Il mistero della morte e risurrezione di Gesù
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Il mistero della morte e risurrezione di Gesù
FP.it 4/2012 Il mistero della morte e risurrezione di Gesù Maurice Zundel Nel famoso e stupendo romanzo che è “La potenza e la Gloria” (Power and Glory), Graham Greene presenta l’odissea, cioè il destino di due sacerdoti messicani durante la persecuzione scoppiata in Messico nel 1923-1925. I due sacerdoti di cui si parla sono entrambi senza vocazione. Divennero sacerdoti per vivere bene, perché era uno status sociale, perché non c’era niente da fare, perché si guadagnava bene, perché avrebbero potuto godere di tutto. Ma esplode improvvisamente la persecuzione: i vescovi sono esiliati, i sacerdoti imprigionati, ci sono martiri e tutta la vita cristiana è minacciata. La polizia è feroce e intelligente, troppo intelligente. Per cercare di demolire la religione, inventa la strategia di pensionare i sacerdoti che accettano di sposarsi, perché la polizia sapeva che, se i sacerdoti avessero tradito i loro voti, avrebbero perso la fiducia dei fedeli, avrebbero messo in dubbio le loro anime e dunque questo sarebbe stato il modo migliore per distruggere la religione. Quindi, uno dei due sacerdoti sposò la sua governante e diventa il suo “cucciolo”. Lei lo domina, lo comanda, l’ingrassa come un tacchino, perché deve durare, dato che lei vive della pensione concessa dalla polizia. Diventa grasso come un tacchino e tutti sanno che ha perso la sua vita per salvare la pelle. I bambini lo prendono in giro quando lui obbedisce come un cagnolino agli ordini della governante, i bambini sentono che è diventato uno schiavo. È un fantasma, già morto. Ha perso ogni ragione di vita, ha perso la vita per salvare la sua pelle, e si ha l’impressione che solo la pelle si mantiene in esistenza. Nato passivamente, nato dalle forze della natura, lo porteranno via le stesse forze che sono le uniche a mantenerlo ancora in vita. L’altro sacerdote non era migliore, all’inizio, ma si rende conto all’improvviso del suo sacerdozio. Sa che quando la nave sta affondando il capitano deve rimanere a bordo. Comprende che non ha nessun diritto di lasciare il gregge senza pastore e, anche se è in peccato, non pensa, non pensa alla sua anima, non pensa alla sua salvezza, ma di essere il capitano di una nave che affonda, e quindi deve essere l’ultimo ad abbandonarla. Allora rimane. E per rimanere deve cambiare completamente vita, deve travestirsi, adempire il suo ministero di notte, dormire quando è possibile, mangiare quando può, comperare il vino a prezzo d’oro perché è stato vietato in Messico solo per impedire la celebrazione della messa. Comincia a diventare un sacerdote. Entra in profondità nel suo ministero. Amministra i sacramenti a tutti coloro che ne hanno bisogno. Vive per il gregge abbandonato. E la polizia sa che c’è un prete nella regione. Non riesce a prenderlo perché scappa continuamente da un luogo all’altro. Offrono una ricompensa per la sua cattura e quindi di tanto in tanto appare qualcuno “dai denti gialli”, una spia che intuisce che si tratta di un sacerdote ma senza riuscire a prenderlo in flagrante. Così, diventa gradualmente un testimone, un martire privo di tutto, costantemente minacciato, circondato dalla morte, ma senza che questo lo preoccupi perché ha scelto la vita. Non gli interessa salvare la pelle ma salvare la vita, la Vita! È sostenuto dall’amore! Non lo sostiene la pelle, ma è lui a sostenerla! E infine, quando raggiunge il confine degli Stati Uniti, dopo aver capito che può rischiare la sua vita ma non quella degli altri - e la polizia in questo momento non si accontenta più della caccia all’uomo e di offrire una ricompensa enorme a chi lo denuncia, ma cattura degli ostaggi nei luoghi in cui pensa che sia passato, arresta i giovani, li imprigiona, e questo non era nel suo programma: è bene prendere rischi, accettare la morte, ma non mettere in pericolo gli altri. Ha deciso quindi di lasciare il Messico e andare negli Stati Uniti, ma quando sta per passare il confine, una spia “dai denti gialli” gli dice: “Padre, la chiama un moribondo!”. 