5Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale

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5Le guerre per procura in Africa, Asia e America centrale
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Le guerre per procura in Africa,
Asia e America centrale
Gli anni ’80 furono caratterizzati, su tutto il pianeta, da un inasprimento delle tensioni
della guerra fredda e da guerre per procura nei paesi in via di sviluppo. Nel corso del
decennio, le superpotenze intervennero in conflitti locali che avrebbero potuto essere
di piccole dimensioni e di breve durata, ma che invece subirono una escalation, dando
luogo a massicci esodi di popolazione. Nel presente capitolo ci si concentrerà su tre
regioni in cui si verificarono crisi di rifugiati di grandi dimensioni: il Corno d’Africa,
l’Afghanistan e l’America centrale. L’Unhcr svolse un ruolo di primaria importanza,
intervenendo in ciascuna di esse.
Sebbene alcuni dei conflitti descritti nel capitolo fossero già iniziati negli anni ’70,
o ancora prima, qui si porrà l’accento sugli anni ’80. Nel Corno d’Africa, una serie di
guerre, aggravate dalla carestia, costrinsero milioni di persone, in vari momenti, ad
abbandonare le loro case. In Afghanistan, un nuovo conflitto di vaste proporzioni, in
una regione di grande importanza strategica, obbligò oltre sei milioni di persone a
cercare rifugio nei paesi limitrofi. In America centrale, tre guerre diverse provocarono
l’esodo di oltre due milioni di abitanti.
Tali crisi di rifugiati presentarono complesse sfide sia per i paesi ospitanti che per
la comunità internazionale. Per la prima volta, l’Unhcr si trovò a dover reagire a emergenze di rifugiati molteplici e su larga scala, in tre continenti diversi contemporaneamente. Per di più, l’organizzazione doveva agire sotto le particolari pressioni derivanti dal coinvolgimento delle superpotenze. Quasi tutti i finanziamenti, e buona parte
del personale, venivano dai paesi occidentali. Poiché molte delle consistenti popolazioni rifugiate degli anni ’80, fra cui gli afghani, gli etiopi e i nicaraguensi, fuggivano da paesi con governi comunisti o socialisti, gli occidentali avevano anche interessi
d’ordine geopolitico nel finanziare i programmi dell’Unhcr. Nel frattempo, il blocco
sovietico, che considerava l’Onu essenzialmente filo-occidentale, non sosteneva né
finanziava l’Unhcr.
Negli anni ’80, con l’insorgere di crisi di rifugiati su scala mondiale, il bilancio
dell’organizzazione aumentò vertiginosamente. Nel 1975, in tutto il mondo c’erano
2,8 milioni di rifugiati, e il bilancio dell’Unhcr era attestato su circa 76 milioni di dollari. Alla fine degli anni ’80, la popolazione rifugiata era passata a poco meno di 15
milioni di persone, e il bilancio dell’Unhcr era salito a oltre 580 milioni di dollari. In
quegli anni, l’organizzazione fornì assistenza a un livello molto maggiore che in precedenza, e uno dei principali problemi fu quello della gestione di grandi campi profughi. Come già in Indocina, per l’Unhcr un’altra grave preoccupazione fu rappresentata dalla presenza di elementi armati nei campi.
I RIFUGIATI NEL MONDO
Popolazioni rifugiate in Etiopia, Kenya,
Somalia e Sudan, 1982–99
Fig. 5.1
2.5
2.0
1.5
1.0
Milioni
0.5
0.0
1982
1984
1986
1988
Sudan
1990
Somalia
1992
Kenya
1994
1996
1998
Etiopia
I movimenti di rifugiati descritti nel presente capitolo non furono affatto gli unici
degli anni ’80. Esodi massicci di popolazione ebbero luogo anche in varie altre regioni: per esempio, dallo Sri Lanka verso l’India, dall’Uganda nel Sudan meridionale,
dall’Angola nella Zambia e nello Zaire, e dal Mozambico in sei paesi confinanti diversi [cfr. riquadro 5.2]. In ognuno di questi casi, l’Unhcr intervenne fornendo protezione e assistenza ai rifugiati.
Guerra e carestia nel Corno d’Africa
Negli ultimi anni ’70 e nei primi anni ’80, il Corno d’Africa fu teatro di numerosi movimenti di rifugiati su vasta scala: la guerra, la carestia e gli esodi di massa richiamarono
l’attenzione mondiale, mentre il coinvolgimento delle superpotenze attizzò i conflitti,
ingigantendone le conseguenze. Molti etiopi, in parte originari dell’Eritrea – che allora
faceva parte dell’Etiopia – cercarono rifugio nel Sudan, in Somalia e a Gibuti, mentre un
gran numero di sudanesi e di somali cercarono riparo in Etiopia.
Alla fine degli anni ’70, si verificò un drastico mutamento di alleanze tra Etiopia
e Somalia e le superpotenze. Nel 1977, in Etiopia, il consolidamento del potere nelle
mani del tenente colonnello Menghistu Haile Mariam portò il paese a chiedere l’appoggio dell’Unione sovietica, rompendo con l’alleato tradizionale, gli Stati Uniti. Di
conseguenza, questi aumentarono il loro sostegno ai governi del Sudan e della
Somalia, con rilevanti conseguenze sui conflitti nell’area.
I rifugiati etiopici in Somalia
Alcuni movimenti su vasta scala di rifugiati dall’Etiopia verso la Somalia ebbero inizio
già alla fine degli anni ’70. Approfittando degli sconvolgimenti interni dell’Etiopia, nel
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Le guerre per procura
1977 il presidente somalo Siad Barre invase la regione etiopica dell’Ogaden. All’inizio,
le forze somale ebbero qualche successo, ma quando l’Unione sovietica trasferì il proprio sostegno al regime marxista del presidente Menghistu, le forze etiopiche riuscirono a respingere l’invasione e, all’inizio del 1978, le truppe somale furono ricacciate oltre il confine. Centinaia di migliaia di profughi di etnia somala dell’Ogaden, in
Etiopia, temendo rappresaglie per la loro partecipazione all’ondata di violenze che
aveva preceduto l’invasione somala, fuggirono in Somalia. Altri 45mila raggiunsero la
vicina Gibuti.
Nel 1979, il governo somalo chiese l’assistenza dell’Unhcr, e l’organizzazione lo
aiutò ad allestire e gestire grandi campi profughi. Nel breve termine, questi campi contribuirono a migliorare la situazione dei rifugiati, molti dei quali erano denutriti o
malati, ma i problemi insiti nei campi di grandi dimensioni e sovraffollati si manifestarono sempre più chiaramente [cfr. riquadro 5.1]. I campi divennero così vasti da
superare in estensione la maggior parte delle città somale. I rifugiati, perlopiù nomadi,
avevano difficoltà ad adattarsi a una vita sedentaria. Per cercare di ridurre la loro dipendenza dagli aiuti umanitari, l’Unhcr diede avvio ad alcuni progetti agricoli che ebbero,
però, poco successo, soprattutto per la scarsezza di terre coltivabili e acqua.
I rapporti dell’Unhcr col governo somalo furono messi a dura prova dal “gioco dei
numeri”. All’inizio, il governo somalo sosteneva che nel paese si trovavano 500mila rifugiati, mentre l’organizzazione riteneva che fossero solo 80mila. Dopo un secondo afflusso di
Principali flussi di rifugiati in Africa nordorientale, anni ‘80
Cartina 5.1
LEGGENDA
o
oss
rR
Ma
Capitale di stato
Confine di stato
Confine non definitivo
Confine amministrativo
Movimenti di rifugiati
KHARTOUM
ERITREA
SUDAN
GIBUTI
Golfo di Aden
GIBUTI
ETIOPIA
0
250
Chilometri
500
UGANDA
KAMPALA
SOMALIA
OC
EA
NO
IN
DI
AN
O
ADDIS ABEBA
MOGADISCIO
KENYA
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I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 5.1
Campi e insediamenti di rifugiati
I massicci esodi di rifugiati degli
anni ’80 videro sorgere, nei paesi
ospitanti, grandi campi profughi e
altri tipi di insediamenti organizzati.
In Africa, in particolare, la
realizzazione di tali campi profughi
cominciò a rimpiazzare la precedente
prassi, consistente nel lasciare che i
rifugiati si mescolassero alla
popolazione locale.
Ormai da parecchi anni, i campi
profughi sono oggetto di critiche
generalizzate. L’Unhcr, in particolare,
è considerato responsabile sia della
politica che consiste nella loro
creazione, sia dei problemi in essi
riscontrati. I critici sostengono che i
campi sono pericolosi e inutili, e
che si dovrebbero cercare alternative
quali la sistemazione autonoma
(vale a dire l’inserimento dei
rifugiati fra la popolazione locale) i.
Le caratteristiche dei campi
profughi
Non esiste una chiara definizione di
che cosa esattamente caratterizzi un
“campo profughi”. L’espressione è
utilizzata per definire insediamenti
umani molto diversi per dimensioni e
caratteristiche. In generale, si tratta
di zone recintate, cui hanno accesso
i rifugiati e coloro che li assistono,
dove vengono fornite protezione e
assistenza fino a quando i rifugiati
possono rimpatriare in piena
sicurezza o essere reinsediati altrove.
A differenza di altri tipi
d’insediamento, quali quelli agricoli
o i “villaggi di rifugiati” sorti in
Pakistan negli anni ’80 e ’90, di
solito i campi profughi non sono
autosufficienti.
Di norma i campi sono destinati ad
essere temporanei, e sono costruiti in
conseguenza. In molti casi, tuttavia,
rimangono in piedi una decina d’anni
o anche più, causando nuovi problemi.
Gli impianti idrici e le fogne spesso
non sopportano un utilizzo prolungato
e, col crescere delle dimensioni delle
famiglie, i terreni destinati agli
alloggi diventano troppo piccoli. In
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molti campi, non c’è una sufficiente
disponibilità di legna da ardere e i
rifugiati devono andarne in cerca fuori
dei campi, provocando il
disboscamento e altri problemi
ambientali. Quando i problemi
superano i limiti dei campi,
coinvolgendo anche la popolazione
ospitante, i governi spesso impongono
restrizioni ai rifugiati, riducendo la
loro libertà di movimento e di lavoro
fuori dei campi.
In molti campi profughi, uno dei
problemi più gravi sta nel fatto che le
autorità non forniscono ai rifugiati
una totale protezione, in particolare
perché, in molti casi, i campi si
trovano all’interno o in vicinanza di
zone di conflitto. Alla lunga, i campi
possono diventare luoghi pericolosi,
con un elevato tasso di criminalità,
infestati dal traffico di armi e droga e
dalla presenza del crimine
organizzato. I rifugiati spesso vi
subiscono violenze domestiche e
intimidazioni fisiche. A volte, dei
gruppi armati assumono il controllo
dei campi o li utilizzano come basi,
come nel caso dei mujahedin in
Pakistan, dei contras in Honduras e,
più di recente, degli interahamwe
nello Zaire orientale [cfr. riquadro
10.1]. A mano a mano che i campi
perdono il loro carattere civile,
trasformandosi in covi di gruppi
armati, sono presi di mira dalle forze
nemiche. In passato, i campi sono
spesso stati bombardati, colpiti da
tiri d’artiglieria, presi d’assalto per
catturare ostaggi, automezzi e
rifornimenti, e hanno visto gruppi
armati impegnati in una frenetica
“caccia all’uomo”. In tali circostanze,
i paesi ospitanti considerano i campi
profughi come un’accresciuta
minaccia per la sicurezza e
impongono maggiori restrizioni ai
rifugiati.
La sistemazione autonoma è
preferibile?
I critici accusano l’Unhcr di preferire i
campi profughi alla sistemazione
autonoma, perché offrono le migliori
condizioni per la gestione dei
rifugiati e l’assistenza al rimpatrio.
Affermano che i campi sono pericolosi
e inutili, e che si possono sempre
trovare valide alternative. Una di
queste è la “sistemazione autonoma
assistita”, in cui i rifugiati sono
aiutati a stabilirsi in mezzo alla
popolazione locale. I critici
asseriscono che in tal modo i rifugiati
stanno meglio, sono più al sicuro, più
liberi, e vivono in condizioni più
sopportabili che nei campi o in altri
insediamenti organizzati. L’assunto
implicito è che, se avessero la
possibilità di scegliere, non
sceglierebbero mai di stabilirsi
nei campi.
