L`Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità [I

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L`Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità [I
PRIMA STAGIONE
Considerazioni inattuali dei grandi sullo stato
presente
Linda Giannini intervista Maurizio Matteuzzi, professore di Filosofia e teoria dei
linguaggi e dell’intelligenza artificiale Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna.
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/considerazioni-inattuali-grandistato-presente-4024408760.shtml
D. Chi ha favorito il tuo interesse per la Filosofia? Un evento? Un docente? Una lettura?
R. Fu in parte un caso; fin dalle scuole medie, la mia insegnante di Italiano mi appiccicò il nomignolo di “filosofo”,
per i toni pensosi dei miei temi. Dalla curiosità suscitata da questa circostanza mi misi a leggere alacremente una
storia della filosofia, e ne rimasi affascinato. Cominciai a fare incetta dei dialoghi di Platone, che si trovavano
facilmente in edizioni molto economiche. Poi un libro in particolare segnò una ulteriore svolta, per la sua profondità
ma anche per la sua chiarezza: “I problemi della filosofia” di Bertrand Russell. È senza dubbio una lettura da cui
consiglio i principianti di prendere le mosse.
D. Qual è il legame tra Filosofia e Intelligenza Artificiale?
R. L’Intelligenza Artificiale non va confusa con l’informatica tout court. Essa studia come realizzare processi
intelligenti ad imitazione della mente umana; come tale, può essere considerata, in senso lato, una “psicologia”, o
uno studio dell’uomo; anche se per farlo usa il computer. Su di un piano più tecnico, vi è un elemento fortemente
unificante, quello della rappresentazione della conoscenza. Senza una opportuna rappresentazione del problema, in
termini precisi e formali, e dunque scientificamente accettabili, è inconcepibile progettare algoritmi. E la
rappresentazione della conoscenza è la più tipica delle attività filosofiche; è, in un certo senso, quel comparto della
filosofia che va sotto il nome di “problema gnoseologico”. E non a caso gli studiosi di intelligenza artificiale
chiamano l’esito della loro analisi, cioè la rappresentazione semantica retrostante una applicazione, “ontologia”.
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D. Che evoluzione ha avuto e sta avendo il linguaggio?
R. Il discorso è molto complesso. Il linguaggio umano nasce come iconico ed ideografico, poi si sviluppa, in
Occidente, come linguaggio fonetico. Questo dipende essenzialmente dal fatto che la voce umana è lo strumento
trasmissivo più potente. In età moderna, si affermano molti altri modi della comunicazione, a cominciare da quella
per immagini. La rete internet, poi, con l’uso massiccio della mail e della comunicazione scritta, segna una ulteriore
evoluzione, che la allontana ancora di più dalla semplice fonetica. Questo significa che i registri semantici stanno
rapidamente mutando. Ad esempio, si devono trovare modi alternativi per esprimere quelle quantità di
informazione che erano normalmente veicolate attraverso l’inflessione della voce. Si veda, ad esempio, l’uso degli
smile, :-) ; o il ricorso a forme semi-ideografiche, seppure ancora intrise di un retaggio fonetico, come quando un
americano ti scrive “C U”, che, letto “see you”, significa “arrivederci”. La conclusione è che assisteremo nel prossimo
futuro ad un recupero di una forma ideografica o semi-ideografica della comunicazione, con il conforto di un ricorso
sempre maggiore al recupero della iconicità in senso molto ampio.
D. Quali soluzioni proporresti per favorire la partecipazione dei giovani al loro processo di apprendimento e
di partecipazione alla vita sociale?
R. Qui vorrei essere molto secco: un minimo di infarinatura filosofica dovrebbe essere prevista in ogni scuola
superiore. La sociologia, la politica, la morale non possono essere comprese senza possedere le basi delle teoresi
che le hanno introdotte.
D. La lettura di quali filosofi proporresti ai giovani?
R. Credo che una alfabetizzazione filosofica abbia alcuni passaggi obbligati: Platone o Aristotele, Cartesio, Kant, una
corrente contemporanea (filosofia analitica, esistenzialismo, fenomenologia, marxismo ad esempio).
Ci tengo a precisare che non è un giudizio di valore: non cito gli autori che più ho apprezzato o studiato, ma quelli
la cui ignoranza comporta l’analfabetismo filosofico. Ritengo anche che se uno capisce bene uno degli elementi
delle alternative sopra date, in qualche misura debba finire con il conoscere un po’ anche l’altra (o le altre). Non si
può capire Platone senza Aristotele, o Aristotele senza Platone. Né si può conoscere l’esistenzialismo senza aver
capito la fenomenologia.
D. Se oggi dovessero incontrarsi Platone, Aristotele, Socrate, Kant, Sartre, Nietzsche, Schopenhauer... quale
lettura immagini darebbero del mondo attuale con particolare riferimento all’apprendimento e alla ricerca?
R. Andiamo sempre più nel difficile... Platone, uomo ricco e aristocratico, teorizzò una Repubblica sostanzialmente
priva della proprietà privata, e governata dai filosofi. Ecco, credo che avrebbe qualche difficoltà con Scilipoti.
Aristotele, nella sua celebre analisi delle tre forme di governo, ciascuna della quali ha una forma degenere, non
avrebbe dubbi a concludere che siamo ampiamente passati dalla “democrazia” alla “demagogia”, in specie con i
monopoli della comunicazione di massa. Socrate, condannato da innocente, decide di non fuggire, quando tutto era
facile e predisposto (vedi il Critone), per il rispetto alle leggi del suo stato: se ti comparissero davanti le leggi, oi
nomoi, e ti dicessero, ma come mai, se non ti andavamo bene, non te ne sei andato prima? Ora, a settant’anni,
poiché ti abbiamo condannato, hai la sfacciataggine di ripudiarci? Così Socrate decide, volontariamente, per la
cicuta. Ecco, credo che oggi avrebbe qualcosa da dire sulle leggi ad personam. Kant, riconducendo la religione nei
limiti della semplice ragione, potrebbe scrivere un best seller molto sistematico, che in fondo oggi sarebbe tollerato,
e sicuramente avrebbe un boom di vendite; sul fatto di assumere il bunga bunga come massima universale per tutti
gli uomini, instaurando una morale puramente formale e non contenutistica, avrebbe qualche problema in più,
anche se dai geni c’è da aspettarsi di tutto. Sartre potrebbe tentare una ridefinizione degli obiettivi della sinistra,
rivisitando la teoria del valore-lavoro in un mondo in cui spesso le nuove tecnologie non rendono più il plus-valore
come il valore del plus-lavoro, stante la replicabilità all’infinito di entità come il software, con una rivisitazione
dell’alienazione che ne deriva in chiave esistenzialistica. Nietzsche è difficilmente prevedibile; potrebbe individuare
l’anticristo in certi nostri personaggi; e potrebbe interpretare il verso dell’asino, che, ragliando, dice “ja, ja”, a chi
dice sì allo stato attuale delle cose, e si trincera dietro all’etica degli schiavi, facendosene scudo; anche quando essa
prende la forma, molto terrena, di un fiume di denaro. Forse Schopenhauer sarebbe quello più a suo agio, in forza
del suo pessimismo: ve l’avevo detto io che lo Stato incarna il Wille zu leben, cioè la massimizzazione dell’egoismo,
anche se riferito alla specie e non al singolo individuo...
