5Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale
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5Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale
5 Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale Gli anni ’80 furono caratterizzati, su tutto il pianeta, da un inasprimento delle tensioni della guerra fredda e da guerre per procura nei paesi in via di sviluppo. Nel corso del decennio, le superpotenze intervennero in conflitti locali che avrebbero potuto essere di piccole dimensioni e di breve durata, ma che invece subirono una escalation, dando luogo a massicci esodi di popolazione. Nel presente capitolo ci si concentrerà su tre regioni in cui si verificarono crisi di rifugiati di grandi dimensioni: il Corno d’Africa, l’Afghanistan e l’America centrale. L’Unhcr svolse un ruolo di primaria importanza, intervenendo in ciascuna di esse. Sebbene alcuni dei conflitti descritti nel capitolo fossero già iniziati negli anni ’70, o ancora prima, qui si porrà l’accento sugli anni ’80. Nel Corno d’Africa, una serie di guerre, aggravate dalla carestia, costrinsero milioni di persone, in vari momenti, ad abbandonare le loro case. In Afghanistan, un nuovo conflitto di vaste proporzioni, in una regione di grande importanza strategica, obbligò oltre sei milioni di persone a cercare rifugio nei paesi limitrofi. In America centrale, tre guerre diverse provocarono l’esodo di oltre due milioni di abitanti. Tali crisi di rifugiati presentarono complesse sfide sia per i paesi ospitanti che per la comunità internazionale. Per la prima volta, l’Unhcr si trovò a dover reagire a emergenze di rifugiati molteplici e su larga scala, in tre continenti diversi contemporaneamente. Per di più, l’organizzazione doveva agire sotto le particolari pressioni derivanti dal coinvolgimento delle superpotenze. Quasi tutti i finanziamenti, e buona parte del personale, venivano dai paesi occidentali. Poiché molte delle consistenti popolazioni rifugiate degli anni ’80, fra cui gli afghani, gli etiopi e i nicaraguensi, fuggivano da paesi con governi comunisti o socialisti, gli occidentali avevano anche interessi d’ordine geopolitico nel finanziare i programmi dell’Unhcr. Nel frattempo, il blocco sovietico, che considerava l’Onu essenzialmente filo-occidentale, non sosteneva né finanziava l’Unhcr. Negli anni ’80, con l’insorgere di crisi di rifugiati su scala mondiale, il bilancio dell’organizzazione aumentò vertiginosamente. Nel 1975, in tutto il mondo c’erano 2,8 milioni di rifugiati, e il bilancio dell’Unhcr era attestato su circa 76 milioni di dollari. Alla fine degli anni ’80, la popolazione rifugiata era passata a poco meno di 15 milioni di persone, e il bilancio dell’Unhcr era salito a oltre 580 milioni di dollari. In quegli anni, l’organizzazione fornì assistenza a un livello molto maggiore che in precedenza, e uno dei principali problemi fu quello della gestione di grandi campi profughi. Come già in Indocina, per l’Unhcr un’altra grave preoccupazione fu rappresentata dalla presenza di elementi armati nei campi. I RIFUGIATI NEL MONDO Popolazioni rifugiate in Etiopia, Kenya, Somalia e Sudan, 1982–99 Fig. 5.1 2.5 2.0 1.5 1.0 Milioni 0.5 0.0 1982 1984 1986 1988 Sudan 1990 Somalia 1992 Kenya 1994 1996 1998 Etiopia I movimenti di rifugiati descritti nel presente capitolo non furono affatto gli unici degli anni ’80. Esodi massicci di popolazione ebbero luogo anche in varie altre regioni: per esempio, dallo Sri Lanka verso l’India, dall’Uganda nel Sudan meridionale, dall’Angola nella Zambia e nello Zaire, e dal Mozambico in sei paesi confinanti diversi [cfr. riquadro 5.2]. In ognuno di questi casi, l’Unhcr intervenne fornendo protezione e assistenza ai rifugiati. Guerra e carestia nel Corno d’Africa Negli ultimi anni ’70 e nei primi anni ’80, il Corno d’Africa fu teatro di numerosi movimenti di rifugiati su vasta scala: la guerra, la carestia e gli esodi di massa richiamarono l’attenzione mondiale, mentre il coinvolgimento delle superpotenze attizzò i conflitti, ingigantendone le conseguenze. Molti etiopi, in parte originari dell’Eritrea – che allora faceva parte dell’Etiopia – cercarono rifugio nel Sudan, in Somalia e a Gibuti, mentre un gran numero di sudanesi e di somali cercarono riparo in Etiopia. Alla fine degli anni ’70, si verificò un drastico mutamento di alleanze tra Etiopia e Somalia e le superpotenze. Nel 1977, in Etiopia, il consolidamento del potere nelle mani del tenente colonnello Menghistu Haile Mariam portò il paese a chiedere l’appoggio dell’Unione sovietica, rompendo con l’alleato tradizionale, gli Stati Uniti. Di conseguenza, questi aumentarono il loro sostegno ai governi del Sudan e della Somalia, con rilevanti conseguenze sui conflitti nell’area. I rifugiati etiopici in Somalia Alcuni movimenti su vasta scala di rifugiati dall’Etiopia verso la Somalia ebbero inizio già alla fine degli anni ’70. Approfittando degli sconvolgimenti interni dell’Etiopia, nel 106 Le guerre per procura 1977 il presidente somalo Siad Barre invase la regione etiopica dell’Ogaden. All’inizio, le forze somale ebbero qualche successo, ma quando l’Unione sovietica trasferì il proprio sostegno al regime marxista del presidente Menghistu, le forze etiopiche riuscirono a respingere l’invasione e, all’inizio del 1978, le truppe somale furono ricacciate oltre il confine. Centinaia di migliaia di profughi di etnia somala dell’Ogaden, in Etiopia, temendo rappresaglie per la loro partecipazione all’ondata di violenze che aveva preceduto l’invasione somala, fuggirono in Somalia. Altri 45mila raggiunsero la vicina Gibuti. Nel 1979, il governo somalo chiese l’assistenza dell’Unhcr, e l’organizzazione lo aiutò ad allestire e gestire grandi campi profughi. Nel breve termine, questi campi contribuirono a migliorare la situazione dei rifugiati, molti dei quali erano denutriti o malati, ma i problemi insiti nei campi di grandi dimensioni e sovraffollati si manifestarono sempre più chiaramente [cfr. riquadro 5.1]. I campi divennero così vasti da superare in estensione la maggior parte delle città somale. I rifugiati, perlopiù nomadi, avevano difficoltà ad adattarsi a una vita sedentaria. Per cercare di ridurre la loro dipendenza dagli aiuti umanitari, l’Unhcr diede avvio ad alcuni progetti agricoli che ebbero, però, poco successo, soprattutto per la scarsezza di terre coltivabili e acqua. I rapporti dell’Unhcr col governo somalo furono messi a dura prova dal “gioco dei numeri”. All’inizio, il governo somalo sosteneva che nel paese si trovavano 500mila rifugiati, mentre l’organizzazione riteneva che fossero solo 80mila. Dopo un secondo afflusso di Principali flussi di rifugiati in Africa nordorientale, anni ‘80 Cartina 5.1 LEGGENDA o oss rR Ma Capitale di stato Confine di stato Confine non definitivo Confine amministrativo Movimenti di rifugiati KHARTOUM ERITREA SUDAN GIBUTI Golfo di Aden GIBUTI ETIOPIA 0 250 Chilometri 500 UGANDA KAMPALA SOMALIA OC EA NO IN DI AN O ADDIS ABEBA MOGADISCIO KENYA 107 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 5.1 Campi e insediamenti di rifugiati I massicci esodi di rifugiati degli anni ’80 videro sorgere, nei paesi ospitanti, grandi campi profughi e altri tipi di insediamenti organizzati. In Africa, in particolare, la realizzazione di tali campi profughi cominciò a rimpiazzare la precedente prassi, consistente nel lasciare che i rifugiati si mescolassero alla popolazione locale. Ormai da parecchi anni, i campi profughi sono oggetto di critiche generalizzate. L’Unhcr, in particolare, è considerato responsabile sia della politica che consiste nella loro creazione, sia dei problemi in essi riscontrati. I critici sostengono che i campi sono pericolosi e inutili, e che si dovrebbero cercare alternative quali la sistemazione autonoma (vale a dire l’inserimento dei rifugiati fra la popolazione locale) i. Le caratteristiche dei campi profughi Non esiste una chiara definizione di che cosa esattamente caratterizzi un “campo profughi”. L’espressione è utilizzata per definire insediamenti umani molto diversi per dimensioni e caratteristiche. In generale, si tratta di zone recintate, cui hanno accesso i rifugiati e coloro che li assistono, dove vengono fornite protezione e assistenza fino a quando i rifugiati possono rimpatriare in piena sicurezza o essere reinsediati altrove. A differenza di altri tipi d’insediamento, quali quelli agricoli o i “villaggi di rifugiati” sorti in Pakistan negli anni ’80 e ’90, di solito i campi profughi non sono autosufficienti. Di norma i campi sono destinati ad essere temporanei, e sono costruiti in conseguenza. In molti casi, tuttavia, rimangono in piedi una decina d’anni o anche più, causando nuovi problemi. Gli impianti idrici e le fogne spesso non sopportano un utilizzo prolungato e, col crescere delle dimensioni delle famiglie, i terreni destinati agli alloggi diventano troppo piccoli. In 108 molti campi, non c’è una sufficiente disponibilità di legna da ardere e i rifugiati devono andarne in cerca fuori dei campi, provocando il disboscamento e altri problemi ambientali. Quando i problemi superano i limiti dei campi, coinvolgendo anche la popolazione ospitante, i governi spesso impongono restrizioni ai rifugiati, riducendo la loro libertà di movimento e di lavoro fuori dei campi. In molti campi profughi, uno dei problemi più gravi sta nel fatto che le autorità non forniscono ai rifugiati una totale protezione, in particolare perché, in molti casi, i campi si trovano all’interno o in vicinanza di zone di conflitto. Alla lunga, i campi possono diventare luoghi pericolosi, con un elevato tasso di criminalità, infestati dal traffico di armi e droga e dalla presenza del crimine organizzato. I rifugiati spesso vi subiscono violenze domestiche e intimidazioni fisiche. A volte, dei gruppi armati assumono il controllo dei campi o li utilizzano come basi, come nel caso dei mujahedin in Pakistan, dei contras in Honduras e, più di recente, degli interahamwe nello Zaire orientale [cfr. riquadro 10.1]. A mano a mano che i campi perdono il loro carattere civile, trasformandosi in covi di gruppi armati, sono presi di mira dalle forze nemiche. In passato, i campi sono spesso stati bombardati, colpiti da tiri d’artiglieria, presi d’assalto per catturare ostaggi, automezzi e rifornimenti, e hanno visto gruppi armati impegnati in una frenetica “caccia all’uomo”. In tali circostanze, i paesi ospitanti considerano i campi profughi come un’accresciuta minaccia per la sicurezza e impongono maggiori restrizioni ai rifugiati. La sistemazione autonoma è preferibile? I critici accusano l’Unhcr di preferire i campi profughi alla sistemazione autonoma, perché offrono le migliori condizioni per la gestione dei rifugiati e l’assistenza al rimpatrio. Affermano che i campi sono pericolosi e inutili, e che si possono sempre trovare valide alternative. Una di queste è la “sistemazione autonoma assistita”, in cui i rifugiati sono aiutati a stabilirsi in mezzo alla popolazione locale. I critici asseriscono che in tal modo i rifugiati stanno meglio, sono più al sicuro, più liberi, e vivono in condizioni più sopportabili che nei campi o in altri insediamenti organizzati. L’assunto implicito è che, se avessero la possibilità di scegliere, non sceglierebbero mai di stabilirsi nei campi. A prima vista, può apparire