A prima vista, può apparire ovvio
che nessuno deciderebbe di vivere in
un campo profughi se potesse vivere
altrove. In molti casi, però, la realtà
è più complessa. Le ipotesi
generiche su pretese condizioni di
vita migliori fuori dei campi non
sono adeguatamente corroborate da
ricerche pratiche. Non è affatto
certo che i rifugiati che si sistemano
di propria iniziativa siano più al
sicuro o se la passino meglio che nei
campi. A seconda delle circostanze,
quelli che vivono fuori dei campi
possono incontrare una serie di
problemi di sicurezza ed economici,
che vanno dalle minacce di una
popolazione locale ostile, agli
attacchi di gruppi ribelli e al
reclutamento forzato in tali gruppi.
I rifugiati che si sistemano
autonomamente possono rischiare di
essere radunati dalle autorità e
trasferiti altrove, oppure costretti ad
andare in campi profughi, come è
avvenuto a Karachi e Peshawar, in
Pakistan, a metà degli anni ’80.
Dal punto di vista del rifugiato, in
realtà il campo può rappresentare
una scelta più sicura, anche
materialmente, rispetto ad una
sistemazione indipendente. Di fatto,
i rifugiati e i loro leader spesso si
organizzano in insediamenti simili a
campi profughi, ancora prima che
l’Unhcr o un’altra organizzazione
umanitaria metta in piedi un
Le guerre per procura
programma di assistenza. Né si deve
dare per scontato che i campi siano
sempre posti squallidi, deprimenti,
popolati da vittime dipendenti e
passive. Al contrario, in molti casi
sono luoghi pulsanti di attività
sociale ed economica.
La maggioranza dei campi di
maggiori dimensioni si trasformano
in importanti zone di attività
economica anche per la zona
circostante, con animati mercati,
ristoranti e altri servizi, gestiti dai
rifugiati e che attraggono la
popolazione di un vasto territorio ii.
Ad esempio, Khao-I-Dang, un campo
di rifugiati cambogiani alla frontiera
thailandese, è stato a lungo famoso,
negli anni ’80, per la sua schiera di
ristoranti e il suo fiorente servizio di
bici-taxi. Anche nel campo di
rifugiati ruandesi di Goma, nell’est
dello Zaire, esisteva fra il 1994 e il
1997 un mercato molto frequentato.
Per dare un’idea del volume di
attività economica, alla fine del 1995
in certi giorni vi si macellavano fino
a 20 capi di bestiame.
Se è vero che malattie come il
colera possono diffondersi
facilmente nei campi costruiti in
fretta e sovrappopolati, in molti casi
– in particolare dopo la fase iniziale
dell’emergenza – i rifugiati
beneficiano di cure mediche, corsi
scolastici e altri servizi molto
migliori che la popolazione locale.
Di conseguenza, le organizzazioni
umanitarie che lavorano nei campi
forniscono sempre più spesso
l’assistenza sanitaria, la
divulgazione agricola e l’istruzione,
non solo ai rifugiati, ma anche agli
abitanti della zona. Non si vuole con
ciò far credere che i campi siano
sempre una risorsa per le regioni
che li ospitano: i benefici economici
possono essere controbilanciati da
altri problemi, che vanno però
ridimensionati. Il dibattito sui
vantaggi e gli svantaggi dei campi
profughi deve svolgersi nel quadro
di una chiara visione del loro
funzionamento e del loro impatto
sulla regione.
La politica ufficiale dell’Unhcr è di
evitare l’installazione dei campi, se
esistono valide alternative. Ciò è
chiaramente affermato nello
Handbook for Emergencies (Manuale
per le emergenze) ed è una delle
prime regole per le squadre di
pronto intervento. In molti casi, è il
paese ospitante che insiste per la
creazione dei campi, oppure sono i
rifugiati stessi che si aggregano in
gruppi di vaste dimensioni, creando
insediamenti che finiscono con
l’assumere la forma di campi,
quando entrano in scena gli aiuti
internazionali.
La preferenza di molti paesi ospitanti
per i campi piuttosto che per la
sistemazione autonoma si basa, di
solito, su tre fattori: in primo luogo,
presunte esigenze di sicurezza; in
secondo luogo, la possibilità di
organizzare il rimpatrio; e, in terzo
luogo, quella di attrarre gli aiuti
internazionali, attraverso la creazione
d’insediamenti ben visibili. A tale
riguardo, è legittimo e necessario
interrogarsi sulle motivazioni dei
politici che insistono per la creazione
dei campi, specialmente quando
sarebbe possibile una sistemazione
individuale. Nel contempo, e
nonostante l’articolo 26 della
Convenzione Onu del 1951, relativo
al diritto dei rifugiati alla scelta del
luogo di residenza e alla libertà di
movimento, i giuristi riconoscono che
i paesi ospitanti hanno
effettivamente il diritto di accogliere
i rifugiati in appositi campi o in zone
a ciò destinate, purché siano
rispettate le norme minime sul
trattamento loro riservato. Date le
considerazioni politiche, economiche
e giuridiche che sottendono la
creazione dei campi profughi, le tesi
generiche in favore della
sistemazione autonoma avranno
difficilmente un impatto significativo
sulla politica di molti paesi ospitanti.
Una distinzione imprecisa
interrogativi. In pratica, tuttavia, di
rado i rifugiati che vi sono ospitati
e quelli che si sistemano di propria
iniziativa costituiscono due
categorie distinte. Tranne eccezioni
quali i campi d’internamento di
Hong Kong, negli anni ’80 e nei
primi anni ’90, la maggioranza dei
campi organizzati non confinano i
rifugiati all’interno della loro
recinzione. Al contrario, in molti
casi questi possono entrarne e
uscirne liberamente per lavorare,
commerciare o coltivare la terra, o
anche per fare una visita al paese
d’origine, come molti fanno prima di
rimpatriare. Una volta costretti ad
abbandonare le loro case, i rifugiati
valutano le proprie prospettive e
scelgono fra i campi profughi e le
località vicine. Può accadere che
alcuni membri della famiglia vivano
nei campi, mentre altri si avvalgono
delle opportunità esistenti al di
fuori. Ciò significa che, di frequente,
non esiste una chiara delimitazione
fra la comunità ospitata in un
campo profughi e quella che vive
nella zona circostante.
Per molti aspetti, il dibattito tra
sostenitori e oppositori dei campi
non ha ben messo a fuoco la
questione. I campi profughi non
sono di per sé luoghi pericolosi o
destabilizzanti, né la sistemazione
autonoma costituisce sempre la
migliore alternativa per i rifugiati. Il
vero problema, per i paesi ospitanti,
le organizzazioni umanitarie e i
politici, è far sì che i rifugiati
possano godere di condizioni di vita
sicure, serene e dignitose, che
vivano o no nei campi. I campi
possono servire bene allo scopo se
s’impedisce che diventino
militarizzati, se vi è imposto l’ordine
pubblico, se vi sono forniti in
misura adeguata l’assistenza medica,
l’istruzione e altri servizi essenziali
e se i rifugiati hanno la possibilità
di provvedere al proprio
sostentamento. È a questi fini che
dovrebbe indirizzarsi l’azione
umanitaria.
Il dibattito sui campi profughi ha
sollevato una serie di importanti
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I RIFUGIATI NEL MONDO
profughi, nel 1981, la cifra pubblicata dal governo somalo passò a due milioni, mentre per
l’Unhcr, gli altri organismi dell’Onu e le organizzazioni non governative (Ong) il loro numero era compreso fra 450mila e 620mila 1. In precedenza, si era calcolato che l’intera popolazione dell’Ogaden fosse molto al di sotto di un milione di abitanti.
Dopo l’insuccesso dei tentativi dell’Unhcr per procedere a un censimento attendibile,
nel 1982 le agenzie dell’Onu raggiunsero un accordo col governo somalo su una “cifra di
programmazione” di 700mila rifugiati. Rimase questo, fino al 1985, il numero ufficiale
dei rifugiati in Somalia, sul quale si basavano tutti gli aiuti dell’Unhcr, e ciò malgrado il
fatto che, nel 1984, l’organizzazione valutasse in oltre 300mila il numero di quelli già rimpatriati in Etiopia. Le pressioni degli Stati Uniti, che a quell’epoca avevano un proprio interesse geopolitico nel sostenere la Somalia, contribuirono alla continuata accettazione, da
parte degli altri donatori occidentali, delle cifre inflazionate del governo somalo.
Il governo somalo beneficiò in vari modi dell’assistenza internazionale, che in quegli anni affluiva in abbondanza nel paese. Gli aiuti forniti da organizzazioni come
l’Unhcr e il Programma alimentare mondiale (Pam), per soddisfare i bisogni dei rifugiati, erano solo una parte di quelli totali forniti al paese. Gli aiuti ebbero un rilevante
impatto sull’economia somala nel suo complesso: secondo una stima, a metà degli anni
’80 rappresentavano non meno di un quarto del prodotto nazionale lordo 2.
Fra il 1984 e il 1986, in Somalia si verificarono ulteriori afflussi di rifugiati.
Durante lo stesso periodo, un gran numero di profughi tornarono dalla Somalia in
Etiopia. Alla fine degli anni ’80, però, le denunce sempre più frequenti di violazioni
generalizzate dei diritti umani, commesse dal governo somalo, portarono a un drastico calo degli aiuti militari americani, che furono completamente sospesi nel 1989.
Nell’agosto dello stesso anno, con un’azione senza precedenti, l’Unhcr e il Pam sospesero la fornitura di aiuti alla Somalia nordoccidentale, dopo l’insuccesso di ripetuti
sforzi per evitare che fossero dirottati. Due anni dopo, il presidente Barre fu rovesciato e il paese precipitò in un abisso di violenza, carestia ed esodi di popolazione, il più
grave della sua storia [cfr. riquadro 10.3].
I rifugiati etiopici in Sudan
I primi rifugiati ufficialmente riconosciuti provenienti dall’Eritrea, che aveva fatto
parte di una federazione con l’Etiopia, ma che era stata ridotta nel 1962 al rango di
una provincia, nel nord del paese, erano arrivati nel Sudan fin dal 1967 3. Cercavano
scampo dalle conseguenze di una lotta armata per conquistare il diritto all’autodeterminazione, che si protraeva dagli inizi degli anni ’60. Nel 1970, l’Unhcr collaborò alla
creazione del primo campo loro destinato nel Sudan.
Negli anni ’70, dei rifugiati fuggirono pure in gran numero da altre regioni
dell’Etiopia verso il Sudan. La cruenta e prolungata rivoluzione, seguita al rovesciamento, nel 1974, dell’imperatore autocratico Haile Selassie, fu conosciuta al suo apice
come il “terrore rosso”. La fazione militare di sinistra che prese il potere, nota col
nome di “Derg”, uccise o imprigionò migliaia di avversari politici, sindacalisti e studenti, provocando un incessante esodo di rifugiati dal paese.
Nel 1977, i rifugiati eritrei nel Sudan erano già 200mila. Tale cifra aumentò rapidamente nel 1978, allorché il governo etiopico, che ora riceveva massicci aiuti sovie110
Le guerre per procura
Nel Sudan, a metà degli anni ‘80, alcuni fra centinaia di migliaia di etiopi fuggiti a causa della guerra e della carestia.
(UNHCR/M. VANAPPELGHEM/1985)
tici ed era reso baldanzoso dalla recente vittoria sulla Somalia, sferrò una grande
offensiva contro le forze di opposizione eritree. Alla fine dello stesso anno, un esodo
di massa portò il numero complessivo dei rifugiati etiopici nel Sudan a oltre 400mila,
provenienti in maggioranza dall’Eritrea.
All’inizio, i rifugiati furono bene accolti dal governo sudanese e dalla popolazione locale, nell’est del paese. Con l’aumentare del loro numero, però, crebbe anche il
risentimento degli abitanti, che cominciarono a vederli come una minaccia per la stabilità della regione orientale. I combattimenti in Eritrea avevano spesso avuto luogo
in vicinanza della frontiera col Sudan o addirittura su suolo sudanese 4. Il paese doveva far fronte a una crescente crisi economica, aggravata da una serie di magri raccolti ad est, per cui il governo chiese l’intervento dell’Unhcr.