D. Molto interessante, grazie. Che ne diresti di far rivivere i personaggi della filosofia e farli parlare dell’oggi?
R. Ti mando la prima puntata. Il nostro protagonista, un ragazzo spagnolo che sfrutta la sua borsa Erasmus in Italia,
trova casa e trova in un baule l’arcivernice.
Ci rivolgiamo al lettore ipocrita, che senza confessarlo coltiva in segreto, come noi, tutti i vizi dell’intelligenza e
quindi non si scandalizzerà in questo viaggio puramente ideale che trasgredisce i confini dello spazio e del tempo.
Vi diamo appuntamento a presto con la prima puntata: “L’arcivernice”.
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L’arcivernice:
pensieri
inattuali
sulla
modernità (prima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-pensieri-inattualimodernita-prima-puntata-4024973165.shtml
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Pier Cloruro de' Lambicchi è il protagonista dell'omonimo fumetto di Giovanni Manca, apparso sulla rivista per
ragazzi Il Corriere dei Piccoli tra gli anni 1930 e quaranta, Scienziato eccentrico ed incompreso, Pier Cloruro de'
Lambicchi è l'inventore dell'Arcivernice. Bastano poche pennellate di quella magica sostanza per dare vita a disegni
e ritratti, finendo per riportare in vita personaggi del passato.
§ 1 – Ramon trova casa
Ramom Vazques aveva raggiunto Bologna da Siviglia entro il programma Erasmus, ed era molto motivato a sfruttare
il periodo previsto per due finalità che aveva ben chiare: conoscere l'Italia e imparare la filosofia. Il primo problema
da risolvere era quello di trovare un alloggio sopportabile, un posto letto o magari perfino una stanza tutta per sé,
togliendosi così il prima possibile dall'ostello della gioventù.
Aveva già fatto incetta di linguette con numeri di telefono, strappate dagli innumerevoli fogli di proposta di posti
letto che tappezzavano tutta la zona universitaria, e le stesse bacheche interne delle facoltà. Dopo sette o forse otto
telefonate, ebbe una risposta che gli sembrò meritevole di esser approfondita. Fu così che, quello stesso
pomeriggio, individuò quella strana casa, sicuramente molto antica, appena fuori porta, in fondo non così lontana.
La struttura architettonica era veramente singolare. Molto ampia, irregolare, priva di una qualsiasi simmetria,
comunque la si guardasse; non solo, ma risultava evidente, anche ad una prima occhiata, che gli stessi muri erano
della fattura più diversa, i più esterni in mattoni, i più alti e meno visibili in pietra, fino ad alcune parti di sasso,
senza intonaco, nella prossimità di un paio di abbaini. Come avrebbe avuto modo di capire meglio in seguito,
esisteva una parte più moderna, abitata dalla proprietaria, e una parte molto antica, praticamente abbandonata, se
pur completamente arredata con mobili molto vecchi. In conclusione, alla distanza dal centro faceva da contrappeso
la grande quantità di spazio; e, in certa misura, anche la strana atmosfera del genere “castello avito con fantasma”.
Ramon la prese, la richiesta di un rapporto completamente “in nero” era ampiamente prevista, cioè esattamente
quanto si aspettava. Si accedeva alla sua sistemazione da una porta separata, una piccola porticcina sulla strada,
accanto a quella ufficiale, ben più ampia, della padrona. Uno dei patti era appunto di non travalicare la divisione tra
le due zone. Una volta entrati, c'era un piccolo atrio di cotto bolognese, rossastro ed estremamente consunto, con
avvallamenti e protuberanze. A destra una stanza da letto, a sinistra una cucina grande, rettangolare, longitudinale
rispetto all'entrata. Nella stanza da letto campeggiava un letto di in legno, di una altezza incredibile, si faceva persin
fatica a salirvici, con rete dura e materassi di lana ormai infeltrita e compattata che formava una base durissima e
anelastica. Il legno era vecchio ma lucido, di un marrone scuro fino quasi a toccare il nero. I cigolii. Un vecchio
armadio lungo una parete, di un legno completamente diverso, rovere probabilmente, più chiaro, due ante, qualche
cassetto.
Lasciata la camera da letto, Ramon analizzò bene la cucina. Su una parete del lato corto, un'ampia finestra; la cosa
singolare è che non ci si arrivava a vedere fuori, serviva a vedere il cielo, anche se per arrivare ad affacciarvisi
c'erano due alzate che ti portavano a salire un po'. Una porta, in cucina, si apriva su un minuscolo giardinetto
abbandonato, recintato da alte reti metalliche e pieno di erbacce. Sulla parete opposta al finestrone, una tavola di
marmo incassata nella parete, con sopra un fornello e sotto una bombola di gas. In mezzo, per il lungo, una grande
tavola di legno, e diverse sedie. Qui dunque Ramon avrebbe dovuto capire cos'è l'Italia, e cos'è la filosofia; e l'un
problema non sembrava più banale dell'altro.