ovvio che nessuno deciderebbe di vivere in un campo profughi se potesse vivere altrove. In molti casi, però, la realtà è più complessa. Le ipotesi generiche su pretese condizioni di vita migliori fuori dei campi non sono adeguatamente corroborate da ricerche pratiche. Non è affatto certo che i rifugiati che si sistemano di propria iniziativa siano più al sicuro o se la passino meglio che nei campi. A seconda delle circostanze, quelli che vivono fuori dei campi possono incontrare una serie di problemi di sicurezza ed economici, che vanno dalle minacce di una popolazione locale ostile, agli attacchi di gruppi ribelli e al reclutamento forzato in tali gruppi. I rifugiati che si sistemano autonomamente possono rischiare di essere radunati dalle autorità e trasferiti altrove, oppure costretti ad andare in campi profughi, come è avvenuto a Karachi e Peshawar, in Pakistan, a metà degli anni ’80. Dal punto di vista del rifugiato, in realtà il campo può rappresentare una scelta più sicura, anche materialmente, rispetto ad una sistemazione indipendente. Di fatto, i rifugiati e i loro leader spesso si organizzano in insediamenti simili a campi profughi, ancora prima che l’Unhcr o un’altra organizzazione umanitaria metta in piedi un Le guerre per procura programma di assistenza. Né si deve dare per scontato che i campi siano sempre posti squallidi, deprimenti, popolati da vittime dipendenti e passive. Al contrario, in molti casi sono luoghi pulsanti di attività sociale ed economica. La maggioranza dei campi di maggiori dimensioni si trasformano in importanti zone di attività economica anche per la zona circostante, con animati mercati, ristoranti e altri servizi, gestiti dai rifugiati e che attraggono la popolazione di un vasto territorio ii. Ad esempio, Khao-I-Dang, un campo di rifugiati cambogiani alla frontiera thailandese, è stato a lungo famoso, negli anni ’80, per la sua schiera di ristoranti e il suo fiorente servizio di bici-taxi. Anche nel campo di rifugiati ruandesi di Goma, nell’est dello Zaire, esisteva fra il 1994 e il 1997 un mercato molto frequentato. Per dare un’idea del volume di attività economica, alla fine del 1995 in certi giorni vi si macellavano fino a 20 capi di bestiame. Se è vero che malattie come il colera possono diffondersi facilmente nei campi costruiti in fretta e sovrappopolati, in molti casi – in particolare dopo la fase iniziale dell’emergenza – i rifugiati beneficiano di cure mediche, corsi scolastici e altri servizi molto migliori che la popolazione locale. Di conseguenza, le organizzazioni umanitarie che lavorano nei campi forniscono sempre più spesso l’assistenza sanitaria, la divulgazione agricola e l’istruzione, non solo ai rifugiati, ma anche agli abitanti della zona. Non si vuole con ciò far credere che i campi siano sempre una risorsa per le regioni che li ospitano: i benefici economici possono essere controbilanciati da altri problemi, che vanno però ridimensionati. Il dibattito sui vantaggi e gli svantaggi dei campi profughi deve svolgersi nel quadro di una chiara visione del loro funzionamento e del loro impatto sulla regione. La politica ufficiale dell’Unhcr è di evitare l’installazione dei campi, se esistono valide alternative. Ciò è chiaramente affermato nello Handbook for Emergencies (Manuale per le emergenze) ed è una delle prime regole per le squadre di pronto intervento. In molti casi, è il paese ospitante che insiste per la creazione dei campi, oppure sono i rifugiati stessi che si aggregano in gruppi di vaste dimensioni, creando insediamenti che finiscono con l’assumere la forma di campi, quando entrano in scena gli aiuti internazionali. La preferenza di molti paesi ospitanti per i campi piuttosto che per la sistemazione autonoma si basa, di solito, su tre fattori: in primo luogo, presunte esigenze di sicurezza; in secondo luogo, la possibilità di organizzare il rimpatrio; e, in terzo luogo, quella di attrarre gli aiuti internazionali, attraverso la creazione d’insediamenti ben visibili. A tale riguardo, è legittimo e necessario interrogarsi sulle motivazioni dei politici che insistono per la creazione dei campi, specialmente quando sarebbe possibile una sistemazione individuale. Nel contempo, e nonostante l’articolo 26 della Convenzione Onu del 1951, relativo al diritto dei rifugiati alla scelta del luogo di residenza e alla libertà di movimento, i giuristi riconoscono che i paesi ospitanti hanno effettivamente il diritto di accogliere i rifugiati in appositi campi o in zone a ciò destinate, purché siano rispettate le norme minime sul trattamento loro riservato. Date le considerazioni politiche, economiche e giuridiche che sottendono la creazione dei campi profughi, le tesi generiche in favore della sistemazione autonoma avranno difficilmente un impatto significativo sulla politica di molti paesi ospitanti. Una distinzione imprecisa interrogativi. In pratica, tuttavia, di rado i rifugiati che vi sono ospitati e quelli che si sistemano di propria iniziativa costituiscono due categorie distinte. Tranne eccezioni quali i campi d’internamento di Hong Kong, negli anni ’80 e nei primi anni ’90, la maggioranza dei campi organizzati non confinano i rifugiati all’interno della loro recinzione. Al contrario, in molti casi questi possono entrarne e uscirne liberamente per lavorare, commerciare o coltivare la terra, o anche per fare una visita al paese d’origine, come molti fanno prima di rimpatriare. Una volta costretti ad abbandonare le loro case, i rifugiati valutano le proprie prospettive e scelgono fra i campi profughi e le località vicine. Può accadere che alcuni membri della famiglia vivano nei campi, mentre altri si avvalgono delle opportunità esistenti al di fuori. Ciò significa che, di frequente, non esiste una chiara delimitazione fra la comunità ospitata in un campo profughi e quella che vive nella zona circostante. Per molti aspetti, il dibattito tra sostenitori e oppositori dei campi non ha ben messo a fuoco la questione. I campi profughi non sono di per sé luoghi pericolosi o destabilizzanti, né la sistemazione autonoma costituisce sempre la migliore alternativa per i rifugiati. Il vero problema, per i paesi ospitanti, le organizzazioni umanitarie e i politici, è far sì che i rifugiati possano godere di condizioni di vita sicure, serene e dignitose, che vivano o no nei campi. I campi possono servire bene allo scopo se s’impedisce che diventino militarizzati, se vi è imposto l’ordine pubblico, se vi sono forniti in misura adeguata l’assistenza medica, l’istruzione e altri servizi essenziali e se i rifugiati hanno la possibilità di provvedere al proprio sostentamento. È a questi fini che dovrebbe indirizzarsi l’azione umanitaria. Il dibattito sui campi profughi ha sollevato una serie di importanti 109 I RIFUGIATI NEL MONDO profughi, nel 1981, la cifra pubblicata dal governo somalo passò a due milioni, mentre per l’Unhcr, gli altri organismi dell’Onu e le organizzazioni non governative (Ong) il loro numero era compreso fra 450mila e 620mila 1. In precedenza, si era calcolato che l’intera popolazione dell’Ogaden fosse molto al di sotto di un milione di abitanti. Dopo l’insuccesso dei tentativi dell’Unhcr per procedere a un censimento attendibile, nel 1982 le agenzie dell’Onu raggiunsero un accordo col governo somalo su una “cifra di programmazione” di 700mila rifugiati. Rimase questo, fino al 1985, il numero ufficiale dei rifugiati in Somalia, sul quale si basavano tutti gli aiuti dell’Unhcr, e ciò malgrado il fatto che, nel 1984, l’organizzazione valutasse in oltre 300mila il numero di quelli già rimpatriati in Etiopia. Le pressioni degli Stati Uniti, che a quell’epoca avevano un proprio interesse geopolitico nel sostenere la Somalia, contribuirono alla continuata accettazione, da parte degli altri donatori occidentali, delle cifre inflazionate del governo somalo. Il governo somalo beneficiò in vari modi dell’assistenza internazionale, che in quegli anni affluiva in abbondanza nel paese. Gli aiuti forniti da organizzazioni come l’Unhcr e il Programma alimentare mondiale (Pam), per soddisfare i bisogni dei rifugiati, erano solo una parte di quelli totali forniti al paese. Gli aiuti ebbero un rilevante impatto sull’economia somala nel suo complesso: secondo una stima, a metà degli anni ’80 rappresentavano non meno di un quarto del prodotto nazionale lordo 2. Fra il 1984 e il 1986, in Somalia si verificarono ulteriori afflussi di rifugiati. Durante lo stesso periodo, un gran numero di profughi tornarono dalla Somalia in Etiopia. Alla fine degli anni ’80, però, le denunce sempre più frequenti di violazioni generalizzate dei diritti umani, commesse dal governo somalo, portarono a un drastico calo degli aiuti militari americani, che furono completamente sospesi nel 1989. Nell’agosto dello stesso anno, con un’azione senza precedenti, l’Unhcr e il Pam sospesero la fornitura di aiuti alla Somalia nordoccidentale, dopo l’insuccesso di ripetuti sforzi per evitare che fossero dirottati. Due anni dopo, il presidente Barre fu rovesciato e il paese precipitò in un abisso di violenza, carestia ed esodi di popolazione, il più grave della sua storia [cfr. riquadro 10.3]. I rifugiati etiopici in Sudan I primi rifugiati ufficialmente riconosciuti provenienti dall’Eritrea, che aveva fatto parte di una federazione con l’Etiopia, ma che era stata ridotta nel 1962 al rango di una provincia, nel nord del paese, erano arrivati nel Sudan fin dal 1967 3. Cercavano scampo dalle conseguenze di una lotta armata per conquistare il diritto all’autodeterminazione, che si protraeva dagli inizi degli anni ’60. Nel 1970, l’Unhcr collaborò alla creazione del primo campo loro destinato nel Sudan. Negli anni ’70, dei rifugiati fuggirono pure in gran numero da altre regioni dell’Etiopia verso il Sudan. La cruenta e prolungata rivoluzione, seguita al rovesciamento, nel 1974, dell’imperatore autocratico Haile Selassie, fu conosciuta al suo apice come il “terrore rosso”. La fazione militare di sinistra che prese il potere, nota col nome di “Derg”, uccise o imprigionò migliaia di avversari politici, sindacalisti e studenti, provocando un incessante esodo di rifugiati dal paese. Nel 1977, i rifugiati eritrei nel Sudan erano già 200mila. Tale cifra aumentò rapidamente nel 1978, allorché il governo etiopico, che ora riceveva massicci aiuti sovie110 Le guerre per procura Nel Sudan, a metà degli anni ‘80, alcuni fra centinaia di migliaia di etiopi fuggiti a causa della guerra e della carestia. (UNHCR/M. VANAPPELGHEM/1985) tici ed era reso baldanzoso dalla recente vittoria sulla Somalia, sferrò una grande offensiva contro le forze di opposizione eritree. Alla fine dello stesso anno, un esodo di massa portò il numero complessivo dei rifugiati etiopici nel Sudan a oltre 400mila, provenienti in maggioranza dall’Eritrea. All’inizio, i rifugiati furono bene accolti dal governo sudanese e dalla popolazione locale, nell’est del paese. Con l’aumentare del loro numero, però, crebbe anche il risentimento degli abitanti, che cominciarono a vederli come una minaccia per la stabilità della regione orientale. I combattimenti in Eritrea avevano spesso avuto luogo in vicinanza della frontiera col Sudan o addirittura su suolo sudanese 4. Il paese doveva far fronte a una crescente crisi economica, aggravata da una serie di magri