L’organizzazione collaborò strettamente con le autorità sudanesi alla creazione di
una serie di insediamenti per rifugiati. Nel 1984, il numero dei profughi etiopici era
ormai salito a qualcosa come mezzo milione, di cui circa 128mila vivevano in 23
insediamenti appositamente realizzati, mentre gli altri si erano sistemati spontaneamente in città e villaggi, nella zona di confine. All’inizio, l’Unhcr sperava che l’agricoltura e le possibilità di lavoro in grandi aziende agricole meccanizzate avrebbero
consentito ai rifugiati di rendersi autosufficienti, ma ben presto fu chiaro che tale
111
I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 5.2
I rifugiati mozambicani nel Malawi
Per buona parte degli anni ’80, i
mozambicani costituirono, dopo i
palestinesi e gli afghani, la terza
popolazione rifugiata al mondo. Erano
fuggiti dal proprio paese nel corso di
una guerra devastatrice, iniziata nel
1976 e finita solo nel 1992. Le
conseguenze per i paesi vicini che ne
accolsero la grande maggioranza
andarono ben al di là della protezione
fornita loro.
Il conflitto mozambicano scoppiò
poco dopo l’indipendenza del paese,
ottenuta nel 1975. Quando il
Portogallo abbandonò
precipitosamente le colonie, dopo la
caduta del regime militare di Lisbona,
il Fronte di liberazione del Mozambico
(Frente de Libertação de Moçambique
– Frelimo), che sin dal 1964 aveva
condotto contro i portoghesi una
sporadica guerriglia, assunse il
potere. Un conflitto civile coinvolse
allora il Frelimo e la Resistenza
nazionale mozambicana (Resistência
Nacional Moçambicana – Renamo), un
gruppo insurrezionale messo in piedi
e sostenuto dai governi minoritari
bianchi della Rhodesia e del
Sudafrica.
Nel corso della guerra, le forze della
Renamo andarono adottando tattiche
sempre più brutali, per tenere sotto
controllo la popolazione delle zone
d’operazione. Dovunque andassero, la
terrorizzavano sistematicamente con
uccisioni, mutilazioni, stupri e
saccheggi. Via via che allargavano le
zone da loro controllate, cresceva
vertiginosamente il numero degli
abitanti in fuga. Anche le forze del
Frelimo ricorsero ad azioni sempre più
efferate, cosicché la Renamo si
assicurò un certo sostegno popolare.
La crisi di rifugiati raggiunse il suo
apice nel 1992, allorché già qualcosa
come 1,7 milioni di mozambicani
erano rifugiati nei paesi limitrofi, e
almeno il doppio erano sfollati.
Alcune zone abbandonate dai
profughi rimasero praticamente vuote.
Ad esempio, in numerosi distretti
della provincia di Tete, era fuggito
non meno del 90% degli abitanti.
Oltre a costringere all’esodo, fra il
1976 e il 1992, un totale di circa 5,7
milioni di persone, il conflitto fece
oltre un milione di morti e rese orfani
centinaia di migliaia di bambini.
I mozambicani, tuttavia, non furono
gli unici a soffrire delle conseguenze
del conflitto. Ne fecero le spese
anche gli abitanti dei paesi
confinanti, che dovettero dividere con
i rifugiati le loro magre risorse e
strutture sociali e, a volte, anche le
loro terre. Ospitarono i mozambicani
il Malawi, il Sudafrica, lo Swaziland,
la Repubblica unita di Tanzania, la
Zambia e lo Zimbabwe.
Il Malawi apre le porte
Di gran lunga il paese che subì il
maggiore impatto fu il Malawi, un
paese piccolo, impoverito e
densamente popolato, che fece la
parte del leone nell’accogliere i
profughi mozambicani. Nel periodo
culminante dell’esodo, questi erano
1,1 milioni, pari al 10% della
popolazione del Malawi.
Il paese non era in condizioni di
gestire un afflusso di rifugiati di tali
dimensioni. A metà degli anni ’80,
era il sesto paese più povero del
mondo e uno dei meno sviluppati del
continente africano. Il 50% dei
bambini erano denutriti e la
mortalità infantile era al quarto
posto nelle statistiche mondiali.
Benché in alcune zone i rifugiati
fossero più numerosi della
popolazione locale, sino ad un
rapporto di tre a due, raramente
l’accoglienza vacillò. Molti dei
primi rifugiati, etnicamente affini
alla popolazione locale, si erano
inseriti in mezzo a questo. Alcuni
erano riusciti a ottenere della
terra, ma gli altri dipendevano
dagli aiuti internazionali.
Nei primi dieci anni del conflitto
in Mozambico, il governo del
Malawi, che forniva un sostegno
occulto alla Renamo, si oppose a
un’assistenza internazionale ai
rifugiati, e cercò di far fronte ai
loro bisogni attraverso le
infrastrutture e i servizi pubblici
esistenti, consentendo ai rifugiati
di ricorrere agli ambulatori, agli
ospedali locali ai limitati servizi
sociali e assistenziali. In seguito,
nel 1986, lo stesso anno in cui si
piegò alla pressione dei paesi
vicini per porre fine al sostegno
alla Renamo, il Malawi riconobbe la
sua incapacità di far fronte
all’afflusso e chiese aiuto all’Unhcr.
In un primo tempo,
l’organizzazione cercò di dare
impulso al programma governativo
di assistenza ai rifugiati attraverso
i meccanismi già esistenti. Il
Programma alimentare mondiale
(Pam) intervenne fornendo aiuti
alimentari. Anche con tale
sostegno, tuttavia, le istituzioni
nazionali non riuscivano nemmeno
lontanamente a soddisfare
adeguatamente i bisogni della
obiettivo sarebbe stato difficile da raggiungere. In un rapporto dell’Unhcr di quel
periodo si osservava: “si contano sulle dita di una mano gli insediamenti che dispongono di terre e risorse idriche sufficienti per pensare realisticamente al raggiungimento dell’autosufficienza” 5.
Gli scontri tra le forze governative etiopiche e i gruppi d’opposizione armati eritrei, come pure tra le fazioni eritree rivali, continuarono a provocare un esodo di rifugiati dall’Eritrea verso il Sudan. Ma un’altra crisi di grandi dimensioni si profilava
112
Le guerre per procura
popolazione locale e dei rifugiati.
Quando, nel 1987, il numero dei
rifugiati subì un’impennata, il Malawi
chiese all’Unhcr di organizzare dei
campi profughi e diede disposizioni
affinché tutti i nuovi rifugiati vi si
trasferissero. Il governo, inoltre, vietò
alla popolazione locale di fornire loro
terreni agricoli. Alla fine, oltre i due
terzi dei rifugiati fuggiti nel Malawi –
1,1 milioni – si insediarono nei campi
profughi.
Benché per l’Unhcr, il Pam e le altre
agenzie tale sistemazione rendesse le
cose più facili, anche la semplice
assistenza di sostentamento rimaneva
un compito gigantesco. Privo di
sbocchi diretti al mare, il Malawi
aveva una rete stradale in cattivo
stato e i camion scarseggiavano.
Molti campi profughi erano accessibili
solo attraverso strade sterrate,
inadatte ai veicoli pesanti. Il traffico
aveva gravemente danneggiato le
strade ed i ponti. Per la distribuzione
degli aiuti alimentari, le agenzie
umanitarie avevano noleggiato buona
parte dei camion disponibili nel
paese, e questo aveva creato
difficoltà agli agricoltori e ai
commercianti per il trasporto delle
loro merci. L’Unhcr e il Pam avevano
problemi nella gestione delle scorte
d’emergenza, data l’inadeguatezza dei
trasporti e dei magazzini. Ne
derivarono interruzioni negli
approvvigionamenti alimentari e un
preoccupante aumento della
malnutrizione fra i rifugiati.
Pur non disponendo, in genere, di
terre coltivabili, questi avevano
trovato ugualmente il modo di
guadagnare qualcosa. Più del 90% di
loro svolgeva attività economiche,
quali la fabbricazione e la vendita di
vasellame, la macinazione del
granturco, l’allevamento e la vendita
di animali domestici, la fabbricazione
della birra. Molti poi vendevano o
scambiavano parte delle razioni
alimentari, per procurarsi altri generi
di prima necessità, come carne,
verdura fresca o sapone. I rifugiati
più poveri, alcuni dei quali non
avevano neppure le tessere
alimentari, sopravvivevano tagliando
la legna da ardere. Nel Malawi,
l’abbattimento su vasta scala degli
alberi ha causato un disboscamento
così esteso che l’ambiente continua a
risentirne le conseguenze.
Considerando la durata della
permanenza e le dimensioni della
popolazione rifugiata, fu degna di
nota l’assenza di conflitti aperti con
la popolazione locale. Nel 1992,
tuttavia, il lungo soggiorno
cominciava a rendere tesi i rapporti. I
problemi riguardavano soprattutto
l’impatto della loro presenza
sull’economia, le conseguenze
ambientali quali il disboscamento, la
criminalità e altri problemi sociali. La
situazione fu esacerbata dalla siccità
che colpì gran parte della regione fra
il 1992 e l’inizio del 1993. Sebbene
gli aiuti destinati ai rifugiati fossero
distribuiti anche alla popolazione
locale che soffriva per la siccità,
andarono aumentando i furti nei
depositi e nei centri di distribuzione
dei viveri. In alcuni campi profughi i
pozzi rimasero a secco, causando
problemi sanitari e un focolaio di
colera che si estese anche alla
popolazione locale.
I costi occulti
Queste conseguenze rappresentano
i costi occulti sostenuti dai paesi
che ospitano una numerosa
popolazione rifugiata, in
particolare quando anch’essi sono
fra i paesi più poveri del mondo. I
rifugiati possono esercitare
un’influenza positiva sui paesi
ospitanti, ma in alcuni casi la loro
presenza può anche avere un
impatto negativo di vasta portata.
Ne possono soffrire l’economia e
l’ambiente, come pure l’equilibrio
sociopolitico locale, e si possono
avere serie implicazioni anche per
la pace e la sicurezza a livello
nazionale, regionale o
internazionale.
Le iniziative per lo sviluppo dei
paesi ospitanti possono essere
compromesse e distorte, quando la
presenza dei rifugiati tende fino al
limite di rottura la disponibilità di
beni e servizi. In molti casi, per
far fronte alle necessità più
immediate dei rifugiati – viveri,
alloggi di fortuna e sicurezza – le
autorità statali si vedono obbligate
a stornare fondi da più vasti
progetti di sviluppo. Nel Malawi,
uno studio patrocinato dalla Banca
mondiale ha accertato che, anche
tenendo conto degli aiuti
internazionali erogati attraverso
l’Unhcr, fra il 1988 e il 1990 furono
spesi per l’assistenza ai rifugiati
qualcosa come 25 milioni di dollari
provenienti da fondi pubblici,
stornati da altri progetti.
all’orizzonte, questa volta nella regione etiopica del Tigrè: generando un afflusso ancora maggiore di etiopi nel Sudan, avrebbe creato ancora maggiori difficoltà per il paese
e costituito per l’Unhcr una delle più grandi sfide della sua storia.
La carestia in Etiopia e i nuovi esodi di rifugiati
Nel 1984, in Etiopia si verificò una carestia che diede luogo a una delle crisi umanitarie più largamente pubblicizzate in tempi recenti. Come osservò un commentatore:
113
I RIFUGIATI NEL MONDO
“La carestia dell’Etiopia settentrionale, che nel 1984 ha richiamato l’attenzione dei
media di tutto il pianeta, è stata un terremoto nel mondo umanitario” 6. Il numero
delle vittime fu valutato in un milione 7. La siccità ne fu ritenuta la principale causa,
ma la realtà era ben più complessa. Così la descrisse un analista:
La siccità e i magri raccolti hanno certo contribuito alla carestia, ma non l’hanno provocata.
Anche la politica economica e agricola del governo [etiopico] vi ha contribuito, ma non è stata
fondamentale. La causa principale è stata la campagna controrivoluzionaria condotta, fra il
1980 e il 1985, dall’esercito e dall’aeronautica etiopici nel Tigrè e nel Wollo... [che comprendeva] la tattica della terra bruciata, la requisizione dei viveri da parte dei militari, il blocco dei
viveri e degli abitanti assediati... e il razionamento dei generi alimentari 8.