2 FP 4/2012 Il prete capisce, indovina la trappola, ma se davvero lo chiama un uomo moribondo? Se c’è una possibilità su mille che sia vero, deve ritornare indietro, e effettivamente ritorna indietro e così confessa di essere un prete e cade nella trappola. In effetti, quando entra nel tugurio dove si trova il moribondo, costui gli dice: “Se ne vada, padre, non l’ho chiamata, non ho bisogno di lei”. E la polizia arriva nel frattempo, mentre lui cercava di convincere il morente ad approfittare del ministero che lui sta esercitando a rischio della sua vita. È pronto, pronto a morire. Infatti verrà fucilato il giorno dopo, senza confessione, ma battezzato dal suo martirio, sostenuto dall’amore, dopo aver vinto la morte perché ha fatto della sua vita un dono senza ritorno. Si sente il contrasto tra il primo sacerdote che voleva salvare la propria vita e ha consegnato se stesso alle forze della natura, le uniche che lo sostengono e nelle quali sarà dissolto, e l’altro che salì il monte, passò attraverso una nuova nascita, seppe mantenere la sua vita, sfidando la paura, sfidando i pericoli, e si consegnò al martirio, entrando nella morte come un grande vivente! Conosciamo l’esempio meraviglioso che ci porta alle stesse conclusioni, quello del martirio di Padre Kolbe. Nel campo di concentramento di Auschwitz centinaia di polacchi sopravvivevano come scheletri vivi. Ma erano in vita. Potevano aspettare di uscire un giorno da quell’inferno. Ma uno di loro è scappato, nonostante il filo spinato elettrificato, le mitragliatrici a ogni due passi, nonostante tutta la tecnica tedesca, un polacco, uno slavo, un “sottoprodotto dell’umanità”, sfidando la scienza, la tecnica, la saggezza tedesca!... Allora, il capo del campo, arrabbiato, ferito nel suo orgoglio, decide di vendicarsi. Raduna tutti i prigionieri, dice loro che sono tutti complici nella fuga, tutti sono colpevoli e quindi li punirà: dieci di loro moriranno di fame e di sete, e li sceglierà a caso. Prende tutto il tempo, in modo che tutti tremano al pensiero che potranno essere scelti. Finalmente i dieci sono eletti. Gli altri, un po’ vili, respirano: questa volta non ha toccato loro. Ma tra i dieci c’è un padre di famiglia che singhiozzando chiamava la moglie e i suoi bambini che non avrebbe più rivisto. Allora Padre Kolbe, un francescano polacco, esce dal rango. “Che vuole questo maiale, questo porco polacco?” Urla il capo. E P. Kolbe dice: “Voglio morire, morire per uno di quegli uomini”. E il capo che non conosceva questa dimensione della generosità, dice: “Per chi vuoi morire?” – “Per quell’uomo!” – “Allora, vai!”. Egli prende il posto di quel padre di famiglia e lo portano via con gli altri in prigione, per aspettare la morte per fame e sete. E P. Kolbe, vedendo i loro compagni terrorizzati, ha l’idea francescana di farli cantare, cantare per vincere l’angoscia, e come gli slavi cantano mirabilmente, le loro voci echeggiavano fuori dalla prigione dove erano rinchiusi, e tutto il campo si mise a cantare! E i carnefici tedeschi, poveri animali disposti ad eseguire tutti gli ordini del capo, meravigliati si dicono: “Non avevamo mai visto niente di simile!” Vedono l’Himalaya, l’Himalaya della grandezza umana, e si sentono onorati nella loro umanità, sentono che questo è l’uomo, e che il sacerdote che ha scelto di morire è più grande, più grande della morte, più grande della vita fisica, più grande che la sua pelle, lascia la sua vita ma la conserva con il suo amore, non muore ma con la morte e attraverso la morte diventa un grande vivente! La morte ha un volto molto diverso, se uno vive abbandonato ai suoi stati d’animo, alle sue fantasie, ai suoi desideri. La morte è molto diversa se uno è portato via dalle forze della natura come nasce, passivamente, o se invece supera le forze della natura, le trasforma, quando uno è guidato interamente dall’impulso dello Spirito e fa della sua vita un dono e di tutto il suo essere un impulso d’amore. Non è ... una apoteosi, la morte di San Francesco? Si sente la morte di fronte alla sua morte? No, no! Davanti alla sua morte, si ha l’impressione di un trionfo e di una resurrezione. Egli accoglie la morte cantando, facendo cantare il versetto: “Beato sei tu, Signore, per sora nostra Morte”, e vuole che il medico l’accolga come una regina, il cui arrivo annuncia l’araldo, e vuole sentire cantare un’ultima volta il Cantico del Sole, vuole stringere al suo cuore tutto l’universo, e che la sua morte sia il suo grido di gioia da unirsi al canto delle rondini. Si asperge con la sorella cenere e si sdraia nudo sulla nuda terra, e attende il bacio del Signore, che dovrebbe Zundel – Morte e Risurrezione 3 sciogliere la sottile parete che lo separa ancora dalla visione beatifica. Il suo corpo intero è in attesa, e tutta la sua carne è un impulso unico, come il lancia-missile della sua eternità. Il suo corpo non teme la morte, il suo corpo stigmatizzato, il suo corpo trasfigurato, il suo corpo che vive già della vita eterna. Eppure muore, muore al canto della rondine, muore nell’impulso del suo amore, ma muore perché c’è ancora qualcosa da purificare. Non è sempre stato santo, non è sempre stato innamorato dalla divina Povertà. Per venti anni non pensava che alla gloria, per venti anni avrebbe riempito il mondo con la sua fama e anche se è diventato la croce vivente, c’è ancora qualcosa in lui che la morte deve purificare e trasfigurare, in attesa della beata risurrezione. Perché la morte si collega solo con la morte, la morte può fare morire solo ciò che è già morto e che non può vivere per sempre. Così la morte di San Francesco è la più vicina alla vittoria, al trionfo sulla morte, ma deve passare attraverso la morte per vincerla, facendo del suo ultimo respiro l’ultimo offertorio del suo amore. E vediamo attraverso San Francesco che quanto più la vita è stata purificata in Dio, più la morte retrocede, appare meno terribile e meno fa soffrire. Più la si padroneggia, più si può farne un’offerta d’amore. Così entriamo nel mistero della Risurrezione di Nostro Signore. A Nostro Signore S. Pietro dà il nome magnifico di archegos tes zoes, Principe della Vita (At 3,15). Gesù è il Principe della Vita perché in lui sgorga la vita dalla sua fonte eterna nella divinità del Verbo, del Figlio, in cui sussiste la sua umanità. E in Gesù non c’è la minima colpa, alcuna fessura attraverso la quale possa penetrare la morte, perché, in origine, la morte arriva sempre dall’assenza di Dio. L’uomo per aver deviato dalla fonte della vita fin dall’inizio, allontanandosi da Dio, ha aperto la porta alla morte, e si consegnò agli elementi del mondo, alle forze della natura, in cui viene disciolto. Ma Gesù nella sua umanità è totalmente e indissolubilmente presente alla divinità nella quale sussiste la sua umanità. Dove poteva attaccare la morte? Cosa poteva purificare in lui la morte, cosa ci può essere in lui che non sia già vivo per sempre? Niente! In lui non vi è nulla che la morte possa toccare e, quindi, Gesù non può morire! Non può morire di morte sua, ma può morire solo della nostra morte. Così la morte di Gesù non è paragonabile alla nostra. Nella nostra morte, nonostante tutte le vittorie di grazia e di amore, qualcosa si rompe, si dipana. Ci sono elementi del cosmo, che sono il nostro cibo e non riusciamo... non riusciamo a raccoglierli, dominarli, trasformarli in noi. In Gesù non c’è niente di tutto questo, in Gesù tutto è vita, e tutto ciò è la vita eterna, vita infinita. Allora lui non può morire. Solo può morire di una morte d’identificazione con noi, la morte dell’amore, la morte interiore, la morte spirituale. Non è morto per le ferite fisiche, ma per la ferita interiore del suo cuore, per l’inferno in cui la sua innocenza suprema si è addossato tutta la colpevolezza della storia dell’umanità. È stato di tale morte che egli è morto, di una morte interna, non una morte corruttibile, una morte che avrebbe disfatto la sua natura umana. È morto dal di dentro, da una morte d’amore. Per questo lui non è un cadavere, non sarà mai un cadavere. Nella tomba non è cadavere: tutta la divinità è presente in quella carne sacra, in attesa della risurrezione. Perché il vero miracolo non è che Gesù sia risorto, ma che sia morto... che sia morto, essendo quello che era, data l’unione ipostatica, data la presenza globale della sua umanità alla divinità, non poteva morire di sua propria morte. Per lui, la morte è una violenza contro il principio stesso del suo essere. La Risurrezione è la ripresa del suo stato naturale, del suo stato normale, la ripresa della sua condizione di Principe della Vita. È l’attestazione che non ha niente a che fare con la morte, non avendo parte al peccato che la provoca. È la conferma che è morto solo per gli altri, in loro sostituzione, non per se stesso dissolvendosi nelle forze della natura. E così è impossibile confrontare la risurrezione di Gesù con quella di Lazzaro e la figlia di Giairo. Perché la risurrezione di Gesù viene da dentro, dalle esigenze stesse della sua umanità che sussiste in Dio e della divinità che egli assume come sacramento inseparabile in cui si comunica. 