raccolti ad est, per cui il governo chiese l’intervento dell’Unhcr. L’organizzazione collaborò strettamente con le autorità sudanesi alla creazione di una serie di insediamenti per rifugiati. Nel 1984, il numero dei profughi etiopici era ormai salito a qualcosa come mezzo milione, di cui circa 128mila vivevano in 23 insediamenti appositamente realizzati, mentre gli altri si erano sistemati spontaneamente in città e villaggi, nella zona di confine. All’inizio, l’Unhcr sperava che l’agricoltura e le possibilità di lavoro in grandi aziende agricole meccanizzate avrebbero consentito ai rifugiati di rendersi autosufficienti, ma ben presto fu chiaro che tale 111 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 5.2 I rifugiati mozambicani nel Malawi Per buona parte degli anni ’80, i mozambicani costituirono, dopo i palestinesi e gli afghani, la terza popolazione rifugiata al mondo. Erano fuggiti dal proprio paese nel corso di una guerra devastatrice, iniziata nel 1976 e finita solo nel 1992. Le conseguenze per i paesi vicini che ne accolsero la grande maggioranza andarono ben al di là della protezione fornita loro. Il conflitto mozambicano scoppiò poco dopo l’indipendenza del paese, ottenuta nel 1975. Quando il Portogallo abbandonò precipitosamente le colonie, dopo la caduta del regime militare di Lisbona, il Fronte di liberazione del Mozambico (Frente de Libertação de Moçambique – Frelimo), che sin dal 1964 aveva condotto contro i portoghesi una sporadica guerriglia, assunse il potere. Un conflitto civile coinvolse allora il Frelimo e la Resistenza nazionale mozambicana (Resistência Nacional Moçambicana – Renamo), un gruppo insurrezionale messo in piedi e sostenuto dai governi minoritari bianchi della Rhodesia e del Sudafrica. Nel corso della guerra, le forze della Renamo andarono adottando tattiche sempre più brutali, per tenere sotto controllo la popolazione delle zone d’operazione. Dovunque andassero, la terrorizzavano sistematicamente con uccisioni, mutilazioni, stupri e saccheggi. Via via che allargavano le zone da loro controllate, cresceva vertiginosamente il numero degli abitanti in fuga. Anche le forze del Frelimo ricorsero ad azioni sempre più efferate, cosicché la Renamo si assicurò un certo sostegno popolare. La crisi di rifugiati raggiunse il suo apice nel 1992, allorché già qualcosa come 1,7 milioni di mozambicani erano rifugiati nei paesi limitrofi, e almeno il doppio erano sfollati. Alcune zone abbandonate dai profughi rimasero praticamente vuote. Ad esempio, in numerosi distretti della provincia di Tete, era fuggito non meno del 90% degli abitanti. Oltre a costringere all’esodo, fra il 1976 e il 1992, un totale di circa 5,7 milioni di persone, il conflitto fece oltre un milione di morti e rese orfani centinaia di migliaia di bambini. I mozambicani, tuttavia, non furono gli unici a soffrire delle conseguenze del conflitto. Ne fecero le spese anche gli abitanti dei paesi confinanti, che dovettero dividere con i rifugiati le loro magre risorse e strutture sociali e, a volte, anche le loro terre. Ospitarono i mozambicani il Malawi, il Sudafrica, lo Swaziland, la Repubblica unita di Tanzania, la Zambia e lo Zimbabwe. Il Malawi apre le porte Di gran lunga il paese che subì il maggiore impatto fu il Malawi, un paese piccolo, impoverito e densamente popolato, che fece la parte del leone nell’accogliere i profughi mozambicani. Nel periodo culminante dell’esodo, questi erano 1,1 milioni, pari al 10% della popolazione del Malawi. Il paese non era in condizioni di gestire un afflusso di rifugiati di tali dimensioni. A metà degli anni ’80, era il sesto paese più povero del mondo e uno dei meno sviluppati del continente africano. Il 50% dei bambini erano denutriti e la mortalità infantile era al quarto posto nelle statistiche mondiali. Benché in alcune zone i rifugiati fossero più numerosi della popolazione locale, sino ad un rapporto di tre a due, raramente l’accoglienza vacillò. Molti dei primi rifugiati, etnicamente affini alla popolazione locale, si erano inseriti in mezzo a questo. Alcuni erano riusciti a ottenere della terra, ma gli altri dipendevano dagli aiuti internazionali. Nei primi dieci anni del conflitto in Mozambico, il governo del Malawi, che forniva un sostegno occulto alla Renamo, si oppose a un’assistenza internazionale ai rifugiati, e cercò di far fronte ai loro bisogni attraverso le infrastrutture e i servizi pubblici esistenti, consentendo ai rifugiati di ricorrere agli ambulatori, agli ospedali locali ai limitati servizi sociali e assistenziali. In seguito, nel 1986, lo stesso anno in cui si piegò alla pressione dei paesi vicini per porre fine al sostegno alla Renamo, il Malawi riconobbe la sua incapacità di far fronte all’afflusso e chiese aiuto all’Unhcr. In un primo tempo, l’organizzazione cercò di dare impulso al programma governativo di assistenza ai rifugiati attraverso i meccanismi già esistenti. Il Programma alimentare mondiale (Pam) intervenne fornendo aiuti alimentari. Anche con tale sostegno, tuttavia, le istituzioni nazionali non riuscivano nemmeno lontanamente a soddisfare adeguatamente i bisogni della obiettivo sarebbe stato difficile da raggiungere. In un rapporto dell’Unhcr di quel periodo si osservava: “si contano sulle dita di una mano gli insediamenti che dispongono di terre e risorse idriche sufficienti per pensare realisticamente al raggiungimento dell’autosufficienza” 5. Gli scontri tra le forze governative etiopiche e i gruppi d’opposizione armati eritrei, come pure tra le fazioni eritree rivali, continuarono a provocare un esodo di rifugiati dall’Eritrea verso il Sudan. Ma un’altra crisi di grandi dimensioni si profilava 112 Le guerre per procura popolazione locale e dei rifugiati. Quando, nel 1987, il numero dei rifugiati subì un’impennata, il Malawi chiese all’Unhcr di organizzare dei campi profughi e diede disposizioni affinché tutti i nuovi rifugiati vi si trasferissero. Il governo, inoltre, vietò alla popolazione locale di fornire loro terreni agricoli. Alla fine, oltre i due terzi dei rifugiati fuggiti nel Malawi – 1,1 milioni – si insediarono nei campi profughi. Benché per l’Unhcr, il Pam e le altre agenzie tale sistemazione rendesse le cose più facili, anche la semplice assistenza di sostentamento rimaneva un compito gigantesco. Privo di sbocchi diretti al mare, il Malawi aveva una rete stradale in cattivo stato e i camion scarseggiavano. Molti campi profughi erano accessibili solo attraverso strade sterrate, inadatte ai veicoli pesanti. Il traffico aveva gravemente danneggiato le strade ed i ponti. Per la distribuzione degli aiuti alimentari, le agenzie umanitarie avevano noleggiato buona parte dei camion disponibili nel paese, e questo aveva creato difficoltà agli agricoltori e ai commercianti per il trasporto delle loro merci. L’Unhcr e il Pam avevano problemi nella gestione delle scorte d’emergenza, data l’inadeguatezza dei trasporti e dei magazzini. Ne derivarono interruzioni negli approvvigionamenti alimentari e un preoccupante aumento della malnutrizione fra i rifugiati. Pur non disponendo, in genere, di terre coltivabili, questi avevano trovato ugualmente il modo di guadagnare qualcosa. Più del 90% di loro svolgeva attività economiche, quali la fabbricazione e la vendita di vasellame, la macinazione del granturco, l’allevamento e la vendita di animali domestici, la fabbricazione della birra. Molti poi vendevano o scambiavano parte delle razioni alimentari, per procurarsi altri generi di prima necessità, come carne, verdura fresca o sapone. I rifugiati più poveri, alcuni dei quali non avevano neppure le tessere alimentari, sopravvivevano tagliando la legna da ardere. Nel Malawi, l’abbattimento su vasta scala degli alberi ha causato un disboscamento così esteso che l’ambiente continua a risentirne le conseguenze. Considerando la durata della permanenza e le dimensioni della popolazione rifugiata, fu degna di nota l’assenza di conflitti aperti con la popolazione locale. Nel 1992, tuttavia, il lungo soggiorno cominciava a rendere tesi i rapporti. I problemi riguardavano soprattutto l’impatto della loro presenza sull’economia, le conseguenze ambientali quali il disboscamento, la criminalità e altri problemi sociali. La situazione fu esacerbata dalla siccità che colpì gran parte della regione fra il 1992 e l’inizio del 1993. Sebbene gli aiuti destinati ai rifugiati fossero distribuiti anche alla popolazione locale che soffriva per la siccità, andarono aumentando i furti nei depositi e nei centri di distribuzione dei viveri. In alcuni campi profughi i pozzi rimasero a secco, causando problemi sanitari e un focolaio di colera che si estese anche alla popolazione locale. I costi occulti Queste conseguenze rappresentano i costi occulti sostenuti dai paesi che ospitano una numerosa popolazione rifugiata, in particolare quando anch’essi sono fra i paesi più poveri del mondo. I rifugiati possono esercitare un’influenza positiva sui paesi ospitanti, ma in alcuni casi la loro presenza può anche avere un impatto negativo di vasta portata. Ne possono soffrire l’economia e l’ambiente, come pure l’equilibrio sociopolitico locale, e si possono avere serie implicazioni anche per la pace e la sicurezza a livello nazionale, regionale o internazionale. Le iniziative per lo sviluppo dei paesi ospitanti possono essere compromesse e distorte, quando la presenza dei rifugiati tende fino al limite di rottura la disponibilità di beni e servizi. In molti casi, per far fronte alle necessità più immediate dei rifugiati – viveri, alloggi di fortuna e sicurezza – le autorità statali si vedono obbligate a stornare fondi da più vasti progetti di sviluppo. Nel Malawi, uno studio patrocinato dalla Banca mondiale ha accertato che, anche tenendo conto degli aiuti internazionali erogati attraverso l’Unhcr, fra il 1988 e il 1990 furono spesi per l’assistenza ai rifugiati qualcosa come 25 milioni di dollari provenienti da fondi pubblici, stornati da altri progetti. all’orizzonte, questa volta nella regione etiopica del Tigrè: generando un afflusso ancora maggiore di etiopi nel Sudan, avrebbe creato ancora maggiori difficoltà per il paese e costituito per l’Unhcr una delle più grandi sfide della sua storia. La carestia in Etiopia e i nuovi esodi di rifugiati Nel 1984, in Etiopia si verificò una carestia che diede luogo a una delle crisi umanitarie più largamente pubblicizzate in tempi recenti. Come osservò un commentatore: 113 I RIFUGIATI NEL MONDO “La carestia dell’Etiopia settentrionale, che nel 1984 ha richiamato l’attenzione dei media di tutto il pianeta, è stata un terremoto nel mondo umanitario” 6. Il numero delle vittime fu valutato in un milione 7. La siccità ne fu ritenuta la principale causa, ma la realtà era ben più complessa. Così la descrisse un analista: La siccità e i magri raccolti hanno certo contribuito alla carestia, ma non l’hanno provocata. Anche la politica economica e agricola del governo [etiopico] vi ha contribuito, ma non è stata fondamentale. La causa principale è stata la campagna controrivoluzionaria condotta, fra il 1980 e il 1985, dall’esercito e dall’aeronautica etiopici nel Tigrè e nel Wollo... [che comprendeva] la tattica della terra bruciata, la requisizione dei viveri da parte dei militari, il blocco dei viveri e degli abitanti assediati... e il