Il governo etiopico permise ai paesi donatori e alle organizzazioni internazionali
di fornire aiuti alimentari, ma impedì loro di assistere le vittime della carestia, nelle
zone controllate dai gruppi armati d’opposizione dell’Eritrea e del Tigrè. Di conseguenza, le organizzazioni umanitarie presenti in Etiopia non poterono assistere direttamente gli abitanti delle due principali zone colpite. Sin dall’inizio degli anni ’80, un
consorzio di Ong che operava con base nel Sudan si sforzava di nutrire la popolazione delle zone controllate dai ribelli, in Eritrea e nel Tigrè, fornendo generi elementari con operazioni clandestine notturne, attraversando il confine fra il Sudan e l’Etiopia.
All’epoca, quel tipo d’azione umanitaria fu giudicato molto radicale.
L’operazione transfrontaliera dal Sudan non riuscì, tuttavia, a soddisfare le necessità della popolazione delle zone colpite, e centinaia di migliaia di abitanti disperati
non ebbero altra scelta che di trasferirsi nelle zone controllate dal governo. Altri rinunciarono a farlo, soprattutto per il timore di essere arrestati o raggruppati in vista di un
trasferimento forzato. Il risultato fu un esodo in massa di etiopi principalmente verso
il Sudan, ma anche verso la Somalia e Gibuti.
Fra l’ottobre 1984 e il marzo 1985, nel Sudan arrivarono circa 300mila rifugiati
etiopici, in maggioranza dal Tigrè, che avevano abbandonato l’Etiopia con un movimento accuratamente organizzato dalla Relief Society of Tigray (Rest), sostanzialmente emanazione civile del Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf). La Rest aveva
annunciato che, se non fossero stati forniti ulteriori aiuti alimentari nello stesso Tigrè,
non sarebbe stata in grado di mantenervi i propri assistiti.
Se è vero che alcuni osservatori sostennero che i nuovi arrivati cercavano scampo
dalla carestia piuttosto che dal conflitto, l’Unhcr li considerò comunque rifugiati. La
possibilità di un massiccio afflusso era già stata contemplata, ed era stato lanciato l’allarme, alla fine del 1983. Quando si verificò, un anno dopo, le dimensioni e la rapidità dell’arrivo dei rifugiati nel Sudan furono molto maggiori del previsto. Molti arrivavano in condizioni fisiche così precarie che gli aiuti giungevano troppo tardi.
All’inizio, la situazione nei campi profughi, allestiti precipitosamente, era cattiva, e la
mortalità era elevata. Molti morirono di malattie legate alla malnutrizione, e un focolaio di morbillo, particolarmente virulento, fece molte vittime fra i bambini.
Nello stesso periodo in cui gli etiopi del Tigrè entravano nel Sudan, la carestia –
aggravata dal conflitto in Eritrea, che faceva allora parte dell’Etiopia – provocò un ulteriore afflusso di popolazione nel Sudan. I nuovi profughi arrivavano nei campi che già
ospitavano gli eritrei. Wad Sherif, un campo predisposto per ospitare 5mila rifugiati,
114
Le guerre per procura
giunse rapidamente ad accoglierne 128mila, divenendo così uno dei più grandi campi
profughi al mondo 9. L’Unhcr e le Ong che con esso collaboravano fecero ogni sforzo
per accogliere i nuovi arrivati nel campo, costruendo i necessari magazzini, ambulatori e centri nutrizionali.
In collaborazione con altri organismi umanitari internazionali, governi e donatori, l’Unhcr organizzò un ponte aereo per trasportare viveri e altri generi di prima
necessità, e dislocò sul terreno squadre sanitarie e volontari. Nei paesi occidentali, dei
musicisti e altri artisti, guidati da Bob Geldof, si misero alla testa di iniziative molto
mediatizzate per il reperimento di fondi, fra cui Live Aid e Band Aid, che raccolsero
milioni di dollari a beneficio delle vittime della carestia, non solo in Etiopia e nel
Sudan, ma anche in tutta l’Africa subsahariana. Nel 1985, per il solo programma per
il Sudan i donatori versarono all’Unhcr 76 milioni di dollari, importo pari a tutto il
bilancio mondiale dell’organizzazione, appena 10 anni prima 10.
All’inizio del 1986, l’Unhcr riferiva: “la mobilitazione internazionale ha dato i suoi
risultati, e la situazione [in Sudan] è notevolmente migliorata... Le immagini insostenibili di bambini denutriti e di uomini e donne vaganti con aria sperduta... appartengono ormai al passato” 11. Nel maggio 1985, in Etiopia aveva ricominciato a piovere e il
Tplf incoraggiò i suoi seguaci a tornare alle loro case. A metà del 1987, oltre 170mila
di loro erano già rimpatriati. A differenza dei tigrini, però, la maggioranza degli eritrei
giunti nel Sudan nel 1984-85 non rientrarono; anzi, i combattimenti e la persistente
carestia in Eritrea portarono nuovi afflussi di eritrei nel Sudan.
Nel corso degli anni ’80, l’Etiopia aveva non solo generato rifugiati, ma ne
aveva anche ospitato in gran numero. A partire dal 1983, quando nel Sudan meridionale ripresero i combattimenti fra l’Esercito popolare di liberazione del Sudan
(Spla) e le forze governative, moltissimi abitanti erano stati costretti all’esodo e,
alla fine del decennio, oltre 350mila abitanti del sud erano fuggiti in Etiopia, nella
regione di Gambela. L’Unhcr assistette il governo etiopico per rispondere alle loro
necessità, ma l’accesso ai campi profughi, che fornivano appoggio all’Spla, fu
spesso limitato. Nel 1987-88, inoltre, circa 365mila somali cercarono scampo in
Etiopia, per sfuggire agli scontri fra le forze governative somale e i ribelli che
rivendicavano l’indipendenza della Somalia nordoccidentale. Questi rifugiati furono ospitati in grandi campi nella zona di Hartisheik, e l’Unhcr coordinò gli aiuti
internazionali loro destinati.
La disgregazione dell’Unione sovietica e la fine della guerra fredda segnarono la
fine, in Etiopia, anche per il regime marxista del presidente Menghistu. Nel maggio
1991, il Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (Eplf) occupò la maggiore città eritrea, Asmara, mettendo così termine alla più lunga guerra civile africana e spianando
il terreno per l’indipendenza, proclamata nel 1993. Meno di una settimana dopo la
conquista di Asmara, le forze guidate dal Tplf entrarono nella capitale etiopica, Addis
Abeba; per l’esercito etiopico fu la disfatta e il presidente Menghistu fu deposto.
I rifugiati afghani in Pakistan e Iran
Anche l’Afghanistan – un altro dei paesi più poveri e meno sviluppati del pianeta –
generò, negli anni ’80, massicci movimenti di rifugiati. Sebbene i conflitti che li pro115
I RIFUGIATI NEL MONDO
vocarono avessero radici locali, l’enorme dimensione degli esodi di popolazione fu
largamente dovuta al sostanziale coinvolgimento delle superpotenze in quella regione
d’importanza strategica.
La crisi ebbe inizio nell’aprile 1978, quando un gruppo di intellettuali, condotti
da Nur Mohammad Taraki, si impadronì del potere, cercando di creare uno stato
comunista. Il nuovo governo realizzò vaste riforme sociali, che suscitarono il risentimento delle popolazioni rurali, profondamente tradizionali, a beneficio delle quali
erano destinate. L’opposizione, sia politica che militare, dilagò rapidamente. Il regime,
che riceveva una massiccia assistenza militare dall’Unione sovietica, reagì duramente.
Come scrisse un commentatore:
Le élite religiose, politiche e intellettuali sono state imprigionate o giustiziate; gli attacchi terrestri e i bombardamenti aerei hanno distrutto dei villaggi e ucciso un numero imprecisato di
abitanti delle zone rurali. Si ritiene che..., fra l’aprile 1978 e il dicembre 1979, siano scomparsi o siano stati eliminati da 50 a 100mila abitanti 12.
Nel giro di pochi mesi, gli afghani cominciarono a fuggire in due paesi limitrofi,
il Pakistan e l’Iran. Malgrado le pressioni esercitate dal governo afghano e da quello
sovietico sul governo pakistano perché respingesse i rifugiati, questi furono bene
accolti 13. Nell’agosto 1978, circa 3mila di loro avevano cercato scampo in Pakistan;
all’inizio del 1979, la cifra era ormai salita a oltre 20mila.
Quando i primi rifugiati cominciarono ad arrivare in Pakistan, l’Unhcr non aveva
un proprio ufficio nel paese: i rifugiati chiesero quindi aiuto al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). A sua volta, questo chiese fondi all’Unhcr per fornire un’assistenza temporanea ai casi più bisognosi 14. Più tardi, nell’aprile 1979, il
governo pakistano richiese formalmente l’intervento dell’organizzazione 15. Dopo due
missioni di valutazione in Pakistan, l’Unhcr raccolse oltre 15 milioni di dollari per
l’assistenza ai rifugiati, e nell’ottobre 1979 aprì un proprio ufficio a Islamabad 16.
Intanto, in Afghanistan l’opposizione armata al governo comunista guadagnava
terreno. A fine dicembre 1979, l’Unione sovietica, temendo la perdita di un alleato
importante sul proprio fianco meridionale, invase il paese, provocando un massiccio
esodo di popolazione. Nel giro di poche settimane, 600mila afghani cercarono riparo in Pakistan e Iran. I rifugiati continuarono a fuggire dall’Afghanistan per tutto il
decennio. Nel dicembre 1990, l’Unhcr valutava in oltre 6,3 milioni il loro numero nei
paesi confinanti, di cui 3,3 milioni in Pakistan e 3 milioni in Iran. A quell’epoca, gli
afghani costituivano ormai la più numerosa popolazione rifugiata al mondo.
Le disparità nell’assistenza ai rifugiati in Pakistan e Iran
La situazione dei rifugiati afghani in Pakistan presentava un notevole contrasto con
quella dei loro connazionali in Iran. In Pakistan, i rifugiati erano soprattutto di etnia
pashtun, e cercarono asilo principalmente nelle regioni del paese dominate dalla loro
etnia. L’Unhcr realizzò oltre 300 “villaggi di rifugiati”, che ospitavano la maggioranza di loro. In Iran, invece, i rifugiati afghani erano per la maggior parte di etnia tagica, uzbeca e hazara, con solo un modesto numero di pashtun. Relativamente pochi di
116
Le guerre per procura
Principali flussi di rifugiati afghani, 1979–90
Cartina 5.2
UNIONE DELLE REPUBBLICHE SOCIALISTE SOVIETICHE
Rep. soc. sov. dell’Uzbekistan
Mar
Caspio
Rep. soc. sov. del Tagikistan
Rep. soc. sov. del Turkmenistan
TEHERAN
KABUL
AFGHANISTAN
REPUBBLICA ISLAMICA D’IRAN
ISLAMABAD
3.060.000 rifugiati
3.250.000 rifugiati
(residenti perlopiù in aree urbane)
PAKISTAN
LEGGENDA
Capitale di stato
Principali campi/insediamenti
di rifugiati
Confine di stato
Confini delle repubbliche
sovietiche
Movimenti di rifugiati
Mare Arabico
0
200
400
INDIA
Chilometri
Kilometri
loro erano alloggiati in campi profughi, mentre i più si erano dispersi nelle città, piccole e grandi, di tutto il paese, dove vivevano mescolati alla popolazione locale. Molti
riuscirono a trovare lavoro, anche perché molti iraniani erano stati arruolati per la
guerra contro l’Iraq, scoppiata nel settembre 1980.
Anche il livello degli aiuti internazionali forniti ai rifugiati afghani in Pakistan e
in Iran presentava marcate differenze. Negli anni ’80, i donatori contribuirono con
ingenti stanziamenti all’assistenza a quelli ospitati nel primo paese, mentre furono
molto meno generosi con quelli che vivevano nel secondo, sebbene costituissero a
quell’epoca una delle più numerose popolazioni rifugiate al mondo.
