 602/1973), il
giudice tributario già deve ritenersi munito di giurisdizione sia pure per effetto dello jus superveniens costituito dall’art. 35, comma 26-quinquies,
del D.L. n. 223/2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248/2006, e perché, in ogni caso,
alla stregua del cd. diritto vivente, già sulla base
delle pronunce delle SS.UU. della Corte di cassazione n. 4109/2007 e della Corte costituzionale n.
77/2007, il giudice tributario che declini la propria
giurisdizione non chiude definitivamente il processo pregiudicando la domanda proposta, che
può, infatti, formare ancora oggetto di decisione
da parte del giudice munito di giurisdizione (cd.
translatio iudicii).
Litisconsorzio ed intervento
Senza discostarsi dall’interpretazione fornita dalle
Sezioni Unite nella nota sentenza n. 14816/2008
(cfr. Osservatorio, Aprile 2008 - Giugno 2008, in
questa Rivista n. 9/2008, pag. 821), la Sezione tributaria della Corte di cassazione ha escluso il litisconsorzio necessario tra soci di una supposta società di fatto e società stessa, trattandosi di controversia avente ad oggetto soltanto l’accertamento notificato ad un socio e dal medesimo impugnato limitandosi a «contestare la propria qualità di
socio» (Cass., Sez. trib., 17 dicembre 2008, n.
29437, annotata da C. Glendi in C.T. n. 3/2009,
pag. 241, e in Banca Dati BIG, IPSOA; cfr. infra,
alla voce Redditi d’impresa, Determinazione).
Onere della prova
Intervenendo nuovamente sulla questione relativa
alla distribuzione dell’onere della prova tra le parti
del processo (per ulteriori riferimenti, cfr. Osservatorio, Novembre 2002 - Aprile 2003, in questa
Rivista n. 6/2003, pag. 575; Osservatorio, Maggio
2001 - Ottobre 2001, in questa Rivista n. 12/2001,
pag. 1463; Osservatorio, Ottobre 2000 - Aprile
2001, in questa Rivista n. 7/2001, pag. 634), la
Suprema Corte ha sostenuto che, allorquando la
cartella di pagamento emessa per la riscossione di
contributi consortili sia motivata con riferimento
ad un Piano di classifica approvato dalla compeGT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
277
Osservatorio Ottobre 2008 - Dicembre 2008
tente autorità regionale, è onere del contribuente,
che disconosca il debito, contestare specificamente la legittimità del provvedimento ovvero il suo
contenuto, nessun ulteriore onere probatorio gravando sul Consorzio in difetto di specifica contestazione, ferma restando la possibilità, da parte del
Giudice tributario, di avvalersi dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992,
ove ritenga necessaria una particolare indagine riguardo alle modalità con le quali il Consorzio
stesso è in concreto pervenuto alla liquidazione
del contributo (Cass., SS.UU., 30 ottobre 2008,
nn. 26009, 26010, 26011 annotate da C. Glendi in
questa Rivista n. 1/2009, pag. 44 e in Banca Dati
BIG, IPSOA).
REATI TRIBUTARI
Falsità in atti
Richiamando l’orientamento espresso in precedenti pronunce (Cass., Sez. V pen., 3 agosto 1979, n.
3040; Id., 27 novembre 1989, n. 16305), la Suprema Corte ha recentemente deciso che la materiale
falsificazione del modulo F24 integra l’ipotesi
delittuosa di falsità in attestati di contenuti di
atti, prevista dagli artt. 478 e 482 c.p., quando
l’autore del falso, come nel caso di specie, sia un
privato. Ciò in quanto il modulo F24 utilizzato
per il pagamento di contravvenzioni per irregolarità fiscali (composto di due parti, sostanzialmente
identiche, che riportano gli estremi della contravvenzione e l’importo pagato, presentate all’esattore, che segna l’importo pagato su entrambe le parti
del documento, una diretta all’Agenzia delle entrate, l’altra rilasciata al contribuente con funzione di
quietanza di pagamento) non costituisce né atto
pubblico, né certificazione amministrativa, ma attestato sul contenuto di atti, in quanto attestazione
derivata dell’atto di versamento della contravvenzione, di cui riporta gli estremi essenziali (Cass.,
Sez. V pen., 24 settembre 2008, n. 36687, in questa
Rivista n. 11/2008, pag. 965, con commento di F.