4 FP 4/2012 Così la risurrezione non può essere intesa come un fenomeno fisico: un cadavere che esce fuori dalla tomba. No! Se la risurrezione di Gesù fosse solo questo, se fosse semplicemente un miracolo fisico, Gesù sarebbe andato a riferire al Caifa, a Pilato, che non erano riuscite nel loro intento, che egli era vivo a dispetto di loro. E no! Gesù non appare a Caifa, a Pilato, o alla folla che aveva richiamato la sua morte. Sarebbe inutile! Questo non è un miracolo fisico, ma il mistero stesso dell’Incarnazione, questa è la vita che sgorga dalla sorgente, è la rivelazione del Principe della Vita, che muore solo della nostra morte per vincere la morte in noi e darci la vita. Così la risurrezione di Gesù sarà un bene della comunità, un bene, un tesoro della Chiesa Apostolica quando lo Spirito Santo avrà finalmente illuminato l’alma degli apostoli facendo loro conoscere il vero volto del loro maestro il giorno di Pentecoste. Perché fino a quel momento essi non capiscono niente, non sanno cosa fare con il Risorto: sono perplessi, chiedendosi se è proprio lui, se non sarà un fantasma; vogliono vedere, toccare, verificare. Non capiscono che la risurrezione è proprio la rivelazione della vita eterna che Gesù non ha smesso di penetrare in ogni fibra della sua carne in modo da comunicarcela. Non si rendono conto che la vittoria sulla morte deve essere in noi il principio della risurrezione, che Gesù, con la sua morte, è andato alle radici della nostra morte, che sono il possesso di sé per se stesso, l’adesione appassionata agli elementi del mondo, alle forze della natura. In effetti, cosa fa Narciso, il Narciso che c’è in ciascuno di noi? Cosa fa Narciso quando si guarda, quando si ammira, quando gira su se stesso, quando ammira se stesso? Cosa fa? Niente! Non crea niente, non aggiunge nulla a ciò che ha ricevuto alla nascita quando è stato passivo tra le forze della natura; non aggiunge nulla, è quindi costantemente in balia delle forze della natura che lo sorreggono e che un giorno cesseranno di tenerlo e lui sarà dissolto negli elementi del mondo. Gesù ci rivela, Gesù ci comunica la vita eterna introducendoci nel mistero dell’eterno Amore. Ci fa passare, ci invita a passare attraverso la nuova nascita, dove aggiungiamo alla prima nascita la dimensione della generosità, della carità, dell’amore, il dono di sé, distaccandosi dal vecchio sfondo della natura e dell’universo per sorgere in un impulso, in un’offerta in cui tutto il nostro essere sarà offerto a Dio per esprimere la sua presenza e per comunicare la sua vita. È importante salvaguardare tutta la purezza e grandezza del mistero della Pasqua; non vedere nella risurrezione di Gesù semplicemente un miracolo fisico in cui un cadavere è riportato in vita e torna ad apparire a quelli che credevano averlo ucciso. È un’altra cosa, e molto profonda! Come la morte di Gesù è unica, la sua risurrezione è anche unica, perché tutto qui viene da dentro, ogni cosa ha il suo inizio nella povertà radicale della sua umanità che non ha nulla, che non è attaccata a nulla, che non possiede nulla, che è assolutamente chiara e trasparente a Dio e che lascia penetrare in ogni fibra la pienezza della vita eterna. Così, invitandoci all’interno, ci chiama a nascere di nuovo nel fuoco dello Spirito, cioè nella fornace dell’eterna carità, radicandoci quindi nel cuore della Santissima Trinità, Gesù ci invita a seguirlo per vincere con lui la morte! Il cristiano è giustamente colui che imprime ogni giorno in tutto il suo essere il mistero e il potere della Risurrezione, e che non si lascia portare passivamente dai suoi stati d’animo, dalle sue fantasie, dalla fatica, dagli elementi del mondo, dalle forze natura, ma al contrario fa entrare in tutto questo le energie dello Spirito Santo, affinché tutto il suo essere respiri della presenza divina e la comunichi agli altri. Il cristiano è qualcuno che, rimontando il corso della storia ed esaurendo le fonti di morte, afferma che Dio è il Dio dei vivi, che lui non voleva la morte e che in lui tutto è la vita, e che il corpo stesso, fatto tempio dello Spirito Santo i Dio, porta in tutte le sue fibre le promesse della Risurrezione. E come, come lo facciamo? Come? Il modo più semplice e più sicuro è quello che ci dice Gesù: curare la vita, la vita creativa; la vita