§ 2 – Ramon scopre l'arcivernice. La curiosità, come dice Vico, è figlia dell'ignoranza, ma è madre della scienza. Da
cui si dovrebbe trarre la scienza discende direttamente dall'ignoranza, sacrosanta verità che molti dimenticano. Sta
di fatto che il nostro Ramon era ragazzo curioso, con i suoi vent'anni pieni di brio. E così usci nel cortiletto incolto,
e scoprì una piccola porticina, contro la parete di pietra, chiusa da un vecchio lucchetto. Il senso etico e la curiosità
di cui si è detto si diedero ampia battaglia, ma alla fine il lucchetto fu rotto. Alcuni passi verso il basso, lungo
gradini di pietra, senza corrimano, nell'odore di muffa e di pareti di terra, e Ramon giunge in una piccola stanza,
dalle pareti incerte e irregolari. Con una candela ci si poteva vedere. Cianfrusaglie ovunque. Vecchi arnesi di lavoro
agricolo, rugginosi. Ammassi di tessuti mangiati dai più vari roditori. Un baule. E, dentro al baule, un barattolo,
piuttosto grande, ben visibile, e una scritta: “Arcivernice
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L’arcivernice: Socrate e le leggi ad personam
(seconda puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-socrate-leggi-adpersonam-seconda-puntata-4025778866.shtml
“Tu Socrate, pur potendo fuggire, non ti sottraesti alla condanna, seppure ti fosse stata
inflitta ingiustamente... Ma non è forse giusto, quando i giudici sbagliano, trasgredire
alle leggi, e sottrarsi a una non meritata condanna?”.
§ 3 – Ramon scopre i poteri dell’arcivernice.
Naturalmente il desiderio di aprire quel barattolo si fece subito strada prepotentemente.
Ramon lo portò sul tavolo della cucina, e per quanto il legno del ripiano portasse chiaramente i segni delle sue mille
battaglie, distese un giornale aperto a doppia pagina per ripararlo da eventuali schizzi; poi si procurò un coltello, ne
trovò uno nel cassetto del tavolo, e con quello fece leva sul coperchio, che, ben conficcato, costituiva una chiusura
ermetica. Con un po’ di sforzo la latta cedette, e il coperchio saltò via di colpo, ricadendo sul giornale, adagiandosi
sulla parte interna, quella intrisa di liquido. Ramon, che aveva sperato in un colore sgargiante, da utilizzarsi per
qualche suo ritocco, vide con grande delusione che il liquido era del tutto trasparente, una specie di copale. Subito
dopo, afferrò il coperchio e lo girò in modo che non macchiasse il giornale. Qui il nostro lettore deve sapere che il
giornale, uno dei quotidiani più diffusi, di cui non sono tuttavia autorizzato a fare il nome, era aperto proprio
sull’inserto della cultura, e su un articolo che recensiva una riedizione del “Critone”. Sollevando il coperchio, Ramon
vide la più classica delle icone di Socrate, scura per il liquido cosparsole sopra. Il giornale era vecchio, e già letto,
poco importava in fondo. Ma presto avvenne qualcosa non facile da spiegare, se non al nostro lettore ipocrita,
quello che ci ha seguito fin qui proprio per potere giocare con noi. Sta di fatto che le linee, dapprima piane,
cominciarono a invadere la terza dimensione, e le masse solo intuite nel piano ad assumere consistenza plastica
nello spazio euclideo. E a crescere, crescere, fino alla forma definitiva di Socrate, forse uomo o forse ectoplasma,
ma vivo nello sguardo acuto e pacifico a un tempo. La prima reazione di Ramon fu naturalmente quella del terrore,
e il suo passo indietro fu quasi un balzo. Ma quando Socrate gli chiese pacatamente “Perché fuggi?”, con una voce
nitida e lenta, Ramon si riscosse; respirò molto profondamente, fin nel pieno della cassa toracica, non di gola, e si
sentì pervaso di una certa tranquillità. Non aveva forse fatto duemila chilometri per studiare filosofia? E quale
occasione più ghiotta, quale accadimento più grande avrebbe mai potuto occorrergli, se non quello che gli si offriva
davanti, se pur sorretto da chissà quale diavoleria? E in fondo, cosa importava quale fosse la ragione, la spiegazione
scientifica, ammesso che ce ne fosse una?
§ 4 – Oi nomoi
Da dove cominciare? Che chiedere, per sfruttare quella situazione irripetibile? Quel giornale aperto... “Il Critone”.
Così, per associazione di idee:
“Tu Socrate, pur potendo fuggire, non ti sottraesti alla condanna, seppure ti fosse stata inflitta ingiustamente...”
“Certo, ragazzo, e credo di avere bene spiegato il perché. Anzi, meglio di me lo ha spiegato un mio discepolo,
Aristocle dalle ampie spalle, persona senza dubbio promettente negli studi filosofici, e più volonteroso di me nello
scrivere. Tanto che penso sia destinato a farsi un nome”.
“Ma non è forse giusto, quando i giudici sbagliano, trasgredire alle leggi, e sottrarsi a una non meritata condanna?”
“Il giudice non siede per sottomettere la giustizia al favore, ma per giudicare i casi che gli stanno dinanzi; e ha
giurato, non di favorire chi gli sembri, ma di decidere secondo le leggi. Avrei dovuto io uccidere le leggi secondo le
quali avevo vissuto oltre settant’anni, nelle quali ero stato educato, e con le quali avevo educato i miei figli?”
Ramon si rese conto che Socrate gli avrebbe replicato gli argomenti del “Critone”. Ora era ormai completamente a
suo agio, e da persona di fervida fantasia qual era, decise di sfruttare al massimo l’occasione:
“Che ne pensi tu, Maestro, di un governante che modificasse le leggi per suo privato tornaconto?”
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L’espressione di Socrate si fece corrucciata, le rughe della fronte apparvero più evidenti, e il suo sguardo si
rabbuiò.
“Ma chi potrebbe mai concepire una malefatta del genere? Non lo ritengo plausibile, nemmeno sul piano puramente
ipotetico. Significherebbe avere in dispregio tutti i propri simili, la stessa società in cui si vive, significherebbe
uccidere le leggi. E, morte che fossero le leggi, significherebbe infine il ritorno allo stato ferino, all’aggirarsi di
bestie pronte a scannarsi a vicenda”.
Ramon era da poco in Italia, come s’è detto, ma, innamorato delle cose italiane, era abbastanza informato, dagli
articoli di El País e di El Mundo. Provò a sintetizzare alcuni casi: il lodo Alfano, il processo breve, il processo lungo.