razionamento dei generi alimentari 8. Il governo etiopico permise ai paesi donatori e alle organizzazioni internazionali di fornire aiuti alimentari, ma impedì loro di assistere le vittime della carestia, nelle zone controllate dai gruppi armati d’opposizione dell’Eritrea e del Tigrè. Di conseguenza, le organizzazioni umanitarie presenti in Etiopia non poterono assistere direttamente gli abitanti delle due principali zone colpite. Sin dall’inizio degli anni ’80, un consorzio di Ong che operava con base nel Sudan si sforzava di nutrire la popolazione delle zone controllate dai ribelli, in Eritrea e nel Tigrè, fornendo generi elementari con operazioni clandestine notturne, attraversando il confine fra il Sudan e l’Etiopia. All’epoca, quel tipo d’azione umanitaria fu giudicato molto radicale. L’operazione transfrontaliera dal Sudan non riuscì, tuttavia, a soddisfare le necessità della popolazione delle zone colpite, e centinaia di migliaia di abitanti disperati non ebbero altra scelta che di trasferirsi nelle zone controllate dal governo. Altri rinunciarono a farlo, soprattutto per il timore di essere arrestati o raggruppati in vista di un trasferimento forzato. Il risultato fu un esodo in massa di etiopi principalmente verso il Sudan, ma anche verso la Somalia e Gibuti. Fra l’ottobre 1984 e il marzo 1985, nel Sudan arrivarono circa 300mila rifugiati etiopici, in maggioranza dal Tigrè, che avevano abbandonato l’Etiopia con un movimento accuratamente organizzato dalla Relief Society of Tigray (Rest), sostanzialmente emanazione civile del Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf). La Rest aveva annunciato che, se non fossero stati forniti ulteriori aiuti alimentari nello stesso Tigrè, non sarebbe stata in grado di mantenervi i propri assistiti. Se è vero che alcuni osservatori sostennero che i nuovi arrivati cercavano scampo dalla carestia piuttosto che dal conflitto, l’Unhcr li considerò comunque rifugiati. La possibilità di un massiccio afflusso era già stata contemplata, ed era stato lanciato l’allarme, alla fine del 1983. Quando si verificò, un anno dopo, le dimensioni e la rapidità dell’arrivo dei rifugiati nel Sudan furono molto maggiori del previsto. Molti arrivavano in condizioni fisiche così precarie che gli aiuti giungevano troppo tardi. All’inizio, la situazione nei campi profughi, allestiti precipitosamente, era cattiva, e la mortalità era elevata. Molti morirono di malattie legate alla malnutrizione, e un focolaio di morbillo, particolarmente virulento, fece molte vittime fra i bambini. Nello stesso periodo in cui gli etiopi del Tigrè entravano nel Sudan, la carestia – aggravata dal conflitto in Eritrea, che faceva allora parte dell’Etiopia – provocò un ulteriore afflusso di popolazione nel Sudan. I nuovi profughi arrivavano nei campi che già ospitavano gli eritrei. Wad Sherif, un campo predisposto per ospitare 5mila rifugiati, 114 Le guerre per procura giunse rapidamente ad accoglierne 128mila, divenendo così uno dei più grandi campi profughi al mondo 9. L’Unhcr e le Ong che con esso collaboravano fecero ogni sforzo per accogliere i nuovi arrivati nel campo, costruendo i necessari magazzini, ambulatori e centri nutrizionali. In collaborazione con altri organismi umanitari internazionali, governi e donatori, l’Unhcr organizzò un ponte aereo per trasportare viveri e altri generi di prima necessità, e dislocò sul terreno squadre sanitarie e volontari. Nei paesi occidentali, dei musicisti e altri artisti, guidati da Bob Geldof, si misero alla testa di iniziative molto mediatizzate per il reperimento di fondi, fra cui Live Aid e Band Aid, che raccolsero milioni di dollari a beneficio delle vittime della carestia, non solo in Etiopia e nel Sudan, ma anche in tutta l’Africa subsahariana. Nel 1985, per il solo programma per il Sudan i donatori versarono all’Unhcr 76 milioni di dollari, importo pari a tutto il bilancio mondiale dell’organizzazione, appena 10 anni prima 10. All’inizio del 1986, l’Unhcr riferiva: “la mobilitazione internazionale ha dato i suoi risultati, e la situazione [in Sudan] è notevolmente migliorata... Le immagini insostenibili di bambini denutriti e di uomini e donne vaganti con aria sperduta... appartengono ormai al passato” 11. Nel maggio 1985, in Etiopia aveva ricominciato a piovere e il Tplf incoraggiò i suoi seguaci a tornare alle loro case. A metà del 1987, oltre 170mila di loro erano già rimpatriati. A differenza dei tigrini, però, la maggioranza degli eritrei giunti nel Sudan nel 1984-85 non rientrarono; anzi, i combattimenti e la persistente carestia in Eritrea portarono nuovi afflussi di eritrei nel Sudan. Nel corso degli anni ’80, l’Etiopia aveva non solo generato rifugiati, ma ne aveva anche ospitato in gran numero. A partire dal 1983, quando nel Sudan meridionale ripresero i combattimenti fra l’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla) e le forze governative, moltissimi abitanti erano stati costretti all’esodo e, alla fine del decennio, oltre 350mila abitanti del sud erano fuggiti in Etiopia, nella regione di Gambela. L’Unhcr assistette il governo etiopico per rispondere alle loro necessità, ma l’accesso ai campi profughi, che fornivano appoggio all’Spla, fu spesso limitato. Nel 1987-88, inoltre, circa 365mila somali cercarono scampo in Etiopia, per sfuggire agli scontri fra le forze governative somale e i ribelli che rivendicavano l’indipendenza della Somalia nordoccidentale. Questi rifugiati furono ospitati in grandi campi nella zona di Hartisheik, e l’Unhcr coordinò gli aiuti internazionali loro destinati. La disgregazione dell’Unione sovietica e la fine della guerra fredda segnarono la fine, in Etiopia, anche per il regime marxista del presidente Menghistu. Nel maggio 1991, il Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (Eplf) occupò la maggiore città eritrea, Asmara, mettendo così termine alla più lunga guerra civile africana e spianando il terreno per l’indipendenza, proclamata nel 1993. Meno di una settimana dopo la conquista di Asmara, le forze guidate dal Tplf entrarono nella capitale etiopica, Addis Abeba; per l’esercito etiopico fu la disfatta e il presidente Menghistu fu deposto. I rifugiati afghani in Pakistan e Iran Anche l’Afghanistan – un altro dei paesi più poveri e meno sviluppati del pianeta – generò, negli anni ’80, massicci movimenti di rifugiati. Sebbene i conflitti che li pro115 I RIFUGIATI NEL MONDO vocarono avessero radici locali, l’enorme dimensione degli esodi di popolazione fu largamente dovuta al sostanziale coinvolgimento delle superpotenze in quella regione d’importanza strategica. La crisi ebbe inizio nell’aprile 1978, quando un gruppo di intellettuali, condotti da Nur Mohammad Taraki, si impadronì del potere, cercando di creare uno stato comunista. Il nuovo governo realizzò vaste riforme sociali, che suscitarono il risentimento delle popolazioni rurali, profondamente tradizionali, a beneficio delle quali erano destinate. L’opposizione, sia politica che militare, dilagò rapidamente. Il regime, che riceveva una massiccia assistenza militare dall’Unione sovietica, reagì duramente. Come scrisse un commentatore: Le élite religiose, politiche e intellettuali sono state imprigionate o giustiziate; gli attacchi terrestri e i bombardamenti aerei hanno distrutto dei villaggi e ucciso un numero imprecisato di abitanti delle zone rurali. Si ritiene che..., fra l’aprile 1978 e il dicembre 1979, siano scomparsi o siano stati eliminati da 50 a 100mila abitanti 12. Nel giro di pochi mesi, gli afghani cominciarono a fuggire in due paesi limitrofi, il Pakistan e l’Iran. Malgrado le pressioni esercitate dal governo afghano e da quello sovietico sul governo pakistano perché respingesse i rifugiati, questi furono bene accolti 13. Nell’agosto 1978, circa 3mila di loro avevano cercato scampo in Pakistan; all’inizio del 1979, la cifra era ormai salita a oltre 20mila. Quando i primi rifugiati cominciarono ad arrivare in Pakistan, l’Unhcr non aveva un proprio ufficio nel paese: i rifugiati chiesero quindi aiuto al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). A sua volta, questo chiese fondi all’Unhcr per fornire un’assistenza temporanea ai casi più bisognosi 14. Più tardi, nell’aprile 1979, il governo pakistano richiese formalmente l’intervento dell’organizzazione 15. Dopo due missioni di valutazione in Pakistan, l’Unhcr raccolse oltre 15 milioni di dollari per l’assistenza ai rifugiati, e nell’ottobre 1979 aprì un proprio ufficio a Islamabad 16. Intanto, in Afghanistan l’opposizione armata al governo comunista guadagnava terreno. A fine dicembre 1979, l’Unione sovietica, temendo la perdita di un alleato importante sul proprio fianco meridionale, invase il paese, provocando un massiccio esodo di popolazione. Nel giro di poche settimane, 600mila afghani cercarono riparo in Pakistan e Iran. I rifugiati continuarono a fuggire dall’Afghanistan per tutto il decennio. Nel dicembre 1990, l’Unhcr valutava in oltre 6,3 milioni il loro numero nei paesi confinanti, di cui 3,3 milioni in Pakistan e 3 milioni in Iran. A quell’epoca, gli afghani costituivano ormai la più numerosa popolazione rifugiata al mondo. Le disparità nell’assistenza ai rifugiati in Pakistan e Iran La situazione dei rifugiati afghani in Pakistan presentava un notevole contrasto con quella dei loro connazionali in Iran. In Pakistan, i rifugiati erano soprattutto di etnia pashtun, e cercarono asilo principalmente nelle regioni del paese dominate dalla loro etnia. L’Unhcr realizzò oltre 300 “villaggi di rifugiati”, che ospitavano la maggioranza di loro. In Iran, invece, i rifugiati afghani erano per la maggior parte di etnia tagica, uzbeca e hazara, con solo un modesto numero di pashtun. Relativamente pochi di 116 Le guerre per procura Principali flussi di rifugiati afghani, 1979–90 Cartina 5.2 UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE Rep. soc. sov. dell’Uzbekistan Mar Caspio Rep. soc. sov. del Tagikistan Rep. soc. sov. del Turkmenistan TEHERAN KABUL AFGHANISTAN REPUBBLICA ISLAMICA D’IRAN ISLAMABAD 3.060.000 rifugiati 3.250.000 rifugiati (residenti perlopiù in aree urbane) PAKISTAN LEGGENDA Capitale di stato Principali campi/insediamenti di rifugiati Confine di stato Confini delle repubbliche sovietiche Movimenti di rifugiati Mare Arabico 0 200 400 INDIA Chilometri Kilometri loro erano alloggiati in campi profughi, mentre i più si erano dispersi nelle città, piccole e grandi, di tutto il paese, dove vivevano mescolati alla popolazione locale. Molti riuscirono a trovare lavoro, anche perché molti iraniani erano stati arruolati per la guerra contro l’Iraq, scoppiata nel settembre 1980. Anche il livello degli aiuti internazionali forniti ai rifugiati afghani in Pakistan e in Iran presentava marcate differenze. Negli anni ’80, i donatori contribuirono con ingenti stanziamenti all’assistenza a quelli ospitati nel primo paese, mentre furono molto meno generosi con quelli che vivevano nel secondo, sebbene costituissero a quell’epoca una delle più numerose popolazioni rifugiate al mondo. In un primo tempo, il governo iraniano si era astenuto dal chiedere l’intervento della comunità internazionale in favore dei rifugiati. A seguito della rivoluzione islamica del 1979, i rapporti fra il nuovo governo e i paesi occidentali erano al punto di rottura. Inoltre, nel