Fontana, «Le conseguenze penali della falsificazione del modulo F24 rilasciato al contribuente»).
REDDITI D’IMPRESA
Determinazione
Espressamente richiamando precedenti pronunce
(Cass., Sez. trib., 16 dicembre 2005, n. 27775, in
Banca Dati BIG, IPSOA; Id., Sez. I, 23 aprile
278
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
1991, n. 4415, ivi), la Suprema Corte ha stabilito
che l’esistenza di un’attività imprenditoriale societaria richiede, ai fini fiscali, sia il requisito dell’apparenza del vincolo sociale nei confronti dei
terzi, quale indice rivelatore della reale esistenza
di tale società, sia l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi di tale vincolo, che l’Amministrazione può provare anche in via presuntiva. L’indagine in tal senso va quindi condotta con riferimento agli elementi richiesti dall’art. 2247 c.c. per la
sussistenza di un’attività societaria di fatto, consistenti nell’intenzionale esercizio in comune fra i
soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro e conferimento a tal fine dei
necessari beni e servizi (Cass., Sez. trib., 17 dicembre 2008, n. 29437, citata supra, alla voce
Processo tributario, Litisconsorzio ed intervento).
RIMBORSO
Imposte sui redditi
L’orientamento giurisprudenziale è costante nell’affermare che la presentazione dell’istanza di
rimborso ad Ufficio incompetente (funzionalmente o territorialmente) osta alla formazione di un
provvedimento di diniego, anche tacito, con la
conseguente inammissibilità del ricorso al giudice tributario per difetto di provvedimento impugnabile (da ultimo, cfr. Cass., Sez. trib., 18 novembre 2008, n. 27353; per ulteriori richiami, si rinvia a Osservatorio, Aprile 2005 - Giugno 2005, in
questa Rivista n. 9/2005, pag. 872). Si sono manifestate, invece, incertezze in relazione alla possibilità di riconoscere effetti impeditivi della decadenza all’istanza presentata all’organo incompetente.
Il rigore dell’indirizzo interpretativo era stato temperato, invocando i principi generali dell’ordinamento tributario e precisando che detta istanza, se
rivolta ad un Ufficio dell’Amministrazione finanziaria, avrebbe costituito atto idoneo ad impedire
la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso, anche anteriormente all’entrata in vigore
della legge n. 212/2000 (Cass., Sez. trib., 6 maggio 2005, n. 9407, in C.T. n. 25/2006, con commento di M. Miscali; Id., 28 luglio 2004, n. 14212,
in Banca Dati BIG, IPSOA). Discostandosi da
quest’ultima impostazione, la Suprema Corte è
tornata successivamente a sostenere che «la decadenza eventuale del contribuente dal diritto al
rimborso è sottratta alla disponibilità delle parti
Ottobre 2008 - Dicembre 2008
ed è rilevabile d’ufficio anche in sede di appello»
(Cass., Sez. trib., 28 aprile 2006, n. 10017, in
Banca Dati BIG, IPSOA, e in C.T. n. 31/2006,
pag. 2463, con commento di S. Stufano, «Non si
forma il silenzio-diniego sull’istanza di rimborso
presentata ad organo incompetente»).
RISCOSSIONE
Cartella di pagamento
Richiamando l’orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. III, 18 luglio
2002, n. 10427, in Banca Dati Foro it., 19812009; Id., Sez. trib., 5 febbraio 2001, n. 1592, ivi),
i giudici tributari di merito hanno stabilito che i
soci accomandatari, ai sensi dell’art. 2313 c.c., rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali. Il principio posto dalla disposizione giuscivilistica vale anche per le obbligazioni
di natura tributaria e, segnatamente, per l’obbligazione relativa a IVA e IRAP dovute dalla società.
Pertanto i soci accomandanti non sono responsabili delle obbligazioni della società; ove vi fosse
responsabilità solidale della società, questa è da
imputare al socio accomandatario. È pertanto illegittima la cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione direttamente nei confronti
del socio accomandante (Comm. trib. prov. Vicenza, Sez. I, 22 luglio 2008, n. 79, in questa Rivista
n. 12/2008, pag. 1081, con commento di M. Sonda, «Il socio accomandante non può essere responsabile per i debiti tributari della società»).