In un primo tempo, il governo iraniano si era astenuto dal chiedere l’intervento
della comunità internazionale in favore dei rifugiati. A seguito della rivoluzione islamica del 1979, i rapporti fra il nuovo governo e i paesi occidentali erano al punto di
rottura. Inoltre, nel novembre 1979, l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran,
in cui studenti radicali sequestrarono decine di ostaggi americani, aveva avuto luogo
117
I RIFUGIATI NEL MONDO
appena un mese prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La tensione che ne era
derivata fra l’Iran e le potenze occidentali aveva contribuito alla decisione iraniana di
non chiedere aiuti internazionali, considerati “occidentali”.
La situazione in Iran cambiò nel 1980, in larga misura a causa della guerra con
l’Iraq, scoppiata quell’anno, che generò un nuovo afflusso di rifugiati, questa volta iracheni sciiti, creando ancora maggiori difficoltà per l’Iran. Due mesi dopo, il governo
iraniano richiedeva ufficialmente l’assistenza dell’Unhcr. Il viceministro degli Esteri
iraniano scrisse all’Alto Commissario, Poul Hartling: “Abbiamo accolto decine di
migliaia di rifugiati da tali due paesi, e li abbiamo assistiti... con le nostre risorse finanziarie”. Aggiungendo che l’Iran non disponeva dei mezzi necessari per continuare ad
assistere adeguatamente i rifugiati, il governo chiedeva all’organizzazione di “varare
un vasto programma di aiuti umanitari per questi innocenti che... devono essere assistiti alla pari di tutti gli altri rifugiati” 17.
In Iran, però, gli aiuti internazionali tardarono ad arrivare, e l’Unhcr si trovò alle
prese con le disparità nella risposta internazionale alle crisi di rifugiati in Pakistan e in
Iran. Come si osservava, nel giugno 1981, in un promemoria interno dell’Unhcr:
“Dopo un anno e mezzo senza aiuti esterni e spesso senza lavoro, [i rifugiati afghani
in Iran sono] in una situazione molto difficile... Non possiamo più chiudere gli occhi
davanti alle evidenti necessità dei rifugiati afghani in Iran, che si trovano nella stessa
situazione di quelli ospitati nel Pakistan o in India e che sono, a prima facie, [rifugiati]
ai sensi del nostro mandato, come è stato confermato dalla Divisione protezione” 18.
Sebbene l’Unhcr finisse con l’ottenere fondi anche per i rifugiati afghani in Iran, la
disparità nelle spese sostenute in Pakistan e in Iran rimase notevole per tutti gli anni
’80 e ’90. Fra il 1979 e il 1997, l’Unhcr spese oltre un miliardo di dollari per i rifugiati afghani in Pakistan, ma solo 150 milioni per quelli in Iran.
Nel Pakistan, l’Unhcr, come anche altri organismi dell’Onu, singoli governi e decine di Ong internazionali, fornirono ai rifugiati viveri, acqua, cure mediche, servizi
igienici e scuole. La proliferazione delle Ong, iniziata nel Sudest asiatico negli anni
’70, continuò nel Pakistan. Alla fine degli anni ’80, in quell’operazione umanitaria
erano coinvolte oltre un centinaio di Ong internazionali: fra di esse, molte Ong
musulmane, che lavoravano per la prima volta in stretta collaborazione con l’Unhcr.
Questo pagava gli stipendi a oltre 6.500 dipendenti locali, molti dei quali assunti dal
Commissariato pakistano per i rifugiati afghani 19.
Per ragioni di politica interna, il governo pakistano non intendeva assegnare ai
rifugiati, provenienti in maggioranza da zone rurali, terre da coltivare. I rifugiati potevano, però, circolare liberamente nel paese, il che aiutò molti di loro a trovare un lavoro. A metà degli anni ’80, l’Unhcr lanciò una vasta gamma di programmi – piccoli crediti, formazione professionale, progetti edilizi – per dare ai rifugiati un lavoro e insegnare loro un mestiere, incoraggiandoli nel contempo a rendersi maggiormente autosufficienti. Molti di tali programmi, tuttavia, furono sospesi su pressante richiesta del
governo pakistano, il quale sosteneva che, in assenza di analoghi programmi a beneficio della popolazione locale, potevano insorgere tensioni fra questa e i rifugiati.
A partire dal 1984, l’Unhcr e la Banca mondiale vararono, in collaborazione con il
governo pakistano, un programma congiunto, conosciuto come Generation project for refugees
areas (progetto di attività remunerative per le zone di rifugiati). Con investimenti di 85
118
Le guerre per procura
Popolazioni rifugiate afghane, secondo il paese
d’asilo, 1979–99
Fig. 5.2
Paesi d’asilo
Anno
Pakistan
Iran
India
Federazione russaa
Altrib
Totale
1979
402.000
100.000
–
–
–
502.000
1980
1.428.000
300.000
–
–
–
1.728.000
1981
2.375.000
1.500.000
2.700
–
–
3.877.700
1982
2.877.000
1.500.000
3.400
–
–
4.380.400
1983
2.873.000
1.700.000
5.300
–
–
4.578.300
1984
2.500.000
1.800.000
5.900
–
–
4.305.900
1985
2.730.000
1.880.000
5.700
–
–
4.615.700
1986
2.878.000
2.190.000
5.500
–
–
5.073.500
1987
3.156.000
2.350.000
5.200
–
–
5.511.200
1988
3.255.000
2.350.000
4.900
–
–
5.609.900
1989
3.272.000
2.350.000
8.500
–
–
5.630.500
1990
3.253.000
3.061.000
11.900
–
–
6.325.900
1991
3.098.000
3.187.000
9.800
–
–
6.294.800
1992
1.627.000
2.901.000
11.000
8.800
3.000
4.550.800
1993
1.477.000
1.850.000
24.400
24.900
11.900
3.388.200
1994
1.053.000
1.623.000
22.400
28.300
12.300
2.739.000
1995
1.200.000
1.429.000
19.900
18.300
9.700
2.676.900
1996
1.200.000
1.415.000
18.600
20.400
10.700
2.664.700
1997
1.200.000
1.412.000
17.500
21.700
12.500
2.663.700
1998
1.200.000
1.401.000
16.100
8.700
8.400
2.634.200
1999
1.200.000
1.325.700
14.500
12.600
10.000
2.562.800
Note:
Le cifre si riferiscono al 31 dicembre di ogni anno.
a
Solo i richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr. Secondo l’Unhcr, alla fine del 1999 altri 100mila afghani erano bisognosi di protezione.
b
Kazakistan, Kirghisistan, Tagikistan, Turkmenistan and Uzbekistan.
milioni di dollari su 12 anni, comprendeva circa 300 iniziative diverse, distribuite in tre
province che ospitavano rifugiati: rimboschimento, sistemazione idrogeologica, irrigazione, riparazione e costruzione di strade. Si ritenne, in genere, che il programma avesse un impatto rilevante e positivo 20. Tali progetti, nonché la possibilità di lavorare al di
fuori dei villaggi di rifugiati, aiutarono molti di loro a conseguire l’autosufficienza entro
il decennio.
In Iran, un programma analogo fu lanciato alla fine degli anni ’80, negli estesi
pascoli del Khorasan meridionale. Si trattava questa volta di un progetto congiunto fra
119
I RIFUGIATI NEL MONDO
l’Unhcr e il Fondo internazionale di sviluppo agricolo (Ifad), realizzato d’intesa col
governo iraniano. Come per altre iniziative da attuare in tale paese, però, i donatori
furono meno disposti a fornire i fondi necessari. Dei 18 milioni di dollari inizialmente
richiesti dall’Unhcr e dall’Ifad, solo un terzo arrivarono effettivamente durante il
primo quinquennio del programma.
Un’altra differenza di rilievo fra l’assistenza ai rifugiati in Pakistan e in Iran
riguardava il settore dell’istruzione. In Pakistan, molti ragazzi frequentavano le scuole finanziate dall’Unhcr nei villaggi di rifugiati; le ragazze, invece, vi erano meno
numerose, a causa di tradizioni culturali discriminatorie che rendevano difficile per
molte di loro seguirne i corsi. Un numero rilevante di ragazzi, inoltre, riceveva un’istruzione nelle madrasas (scuole religiose) private, con le quali l’Unhcr non aveva
alcun rapporto. A metà degli anni ’90, alcuni dei ragazzi cresciuti come rifugiati in
Pakistan e che avevano frequentato le madrasas, divennero membri dirigenti del
movimento islamico dei taliban, che si impadronì del potere in Afghanistan. In Iran,
invece, i giovani rifugiati erano iscritti nelle scuole iraniane e le ragazze potevano frequentarle molto più facilmente. Negli anni ’90, quando ebbe veramente inizio il rimpatrio in Afghanistan, l’accesso delle ragazze all’istruzione era spesso citato dai rifugiati come motivo per non volere ritornare in Afghanistan, dove tale accesso era proibito dai taliban.
I problemi di sicurezza in Pakistan
Per tutti gli anni ’80, per l’Unhcr l’utilizzazione dei villaggi di rifugiati come basi da
parte dei vari gruppi islamici della resistenza armata afghana – noti collettivamente col
nome di mujahedin – fu fonte di grave preoccupazione. Gli Stati Uniti, i loro alleati e
vari paesi islamici fornivano ai mujahedin ingenti risorse militari e finanziarie. Si ritiene che, fra il 1982 e il 1991, i soli Stati Uniti abbiano fornito aiuti per due miliardi
di dollari 21. Dato che appoggiavano i mujahedin nella loro lotta contro il regime di
Kabul, sostenuto dai sovietici, molti donatori erano disposti a chiudere un occhio sulla
presenza di combattenti armati nei villaggi di rifugiati ed erano, per di più, disposti a
tollerare il dirottamento su larga scala degli aiuti umanitari a scopi militari. Questo
indusse, all’epoca, alcuni osservatori a descrivere i villaggi di rifugiati come “comunità di rifugiati combattenti” 22.
Nel 1984, dato il deterioramento della situazione della sicurezza in molti villaggi
di rifugiati, l’Unhcr cercò di allontanarli dalle frontiere, sia per proteggere i profughi
dagli attacchi delle forze sovietiche e di quelle governative afghane, sia per impedire
ai ribelli di utilizzare i villaggi stessi come basi. In quel periodo, era normale trovare,
in molti villaggi di rifugiati, pezzi d’artiglieria antiaerea ed altre armi pesanti. Nel
luglio 1984, il direttore della Protezione internazionale dell’Unhcr sostenne che l’organizzazione non dovesse assistere più i villaggi che non adottassero misure per impedire tale militarizzazione: “il mantenimento del carattere civile dei villaggi di rifugiati assistiti dall’Unhcr è essenziale per tutelare il carattere apolitico e umanitario dell’organizzazione... Qualora non siano adottate le necessarie misure correttive [allontanamento delle armi], saremmo favorevoli alla cessazione dell’assistenza ai villaggi in
questione” 23. Sollecitò, inoltre, il personale sul terreno a compiere “ogni sforzo per
120
Le guerre per procura
incoraggiare i rifugiati... a trasferirsi, per la loro stessa incolumità, in idonee località
alternative”, avvertendo però che sarebbe stato “insensato e controproducente ricorrere a qualsiasi forma di coercizione” 24.
I timori dell’Unhcr per la sicurezza dei rifugiati si rivelarono fondati. A metà del
1984, le forze sovietiche e quelle governative afghane sferrarono una serie di attacchi in
Pakistan partendo dall’Afghanistan, in cui rimasero uccisi o feriti molti rifugiati. Nel
1986-87, ulteriori attacchi fecero altre centinaia di vittime nei loro ranghi. Le stesse unità
militari condussero, inoltre, attacchi contro civili pakistani, attizzando la tensione fra la
popolazione locale e i rifugiati. Alla fine del 1986, apparentemente per placare l’ira degli
abitanti del luogo, le autorità pakistane raggrupparono oltre 50mila afghani che vivevano, senza autorizzazione, a Peshawar e li rimandarono nei rispettivi insediamenti.
Più o meno nello stesso periodo, le autorità pakistane adottarono altre rigorose
misure per il raggruppamento dei rifugiati, soprattutto per motivi di sicurezza. Nel
corso di un particolare episodio, le autorità locali di Karachi, la maggiore città del
paese, raggrupparono oltre 18.500 rifugiati afghani di etnia tagica, uzbeca e turkmena, distrussero i loro alloggi di fortuna e li allontanarono dalla città, trasferendoli in
una nuova località, a una decina di chilometri, dove fu appositamente costruito un
nuovo villaggio. All’epoca, l’Unhcr aveva denunciato il modo in cui i rifugiati erano
stati trattati, ma l’organizzazione finì con l’erogare oltre 400mila dollari per contribuire alla realizzazione delle infrastrutture essenziali.