Provò a spiegare i compiti della figura dell’avvocato, mettendo in risalto le diversità rispetto al logografo dei tempi
dei Greci; e, con non poche difficoltà provò a spiegare come un avvocato potesse essere al servizio di un imputato e
al contempo partecipare a scrivere le leggi. Ecco, quest’ultimo punto costituì forse la fatidica goccia:
“Quello che tu mi dici non potrebbe accadere nemmeno in Tessaglia, dove la classe politica è la più corrotta. Non
riesco a immaginare un futuro per una società che accetta cose come quelle che mi dici. Ma forse stai scherzando, e
ti burli di me? E in questa terra, di cui favoleggi, non ci sono forse filosofi, e cittadini onesti, che possano porre fine
a questo scempio?”
“Qualcuno vorrebbe, Maestro, ma vedi...”
Qui Ramon si rese conto che spiegare bene il porcellum, il monopolio dei media, il disfacimento sistematico
dell’insegnamento al pensiero critico, e tutto il resto, era compito che travalicava di gran lunga le sue forze; e
abbozzò un triste sorriso
“Lo sapevo che scherzavi. Una terra così non può esistere; non durerebbe dieci anni”.
La figura si smaterializzò lentamente, quasi che ogni molecola riprendesse la via della figura di carta, sul giornale
ormai asciutto. Ramon si lasciò andare su una sedia, pensoso ed esausto. Dentro di sé si disse: “Forse potrebbe
durare anche diciassette”.
L’arcivernice: Una madonnina fosforescente
(terza puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-madonninafosforescente-terza-puntata-4026661653.shtml
“Guardò Ramon allora una statuetta, una madonnina fosforescente. Usata mezzo secolo
fa. Pensò allora che il mondo era fatto di stanze, di alberi, di odori e di giardini. Ma poi
ebbe lo straniamento. C’era davvero, là fuori, quella madonnina?”.
Ramon era frastornato. Troppo input. Continuava a guardare gli oggetti, quasi senza vederli, di quella strana
stanza. Quell’odore di antico, coinvolgente e gradevole insieme, un misto dell’odore della muffa, del muschio, del
sottobosco fungino, degli aghi di conifera accumulati. Quelle forme essenziali, lineari, quasi cubiste dei mobili di
una volta. Quei pochi oggetti, quasi sovraimposti, come in una pittura metafisica. Nulla di più, nulla di barocco.
Guardò Ramon allora una statuetta, una madonnina fosforescente. Usata mezzo secolo fa. Pensò allora che il mondo
era fatto di stanze, di alberi, di odori e di giardini. Ma poi ebbe lo straniamento. C’era davvero, là fuori, quella
madonnina? E di che colore era? E dov’erano i colori, erano là fuori, nel mondo esterno, o erano nella retina, o in
nessuno dei due posti? Che cos’è un “colore”? Fisicamente, un’onda con una certa ampiezza e una certa frequenza.
E dunque dov’è? Nel mondo della meccanica razionale, nelle tre coordinate euclidee più il tempo; o nella mia mente?
Nel flusso della Erlebnis, o “là fuori”?
Ramon non voleva un mondo in bianco e nero; né un mondo senza colori. Ma poi, come fa una cosa a essere senza
colori? E allora, l’esistenza e l’avere colore si coimplicano, almeno estensionalmente? Controprova. Esperimento
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mentale: prova a generarti una rappresentazione senza colori. La diafanità del trasparente è pur sempre un colore...
Caravaggio la saprebbe dipingere, infine.
Il modello di Marr funzionerebbe senza i colori? Come, nel secondo passaggio, individuare le profondità, come
individuare gli assi di simmetria delle superfici?
Ricominciamo, si disse. Là fuori ci sono alberi e montagne, ruscelli e conigli. Oppure onde elettromagnetiche? Di
cosa ho evidenza? Al bar riderebbero, se andassimo a dire che ci sono onde e basta. Non desiderare la donna d’altri:
perché guardi le onde che provengono da mia moglie? Ma che bisogno c’è, allora, che la moglie esista davvero, non
bastano le onde?
Altro è la sensazione, altro la percezione. Le onde sono della sensazione. Ma cosa percepiamo e perché? In questo
contesto, che cos’è la prospettiva? C’è davvero, è nella sensazione o nella percezione? Qui vengono in aiuto, o forse,
complicano le cose, le qualità figurali di Von Erenfels. Che cosa vuol dire che il reggimento, che sta marciando, si
ferma? I primi soldati sono fermi, mentre tutti gli altri continuano a marciare. Ma allora cos’è che si ferma? Esiste il
reggimento? Esistono gli oggetti di ordine superiore? E se non esistono, come descrivere con il moto delle molecole
una cosa semplice semplice, che anche un bambino capisce, che “il reggimento si ferma”? Qui forse si può invocare
l’assunto olistico della Gestaltpsychologie; o forse è anche peggio. “Oggetto” non è pura datità materiale: la
coesione fisica essendo proporzionale alla forza applicata. Dunque gli uomini forti avrebbero più oggetti, perché più
sono le cose che potrebbero separare in pezzi... Serve allora l’haecceitas?
Ci sono cinque sensi, e poi c’è il senso comune, quello che li coordina. Guardo la tazza del mio caffè. Tocco una
cosa liscia, convessa, larga una decina di centimetri; assorbo un gradevole liquido caldo. Assumo allora che ci sia
uno stesso oggetto che è “visto”, “toccato”, “gustato”.
Perché i sensi non si compenetrano, non puoi usare un senso al posto di un altro: non puoi vedere i rumori o sentire
le immagini. Vedere i rumori...
Ci sono due tipi di persone che possono vedere i rumori. I pazzi e i filosofi. Ma anche Dante; a quale categoria lo
mettiamo in conto?
“parlare e lagrimar vedrai insieme”
Lettura materialista: vedi che Ugolino parla, perché muove la bocca e fa gesti. Lettura estetizzante, paradigma
Croce-Flora: zeugma.
Tutto questo, per continuare a sperare che ci sia un mondo solo. Anche se si dice in molti modi.