che porta la promessa della resurrezione, la cura per gli altri. Qui abbiamo bisogno di meditare per un attimo sull’esempio di Gandhi ... Gandhi, che ha guidato per 45 anni il popolo indiano, per 45 anni contro gli inglesi, contro il loro potere ... contro i cannoni inglesi, contro le menzogne, vietando qualsiasi violenza, vietando alle sue truppe la violenza, Zundel – Morte e Risurrezione 5 interdicendo a se stesso qualsiasi odio. Perché? Perché nel nemico, nel generale che ha comandato la strage contro una folla disarmata, Gandhi vedeva un miserabile, vittima infelice, vittima della sua ignoranza, uno disumanizzato infelice, uno estraneo a se stesso, che non era altro che uno degli elementi della natura, un elemento della razza, un elemento della sua nazione, ma non una persona, non una fonte, non un creatore, non una origine, non una libertà. Aveva la sensazione che questa era la più grande miseria e voleva salvarlo, salvare il nemico, salvarlo da se stesso. Voleva che fosse consapevole della sua ingiustizia, che la respingesse lui stesso, e Gandhi digiunava fino alla morte ed era picchiato, calpestato, insultato, offeso, e alla fine morirà assassinato. Ma mai, mai ha odiato il nemico, e gli annunciava sempre quello che lui avrebbe fatto: “Io farò questo, mi manderete in galera, e ci andrò con gioia. Mi ucciderete, tanto meglio! Non cederò mai perché difendo una causa giusta, ma non vi potrò mai farvi del male, ve lo fate già voi stessi, più di quanto potete farlo a noi, dato che siete dei poveracci, bloccati nel vostro concetto di gruppo, di nazione, perché rimanendo nella carne e nel sangue non siete ancora un essere umano”. Questo è tutto! A questo proposito ci prenderemo cura della vita, perché è più facile salvare la vita degli altri, perché li vediamo, perché guardando loro usciamo da noi stessi e così arriviamo alla sorgente eterna. E così, per concludere, se vogliamo vivere il mistero della Resurrezione, rendere la nostra vita una vittoria totale sulla morte per affermare la pienezza della vita in Gesù, dobbiamo fare la preghiera, la preghiera sugli altri: la preghiera sui malati, la preghiera su coloro che li curano, la preghiera sui bambini affidati alle nostre cure, la preghiera gli uni sugli altri, precisamente perché tutto quello che dobbiamo fare è suscitare, far nascere, rivelare, comunicare la pienezza di vita che scaturisce dalla Croce sulla quale Gesù ha vinto la nostra morte con la sua morte. Come ben sapeva Francesco quando baciò il lebbroso, in ognuno di noi, di qualunque colore, qualunque sia la sua miseria fisica e la bruttezza del suo aspetto, in ognuno c’è il tesoro nascosto, il tesoro che è tutto il Regno di Dio, il tesoro che è stato conquistato con il prezzo del sangue del Signore, il tesoro infinito che è tutto il Regno di Dio. Ed è questo che dobbiamo salvare, ciò che dobbiamo risvegliare, che dobbiamo suscitare, che dobbiamo generare. Ed infine, per questo la vita risorta in noi, la vita di Cristo vincitore della morte deve manifestarsi nella maternità dell’anima per ogni anima, ciò di cui parla Gesù dicendo: “Chiunque fa la volontà del Padre mio, egli è mio fratello, mia sorella e mia madre.” È mia madre! È quello che dobbiamo ascoltare: è mia madre! Questo significa essere cristiano: essere una madre di Cristo, dargli una nuova culla nel cuore suscitando la sua vita nell’anima degli altri. Ascolteremo l’Angelus rivolto a noi? A noi sono rivolte le parole (Matteo 12:50): “Colui che fa la volontà del Padre mio, è lui mia madre, è lui mia madre.” Che gioia! Che gioia e, che tremore! Che felicità! Questo è il cristianesimo: inserirsi nella vocazione di Maria e, come lei, essere una culla viva… la culla viva di Gesù. Questo è il Natale, il Natale unito al mistero della Pasqua, il Natale eterno nella risurrezione eterna, il Natale che dobbiamo essere noi stessi, prendendoci cura della vita, pregando sugli altri, visitando in ciascuno la Santissima Trinità, il cui santuario è ogni anima. E, superando la fatica, gli stati d’animo, antipatie, risentimenti, cercare di vincere in noi stessi le forze della natura e gli elementi del mondo, vincere la morte in noi, così che Gesù appaia davvero, attraverso il nostro volto e tutta la nostra vita, come Archegos tes Zoes, come il Principe della Vita (Atti 3:5). Luglio 1959, a Ghazir, durante un Ritiro predicato alle Francescane di Lons-le-Saunier.