Nel frattempo, in vicinanza della frontiera, i timori dell’Unhcr per l’incolumità dei
rifugiati non si tradussero in misure concrete per la smilitarizzazione dei villaggi di
rifugiati. Per tutti gli anni ’80, i mujahedin continuarono a entrarne e uscirne indisturbati. Nel 1989, le forze sovietiche finirono col ritirarsi dall’Afghanistan, ma la guerra continuò fra i mujahedin e il regime comunista di Kabul. Dopo che, nel 1992, i
mujahedin si impadronirono del potere, in molte regioni i combattimenti continuarono fra le loro varie fazioni, molte delle quali operavano da basi situate in Pakistan, per
cui nei villaggi di rifugiati si perpetuarono i problemi legati alla sicurezza.
Gli esodi di massa nel Centroamerica
Nel corso degli anni ’80, l’Unhcr fu coinvolto per la prima volta nel Centromerica,
teatro di tre guerre civili: nel Nicaragua, in El Salvador e nel Guatemala. In ognuno di
questi paesi, la rivolta e la conseguente repressione causarono enormi perdite di vite
umane ed esodi su larga scala: in totale, oltre due milioni di abitanti furono strappati
alle loro case. Per decenni, già prima degli anni ’80, nella regione si erano registrati
violenti scontri, fra i poveri senzaterra che chiedevano riforme sociali e agrarie e l’élite dei proprietari terrieri, sostenuti dai militari. Durante varie amministrazioni successive, gli Stati Uniti avevano appoggiato i governi di destra della regione, con l’intento di fermare quella che vedevano come la propagazione del comunismo vicino alle
loro frontiere, e anche per tutelare i loro interessi economici nell’area. I movimenti
ribelli sorti nella regione furono influenzati, e in una certa misura sostenuti, dal regime comunista di Cuba.
121
I RIFUGIATI NEL MONDO
Nel Nicaragua, gli Stati Uniti appoggiavano da tre generazioni il regime dei
Somoza. Negli anni ’70, i partiti politici, gli studenti, i sindacati e molti esponenti
della borghesia e della chiesa cattolica si coalizzarono contro l’ultimo di quei dittatori, Anastasio Somoza Debayle. Il Fronte sandinista di liberazione nazionale, una formazione di sinistra, fece notevoli progressi, e nel luglio 1979 Somoza fuggì dal paese,
lasciando il potere ai sandinisti.
Nel giro di poche settimane, molti nicaraguensi agiati e della borghesia, e migliaia
di esponenti dell’amministrazione e delle forze armate di Somoza abbandonarono il
paese. Nel frattempo, la maggioranza dei nicaraguensi che in passato erano andati in
Principali flussi di rifugiati
in Centroamerica negli anni ‘80
Cartina 5.3
Golfo del
Messico
MESSICO
Ma
BELIZE
r d
ei
Car
a
BELMOPAN
GUATEMALA
ibi
HONDURAS
GUATEMALA
TEGUCIGALPA
SAN SALVADOR
NICARAGUA
EL SALVADOR
MANAGUA
OC
EA
NO
PA
CIF
ICO
COSTA RICA
SAN JOSÉ
LEGGENDA
Capitale di stato
Principali campi/insediamenti
di rifugiati
Confine di stato
Movimenti di rifugiati
122
PANAMA
PANAMA
0
150
Chilometri
Kilometri
300
Le guerre per procura
Riquadro 5.3
La dichiarazione di Cartagena del 1984
Nel novembre 1984, in reazione alla crisi di rifugiati allora in atto in
America centrale, un gruppo di rappresentanti dei governi, professori
universitari e giuristi centroamericani, messicani e panamensi, si riunì
a Cartagena, in Colombia, per elaborare quella che divenne la
Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati.
Pur essendo strutturata sulla falsariga della Convenzione delle Nazioni
Unite del 1951, la Dichiarazione di Cartagena estende, come la
Convenzione dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua) del 1969, la
definizione di rifugiato contenuta nello strumento dell’Onu facendovi
rientrare coloro i quali fuggono dal loro paese
...perché la loro vita, la loro sicurezza o la loro libertà è minacciata
da violenze generalizzate, un’aggressione straniera, un conflitto
interno, massicce violazioni dei diritti umani o altre gravi turbative
dell’ordine pubblico.
Benché non giuridicamente vincolante, la Dichiarazione di Cartagena è
stata ripetutamente avallata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione
degli stati americani. La maggior parte dei paesi centroamericani e latinoamericani hanno aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati
e/o al Protocollo aggiuntivo, e perlopiù applicano regolarmente la
definizione di rifugiato più estensiva, contenuta nella Dichiarazione.
Alcuni di essi hanno addirittura recepito la definizione stessa nelle
rispettive legislazioni nazionali.
esilio cominciarono a rimpatriare 25. Alcuni di quelli fuggiti nell’Honduras costituirono un gruppo armato di opposizione denominato “contras” (dallo spagnolo contrarevolucionarios). Durante tutta la guerra, negli anni ’80, gli Stati Uniti, che vedevano
il governo sandinista del Nicaragua come una minaccia per i loro interessi, fornirono
ai contras notevoli aiuti.
Sempre durante gli anni ’70, in El Salvador, che era stato tormentato sin dal tempo
dell’indipendenza da frequenti colpi di stato e violenze politiche, si affermarono alcuni gruppi ribelli, seppure frammentati. Spesso incoraggiati dal clero cattolico, migliaia
di contadini aderirono alle organizzazioni che invocavano la riforma agraria e una
maggiore giustizia sociale. Il governo reagì intensificando la repressione e migliaia di
persone furono uccise, per motivi politici.
Anziché soffocare l’opposizione, gli attacchi suscitarono un maggiore appoggio ai
ribelli, in particolare nelle zone rurali. Nel gennaio 1981, un vasto schieramento di
gruppi d’opposizione costituì il Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale
(Fmln), che si affermò in molte zone come una importante presenza militare e divenne una forza politica di rilievo, sia nel paese che all’estero. Per reazione, gli Stati Uniti
aumentarono gli aiuti militari al governo di El Salvador, e parteciparono più direttamente alla campagna delle forze armate contro l’Fmln. Il conflitto fra i militari salvadoregni e il Fronte continuò per tutti gli anni ’80.
Anche nel Guatemala, negli anni ’70 dei gruppi ribelli erano insorti contro il regime
militare. Godevano dell’appoggio di buona parte della popolazione autoctona che, pur
123
I RIFUGIATI NEL MONDO
Principali popolazioni rifugiate registrate
in Centroamerica e Messico, 1980–99
Fig. 5.3
1.2
1.0
0.8
0.6
0. 4
Milioni
0. 2
0.0
1980/81
82/83
84/85
Messico
86/87
88/89
Costa Rica
90/91
92/93
Honduras
94/95
96/97
98/99
Guatemala
costituendo la maggioranza, era esclusa da ogni partecipazione nella vita politica ed economica del paese. Alla fine del 1981, i militari sferrarono una campagna controrivoluzionaria che durò un anno e mezzo, che aveva come obiettivo non solo i guerriglieri, ma
anche i villaggi amerindiani, considerati basi d’appoggio ai ribelli. Decine di migliaia di
civili, in maggioranza indios, furono uccisi o scomparvero 26. Al culmine della violenza,
si calcola che un milione di abitanti fossero sfollati in conseguenza della campagna militare.Alcuni mesi dopo, i vari gruppi della guerriglia si unirono per costituire l’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Malgrado il sostegno popolare, questa non riuscì,
però, a costituire una seria minaccia per le truppe governative. Nel 1983, l’esercito guatemalteco l’aveva ormai costretta a ritirarsi in zone montane isolate, dove rimase nella
clandestinità fino all’inizio dei colloqui di pace, verso la fine del decennio.
La maggior parte dei due milioni di abitanti costretti all’esodo dai conflitti armati del Nicaragua, di El Salvador e del Guatemala vissero come sfollati nei rispettivi
paesi, o come stranieri, privi di documenti, in vari paesi del Centroamerica e del
Nordamerica: Honduras, Messico, Costarica, Belize e Panama, come anche Stati Uniti
e Canada. Di quelli che abbandonarono il loro paese, solo 150mila circa furono riconosciuti come rifugiati, in paesi centroamericani e in Messico. Delle centinaia di
migliaia che ripararono negli Stati Uniti, solo relativamente pochi furono considerati
rifugiati. La maggior parte di loro non ebbe la possibilità di chiedere tale status, oppure preferì non fare la domanda, per timore di un’espulsione in caso di rifiuto.
La maggioranza degli oltre mezzo milioni di esuli del Centroamerica fuggiti negli Stati
Uniti, dunque, non ricevettero protezione come rifugiati. L’atteggiamento americano nei
confronti degli esuli centroamericani fu fortemente influenzato da considerazioni politiche.
I nicaraguensi erano generalmente bene accolti e beneficiavano dell’asilo, mentre un gran
numero di guatemaltechi e di salvadoregni si videro rifiutare l’asilo e furono oggetto di provvedimenti d’espulsione, anche se di fatto gli Stati Uniti tollerarono la permanenza di alcuni
124
Le guerre per procura
gruppi. Anche la Costarica, l’Honduras e il Messico accolsero varie centinaia di migliaia di
esuli centroamericani, dei quali solo 143mila circa furono considerati come rifugiati 27. Due
delle maggiori concentrazioni di rifugiati ufficialmente riconosciuti si trovavano in Honduras
e Messico. Nel 1986, l’Honduras ospitava qualcosa come 68mila rifugiati, di cui circa 43mila
del Nicaragua, circa 24mila di El Salvador e un ridotto numero del Guatemala, mentre il
Messico ospitava circa 46mila guatemaltechi, riconosciuti come rifugiati, e molti altri, non
registrati ufficialmente 28.
Per l’Unhcr, le attività di protezione e assistenza in favore dei due gruppi diversi
di rifugiati presenti nell’Honduras erano limitate dalla politica della guerra fredda e
da altre considerazioni politiche. Il governo honduregno, che dipendeva dagli aiuti
americani, accoglieva con favore i rifugiati nicaraguensi che fuggivano dal governo
sandinista, mentre era estremamente sospettoso nei confronti di quelli di El Salvador.
Le disparità nel trattamento riservato dalle autorità dell’Honduras ai due gruppi di
rifugiati crearono gravi problemi all’Unhcr. Sebbene la maggioranza dei rifugiati ufficialmente riconosciuti fossero alloggiati in campi profughi gestiti dall’organizzazione,
la loro situazione era molto diversa: ai rifugiati nicaraguensi era consentito entrarne e
uscirne liberamente, mentre quelli salvadoregni erano costretti a soggiornare in campi
chiusi, sorvegliati dalle forze armate.
Rifugiati secondo la principale regione d’asilo,
1975–2000*
Fig. 5.4
9
8
7
6
5
4
3
Milioni
2
1
0
1975
1980
Africa
1985
Asia
1990
Europa
1995
2000
Americhe
* Non sono compresi i rifugiati palestinesi assistiti dall’Agenzia dell’Onu di soccorso e lavoro per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente
(Unrwa).
125
I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 5.4
Il Cile sotto il generale Pinochet
A differenza della maggior parte dei
paesi latinoamericani, il Cile non
aveva, prima del 1973, una
tradizione di intervento militare
nella politica, ed era considerato
una delle democrazie più stabili del
continente. L’11 settembre 1973,
però, il generale Augusto Pinochet
sferrava un attacco armato contro il
governo democraticamente eletto
del presidente Salvador Allende. Il
colpo di stato era rapidamente
seguito dalla repressione di ogni
attività politica e dall’arresto in
massa di decine di migliaia di
sostenitori del precedente governo
socialista. In tutto il paese era
proclamato lo stato d’assedio.
La tortura, le sparizioni e le
uccisioni furono generalizzate,
soprattutto durante i primi mesi
della giunta militare Si calcola che
oltre 4mila persone siano state
uccise e circa 60mila arrestate,
benché in maggioranza detenute
solo per breve tempo. Il parlamento
fu chiuso e furono effettuate
epurazioni di sospetti simpatizzanti
della sinistra. Un rapporto dell’epoca
dell’Unhcr paragonò la situazione a
quella del periodo fascista,
nell’Europa degli anni ’30 iii.