novembre 1979, l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran, in cui studenti radicali sequestrarono decine di ostaggi americani, aveva avuto luogo 117 I RIFUGIATI NEL MONDO appena un mese prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La tensione che ne era derivata fra l’Iran e le potenze occidentali aveva contribuito alla decisione iraniana di non chiedere aiuti internazionali, considerati “occidentali”. La situazione in Iran cambiò nel 1980, in larga misura a causa della guerra con l’Iraq, scoppiata quell’anno, che generò un nuovo afflusso di rifugiati, questa volta iracheni sciiti, creando ancora maggiori difficoltà per l’Iran. Due mesi dopo, il governo iraniano richiedeva ufficialmente l’assistenza dell’Unhcr. Il viceministro degli Esteri iraniano scrisse all’Alto Commissario, Poul Hartling: “Abbiamo accolto decine di migliaia di rifugiati da tali due paesi, e li abbiamo assistiti... con le nostre risorse finanziarie”. Aggiungendo che l’Iran non disponeva dei mezzi necessari per continuare ad assistere adeguatamente i rifugiati, il governo chiedeva all’organizzazione di “varare un vasto programma di aiuti umanitari per questi innocenti che... devono essere assistiti alla pari di tutti gli altri rifugiati” 17. In Iran, però, gli aiuti internazionali tardarono ad arrivare, e l’Unhcr si trovò alle prese con le disparità nella risposta internazionale alle crisi di rifugiati in Pakistan e in Iran. Come si osservava, nel giugno 1981, in un promemoria interno dell’Unhcr: “Dopo un anno e mezzo senza aiuti esterni e spesso senza lavoro, [i rifugiati afghani in Iran sono] in una situazione molto difficile... Non possiamo più chiudere gli occhi davanti alle evidenti necessità dei rifugiati afghani in Iran, che si trovano nella stessa situazione di quelli ospitati nel Pakistan o in India e che sono, a prima facie, [rifugiati] ai sensi del nostro mandato, come è stato confermato dalla Divisione protezione” 18. Sebbene l’Unhcr finisse con l’ottenere fondi anche per i rifugiati afghani in Iran, la disparità nelle spese sostenute in Pakistan e in Iran rimase notevole per tutti gli anni ’80 e ’90. Fra il 1979 e il 1997, l’Unhcr spese oltre un miliardo di dollari per i rifugiati afghani in Pakistan, ma solo 150 milioni per quelli in Iran. Nel Pakistan, l’Unhcr, come anche altri organismi dell’Onu, singoli governi e decine di Ong internazionali, fornirono ai rifugiati viveri, acqua, cure mediche, servizi igienici e scuole. La proliferazione delle Ong, iniziata nel Sudest asiatico negli anni ’70, continuò nel Pakistan. Alla fine degli anni ’80, in quell’operazione umanitaria erano coinvolte oltre un centinaio di Ong internazionali: fra di esse, molte Ong musulmane, che lavoravano per la prima volta in stretta collaborazione con l’Unhcr. Questo pagava gli stipendi a oltre 6.500 dipendenti locali, molti dei quali assunti dal Commissariato pakistano per i rifugiati afghani 19. Per ragioni di politica interna, il governo pakistano non intendeva assegnare ai rifugiati, provenienti in maggioranza da zone rurali, terre da coltivare. I rifugiati potevano, però, circolare liberamente nel paese, il che aiutò molti di loro a trovare un lavoro. A metà degli anni ’80, l’Unhcr lanciò una vasta gamma di programmi – piccoli crediti, formazione professionale, progetti edilizi – per dare ai rifugiati un lavoro e insegnare loro un mestiere, incoraggiandoli nel contempo a rendersi maggiormente autosufficienti. Molti di tali programmi, tuttavia, furono sospesi su pressante richiesta del governo pakistano, il quale sosteneva che, in assenza di analoghi programmi a beneficio della popolazione locale, potevano insorgere tensioni fra questa e i rifugiati. A partire dal 1984, l’Unhcr e la Banca mondiale vararono, in collaborazione con il governo pakistano, un programma congiunto, conosciuto come Generation project for refugees areas (progetto di attività remunerative per le zone di rifugiati). Con investimenti di 85 118 Le guerre per procura Popolazioni rifugiate afghane, secondo il paese d’asilo, 1979–99 Fig. 5.2 Paesi d’asilo Anno Pakistan Iran India Federazione russaa Altrib Totale 1979 402.000 100.000 – – – 502.000 1980 1.428.000 300.000 – – – 1.728.000 1981 2.375.000 1.500.000 2.700 – – 3.877.700 1982 2.877.000 1.500.000 3.400 – – 4.380.400 1983 2.873.000 1.700.000 5.300 – – 4.578.300 1984 2.500.000 1.800.000 5.900 – – 4.305.900 1985 2.730.000 1.880.000 5.700 – – 4.615.700 1986 2.878.000 2.190.000 5.500 – – 5.073.500 1987 3.156.000 2.350.000 5.200 – – 5.511.200 1988 3.255.000 2.350.000 4.900 – – 5.609.900 1989 3.272.000 2.350.000 8.500 – – 5.630.500 1990 3.253.000 3.061.000 11.900 – – 6.325.900 1991 3.098.000 3.187.000 9.800 – – 6.294.800 1992 1.627.000 2.901.000 11.000 8.800 3.000 4.550.800 1993 1.477.000 1.850.000 24.400 24.900 11.900 3.388.200 1994 1.053.000 1.623.000 22.400 28.300 12.300 2.739.000 1995 1.200.000 1.429.000 19.900 18.300 9.700 2.676.900 1996 1.200.000 1.415.000 18.600 20.400 10.700 2.664.700 1997 1.200.000 1.412.000 17.500 21.700 12.500 2.663.700 1998 1.200.000 1.401.000 16.100 8.700 8.400 2.634.200 1999 1.200.000 1.325.700 14.500 12.600 10.000 2.562.800 Note: Le cifre si riferiscono al 31 dicembre di ogni anno. a Solo i richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr. Secondo l’Unhcr, alla fine del 1999 altri 100mila afghani erano bisognosi di protezione. b Kazakistan, Kirghisistan, Tagikistan, Turkmenistan and Uzbekistan. milioni di dollari su 12 anni, comprendeva circa 300 iniziative diverse, distribuite in tre province che ospitavano rifugiati: rimboschimento, sistemazione idrogeologica, irrigazione, riparazione e costruzione di strade. Si ritenne, in genere, che il programma avesse un impatto rilevante e positivo 20. Tali progetti, nonché la possibilità di lavorare al di fuori dei villaggi di rifugiati, aiutarono molti di loro a conseguire l’autosufficienza entro il decennio. In Iran, un programma analogo fu lanciato alla fine degli anni ’80, negli estesi pascoli del Khorasan meridionale. Si trattava questa volta di un progetto congiunto fra 119 I RIFUGIATI NEL MONDO l’Unhcr e il Fondo internazionale di sviluppo agricolo (Ifad), realizzato d’intesa col governo iraniano. Come per altre iniziative da attuare in tale paese, però, i donatori furono meno disposti a fornire i fondi necessari. Dei 18 milioni di dollari inizialmente richiesti dall’Unhcr e dall’Ifad, solo un terzo arrivarono effettivamente durante il primo quinquennio del programma. Un’altra differenza di rilievo fra l’assistenza ai rifugiati in Pakistan e in Iran riguardava il settore dell’istruzione. In Pakistan, molti ragazzi frequentavano le scuole finanziate dall’Unhcr nei villaggi di rifugiati; le ragazze, invece, vi erano meno numerose, a causa di tradizioni culturali discriminatorie che rendevano difficile per molte di loro seguirne i corsi. Un numero rilevante di ragazzi, inoltre, riceveva un’istruzione nelle madrasas (scuole religiose) private, con le quali l’Unhcr non aveva alcun rapporto. A metà degli anni ’90, alcuni dei ragazzi cresciuti come rifugiati in Pakistan e che avevano frequentato le madrasas, divennero membri dirigenti del movimento islamico dei taliban, che si impadronì del potere in Afghanistan. In Iran, invece, i giovani rifugiati erano iscritti nelle scuole iraniane e le ragazze potevano frequentarle molto più facilmente. Negli anni ’90, quando ebbe veramente inizio il rimpatrio in Afghanistan, l’accesso delle ragazze all’istruzione era spesso citato dai rifugiati come motivo per non volere ritornare in Afghanistan, dove tale accesso era proibito dai taliban. I problemi di sicurezza in Pakistan Per tutti gli anni ’80, per l’Unhcr l’utilizzazione dei villaggi di rifugiati come basi da parte dei vari gruppi islamici della resistenza armata afghana – noti collettivamente col nome di mujahedin – fu fonte di grave preoccupazione. Gli Stati Uniti, i loro alleati e vari paesi islamici fornivano ai mujahedin ingenti risorse militari e finanziarie. Si ritiene che, fra il 1982 e il 1991, i soli Stati Uniti abbiano fornito aiuti per due miliardi di dollari 21. Dato che appoggiavano i mujahedin nella loro lotta contro il regime di Kabul, sostenuto dai sovietici, molti donatori erano disposti a chiudere un occhio sulla presenza di combattenti armati nei villaggi di rifugiati ed erano, per di più, disposti a tollerare il dirottamento su larga scala degli aiuti umanitari a scopi militari. Questo indusse, all’epoca, alcuni osservatori a descrivere i villaggi di rifugiati come “comunità di rifugiati combattenti” 22. Nel 1984, dato il deterioramento della situazione della sicurezza in molti villaggi di rifugiati, l’Unhcr cercò di allontanarli dalle frontiere, sia per proteggere i profughi dagli attacchi delle forze sovietiche e di quelle governative afghane, sia per impedire ai ribelli di utilizzare i villaggi stessi come basi. In quel periodo, era normale trovare, in molti villaggi di rifugiati, pezzi d’artiglieria antiaerea ed altre armi pesanti. Nel luglio 1984, il direttore della Protezione internazionale dell’Unhcr sostenne che l’organizzazione non dovesse assistere più i villaggi che non adottassero misure per impedire tale militarizzazione: “il mantenimento del carattere civile dei villaggi di rifugiati assistiti dall’Unhcr è essenziale per tutelare il carattere apolitico e umanitario dell’organizzazione... Qualora non siano adottate le necessarie misure correttive [allontanamento delle armi], saremmo favorevoli alla cessazione dell’assistenza ai villaggi in questione” 23. Sollecitò, inoltre, il personale sul terreno a compiere “ogni sforzo per 120 Le guerre per procura incoraggiare i rifugiati... a trasferirsi, per la loro stessa incolumità, in idonee località alternative”, avvertendo però che sarebbe stato “insensato e controproducente ricorrere a qualsiasi forma di coercizione” 24. I timori dell’Unhcr per la sicurezza dei rifugiati si rivelarono fondati. A metà del 1984, le forze sovietiche e quelle governative afghane sferrarono una serie di attacchi in Pakistan partendo dall’Afghanistan, in cui rimasero uccisi o feriti molti rifugiati. Nel 1986-87, ulteriori attacchi fecero altre centinaia di vittime nei loro ranghi. Le stesse unità militari condussero, inoltre, attacchi contro civili pakistani, attizzando la tensione fra la popolazione locale e i rifugiati. Alla fine del 1986, apparentemente per placare l’ira degli abitanti del luogo, le autorità pakistane raggrupparono oltre 50mila afghani che vivevano, senza autorizzazione, a Peshawar e li rimandarono nei rispettivi insediamenti. Più o meno nello stesso periodo, le autorità pakistane adottarono altre rigorose misure per il raggruppamento dei rifugiati, soprattutto per motivi di sicurezza. Nel corso di un particolare episodio, le autorità locali di Karachi, la maggiore città del paese, raggrupparono oltre 18.500 rifugiati afghani di etnia tagica, uzbeca e turkmena, distrussero i loro alloggi di fortuna e li allontanarono dalla città, trasferendoli in una nuova località, a una decina di chilometri, dove fu appositamente costruito un nuovo villaggio. All’epoca, l’Unhcr aveva denunciato il modo in cui i rifugiati erano stati trattati, ma l’organizzazione finì con l’erogare oltre 400mila dollari per contribuire alla realizzazione delle infrastrutture