L’arcivernice: L’ars oratoria di ieri e di oggi
(quarta puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-ars-oratoria-ieri-oggiquarta-puntata-4027043651.shtml
“Schopenhauer non degnò Ramon di un’occhiata, e prese a leggere avidamente il
giornale”.
Con lo sguardo cattivo, spiritato. Così appariva Schopenhauer nel testo di filosofia che Ramon stava sfogliando.
Usare l’arcivernice su di lui? Era senza dubbio un rischio, il suo carattere aspro e misantropo non prometteva niente
di buono. Ecco, era ancora più sfidante, perché allora negarsi questo vizio?
Schopenhauer non degnò Ramon di un’occhiata, e prese a leggere avidamente il giornale. Dopo un po’ disse:
“Ciarlatani”.
“Chi, Maestro, chi sono i ciarlatani?”
“Dopo i soliti tre, dopo quelli dell’io-puro, dell’io-natura, del pittore abilissimo che dipinge con una tavolozza di tutti
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neri? Ma gli altri sono, tutti gli altri che nascondono se stessi dietro la maschera, quelli che non ammettono che
l’unica loro forza propulsiva è la loro smodata, immensa, incontenibile volontà di vivere”.
“Sì, d’accordo, ma, nel giornale...”
“Qui stanno scritte le frasi più incredibili. Che senso ha la cooperazione? Gli aiuti internazionali? Ad ogni aiuto
corrisponde un ritorno, un fine inconfessato, a volte persino palese. Perché di tanti popoli oppressi proprio quello
libico era meritevole di aiuto? Il vero, unico noumeno è la volontà, volontà che per sua natura vorrebbe darsi come
assoluta, come priva di limiti, e viceversa in questa modalità non si può dare. La volontà di vivere rappresenta
l’unica spinta vitale. Allora, nel cozzare contro quella, omologa e antitetica, degli altri, nel suo doversi limitare,
trova soluzioni di compromesso per autoconservarsi. Così persino l’amore, che appare prima facie il contrapposto
dell’egoismo, altro non è che il Wille zum leben della specie, la sua volontà di perpetuarsi. Così lo Stato, alla
continua ricerca dell’equilibrio delle volontà di tutti i singoli, in un tentativo di razionalizzazione di una dikaiosyne
distributiva giocata al ribasso”.
“Maestro, posso leggerti una cosa? Attento: ‘La insensibilità di Chi pensasse con aprioristici veti di impedire
soluzioni utili, reali, definitive ed attese a dimostrare esclusivamente la insopportabile distanza e la tracotante
diffidenza che, purtroppo, insistono tra detentori del potere e rappresentanti dello Stato esclusivamente formale e
cittadini comuni facenti parte unicamente dello Stato reale, è a terribilmente dimostrare quanto si pensi di poter
calpestare utilità sicure, vantaggi pratici ed attese popolari indilazionabili, coniugando la sussistenza di farraginose,
non più tollerabili ed insuperate, sterili pendenze, peraltro costose ed assolutamente carenti di vantaggiosi
riscontri, con soluzioni di immediatezza ed ovvia utilità. Con ciò è a significarsi quanto l’essere pateticamente
teoretici congiunga e faccia attanagliare il bieco conservatorismo di facciata, privo di efficacia e latitante di praticità,
concretezza e sensibilità alle contrastanti esigenze sia di taglio economico e finanziario statuali come anche alle
attese più sentite di milioni di cittadini indebitati e lacerati nella propria individualità personale e familiare’. Ecco,
Maestro, che cosa vuol dire?
“I ciarlatani come Hegel avevano un certo stile; la mancanza di limpidezza di pensiero era pur sempre
accompagnata da un tono, seppure erratico, fondato su un linguaggio forte e avvincente, anche se spesso
inutilmente pomposo, ma pur sempre corretto. Qui tu mi leggi parole in libertà: uomo corre campanile zucchero.
Vergogna!”
Schopenhauer si accarezzò con la mano destra i bianchi capelli bipartiti, arruffati sui due lati e molto radi nel
centro; l’occhio si fece più torvo ancora, lo sguardo asimmetrico; il labbro inferiore serrato, ineguale, tagliente.
Sprezzante, rientrò nella sua effige, e parve a Ramon che il pulviscolo che si andava dissolvendo, pur nella sua
forma sempre più rarefatta, si sforzasse di far perdurare il più possibile un’espressione di profondo disgusto.
L’arcivernice: Vivere per la morte (quinta puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-vivere-la-morte-quintapuntata-4027814359.shtml
“‘Maestro, perché dovrei pensare alla mia morte?’ ‘Ramon, ci pensi sempre e non lo
sai’”. Uno studente di filosofia riporta in vita i grandi pensatori del passato. Stavolta si
trova a colloquio con Heidegger.
Ramon era pentito. Mai e poi mai avrebbe dovuto osare tanto: non era pronto per Heidegger. Eppure la sua sfidante
curiosità aveva vinto sulla prudenza.
“Così tu puoi partire dalle categorie dell’essere, e ti diventa problematico il fondamento dell’individuo; oppure,
all’opposto, puoi partire dall’individuo, e non raggiungerai mai le categorie dell’essere. Ma in effetti tu sei dasein,
sei capitare hic et nunc, sei esserci e non essere, e all’essere puoi solo aspirare con ansia metafisica. Puoi scegliere
tra proprietà con infiniti individui, o individui con infinite proprietà”.
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“Maestro, io mi sento me stesso, mi sento autosufficiente quando ottengo ciò che voglio, io non so se ho bisogno
della trascendenza...”
“Io non ho parlato di trascendenza. Tu rimuovi la consapevolezza della tua finitudine, come tutti. Tu vivi nella
rimozione del vero problema, la coscienza della morte. La morte è sempre declinata al di fuori: ‘si muore, è morto’,
in un panorama entro il quale la propria morte non esiste. Nell’attesa, nel posporre, nel fare i conti con il tuo futuro,
tu vivi per la morte, mentre ne attui la rimozione. Solo perché morirai le tue scelte hanno un senso definitivo;
perché se tu fossi eterno tutto sarebbe inautentico. Così, tu hai coscienza solo della morte degli altri, della morte
come fatto altrui. Come in fondo ci consolava Epicuro. Come avere paura della morte, poi che essa è ciò che
necessariamente non incontreremo mai? Fino a che ci sei tu, non ci sarà la morte, e quando ci sarà la morte, non ci
sarai più tu”.