I rifugiati già presenti in Cile
Per l’Unhcr, il colpo di stato cileno e
le sue conseguenze rappresentarono
una prova molto impegnativa. Il Cile
ospitava già alcune migliaia di
rifugiati e di esuli politici, che vi
avevano cercato asilo negli anni
precedenti. A metà del 1972, il
governo Allende valutava il loro
numero in circa 5mila. Molti erano
arrivati dopo l’elezione di Allende
nel 1970, in fuga da paesi con
governi di destra o per sostenere
quella che vedevano come
un’esperienza socialista irripetibile.
Due giorni dopo il colpo di stato,
l’Alto Commissario Sadruddin Aga
Khan telegrafava al nuovo ministro
degli Esteri, contrammiraglio Ismael
Huerta Díaz, sollecitando il governo
126
a onorare i propri obblighi ai sensi
della Convenzione Onu del 1951 sui
rifugiati e del Protocollo del 1967,
ratificati dal governo Allende nel
1972 iv. Se il Cile non avesse
sottoscritto tali strumenti, quasi
certamente i negoziati dell’Unhcr col
nuovo governo non avrebbero avuto
lo stesso esito positivo. Il 20
settembre 1973, l’Unhcr apriva un
proprio ufficio nella capitale,
Santiago.
Nel corso dello stesso mese, il
governo autorizzava l’istituzione di
un Comitato nazionale di aiuto ai
rifugiati (Conar). Le organizzazioni
religiose e le agenzie volontarie che
ne facevano parte crearono 26 centri
di accoglienza per i rifugiati, 15 a
Santiago e 11 nelle province. In tali
centri, si aiutavano i “rifugiati
rientranti nel mandato” a mettere in
ordine i loro documenti e si
organizzava il loro trasferimento in
paesi di reinsediamento. A fine
settembre, nei centri erano già stati
registrati 600 rifugiati, e il 23
ottobre il loro numero era salito a
1.022.
Varie altre centinaia di rifugiati
senzatetto furono alloggiate, in
diversi periodi, in una dipendenza
dell’ambasciata svizzera, col
consenso del governo cileno. La casa
suiza offrì asilo, in attesa di un
reinsediamento all’estero, a
centinaia di rifugiati, in
maggioranza brasiliani, uruguaiani e
boliviani, che rientravano nel
mandato dell’Unhcr, erano stati
rilasciati dal carcere ed erano
oggetto di un’ordinanza di
espulsione.
Il Conar operava sotto l’egida
dell’Unhcr, che gli aveva offerto
assistenza per la soluzione dei
problemi dei rifugiati. Al marzo
1974, delle 3.574 persone registrate
presso il Comitato, 2.608 erano già
state reinsediate in una quarantina
di paesi, comprese 288 rimpatriate
nei rispettivi paesi d’origine. Inoltre,
circa 1.500 persone erano riparate
clandestinamente in Perù e
Argentina. Su una spesa totale di
300mila dollari, sostenuta dal Conar
in quel periodo, circa 215mila erano
stati stanziati dall’Unhcr.
L’esilio dei cileni
Sin dall’inizio, il regime di Pinochet
utilizzò l’esilio nell’ambito della sua
strategia volta a ridisegnare la carta
politica del Cile, eliminandone così
le precedenti tradizioni politiche. Il
numero degli arrestati era tale che il
maggiore stadio di calcio di
Santiago fu trasformato in un
immenso centro d’internamento.
Le espulsioni erano effettuate ai
sensi del decreto legge n. 81, del
novembre 1973, che dava al regime
un potere praticamente
incondizionato in tale campo. A
partire dal dicembre 1974, ai
detenuti nel quadro dello stato
d’assedio, ancora in attesa di
giudizio, fu consentito far domanda
di rilascio, condizionato
all’immediata espulsione. Nell’aprile
1975, il decreto legge n. 504 estese
il provvedimento ai detenuti già
condannati.
Il Comitato intergovernativo per le
migrazioni europee, il Comitato
internazionale della Croce Rossa e
l’Unhcr svolsero un ruolo
importante, a fianco delle Ong
nazionali, per permettere a migliaia
di cileni di lasciare il paese. L’Unhcr
ricevette anche notevole appoggio
da altre istituzioni delle Nazioni
Unite: in particolare,
l’Organizzazione internazionale del
lavoro (Oil), il Programma di
sviluppo delle Nazioni Unite (Undp)
e l’Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’educazione, la scienza e
la cultura (Unesco). L’Alto
Commissariato istituì, all’inizio di
ottobre 1973, una procedura per la
determinazione dello status di
rifugiato, per decidere se gli
individui avessero in Cile un fondato
timore di persecuzione, senza
considerare se fosse il paese
d’origine o semplicemente di stabile
Le guerre per procura
residenza. Per molti rifugiati era
necessaria la procedura più rapida
possibile, perché temevano l’arresto
o perfino la morte per mano delle
autorità.
Come per l’esodo dall’Ungheria,
quasi vent’anni prima, i rifugiati si
dispersero in mezzo mondo. Circa
110 paesi, dall’Islanda e Cipro al
Kenya e Capo Verde, accolsero i
cileni in vista del reinsediamento.
All’inizio, molti fuggirono verso
altri paesi latinoamericani, fra cui il
Perù, l’Argentina e il Brasile. Le
possibilità lavorative in tali paesi,
però, erano molto limitate e, dopo
il colpo di stato del 1976 in
Argentina, il vicino immediato del
Cile non risultò più molto attraente.
Le altre principali destinazioni dei
rifugiati cileni furono la Francia, la
Svezia, il Canada, il Messico,
l’Australia e la Nuova Zelanda.
L’Unhcr fece anche appello ai paesi
dell’Europa orientale per accogliere
dei rifugiati cileni. Un migliaio circa
di loro si recò di propria iniziativa
nella Repubblica democratica
tedesca (Germania orientale) e
altrettanti andarono, con l’aiuto
dell’organizzazione, in Romania.
Gruppi meno numerosi raggiunsero
altri paesi dell’Europa orientale, fra
cui la Bulgaria e la Jugoslavia:
unico paese del blocco orientale
con il quale l’Unhcr aveva fino
allora relazioni di qualche rilievo.
L’appello rivolto dall’Unhcr a questi
paesi era una novità, in un’epoca in
cui l’Unione sovietica guardava
ancora l’organizzazione con
malcelato sospetto.
L’asilo diplomatico
Molte ambasciate di Santiago si
ispirarono alla consolidata prassi
latinoamericana che consisteva nel
garantire la protezione diplomatica
a chi si trovasse nei loro locali. Nel
giro di pochi giorni dal colpo di
stato, oltre 3.500 cileni avevano
chiesto asilo nelle ambasciate,
soprattutto in quelle di Argentina,
Francia, Italia, Messico, Paesi Bassi,
Panama, Svezia e Venezuela. In un
incidente avvenuto nel dicembre
1973, Harald Edelstam,
l’ambasciatore svedese, fu espulso
per il ruolo particolarmente attivo
svolto nel concedere l’asilo
diplomatico.
Grazie ai propri “buoni uffici”,
l’Unhcr intervenne in loro aiuto e, a
metà ottobre, con la sua assistenza
e l’accordo del governo, era già
stato concesso un salvacondotto a
4.761 richiedenti asilo, in
maggioranza cileni. A maggio del
1974, il ministero degli Esteri ne
aveva concesso circa 8mila v.
Le “oasi di sicurezza”
Il decreto legge n. 1308, del 3
ottobre 1973, apportò
un’importante innovazione nella
moderna prassi internazionale
relativa all’asilo: la creazione, nello
stesso Cile, delle cosiddette “oasi di
sicurezza” per rifugiati stranieri,
garantite dal governo cileno. Nella
zona di Santiago ne furono istituite
in tutto sei. Inizialmente, le oasi di
sicurezza furono rispettate dal
regime, ma alla fine del 1973 un
telegramma dell’Unhcr rilevava che
la situazione dell’ordine pubblico
relativamente ai rifugiati appariva
estremamente tesa. Il messaggio
indicava che forse la giunta militare
si proponeva di chiuderle,
insistendo per la creazione di centri
di transito al di fuori del Cile vi.
Colmo dell’ironia, era quanto
chiedevano anche molti degli stessi
rifugiati.
Nell’aprile del 1974, l’Ufficio
dell’Unhcr a Santiago calcolava in
15mila il numero delle persone
ancora detenute, in tutto il paese,
per motivi politici. Permanevano le
limitazioni delle libertà civili e
politiche e persisteva la carenza di
un qualunque ordinamento
giuridico. Fu in tali condizioni che
rimasero in funzione, per buona
parte del 1974, le sei oasi di
sicurezza. Un certo numero di
cittadini cileni in attesa di
reinsediamento furono pure
alloggiati in un’oasi creata, sotto la
protezione della bandiera delle
Nazioni Unite, col decreto legge n.
1698, del 17 ottobre 1974. Vi si
precisava che il centro poteva
accogliere rifugiati stranieri, come
pure parenti di rifugiati cileni già
all’estero, in attesa di
ricongiungimento familiare. I cileni
erano ammessi nell’oasi di sicurezza
solo su autorizzazione del ministero
dell’Interno. La presenza dei
cittadini cileni significava che
l’Unhcr si interessava sempre più a
casi di ricongiungimento familiare,
reinsediando le famiglie di cileni
che avevano già trovato asilo
all’estero.
Con la graduale partenza dei
rifugiati, il numero delle oasi di
sicurezza si ridusse sempre più. Alla
fine del 1975, quasi tutti i rifugiati
stranieri che non potevano rimanere
in Cile erano stati reinsediati in
modo soddisfacente e, nell’aprile
1976, fu chiusa l’ultima oasi
superstite.
Una pietra miliare per l’Unhcr
L’operazione dell’Unhcr in Cile,
iniziata nel 1973, rappresentò
un’importante pietra miliare nella
storia dell’organizzazione. Fu la
prima operazione su vasta scala in
America latina. Non si dispone di
cifre esatte quanto al numero delle
persone fuggite in esilio negli anni
in cui il generale Pinochet fu capo
di stato. Fino a tutto il 1980, il
solo Comitato intergovernativo per
le migrazioni europee permise a
20mila persone di lasciare il paese.
Altre fonti calcolano in non meno
di 200mila il totale di quanti
fuggirono il regime,
volontariamente o a seguito di
espulsioni vii.
127
I RIFUGIATI NEL MONDO
I rifugiati nicaraguensi in Honduras
I primi rifugiati nicaraguensi erano arrivati nel vicino Honduras nel 1981. La maggioranza di loro (circa 30mila) erano indios miskitos, che cercavano di sfuggire sia
agli scontri fra le forze dei contras e quelle sandiniste, nelle loro zone d’origine,
sia ai tentativi del governo sandinista per trasferirli altrove. All’incirca 14mila dei
miskitos del Nicaragua vivevano in campi allestiti dall’Unhcr. I rimanenti 8mila
rifugiati nicaraguensi erano di origine spagnola o mista, conosciuti come “ladinos”, e continuarono ad affluire nell’Honduras per tutti i primi anni ’80. Molti,
come i miskitos, cercavano scampo dai combattimenti fra i contras e le forze sandiniste. Altri erano reclute dei contras, stabilitesi in campi da questi gestiti lungo la
frontiera.
L’Unhcr tentò di mantenere una chiara divisione fra le basi dei contras e gli insediamenti dei rifugiati, cercando di allontanare questi ultimi dal confine. Era noto, tuttavia, che i contras operavano da campi profughi gestiti dall’Unhcr e dal Comitato
internazionale della Croce rossa: una situazione che un osservatore descrisse come “un
esempio dell’utilizzazione più estrema dei rifugiati come pedine in un gioco politico” 29. La presenza di gruppi armati nei campi dei rifugiati nicaraguensi
nell’Honduras, come quella dei gruppi armati afghani nei villaggi di rifugiati del
Pakistan, metteva gli esuli in grave pericolo. Ma poiché sia gli Stati Uniti che
l’Honduras sostenevano i contras, l’Unhcr non potè impedire loro di operare dai
campi stessi. Nel frattempo, alcune Ong criticavano l’Unhcr perché non proteggeva
adeguatamente i rifugiati.