essenziali. Nel frattempo, in vicinanza della frontiera, i timori dell’Unhcr per l’incolumità dei rifugiati non si tradussero in misure concrete per la smilitarizzazione dei villaggi di rifugiati. Per tutti gli anni ’80, i mujahedin continuarono a entrarne e uscirne indisturbati. Nel 1989, le forze sovietiche finirono col ritirarsi dall’Afghanistan, ma la guerra continuò fra i mujahedin e il regime comunista di Kabul. Dopo che, nel 1992, i mujahedin si impadronirono del potere, in molte regioni i combattimenti continuarono fra le loro varie fazioni, molte delle quali operavano da basi situate in Pakistan, per cui nei villaggi di rifugiati si perpetuarono i problemi legati alla sicurezza. Gli esodi di massa nel Centroamerica Nel corso degli anni ’80, l’Unhcr fu coinvolto per la prima volta nel Centromerica, teatro di tre guerre civili: nel Nicaragua, in El Salvador e nel Guatemala. In ognuno di questi paesi, la rivolta e la conseguente repressione causarono enormi perdite di vite umane ed esodi su larga scala: in totale, oltre due milioni di abitanti furono strappati alle loro case. Per decenni, già prima degli anni ’80, nella regione si erano registrati violenti scontri, fra i poveri senzaterra che chiedevano riforme sociali e agrarie e l’élite dei proprietari terrieri, sostenuti dai militari. Durante varie amministrazioni successive, gli Stati Uniti avevano appoggiato i governi di destra della regione, con l’intento di fermare quella che vedevano come la propagazione del comunismo vicino alle loro frontiere, e anche per tutelare i loro interessi economici nell’area. I movimenti ribelli sorti nella regione furono influenzati, e in una certa misura sostenuti, dal regime comunista di Cuba. 121 I RIFUGIATI NEL MONDO Nel Nicaragua, gli Stati Uniti appoggiavano da tre generazioni il regime dei Somoza. Negli anni ’70, i partiti politici, gli studenti, i sindacati e molti esponenti della borghesia e della chiesa cattolica si coalizzarono contro l’ultimo di quei dittatori, Anastasio Somoza Debayle. Il Fronte sandinista di liberazione nazionale, una formazione di sinistra, fece notevoli progressi, e nel luglio 1979 Somoza fuggì dal paese, lasciando il potere ai sandinisti. Nel giro di poche settimane, molti nicaraguensi agiati e della borghesia, e migliaia di esponenti dell’amministrazione e delle forze armate di Somoza abbandonarono il paese. Nel frattempo, la maggioranza dei nicaraguensi che in passato erano andati in Principali flussi di rifugiati in Centroamerica negli anni ‘80 Cartina 5.3 Golfo del Messico MESSICO Ma BELIZE r d ei Car a BELMOPAN GUATEMALA ibi HONDURAS GUATEMALA TEGUCIGALPA SAN SALVADOR NICARAGUA EL SALVADOR MANAGUA OC EA NO PA CIF ICO COSTA RICA SAN JOSÉ LEGGENDA Capitale di stato Principali campi/insediamenti di rifugiati Confine di stato Movimenti di rifugiati 122 PANAMA PANAMA 0 150 Chilometri Kilometri 300 Le guerre per procura Riquadro 5.3 La dichiarazione di Cartagena del 1984 Nel novembre 1984, in reazione alla crisi di rifugiati allora in atto in America centrale, un gruppo di rappresentanti dei governi, professori universitari e giuristi centroamericani, messicani e panamensi, si riunì a Cartagena, in Colombia, per elaborare quella che divenne la Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati. Pur essendo strutturata sulla falsariga della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951, la Dichiarazione di Cartagena estende, come la Convenzione dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua) del 1969, la definizione di rifugiato contenuta nello strumento dell’Onu facendovi rientrare coloro i quali fuggono dal loro paese ...perché la loro vita, la loro sicurezza o la loro libertà è minacciata da violenze generalizzate, un’aggressione straniera, un conflitto interno, massicce violazioni dei diritti umani o altre gravi turbative dell’ordine pubblico. Benché non giuridicamente vincolante, la Dichiarazione di Cartagena è stata ripetutamente avallata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione degli stati americani. La maggior parte dei paesi centroamericani e latinoamericani hanno aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati e/o al Protocollo aggiuntivo, e perlopiù applicano regolarmente la definizione di rifugiato più estensiva, contenuta nella Dichiarazione. Alcuni di essi hanno addirittura recepito la definizione stessa nelle rispettive legislazioni nazionali. esilio cominciarono a rimpatriare 25. Alcuni di quelli fuggiti nell’Honduras costituirono un gruppo armato di opposizione denominato “contras” (dallo spagnolo contrarevolucionarios). Durante tutta la guerra, negli anni ’80, gli Stati Uniti, che vedevano il governo sandinista del Nicaragua come una minaccia per i loro interessi, fornirono ai contras notevoli aiuti. Sempre durante gli anni ’70, in El Salvador, che era stato tormentato sin dal tempo dell’indipendenza da frequenti colpi di stato e violenze politiche, si affermarono alcuni gruppi ribelli, seppure frammentati. Spesso incoraggiati dal clero cattolico, migliaia di contadini aderirono alle organizzazioni che invocavano la riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il governo reagì intensificando la repressione e migliaia di persone furono uccise, per motivi politici. Anziché soffocare l’opposizione, gli attacchi suscitarono un maggiore appoggio ai ribelli, in particolare nelle zone rurali. Nel gennaio 1981, un vasto schieramento di gruppi d’opposizione costituì il Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln), che si affermò in molte zone come una importante presenza militare e divenne una forza politica di rilievo, sia nel paese che all’estero. Per reazione, gli Stati Uniti aumentarono gli aiuti militari al governo di El Salvador, e parteciparono più direttamente alla campagna delle forze armate contro l’Fmln. Il conflitto fra i militari salvadoregni e il Fronte continuò per tutti gli anni ’80. Anche nel Guatemala, negli anni ’70 dei gruppi ribelli erano insorti contro il regime militare. Godevano dell’appoggio di buona parte della popolazione autoctona che, pur 123 I RIFUGIATI NEL MONDO Principali popolazioni rifugiate registrate in Centroamerica e Messico, 1980–99 Fig. 5.3 1.2 1.0 0.8 0.6 0. 4 Milioni 0. 2 0.0 1980/81 82/83 84/85 Messico 86/87 88/89 Costa Rica 90/91 92/93 Honduras 94/95 96/97 98/99 Guatemala costituendo la maggioranza, era esclusa da ogni partecipazione nella vita politica ed economica del paese. Alla fine del 1981, i militari sferrarono una campagna controrivoluzionaria che durò un anno e mezzo, che aveva come obiettivo non solo i guerriglieri, ma anche i villaggi amerindiani, considerati basi d’appoggio ai ribelli. Decine di migliaia di civili, in maggioranza indios, furono uccisi o scomparvero 26. Al culmine della violenza, si calcola che un milione di abitanti fossero sfollati in conseguenza della campagna militare.Alcuni mesi dopo, i vari gruppi della guerriglia si unirono per costituire l’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Malgrado il sostegno popolare, questa non riuscì, però, a costituire una seria minaccia per le truppe governative. Nel 1983, l’esercito guatemalteco l’aveva ormai costretta a ritirarsi in zone montane isolate, dove rimase nella clandestinità fino all’inizio dei colloqui di pace, verso la fine del decennio. La maggior parte dei due milioni di abitanti costretti all’esodo dai conflitti armati del Nicaragua, di El Salvador e del Guatemala vissero come sfollati nei rispettivi paesi, o come stranieri, privi di documenti, in vari paesi del Centroamerica e del Nordamerica: Honduras, Messico, Costarica, Belize e Panama, come anche Stati Uniti e Canada. Di quelli che abbandonarono il loro paese, solo 150mila circa furono riconosciuti come rifugiati, in paesi centroamericani e in Messico. Delle centinaia di migliaia che ripararono negli Stati Uniti, solo relativamente pochi furono considerati rifugiati. La maggior parte di loro non ebbe la possibilità di chiedere tale status, oppure preferì non fare la domanda, per timore di un’espulsione in caso di rifiuto. La maggioranza degli oltre mezzo milioni di esuli del Centroamerica fuggiti negli Stati Uniti, dunque, non ricevettero protezione come rifugiati. L’atteggiamento americano nei confronti degli esuli centroamericani fu fortemente influenzato da considerazioni politiche. I nicaraguensi erano generalmente bene accolti e beneficiavano dell’asilo, mentre un gran numero di guatemaltechi e di salvadoregni si videro rifiutare l’asilo e furono oggetto di provvedimenti d’espulsione, anche se di fatto gli Stati Uniti tollerarono la permanenza di alcuni 124 Le guerre per procura gruppi. Anche la Costarica, l’Honduras e il Messico accolsero varie centinaia di migliaia di esuli centroamericani, dei quali solo 143mila circa furono considerati come rifugiati 27. Due delle maggiori concentrazioni di rifugiati ufficialmente riconosciuti si trovavano in Honduras e Messico. Nel 1986, l’Honduras ospitava qualcosa come 68mila rifugiati, di cui circa 43mila del Nicaragua, circa 24mila di El Salvador e un ridotto numero del Guatemala, mentre il Messico ospitava circa 46mila guatemaltechi, riconosciuti come rifugiati, e molti altri, non registrati ufficialmente 28. Per l’Unhcr, le attività di protezione e assistenza in favore dei due gruppi diversi di rifugiati presenti nell’Honduras erano limitate dalla politica della guerra fredda e da altre considerazioni politiche. Il governo honduregno, che dipendeva dagli aiuti americani, accoglieva con favore i rifugiati nicaraguensi che fuggivano dal governo sandinista, mentre era estremamente sospettoso nei confronti di quelli di El Salvador. Le disparità nel trattamento riservato dalle autorità dell’Honduras ai due gruppi di rifugiati crearono gravi problemi all’Unhcr. Sebbene la maggioranza dei rifugiati ufficialmente riconosciuti fossero alloggiati in campi profughi gestiti dall’organizzazione, la loro situazione era molto diversa: ai rifugiati nicaraguensi era consentito entrarne e uscirne liberamente, mentre quelli salvadoregni erano costretti a soggiornare in campi chiusi, sorvegliati dalle forze armate. Rifugiati secondo la principale regione d’asilo, 1975–2000* Fig. 5.4 9 8 7 6 5 4 3 Milioni 2 1 0 1975 1980 Africa 1985 Asia 1990 Europa 1995 2000 Americhe * Non sono compresi i rifugiati palestinesi assistiti dall’Agenzia dell’Onu di soccorso e lavoro per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente (Unrwa). 