“Non c’è Feuerbach dietro a tutto ciò? Il perno di tutto non è la proiezione all’infinito del soddisfacimento dei propri
bisogni, l’istanza ‘dio’? Poteva nascere ‘Sein und Zeit’ senza ‘L’essenza del cristianesimo’?”
“La philosophia è per sua natura perennis, Ramon. Certo, il debito a Feuerbach va pagato, e chissà a quanti altri...
Da un lato, vedi, Hegel ha scoperto la dimensione storica dello svolgimento; dall’altro la teoresi si dà nell’eterno
presente. Pensa al terribile abbrivio di ‘Verità e menzogna’: ‘In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso
attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il
minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo: ma tutto durò soltanto un minuto. Dopo pochi
respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Quando tutto sarà finito, non sarà
avvenuto nulla di notevole’”.
“Hegel ha scoperto la dimensione storica della filosofia?”
“Non lo sai, Ramon? Non c’erano storie della filosofia prima di Hegel. Summule, quodlibetane, manuali sistematici:
teologia, ontologia, gnoseologia, etica, estetica. Hai mai visto un manuale di filosofia per i seminari, come la
filosofia la studiano i preti? E probabilmente alla fine la sanno meglio dei nostri laureati”.
“Maestro, perché dovrei pensare alla mia morte?”
“Ramon, ci pensi sempre e non lo sai”.
L’arcivernice: Il Natale di Ramon (sesta puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-natale-ramon-sestapuntata-4028204171.shtml
“Ma ecco, Maestro, qual è il Natale buono, quello vero?”. Uno studente di filosofia riporta
in vita i grandi pensatori del passato.
Natale, il nascere, il suo contrapposto, morire. Tutto il mondo, tutte le religioni, tutte le teorie celebrano “la nascita”,
magari anche solo l’anodino “big bang”.
La nascita è una necessità logica. Lo spiega bene Aristotele nei “Primi Analitici”: pena, il regresso all’infinito, o il
circolo vizioso.
Il mondo, piatto, con tutt’intorno il fiume Oceano. Ma perché sta su? “Perché è appoggiato sulla corazza di una
grande tartaruga”, rispose il saggio indiano.
Già. Ma perché la tartaruga sta su?
“Perché è appoggiata sulle spalle di un gigante”, rispose il saggio.
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“D’accordo, ma perché il gigante sta su?”.
“Perché è seduto su un enorme elefante”.
“Sì, ma come fa l’elefante a stare su?”.
E qui il saggio indiano disse: “Ma non potremmo cambiare discorso?”.
Ecco la necessità del natale.
Così pensava Ramon, sdraiato sul suo alto lettino, ancora facendo resistenza al risveglio che lo assediava con la luce
opaca del mite sole autunnale.
“Ma ecco, Maestro, qual è il Natale buono, quello vero?”.
E qui, svegliandosi ancora un po’, Ramon dovette rendersi conto che il Maestro non c’era. C’era solo la sua
cameretta. Ma con chi stava parlando?
Siamo tutti più buoni? Ma la bontà è un valore? Verso questo è tesa l’escatologia umana? O non muoiono forse
anche oggi migliaia di bimbi per fame? S’è fermata la guerra? Ramon, girati e dormi, qui al mondo è il solito casino.
Ma in fondo Aristotele ha ragione: senza primi principi, che cosa sapremmo, che cosa potremmo dedurre? E i primi
principi, dove li prenderemmo?
“In effetti, tutti gli animali hanno un’innata capacità discriminante, che viene chiamata sensazione. Ma ecco che
mentre in alcuni animali essa non lascia traccia, altri animali possono invece, una volta che la sensazione è passata,
conservare ancora qualcosa nell’anima.”
Fino a che, facendo tesoro dell’esperienza, gli animali superiori possono “cogliere l’uno nella molteplicità”. E questo
è un passaggio “noetico”, che passa attraverso il nous, l’intelligenza.
Non è un passaggio empirico: tu puoi ripetere la stessa esperienza mille volte, senza capire. Oppure puoi esperire
un fatto una sola volta, ed ecco che cogli l’universale, il primo principio. Ma un cominciamento ci vuole.
Buon Natale, da tutta Education 2.0, homo sapiens.
L’arcivernice: Ramon scopre un
(settima puntata) di Maurizio Matteuzzi
delitto
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-scopre-delittosettima-puntata-4029246977.shtml
“Io di solito facevo la parte di Socrate, ma quella volta impersonavo un filosofo eleatico,
a cui non ho voluto dare un nome”. Uno studente di filosofia riporta in vita i grandi
pensatori del passato. In questa puntata è a colloquio con Platone.
Le parole non dette, possono avere un senso? Qual è lo status ontologico dell’assenza? Giustamente Stumpf
propone l’esempio paradigmatico: “un paese senza montagne”. Come individuare meglio l’Olanda?
Se vedo un uomo con una gamba sola, quello che colpisce la mia percezione non è la gamba che vedo, ma quella
che manca. Ciò che manca assurge a principium individuations, a elemento determinante che distingue
quell’oggetto. Ma come può “ciò che non è” sostenere una semantica?
Ramon aveva dunque questi pensieri; e intanto, solo parzialmente in modo esplicito, si chiedeva chi avrebbe potuto
interrogare su una questione del genere. Sfogliò avidamente i suoi libri, ma non gli riuscì di trovare un’icona di
Parmenide, che ovviamente sarebbe stata la scelta più naturale.
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D’improvviso gli capitò sotto gli occhi un’immagine di Platone. Rimase lì per lì dubbioso. Platone, il grande,
l’immenso Platone. Ma che c’entrava Platone col nulla? Platone è filosofo del pieno e non del vuoto, pensò; è
l’inventore della spesa ontologica più grande di tutte. A Platone non bastava un mondo, ne volle due, oltre a questo
l’iper-uranio “ciò che sta al di sopra del cielo”. Altro che nulla. Ma poi Ramon rammentò la celebre affermazione di
Whitehead: “la filosofia occidentale non è altro che un seguito di note a pie’ di pagina ai dialoghi di Platone”; lì,
dunque, in quei dialoghi, ci doveva essere anche la spiegazione del nulla. Di corsa all’arcivernice!