Pronunciando in tema di notificazioni di atti tributari sostanziali a persone giuridiche, la Suprema
Corte ha affermato la validità della notificazione
della cartella di pagamento effettuata a mani di
un socio, anziché di un soggetto contemplato dall’art. 145 c.p.c. La disposizione dell’art. 46 c.c.,
secondo cui, qualora la sede legale della persona
giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima, vale anche in tema di notificazione, con conseguente applicabilità dell’art.
145 c.p.c.; ne consegue che, ai fini della regolarità
della notificazione di atti a persona giuridica presso la sede legale o quella effettiva, è sufficiente
che il consegnatario sia legato alla persona giuridica stessa da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventual-
Osservatorio
mente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza - sicché, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario o postale risulti in alcuna
delle predette sedi la presenza di una persona che
si trovava nei locali della sede stessa, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se
da questa non dipendente, laddove la società, per
vincere la presunzione in parola, ha l’onere di
provare che la stessa persona, oltre a non essere
alle sue dipendenze, non era addetta neppure alla
ricezione di atti, per non averne mai ricevuto incarico alcuno (Cass., Sez. trib., 3 ottobre 2008, n.
24622, in C.T. n. 48/2008, pag. 3847; cfr. M. Bruzzone, «È legittima la notifica presso la sede (legale o effettiva) se l’atto è consegnato al socio», ivi,
pag. 3843). L’orientamento espresso da quest’ultima pronuncia si pone in sintonia con l’indirizzo
costantemente seguito, secondo il quale per «persona addetta alla sede» non si intende un soggetto particolarmente legittimato a ricevere l’atto, in
conseguenza delle sue mansioni, essendo sufficiente che si trovi, in forza del rapporto con l’ente,
nel luogo in cui deve avvenire la notificazione
(Cass., 26 marzo 1983, n. 2133, in Rass. trib.,
1983, II, pag. 112), non occasionalmente, ma in
virtù di un suo particolare rapporto, di lavoro o di
altro tipo, con l’ente destinatario, in modo da far
ragionevolmente ritenere che l’atto sarà consegnato al destinatario stesso (Cass., Sez. I, 12 luglio
2002, n. 10134, in Banca Dati Foro it., 19812009). Deve trattarsi di persona fisica legata all’ente da un rapporto qualificato (anche se non necessariamente caratterizzato dai connotati della
prestazione lavorativa), derivante da un incarico,
non necessariamente conferito in maniera formale,
di ricevere detto atto per conto della persona giuridica (Cass., Sez. III, 5 agosto 2002, n. 11702, in
Banca Dati Foro it., 1981-2009). L’agente notificatore è dispensato dall’accertamento della sussistenza nel consegnatario del rapporto di servizio
dichiarato, qualora le dichiarazioni rilasciate siano
concordanti con le apparenze (Comm. trib. centr.,
9 settembre 1987, n. 6109, in C.T. n. 41/1987, pag.
2822). La legittimazione alla ricezione si
presume, quindi, per il solo fatto della presenza
del soggetto nella sede sociale e dell’avvenuta
accettazione dell’atto, mentre incombe sul destinatario l’onere della prova contraria (Cass. n.
11804/2002, cit.; Id., 29 maggio 1998, n. 5304, in
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
279
Osservatorio Ottobre 2008 - Dicembre 2008
Banca Dati BIG, IPSOA; Id., 1° ottobre 1997, n.
9556, ivi; Id., 13 giugno 1992, n. 7249, in Rep.
Foro it., 1992, voce «Notificazione civile», n. 28).
Fermo di beni mobili registrati
In linea con l’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulla natura vincolata
della sequenza degli atti della riscossione (Cass.,
SS.UU., 25 luglio 2007, n. 16412, in Banca Dati
BIG, IPSOA, e già segnalata in Osservatorio,
Gennaio 2008 - Marzo 2008, in questa Rivista n.
6/2008, pag. 532), la giurisprudenza tributaria di
merito, nell’affermare l’illegittimità dei provvedimenti di fermo di autoveicoli e dell’iscrizione
ipotecaria, sostiene che la «mancata dimostrazione» della «regolare notificazione della sottostante cartella esattoriale» costituisce «vizio procedurale che comporta la nullità dei conseguenti
atti», aggiungendo che il «preavviso di fermo» deve «contenere le necessarie informazioni tra le
quali non è mera formalità la sottoscrizione, l’indicazione del responsabile del procedimento nonché le modalità e termini di impugnativa del medesimo» (Comm. trib. prov. Reggio Emilia, Sez. 2,
14 novembre 2008, n. 272, in Banca Dati BIG,
IPSOA).