Nel 1987, l’afflusso dei rifugiati aumentò notevolmente, soprattutto in risposta a
una campagna di reclutamento militare del governo sandinista. Nel dicembre 1987,
l’Unhcr aveva registrato poco meno di 16mila rifugiati ladinos, all’incirca il doppio
rispetto alla fine del 1986. Nel 1988, sulla scia dell’affare Irangate, il Congresso degli
Stati Uniti vietò ogni aiuto ai contras. Senza gli aiuti americani, la posizione dei contras fu indebolita e il conflitto giunse a un punto morto. Alcuni mesi dopo i sandinisti e l’opposizione, ivi compresi i contras, intavolarono un “dialogo nazionale” che
portò, nel 1989, a una serie di accordi miranti a porre termine alla guerra.
I rifugiati salvadoregni in Honduras
I primi gruppi di rifugiati di El Salvador arrivarono in Honduras nel 1980. In un
primo tempo, si sistemarono senza difficoltà in varie località presso la frontiera, e in
particolare a La Virtud. Con l’arrivo di altri rifugiati, però, le autorità cercarono di far
cessare gli insediamenti spontanei. Il governo vedeva gli esuli come dei sostenitori dei
guerriglieri, e li trattava con diffidenza e ostilità. Nel maggio 1980, ad esempio, le
truppe honduregne respinsero centinaia di rifugiati che cercavano scampo dagli attacchi dei militari di El Salvador. Molti di quelli così respinti finirono poi uccisi.
Ciononostante, malgrado la cattiva accoglienza che ricevevano, l’intensificarsi degli
scontri in El Salvador continuò a costringere migliaia di abitanti a cercare riparo in
Honduras. All’inizio del 1981, la popolazione salvadoregna rifugiata nel paese saliva a
30mila unità.
128
Le guerre per procura
In Honduras, i rifugiati non trovarono la sicurezza sperata. Secondo un’infermiera europea che lavorava a La Virtud: “i militari salvadoregni, in base a un accordo con
quelli honduregni di stanza a La Virtud, sono entrati liberamente nel territorio
dell’Honduras. Alcuni rifugiati sono scomparsi, altri sono stati rinvenuti morti, altri
ancora sono stati arrestati dall’esercito honduregno” 30. L’Unhcr elevò una formale
protesta contro le incursioni, come pure fecero degli alti prelati cattolici della regione, ma con scarso risultato.
In seguito, nell’ottobre 1981, il governo dell’Honduras annunciò l’intenzione di
trasferire i rifugiati da La Virtud a Mesa Grande, località più lontana dalla frontiera, con
lo scopo dichiarato di proteggerli, cosa che l’Unhcr non poteva che appoggiare.
Alcune Ong e altri osservatori ritennero, però, che i veri obiettivi del governo fossero di impedire ai rifugiati di aiutare i guerriglieri salvadoregni e di sgombrare la zona
di frontiera, in modo che i militari dell’Honduras e quelli di El Salvador avessero maggiore libertà d’azione. I rifugiati e la maggior parte delle Ong che operavano a La
Virtud erano contrari al trasferimento, sostenendo che li avrebbe lasciati ancor più alla
mercè dell’ostilità dei militari honduregni.
La situazione divenne esplosiva il 16 novembre 1981, quando forze militare e
paramilitari di El Salvador entrarono a La Virtud e rapirono un certo numero di rifugiati. Il governo dell’Honduras sfruttò l’incursione come pretesto per procedere
immediatamente al trasferimento, sebbene i preparativi a Mesa Grande non fossero
ancora ultimati. Malgrado l’opposizione dei rifugiati e malgrado i propri timori,
all’Unhcr non rimase altra alternativa che di collaborare all’operazione. Nel giro di
cinque mesi, furono trasferiti 7.500 rifugiati. Altri 5mila rientrarono in El Salvador,
piuttosto che spostarsi a Mesa Grande. Il trasferimento creò nuovi problemi: molte
delle infrastrutture promesse non furono mai realizzate, e la situazione dei rifugiati
risultò molto peggiore di quando erano a La Virtud. Di conseguenza, aumentò la diffidenza dei rifugiati nei confronti sia delle autorità dell’Honduras che dell’Unhcr.
La politica del governo honduregno, consistente nell’alloggiare i rifugiati di El
Salvador in campi chiusi, rendeva loro difficile raggiungere l’autosufficienza. Non
potevano cercare lavoro fuori dei campi profughi, e addirittura potevano coltivare la
terra solo entro il perimetro dei campi stessi, il che limitava le coltivazioni possibili.
Malgrado ciò, i rifugiati erano pieni di risorse: piantarono i loro orti, finendo col soddisfare tutto il fabbisogno di ortaggi del campo. Realizzarono inoltre vivai che produssero tonnellate di pesce, allevarono suini e pollame, e crearono laboratori in cui
producevano la maggioranza degli indumenti, delle calzature e delle amache di cui
avevano bisogno.
Durante un altro controverso incidente, nel 1983, il governo dell’Honduras annunciò ai rifugiati salvadoregni del campo di Colomoncagua, presso la frontiera con El
Salvador, che anche loro avrebbero dovuto essere trasferiti o rientrare nel paese d’origine. L’Unhcr approvava il trasferimento, ma avvertì il governo dell’Honduras che si
sarebbe opposto ad ogni tentativo di rimpatriare i rifugiati con la forza 31. Nel frattempo, le Ong internazionali appoggiavano la resistenza dei rifugiati al trasloco. Alla fine,
le autorità honduregne fecero marcia indietro e i rifugiati non furono costretti a partire, ma le condizioni nel campo di Colomoncagua rimasero tese e pericolose. Sin dall’i129
I RIFUGIATI NEL MONDO
nizio, vi si erano registrati molti problemi di sicurezza, fra cui violenti attacchi ai danni
dei rifugiati, a volte in combutta con militari di El Salvador. Un certo numero di altri
incidenti, poi, furono originati da conflitti fra gli stessi rifugiati, in particolare quando
cercavano di rimpatriare contro la volontà dei loro leader.
Nei campi occupati dai rifugiati salvadoregni, l’Unhcr si trovò fra l’incudine e il
martello. I governi dell’Honduras e degli Stati Uniti volevano un controllo più rigoroso sulle attività dei rifugiati, mentre questi, come anche la maggior parte delle Ong
attive nei campi stessi, esigevano più libertà. In varie occasioni, il personale dell’Unhcr
sul terreno fu vittima di violenze fisiche ad opera delle autorità honduregne.
Anche i rapporti dell’Unhcr con le Ong stesse erano estremamente tesi. Spesso
queste consideravano l’Unhcr alleato del governo honduregno e di quello americano,
generalmente ostili ai rifugiati di El Salvador. A quell’epoca, un funzionario dell’Unhcr
scriveva: “in nessun altro paese dove ho lavorato in precedenza il personale internazionale delle agenzie volontarie dimostrava tanta ostilità nei confronti dell’Unhcr,
come a Mesa Grande e Colomoncagua” 32.
I rifugiati guatemaltechi in Messico
Negli anni ’80, il Messico – come del resto l’Honduras – non aveva firmato né la
Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati né il Protocollo aggiuntivo del 1967. Quando,
nel 1981, esuli guatemaltechi cominciarono ad arrivare in gran numero in Messico,
migliaia di loro furono rapidamente espulsi. Dopo una serie di proteste internazionali, tuttavia, il governo messicano instaurò una procedura di registrazione per i rifugiati
guatemaltechi e consentì di rimanere nel paese a 46mila di loro, una parte soltanto
degli oltre 200mila guatemaltechi entrati fra il 1981 e il 1982. Nel 1982, l’Unhcr aprì
il primo ufficio in Messico.
Molti di coloro che si erano registrati erano arrivati in regioni del Messico in cui
i guatemaltechi tradizionalmente immigravano in cerca di lavoro, e in cui per loro era
facile mescolarsi alla forza lavoro locale e a quella immigrata. Inoltre, non meno di
50mila di loro si erano spinti fino alla capitale, Città del Messico, dove non era prevista la possibilità di registrarsi. Altri arrivarono nel paese dopo che il governo aveva
posto fine alla procedura di registrazione. Tutti i rifugiati non registrati vivevano nel
costante timore dell’espulsione.
Quelli registrati, dal canto loro, erano disseminati in una cinquantina di campi
profughi, in zone isolate della giungla del Chiapas, uno stato molto impoverito, confinante col Guatemala. Le condizioni di vita nei campi erano del tutto insoddisfacenti. A partire dal 1984, il governo messicano, consapevole della situazione, adottò una
politica consistente nel trasferire i rifugiati dal Chiapas in nuovi insediamenti, situati
negli stati del Campeche e del Quintana Roo, nella penisola dello Yucatán. In complesso, furono trasferiti circa 18mila rifugiati. Il governo sosteneva, non senza una
certa ragione, che il trasferimento fosse necessario perché i militari guatemaltechi avevano sferrato, attraversando la frontiera, vari attacchi contro gli insediamenti dei rifugiati. Al tempo stesso, il governatore del Chiapas si opponeva violentemente alla presenza dei rifugiati, mentre la penisola dello Yucatán era una regione sottosviluppata,
in cui i rifugiati potevano collaborare a iniziative di sviluppo.
130
Le guerre per procura
Circa 25mila dei rifugiati registrati nel Chiapas si opposero al trasferimento
verso Campeche e Quintana Roo, e rimasero dov’erano. Il governo messicano scoraggiò le Ong messicane dall’assisterli. I bassi salari che ricevevano quando lavoravano e l’impossibilità di disporre di terra e di servizi sociali, rendevano estremamente difficili le loro condizioni di vita, e nel 1987 un certo numero di loro andarono via dai campi, alcuni rimpatriando in Guatemala. In seguito, tuttavia, la situazione in materia di sicurezza e le condizioni di vita dei rifugiati ospitati nel Chiapas
migliorarono sensibilmente.
A partire dal 1984, il governo messicano – in collaborazione con l’Unhcr e le Ong
– fornì ai rifugiati sistemati negli stati del Campeche e del Quintana Roo della terra,
alloggi di fortuna, aiuti alimentari e un’assistenza sociale completa. Tali insediamenti
ebbero notevole successo, sul piano dell’autosufficienza e dell’integrazione dei rifugiati. La maggior parte di quelli che vi si erano trasferiti vi rimasero in permanenza, e il
governo messicano finì col concedere loro la cittadinanza.
La risoluzione dei conflitti e il rimpatrio
All’inizio degli anni ’80, si era ancora in piena guerra fredda. Alla fine del decennio,
sia l’Unhcr che il paesaggio politico mondiale erano profondamente mutati
L’organizzazione aveva registrato una notevole espansione, non solo come personale e
bilancio, ma anche per l’estensione del sue attività. Nel contempo, molti conflitti che
avevano caratterizzato l’ultimo decennio della guerra fredda si erano conclusi o si
avviavano a soluzione.
Nel caso dell’Afghanistan, le truppe sovietiche si ritirarono dal paese nel 1989,
poco tempo prima della disgregrazione della stessa Unione sovietica. Nel 1992, il
regime comunista da questa lasciato al potere a Kabul fu rovesciato dai mujahedin,
spianando la strada al rimpatrio, nel corso degli anni ’90, di qualcosa come quattro
milioni di afghani.
In Etiopia, il governo del presidente Menghistu fu deposto nel 1991, dando luogo
a un periodo di relativa calma. In Eritrea, la guerra civile più lunga del continente africano terminò nel 1991, e nel 1993 il paese ottenne l’indipendenza.
In America centrale, il processo di pace avviato nel 1987 a Esquipulas materializzava la determinazione dei dirigenti centroamericani di porre fine ai conflitti
nella regione. Nel Nicaragua, una conclusione negoziata del conflitto fra il governo
e i contras ebbe inizio nel 1989, e l’anno dopo il governo sandinista fu sconfitto
nelle elezioni. In El Salvador e in Guatemala, gli accordi formali di pace furono conclusi rispettivamente nel 1992 e nel 1996, ma molti rifugiati erano già rimpatriati
prima di tali date. All’inizio degli anni ’90, il centro dell’attenzione dell’Unhcr si
spostò quindi sul rimpatrio.
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