125 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 5.4 Il Cile sotto il generale Pinochet A differenza della maggior parte dei paesi latinoamericani, il Cile non aveva, prima del 1973, una tradizione di intervento militare nella politica, ed era considerato una delle democrazie più stabili del continente. L’11 settembre 1973, però, il generale Augusto Pinochet sferrava un attacco armato contro il governo democraticamente eletto del presidente Salvador Allende. Il colpo di stato era rapidamente seguito dalla repressione di ogni attività politica e dall’arresto in massa di decine di migliaia di sostenitori del precedente governo socialista. In tutto il paese era proclamato lo stato d’assedio. La tortura, le sparizioni e le uccisioni furono generalizzate, soprattutto durante i primi mesi della giunta militare Si calcola che oltre 4mila persone siano state uccise e circa 60mila arrestate, benché in maggioranza detenute solo per breve tempo. Il parlamento fu chiuso e furono effettuate epurazioni di sospetti simpatizzanti della sinistra. Un rapporto dell’epoca dell’Unhcr paragonò la situazione a quella del periodo fascista, nell’Europa degli anni ’30 iii. I rifugiati già presenti in Cile Per l’Unhcr, il colpo di stato cileno e le sue conseguenze rappresentarono una prova molto impegnativa. Il Cile ospitava già alcune migliaia di rifugiati e di esuli politici, che vi avevano cercato asilo negli anni precedenti. A metà del 1972, il governo Allende valutava il loro numero in circa 5mila. Molti erano arrivati dopo l’elezione di Allende nel 1970, in fuga da paesi con governi di destra o per sostenere quella che vedevano come un’esperienza socialista irripetibile. Due giorni dopo il colpo di stato, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan telegrafava al nuovo ministro degli Esteri, contrammiraglio Ismael Huerta Díaz, sollecitando il governo 126 a onorare i propri obblighi ai sensi della Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati e del Protocollo del 1967, ratificati dal governo Allende nel 1972 iv. Se il Cile non avesse sottoscritto tali strumenti, quasi certamente i negoziati dell’Unhcr col nuovo governo non avrebbero avuto lo stesso esito positivo. Il 20 settembre 1973, l’Unhcr apriva un proprio ufficio nella capitale, Santiago. Nel corso dello stesso mese, il governo autorizzava l’istituzione di un Comitato nazionale di aiuto ai rifugiati (Conar). Le organizzazioni religiose e le agenzie volontarie che ne facevano parte crearono 26 centri di accoglienza per i rifugiati, 15 a Santiago e 11 nelle province. In tali centri, si aiutavano i “rifugiati rientranti nel mandato” a mettere in ordine i loro documenti e si organizzava il loro trasferimento in paesi di reinsediamento. A fine settembre, nei centri erano già stati registrati 600 rifugiati, e il 23 ottobre il loro numero era salito a 1.022. Varie altre centinaia di rifugiati senzatetto furono alloggiate, in diversi periodi, in una dipendenza dell’ambasciata svizzera, col consenso del governo cileno. La casa suiza offrì asilo, in attesa di un reinsediamento all’estero, a centinaia di rifugiati, in maggioranza brasiliani, uruguaiani e boliviani, che rientravano nel mandato dell’Unhcr, erano stati rilasciati dal carcere ed erano oggetto di un’ordinanza di espulsione. Il Conar operava sotto l’egida dell’Unhcr, che gli aveva offerto assistenza per la soluzione dei problemi dei rifugiati. Al marzo 1974, delle 3.574 persone registrate presso il Comitato, 2.608 erano già state reinsediate in una quarantina di paesi, comprese 288 rimpatriate nei rispettivi paesi d’origine. Inoltre, circa 1.500 persone erano riparate clandestinamente in Perù e Argentina. Su una spesa totale di 300mila dollari, sostenuta dal Conar in quel periodo, circa 215mila erano stati stanziati dall’Unhcr. L’esilio dei cileni Sin dall’inizio, il regime di Pinochet utilizzò l’esilio nell’ambito della sua strategia volta a ridisegnare la carta politica del Cile, eliminandone così le precedenti tradizioni politiche. Il numero degli arrestati era tale che il maggiore stadio di calcio di Santiago fu trasformato in un immenso centro d’internamento. Le espulsioni erano effettuate ai sensi del decreto legge n. 81, del novembre 1973, che dava al regime un potere praticamente incondizionato in tale campo. A partire dal dicembre 1974, ai detenuti nel quadro dello stato d’assedio, ancora in attesa di giudizio, fu consentito far domanda di rilascio, condizionato all’immediata espulsione. Nell’aprile 1975, il decreto legge n. 504 estese il provvedimento ai detenuti già condannati. Il Comitato intergovernativo per le migrazioni europee, il Comitato internazionale della Croce Rossa e l’Unhcr svolsero un ruolo importante, a fianco delle Ong nazionali, per permettere a migliaia di cileni di lasciare il paese. L’Unhcr ricevette anche notevole appoggio da altre istituzioni delle Nazioni Unite: in particolare, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco). L’Alto Commissariato istituì, all’inizio di ottobre 1973, una procedura per la determinazione dello status di rifugiato, per decidere se gli individui avessero in Cile un fondato timore di persecuzione, senza considerare se fosse il paese d’origine o semplicemente di stabile Le guerre per procura residenza. Per molti rifugiati era necessaria la procedura più rapida possibile, perché temevano l’arresto o perfino la morte per mano delle autorità. Come per l’esodo dall’Ungheria, quasi vent’anni prima, i rifugiati si dispersero in mezzo mondo. Circa 110 paesi, dall’Islanda e Cipro al Kenya e Capo Verde, accolsero i cileni in vista del reinsediamento. All’inizio, molti fuggirono verso altri paesi latinoamericani, fra cui il Perù, l’Argentina e il Brasile. Le possibilità lavorative in tali paesi, però, erano molto limitate e, dopo il colpo di stato del 1976 in Argentina, il vicino immediato del Cile non risultò più molto attraente. Le altre principali destinazioni dei rifugiati cileni furono la Francia, la Svezia, il Canada, il Messico, l’Australia e la Nuova Zelanda. L’Unhcr fece anche appello ai paesi dell’Europa orientale per accogliere dei rifugiati cileni. Un migliaio circa di loro si recò di propria iniziativa nella Repubblica democratica tedesca (Germania orientale) e altrettanti andarono, con l’aiuto dell’organizzazione, in Romania. Gruppi meno numerosi raggiunsero altri paesi dell’Europa orientale, fra cui la Bulgaria e la Jugoslavia: unico paese del blocco orientale con il quale l’Unhcr aveva fino allora relazioni di qualche rilievo. L’appello rivolto dall’Unhcr a questi paesi era una novità, in un’epoca in cui l’Unione sovietica guardava ancora l’organizzazione con malcelato sospetto. L’asilo diplomatico Molte ambasciate di Santiago si ispirarono alla consolidata prassi latinoamericana che consisteva nel garantire la protezione diplomatica a chi si trovasse nei loro locali. Nel giro di pochi giorni dal colpo di stato, oltre 3.500 cileni avevano chiesto asilo nelle ambasciate, soprattutto in quelle di Argentina, Francia, Italia, Messico, Paesi Bassi, Panama, Svezia e Venezuela. In un incidente avvenuto nel dicembre 1973, Harald Edelstam, l’ambasciatore svedese, fu espulso per il ruolo particolarmente attivo svolto nel concedere l’asilo diplomatico. Grazie ai propri “buoni uffici”, l’Unhcr intervenne in loro aiuto e, a metà ottobre, con la sua assistenza e l’accordo del governo, era già stato concesso un salvacondotto a 4.761 richiedenti asilo, in maggioranza cileni. A maggio del 1974, il ministero degli Esteri ne aveva concesso circa 8mila v. Le “oasi di sicurezza” Il decreto legge n. 1308, del 3 ottobre 1973, apportò un’importante innovazione nella moderna prassi internazionale relativa all’asilo: la creazione, nello stesso Cile, delle cosiddette “oasi di sicurezza” per rifugiati stranieri, garantite dal governo cileno. Nella zona di Santiago ne furono istituite in tutto sei. Inizialmente, le oasi di sicurezza furono rispettate dal regime, ma alla fine del 1973 un telegramma dell’Unhcr rilevava che la situazione dell’ordine pubblico relativamente ai rifugiati appariva estremamente tesa. Il messaggio indicava che forse la giunta militare si proponeva di chiuderle, insistendo per la creazione di centri di transito al di fuori del Cile vi. Colmo dell’ironia, era quanto chiedevano anche molti degli stessi rifugiati. Nell’aprile del 1974, l’Ufficio dell’Unhcr a Santiago calcolava in 15mila il numero delle persone ancora detenute, in tutto il paese, per motivi politici. Permanevano le limitazioni delle libertà civili e politiche e persisteva la carenza di un qualunque ordinamento giuridico. Fu in tali condizioni che rimasero in funzione, per buona parte del 1974, le sei oasi di sicurezza. Un certo numero di cittadini cileni in attesa di reinsediamento furono pure alloggiati in un’oasi creata, sotto la protezione della bandiera delle Nazioni Unite, col decreto legge n. 1698, del 17 ottobre 1974. Vi si precisava che il centro poteva accogliere rifugiati stranieri, come pure parenti di rifugiati cileni già all’estero, in attesa di ricongiungimento familiare. I cileni erano ammessi nell’oasi di sicurezza solo su autorizzazione del ministero dell’Interno. La presenza dei cittadini cileni significava che l’Unhcr si interessava sempre più a casi di ricongiungimento familiare, reinsediando le famiglie di cileni che avevano già trovato asilo all’estero. Con la graduale partenza dei rifugiati, il numero delle oasi di sicurezza si ridusse sempre più. Alla fine del 1975, quasi tutti i rifugiati stranieri che non potevano rimanere in Cile erano stati reinsediati in modo soddisfacente e, nell’aprile 1976, fu chiusa l’ultima oasi superstite. Una pietra miliare per l’Unhcr L’operazione dell’Unhcr in Cile, iniziata nel 1973, rappresentò un’importante pietra miliare nella storia dell’organizzazione. Fu la prima operazione su vasta scala in America latina. Non si dispone di cifre esatte quanto al numero delle persone fuggite in esilio negli anni in cui il generale Pinochet fu capo di stato. Fino a tutto il 1980, il solo Comitato intergovernativo per le migrazioni europee permise a 20mila persone di lasciare il paese. Altre fonti calcolano in non meno di 200mila il totale di quanti fuggirono il regime, volontariamente o a seguito di espulsioni vii. 127 I RIFUGIATI NEL MONDO I rifugiati nicaraguensi in Honduras I primi rifugiati nicaraguensi erano arrivati nel vicino Honduras nel 1981. La maggioranza di loro (circa 30mila) erano indios miskitos, che cercavano di sfuggire sia agli scontri fra le forze dei contras e quelle sandiniste, nelle loro zone d’origine, sia ai tentativi del governo sandinista per trasferirli altrove. All’incirca 14mila dei miskitos del Nicaragua vivevano in campi allestiti dall’Unhcr. I rimanenti 8mila rifugiati nicaraguensi erano di origine spagnola o mista, conosciuti come “ladinos”, e continuarono ad affluire nell’Honduras per tutti i primi anni ’80. Molti, come i miskitos, cercavano scampo dai combattimenti fra i contras e le forze sandiniste. Altri erano reclute dei contras, stabilitesi in campi da questi gestiti lungo la frontiera. L’Unhcr tentò di mantenere una chiara divisione fra le basi dei contras e gli insediamenti dei rifugiati, cercando di allontanare questi ultimi dal confine. Era noto, tuttavia, che i contras operavano da campi profughi gestiti dall’Unhcr e dal Comitato internazionale della Croce rossa: una situazione che un osservatore descrisse come “un esempio dell’utilizzazione più estrema dei rifugiati come pedine in un gioco politico” 29. La presenza di gruppi armati nei campi dei rifugiati nicaraguensi nell’Honduras, come quella dei gruppi armati afghani nei villaggi di rifugiati del Pakistan, metteva gli esuli in grave pericolo. Ma poiché sia gli Stati Uniti che l’Honduras sostenevano i contras, l’Unhcr non potè impedire loro di operare dai campi stessi. Nel frattempo, alcune Ong criticavano l’Unhcr perché non proteggeva adeguatamente i rifugiati. Nel 1987, l’afflusso dei rifugiati aumentò notevolmente, soprattutto in risposta a una campagna di reclutamento militare del governo sandinista. Nel dicembre 1987, l’Unhcr aveva registrato poco meno di 16mila rifugiati ladinos, all’incirca il doppio rispetto alla fine del 1986. Nel 1988, sulla scia dell’affare Irangate, il Congresso degli Stati Uniti vietò ogni aiuto ai contras. Senza gli aiuti americani, la posizione dei contras fu indebolita e il conflitto giunse a un punto morto. Alcuni mesi dopo i sandinisti e l’opposizione, ivi compresi i contras, intavolarono un “dialogo nazionale” che portò, nel 1989, a una serie di accordi miranti a porre termine alla guerra. I rifugiati salvadoregni in Honduras I primi gruppi di rifugiati di El Salvador arrivarono in Honduras nel 1980. In un primo tempo, si sistemarono senza difficoltà in varie località presso la frontiera, e in particolare a La Virtud. Con l’arrivo di altri rifugiati, però, le autorità cercarono di far cessare gli insediamenti spontanei. Il governo vedeva gli esuli come dei sostenitori dei guerriglieri, e li trattava con diffidenza e ostilità. Nel maggio 1980, ad esempio, le truppe honduregne respinsero centinaia di rifugiati che cercavano scampo dagli attacchi dei militari di El Salvador. Molti di quelli così respinti finirono poi uccisi. Ciononostante, malgrado la cattiva accoglienza che ricevevano, l’intensificarsi degli scontri in El Salvador continuò a costringere migliaia di abitanti a cercare riparo in Honduras. All’inizio del 1981, la popolazione salvadoregna rifugiata nel paese saliva a 30mila unità. 