Ipoteca
Esaminando le sentenze che hanno pronunciato in
tema di misure cautelari adottate dall’agente della
riscossione, si segnala la ritenuta illegittimità dell’iscrizione ipotecaria su beni immobili assoggettati al fondo patrimoniale ex art. 167 c.c.
(Comm. trib. prov. Mantova, Sez. I, 10 giugno
2008, n. 71, in questa Rivista n. 1/2009, pag. 90,
con commento di A.Grassotti, «È illegittima l’iscrizione di ipoteca esattoriale quando non si può
procedere ad esecuzione forzata»).
Riscossione coattiva
Sono stati rimessi gli atti alla Consulta, ritenendo
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale (per disparità di trattamento nei confronti di esecutati in procedure esattoriali) dell’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973, sul
«pignoramento dei crediti verso terzi», che prevede la possibilità per l’agente della riscossione di
applicare, a sua discrezione, le modalità di esecuzione previste dallo stesso articolo di legge, con
ordine prescrittivo al terzo idoneo ad incidere autoritativamente sulla sfera patrimoniale dell’esecu-
280
GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
tato, o, invece, quelle previste dall’art. 543 c.p.c.
per il pignoramento presso terzi (Trib. di Genova,
Ord. 11 dicembre 2007, n. 3567, in questa Rivista
n. 6/2008, pag. 517, con commento di P.
Piciocchi). Da ultimo, la Corte costituzionale ha
dichiarato la questione manifestamente inammissibile in quanto priva di rilevanza, sostenendo
comunque che «la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso
terzi non crea né una lesione del diritto di difesa
dell’opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto
all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del
D.P.R. n. 602/1973, sia perché non sussiste “un
principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali”» (Corte cost.,
28 novembre 2008, n. 393, in C.T. n. 5/2009, pag.
330; cfr. M. Basilavecchia, «Le modalità del pignoramento presso terzi sono a discrezione dell’agente della riscossione», ivi, pag. 327).
Indici
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Indice degli Autori
Franco Batistoni Ferrara
Sanzione amministrativa tributaria e capacità d’intendere e di volere del trasgressore..........................
Fabrizio Cerioni
L’abuso dell’interpretazione giuridica da parte dell’Amministrazione finanziaria.................................
Filippo Fontana
L’onere probatorio sull’ammontare dell’imposta
evasa ........................................................................
270
Sezioni Unite della Corte di cassazione
Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, n. 30055 e
30056 .......................................................................
Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, n.
30057 .................................................................
Corte di cassazione
Cass., Sez. trib., Sent. 10 dicembre 2008, n.
28957......................................................................
Cass., Sez. trib., Sent. 21 gennaio 2009, n. 1465 ....
Cass., Sez. III pen., Sent. 6 febbraio 2009, n.
5490 ......................................................................
Commissione tributaria provinciale
Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXI, Sent. 24
ottobre 2008, n. 313.................................................
Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXIV, Sent. 18
novembre 2008, n. 303 ............................................
Comm. trib. prov. di Perugia, Sez. VII, Sent. 21
novembre 2008, n. 153 ............................................
220
249
220
242
268
262
257
251
Repertorio
245
Antonio Lovisolo
L’art. 53 Cost. come fonte della clausola generale
antielusiva ed il ruolo delle «valide ragioni economiche» tra abuso del diritto, elusione fiscale ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali ...............
229
Alberto Marcheselli
Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del
diritto comunitario ...................................................
210
Francesco Moschetti
Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di
«utilizzo abusivo di norme fiscali di favore» ..........
197
Mario Ravaccia
L’onere della prova sulla data di delibera assembleare nel processo tributario...................................
258
Gianluca Settepani
L’onere della prova sulla data di delibera assembleare nel processo tributario...................................
258
Antonio Tomassini
Nell’ambito dei controlli sostanziali il processo
verbale di constatazione va sempre redatto e notificato al contribuente ...............................................