A mano a mano che l’icona prendeva forma, Ramon, oltre che la mai scemata emozione, provava uno stupore
sempre maggiore: Platone era veramente a ragione detto “l’uomo dalle larghe spalle”: alto, fiero, con un fisico più
da lottatore delle arene dei leoni che di quelle del pensiero. Non era poi così incredibile che si fosse liberato dai
pirati durante il ritorno dalla Sicilia. Platone, ricco, nobile, proprietario delle terre dedicate all’eroe Accademo. A
Ramon venne in mente di come dovette sentirsi intimorito, a disagio, il giovane, diciottenne Aristotele quando il
padre Nicomaco lo portò alla presenza del sommo Platone, affidandolo al suo insegnamento, cui egli avrebbe
dedicato vent’anni della sua vita.
“Il ‘nulla’, Maestro. Cosa possiamo dire del nulla? Non è forse il nulla ‘ciò che non è’? E se il discorso vero è dire ciò
che è, non sarà dunque falso tutto ciò che diciamo del nulla?”
“Vero è il discorso che dice, di ciò che è, che è, e di ciò che non è, che non è”.
“Ma come si può dire il non-essere?”
“Quello che tu dici lo ha già detto il grande Parmenide eleate. E ha scoperto una grandissima verità. Ma io ho già
spiegato in che modo e in che termini essa va ripensata”.
Qui Ramon ebbe un attimo di scoramento. Non conosceva ancora abbastanza i ventisette dialoghi di Platone, ne
aveva letto, sì, qualcuno, ma non gli veniva in mente un gran che sul nulla. Alla fine si risolse di ammettere
implicitamente la sua ignoranza.
“E dove, Maestro, dove l’hai scritto?”
“Nel ‘Sofista’, mio caro; dialogo che ci impegnò, assieme al ‘Teeteto’ e al ‘Politico’, per molte sere nelle caldi estati
ateniesi. Dovemmo rappresentarlo più e più volte, perché la materia era ostica”.
“Rappresentarlo?”
“Certo. Non capisci che era il nostro modo di studiare, di ragionare? Ognuno degli allievi più vecchi doveva
sostenere un ruolo, mentre i più giovani trascrivevano. E magari la sera dopo si replicava scambiando qualche parte.
Ignori tu forse che si tratta di dialoghi? Io di solito facevo la parte di Socrate, ma quella volta impersonavo un
filosofo eleatico, a cui non ho voluto dare un nome. Socrate, che in quella occasione era una parte secondaria, lo
affidavo spesso a Speusippo, che non se la cavava poi male.
A Ramon si stava aprendo un mondo. Non ci aveva mai pensato. Ecco come si studiava all’Accademia, ecco il perché
della forma dialogica. Si immaginò Platone che assegnava le parti: “Tu questa sera fai Teeteto, attento a ragionare
come lui”. Il teatro scorreva nelle vene dei Greci...
“Maestro, ma perché non gli desti un nome, all’Eleate?”
“Perché il suo destino era quello di compiere un delitto”.
Ramon era confuso. Non riusciva a farsi un’idea.
“Un delitto? Possibile?”
“Già; e non un delitto qualsiasi, ma uno dei più gravi: il parricidio”.
“E... questo delitto poi l’ha compiuto?”
“Certamente. Andava fatto. E chi meglio di un eleate poteva portarlo a compimento? Andava fatto perché eravamo
rimasti prigionieri, e tutti ci dovevamo liberare. Il grande padre Parmenide ci aveva lasciati, senza speranza, in un
mondo privo di moto e di cambiamento. Eravamo fissi, impietriti, senza che potesse accadere qualcosa, senza che
qualcosa cambiasse, senza che potesse sbocciare un fiore. Tu capirai che questa è la somma delle torture: l’eternità
davanti a noi, tutta uguale, per sempre. Persino il dolore sarebbe stato meglio. L’essere è fermo, fisso nei suoi
stretti legami. L’essere è, il non essere non è, senza alcuna mediazione, senza alcun commercio, senza alcuna
interazione dialogica. Era la morte del logos, il fuoco eracliteo imprigionato come prima di Prometeo, indomito e
sofferente, senza potersi dare pace, nella gabbia dell’essere e del nulla. E così avrebbe avuto buon gioco Gorgia, in
quanto scrive in ‘Su ciò che non è, ovvero sulla natura’. Ecco dove ci aveva condotto il grande padre Parmenide, nel
disvelarci l’essere. Ecco allora che l’Eleate matura il dovere morale del parricidio: il padre Parmenide va ucciso”.
Un po’ affascinato e un po’ esterrefatto Ramon ascoltava, pendendo dalle sue labbra.
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“Non sempre il nulla non è. Questa è l’arma del delitto. Vi è il nulla assoluto, di cui non si può predicare
sensatamente nemmeno l’inesistenza: è un nulla che non può essere ypokeimenon, non può assumere il ruolo di
soggetto di predicazione, non può essere legato alla copula: quello è il nulla parmenideo. Ma poi c’è un nulla nel
logos, un nulla che brucia, che arde in mille forme diverse. Un nulla non parmenideo”.
“Un nulla che esiste?”
“Vedi ragazzo, vedi bene: tu sei più piccolo di me. Come ti chiami?”
“Ramon, signore”.
“Ebbene, ora io dico che Ramon non-è alto come Platone. Sei d’accordo?”
“Certamente”
“Ma io di Ramon ho detto che non-è. Ho predicato il non-essere di Ramon?”
“Mah...”
“Vedi bene che tu non hai cessato di esistere, per quanto la mia affermazione fosse vera. Tu non sei entrato a far
parte del non essere assoluto parmenideo, del quale peraltro nulla può far parte. È tuttavia pur vero che tu non-sei
alto come me. Che cosa non-sei? Tu non sei come altezza di due metri, ma evidentemente, per un altro verso, sei.
Non sei forse Ramon? E dunque, il logos, quello vero, appena detto, il discorso che abbiam fatto e su cui abbiamo
convenuto, contiene un po’ di non-essere... Ma si può suddividere, fare parti, fare a fette il non essere? Vedi bene
che è assurdo”.
Qui Ramon stava ben comprendendo, sperimentandola di fatto, tutta la maestria con cui Platone esercitava, nei
dialoghi, l’ironia e a maieutica socratiche: era stato portato allo stordimento.