128 Le guerre per procura In Honduras, i rifugiati non trovarono la sicurezza sperata. Secondo un’infermiera europea che lavorava a La Virtud: “i militari salvadoregni, in base a un accordo con quelli honduregni di stanza a La Virtud, sono entrati liberamente nel territorio dell’Honduras. Alcuni rifugiati sono scomparsi, altri sono stati rinvenuti morti, altri ancora sono stati arrestati dall’esercito honduregno” 30. L’Unhcr elevò una formale protesta contro le incursioni, come pure fecero degli alti prelati cattolici della regione, ma con scarso risultato. In seguito, nell’ottobre 1981, il governo dell’Honduras annunciò l’intenzione di trasferire i rifugiati da La Virtud a Mesa Grande, località più lontana dalla frontiera, con lo scopo dichiarato di proteggerli, cosa che l’Unhcr non poteva che appoggiare. Alcune Ong e altri osservatori ritennero, però, che i veri obiettivi del governo fossero di impedire ai rifugiati di aiutare i guerriglieri salvadoregni e di sgombrare la zona di frontiera, in modo che i militari dell’Honduras e quelli di El Salvador avessero maggiore libertà d’azione. I rifugiati e la maggior parte delle Ong che operavano a La Virtud erano contrari al trasferimento, sostenendo che li avrebbe lasciati ancor più alla mercè dell’ostilità dei militari honduregni. La situazione divenne esplosiva il 16 novembre 1981, quando forze militare e paramilitari di El Salvador entrarono a La Virtud e rapirono un certo numero di rifugiati. Il governo dell’Honduras sfruttò l’incursione come pretesto per procedere immediatamente al trasferimento, sebbene i preparativi a Mesa Grande non fossero ancora ultimati. Malgrado l’opposizione dei rifugiati e malgrado i propri timori, all’Unhcr non rimase altra alternativa che di collaborare all’operazione. Nel giro di cinque mesi, furono trasferiti 7.500 rifugiati. Altri 5mila rientrarono in El Salvador, piuttosto che spostarsi a Mesa Grande. Il trasferimento creò nuovi problemi: molte delle infrastrutture promesse non furono mai realizzate, e la situazione dei rifugiati risultò molto peggiore di quando erano a La Virtud. Di conseguenza, aumentò la diffidenza dei rifugiati nei confronti sia delle autorità dell’Honduras che dell’Unhcr. La politica del governo honduregno, consistente nell’alloggiare i rifugiati di El Salvador in campi chiusi, rendeva loro difficile raggiungere l’autosufficienza. Non potevano cercare lavoro fuori dei campi profughi, e addirittura potevano coltivare la terra solo entro il perimetro dei campi stessi, il che limitava le coltivazioni possibili. Malgrado ciò, i rifugiati erano pieni di risorse: piantarono i loro orti, finendo col soddisfare tutto il fabbisogno di ortaggi del campo. Realizzarono inoltre vivai che produssero tonnellate di pesce, allevarono suini e pollame, e crearono laboratori in cui producevano la maggioranza degli indumenti, delle calzature e delle amache di cui avevano bisogno. Durante un altro controverso incidente, nel 1983, il governo dell’Honduras annunciò ai rifugiati salvadoregni del campo di Colomoncagua, presso la frontiera con El Salvador, che anche loro avrebbero dovuto essere trasferiti o rientrare nel paese d’origine. L’Unhcr approvava il trasferimento, ma avvertì il governo dell’Honduras che si sarebbe opposto ad ogni tentativo di rimpatriare i rifugiati con la forza 31. Nel frattempo, le Ong internazionali appoggiavano la resistenza dei rifugiati al trasloco. Alla fine, le autorità honduregne fecero marcia indietro e i rifugiati non furono costretti a partire, ma le condizioni nel campo di Colomoncagua rimasero tese e pericolose. Sin dall’i129 I RIFUGIATI NEL MONDO nizio, vi si erano registrati molti problemi di sicurezza, fra cui violenti attacchi ai danni dei rifugiati, a volte in combutta con militari di El Salvador. Un certo numero di altri incidenti, poi, furono originati da conflitti fra gli stessi rifugiati, in particolare quando cercavano di rimpatriare contro la volontà dei loro leader. Nei campi occupati dai rifugiati salvadoregni, l’Unhcr si trovò fra l’incudine e il martello. I governi dell’Honduras e degli Stati Uniti volevano un controllo più rigoroso sulle attività dei rifugiati, mentre questi, come anche la maggior parte delle Ong attive nei campi stessi, esigevano più libertà. In varie occasioni, il personale dell’Unhcr sul terreno fu vittima di violenze fisiche ad opera delle autorità honduregne. Anche i rapporti dell’Unhcr con le Ong stesse erano estremamente tesi. Spesso queste consideravano l’Unhcr alleato del governo honduregno e di quello americano, generalmente ostili ai rifugiati di El Salvador. A quell’epoca, un funzionario dell’Unhcr scriveva: “in nessun altro paese dove ho lavorato in precedenza il personale internazionale delle agenzie volontarie dimostrava tanta ostilità nei confronti dell’Unhcr, come a Mesa Grande e Colomoncagua” 32. I rifugiati guatemaltechi in Messico Negli anni ’80, il Messico – come del resto l’Honduras – non aveva firmato né la Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati né il Protocollo aggiuntivo del 1967. Quando, nel 1981, esuli guatemaltechi cominciarono ad arrivare in gran numero in Messico, migliaia di loro furono rapidamente espulsi. Dopo una serie di proteste internazionali, tuttavia, il governo messicano instaurò una procedura di registrazione per i rifugiati guatemaltechi e consentì di rimanere nel paese a 46mila di loro, una parte soltanto degli oltre 200mila guatemaltechi entrati fra il 1981 e il 1982. Nel 1982, l’Unhcr aprì il primo ufficio in Messico. Molti di coloro che si erano registrati erano arrivati in regioni del Messico in cui i guatemaltechi tradizionalmente immigravano in cerca di lavoro, e in cui per loro era facile mescolarsi alla forza lavoro locale e a quella immigrata. Inoltre, non meno di 50mila di loro si erano spinti fino alla capitale, Città del Messico, dove non era prevista la possibilità di registrarsi. Altri arrivarono nel paese dopo che il governo aveva posto fine alla procedura di registrazione. Tutti i rifugiati non registrati vivevano nel costante timore dell’espulsione. Quelli registrati, dal canto loro, erano disseminati in una cinquantina di campi profughi, in zone isolate della giungla del Chiapas, uno stato molto impoverito, confinante col Guatemala. Le condizioni di vita nei campi erano del tutto insoddisfacenti. A partire dal 1984, il governo messicano, consapevole della situazione, adottò una politica consistente nel trasferire i rifugiati dal Chiapas in nuovi insediamenti, situati negli stati del Campeche e del Quintana Roo, nella penisola dello Yucatán. In complesso, furono trasferiti circa 18mila rifugiati. Il governo sosteneva, non senza una certa ragione, che il trasferimento fosse necessario perché i militari guatemaltechi avevano sferrato, attraversando la frontiera, vari attacchi contro gli insediamenti dei rifugiati. Al tempo stesso, il governatore del Chiapas si opponeva violentemente alla presenza dei rifugiati, mentre la penisola dello Yucatán era una regione sottosviluppata, in cui i rifugiati potevano collaborare a iniziative di sviluppo. 130 Le guerre per procura Circa 25mila dei rifugiati registrati nel Chiapas si opposero al trasferimento verso Campeche e Quintana Roo, e rimasero dov’erano. Il governo messicano scoraggiò le Ong messicane dall’assisterli. I bassi salari che ricevevano quando lavoravano e l’impossibilità di disporre di terra e di servizi sociali, rendevano estremamente difficili le loro condizioni di vita, e nel 1987 un certo numero di loro andarono via dai campi, alcuni rimpatriando in Guatemala. In seguito, tuttavia, la situazione in materia di sicurezza e le condizioni di vita dei rifugiati ospitati nel Chiapas migliorarono sensibilmente. A partire dal 1984, il governo messicano – in collaborazione con l’Unhcr e le Ong – fornì ai rifugiati sistemati negli stati del Campeche e del Quintana Roo della terra, alloggi di fortuna, aiuti alimentari e un’assistenza sociale completa. Tali insediamenti ebbero notevole successo, sul piano dell’autosufficienza e dell’integrazione dei rifugiati. La maggior parte di quelli che vi si erano trasferiti vi rimasero in permanenza, e il governo messicano finì col concedere loro la cittadinanza. La risoluzione dei conflitti e il rimpatrio All’inizio degli anni ’80, si era ancora in piena guerra fredda. Alla fine del decennio, sia l’Unhcr che il paesaggio politico mondiale erano profondamente mutati L’organizzazione aveva registrato una notevole espansione, non solo come personale e bilancio, ma anche per l’estensione del sue attività. Nel contempo, molti conflitti che avevano caratterizzato l’ultimo decennio della guerra fredda si erano conclusi o si avviavano a soluzione. Nel caso dell’Afghanistan, le truppe sovietiche si ritirarono dal paese nel 1989, poco tempo prima della disgregrazione della stessa Unione sovietica. Nel 1992, il regime comunista da questa lasciato al potere a Kabul fu rovesciato dai mujahedin, spianando la strada al rimpatrio, nel corso degli anni ’90, di qualcosa come quattro milioni di afghani. In Etiopia, il governo del presidente Menghistu fu deposto nel 1991, dando luogo a un periodo di relativa calma. In Eritrea, la guerra civile più lunga del continente africano terminò nel 1991, e nel 1993 il paese ottenne l’indipendenza. In America centrale, il processo di pace avviato nel 1987 a Esquipulas materializzava la determinazione dei dirigenti centroamericani di porre fine ai conflitti nella regione. Nel Nicaragua, una conclusione negoziata del conflitto fra il governo e i contras ebbe inizio nel 1989, e l’anno dopo il governo sandinista fu sconfitto nelle elezioni. In El Salvador e in Guatemala, gli accordi formali di pace furono conclusi rispettivamente nel 1992 e nel 1996, ma molti rifugiati erano già rimpatriati prima di tali date. All’inizio degli anni ’90, il centro dell’attenzione dell’Unhcr si spostò quindi sul rimpatrio. 131