264
Accertamento
Disposizioni antielusive
Acquisto di azioni e successiva rivendita alla società venditrice dopo la percezione dei dividendi al
fine di godere del credito d’imposta sui dividendi
e del computo delle minusvalenze - Esclusiva finalità di ottenere un vantaggio fiscale - Abuso del diritto - Configurabilità
(Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, nn. 30055 e
30056, con commento di A. Lovisolo) ..............................
Indice Cronologico
203
216
Usufrutto sulle azioni di una società italiana, possedute da soggetto non residente al fine di avvalersi del credito d’imposta e di dedurre il costo
dell’usufrutto - Assenza di validi ragioni economiche al di fuori di quella di conseguire un vantaggio tributario - Abuso del diritto - Configurabilità
(Cass., SS.UU., Sent. 23 dicembre 2008, n. 30057, con
commento di A. Lovisolo) .................................................
220
Operazioni compiute al preminente scopo di ottenere vantaggi fiscali - Abuso del diritto - Configurabilità - Onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria del disegno elusivo e delle
modalità di manipolazione o alterazione degli
schemi negoziali - Configurabilità - Onere della
prova a carico del contribuente dell’esistenza di
ragioni economiche alternative o concorrenti Configurabilità
(Cass., Sez. trib., Sent. 21 gennaio 2009, n. 1465, con
commento di A. Lovisolo) .................................................
Corte di giustizia UE
Corte di giustizia UE, Sez. II, Sent. 18 dicembre
2008, causa C-349/07 ..............................................
216
220
Dogane
Dazi doganali all’importazione - Infrazioni - Osservazioni dell’importatore - Termine da otto a
quindici giorni previsto dal diritto nazionale Compatibilità con il diritto comunitario - Sussistenza - Valutazione del rispetto del diritto al contraddittorio - Giudice nazionale - Competenza GT
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
281
Indici
Valutazione del rispetto del diritto di difesa - Giudice nazionale - Competenza
(Corte di giustizia UE, Sez. II, Sent. 18 dicembre 2008,
causa C-349/07, con commento di A. Marcheselli)..........
Redditi prodotti in forma associata
203
Irpef
Società tra professionisti
Prestazioni di arbitrato irrituale svolte da avvocato
associato in studio legale - Imputazione dei compensi spettanti al professionista, anche sul piano
fiscale, all’associazione professionale - Legittimità
Crediti d’imposta
Utili distribuiti da società ed enti - Disposizioni
antielusive ex art. 40 del D.L. n. 269/2003 - Credito d’imposta superiore al 51,51% - Delibera assembleare - Data certa - Mancanza - Irrilevanza Onere della prova in capo all’Amministrazione finanziaria - Sussistenza
(Cass., Sez. trib., Sent. 10 dicembre 2008, n. 28957, con
commento di F. Cerioni) ...................................................
(Comm. trib. prov. di Perugia, Sez. VII, Sent. 21 novembre 2008, n. 153, con commento di M. Ravaccia e G.
Settepani) ..........................................................................
(Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXI, Sent. 24 ottobre
2008, n. 313, con commento di F. Batistoni Ferrara) ......
Sanzioni
Cause di non punibilità
Grave stato di salute del contribuente - Sussistenza
257
Omessa dichiarazione
Determinazione dell’imposta evasa - Computo dei
costi detraibili - Accertamenti d’ufficio da parte
del giudice - Necessità
242
Prova del superamento della soglia di punibilità Ricorso a presunzioni tributarie - Inammissibilità
(Cass., Sez. III pen., Sent. 6 febbraio 2009, n. 5490, con
commento di F. Fontana)..................................................
282
GT
268
Statuto del contribuente
Reati tributari
(Cass., Sez. III pen., Sent. 6 febbraio 2009, n. 5490, con
commento di F. Fontana)..................................................
249
242
Rivista di giurisprudenza tributaria 3/2009
Diritti e garanzie del contribuente
sottoposto a verifica
Avviso di accertamento fondato su processo verbale di constatazione della Direzione regionale Informazioni raccolte dalla Guardia di finanza in
esecuzione di indagini di Polizia giudiziaria - Notifica del verbale al contribuente - Necessità Omissione - Conseguenze - Nullità dell’avviso di
accertamento
(Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXIV, Sent. 18 novembre 2008, n. 303, con commento di A. Tomassini) .....
262