Ora era pronto al tirar fuori, al cercare in sé, nell’anamnesi, con altri occhi. Aveva perso i pre-giudizi, ed era nudo
con la sua sola ragione, in attesa dell’ultimo aiuto del maestro perché si compiesse lo scatto finale.
“Quando io dico che A non è B, non intendo dire che A non è, non voglio gettare A nella buia gora del non essere
parmenideo; il quale, impenetrabile, anziché assorbire, rigetta tutto. Quel che voglio dire è semplicemente che A è
diverso da B. Altro è il predicare la diversità, altro il non essere. E tuttavia l’essere diverso partecipa del non essere
lo stesso-di, diverso è il non eguale. E noi abbiamo bisogno di un mondo diseguale, in cui l’acqua dei fiumi possa
scorrere, gli alberi crescere, e Achille raggiungere le tartarughe”.
L’effetto dell’arcivernice scompariva in fretta, come Ramon aveva già ben capito. Il Maestro si rarefaceva in un
luccicante pulviscolo di molecole a mezz’aria, sempre più evanescenti. Ramon aveva imparato che c’è nulla e nulla,
che c’è un nulla fisso nei suoi ferrei legami, su cui si stende il decreto eleatico di intangibilità e di ineffabilità, guai
toccare il suo frutto avvelenato, peggio della mela suggerita dal serpente; e c’è un nulla più innocuo, più
plasmabile, che brucia ma non fa male; e decise in cuor suo che doveva subito leggere “Il Sofista”.
L’arcivernice: Finito e infinito (ottava puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-finito-infinito-ottavapuntata-4029641783.shtml
“La testa girava un poco. Difficile era entrare nel paradiso di Cantor...”. Uno studente di
filosofia riporta in vita i grandi pensatori del passato. In questa puntata è a colloquio
con l’ideatore della teoria degli insiemi.
Ramon, ancora frastornato dall’incontro con Platone, stava richiudendo il barattolo dell’arcivernice, pensoso e
maldestro; tanto che, in modo del tutto distratto, d’istinto, diede qualche pennellata alla prima immagine che gli
capitò di vedere, quasi in trance, e solo riavendosi realizzò che quella era l’immagine di Georg Cantor. “Oddio,
pensò Ramon, ritornato al reale, oddio, non sono pronto per Cantor, non sono pronto per dialogare con l’ideatore
della teoria degli insiemi!”. Ma non poteva farci più niente, l’arcivernice aveva già sortito il suo effetto. Il pizzetto
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bianco, i baffi invece ancora scuri, l’aria decisamente impettita, Cantor si stava già materializzando di fronte a lui.
Tutto quello che Ramon sapeva dai suoi studi era che Cantor aveva fondato la moderna teoria dell’infinito in senso
attuale. Molto poco per fare proficuamente domande. E tuttavia doveva non sprecare l’occasione, data la
impossibilità di richiamare una seconda volta gli stessi personaggi. Non si poteva sprecare l’occasione. Così si
lanciò:
“Maestro, dimmi dell’infinito”.
“Già con le primissime avvisaglie del pensiero filosofico l’uomo rivolge la sua attenzione all’infinito. Già con la
scuola ionica, con i primi allievi di Talete. Anassimene pone il principio di tutto, l’arché, nell’aria infinita, l’ ápeiron
aér., l’aria indefinita. Poco dopo, Anassimandro parla direttamente dell’infinito tout court, to áperion. Anche in
greco il concetto è intrinsecamente difettivo, è definito per negazione del finito: ápeiron, letteralmente ‘che non ha
confini’, che non ha limiti. Dunque anche ‘illimitato’, o, in altra accezione, ‘indeterminato’”.
“L’infinito è dunque negativo?”
“Per un greco in un certo senso sì. Forse lo puoi cogliere bene dalla storia dell’arte. Pensa al paradigma classico:
l’impianto ben determinato della rappresentazione pittorica, sempre in un certo senso ‘triangolare’, con un centro
di attenzione ben definito che tende a coincidere con il centro della figura. Pensa agli edifici simmetrici, al tempio
greco, o alle basiliche paleocristiane. Per non parlare degli edifici a pianta centrale”.
“E invece l’infinito...”.
“E invece l’infinito è trasgressione del canone, è negazione del centro, è fuga dai vincoli... È il ‘Monaco in riva al
mare’ di Friedrich contrapposto al ‘Cenacolo’ o alla ‘Gioconda’. In un dipinto ‘classico’ tu tracci le diagonali del
rettangolo, e trovi nell’intersezione la cosa più importante. Per cogliere appieno il senso della questione bisogna
partire dal ‘divieto aristotelico’, da quanto è scritto nel terzo libro della ‘Fisica’. Lì, in stretta coerenza con la sua
dottrina della potenza e dell’atto, Aristotele distingue tra un infinito potenziale e uno attuale. Nel primo caso noi
siamo di fronte a quantità finite, che tuttavia possono crescere oltre ogni possibile valore predeterminato; nel
secondo, viceversa, fronteggiamo infiniti oggetti tutti in una volta, tutti dati.
Ora, la conclusione che Aristotele ne trae è molto netta: sul piano scientifico, non abbiamo alcun bisogno
dell’infinito in atto, che si presenta, come minimo, problematico, se non addirittura aporetico, ma ci basta quello
potenziale. Nemmeno il matematico, che ha a che fare con la più astratta delle discipline, ha bisogno dell’infinito in
atto: il geometra avrà bisogno non tanto di una retta infinita, quanto di potere prolungare un segmento tutte le
volte che vuole, ossia oltre ogni limite prefissato. Cioè dell’infinito in potenza. Avendo tuttavia sempre davanti a sé
un numero finito di elementi”.
“E invece...”.
“E invece di là dal divieto, rispettato da quasi tutti i pensatori per oltre 2200 anni, c’è un paradiso tutto da scoprire,
e sono ben lieto che c’è chi l’ha chiamato il ‘paradiso di Cantor’. L’infinito può essere matematizzato, esso, anche
nella sua forma attuale, di infiniti oggetti tutti dati e compresenti, può essere oggetto dell’indagine della nostra
ragione. Lungo questa via si dischiude la visione, non solo dell’infinito, ma di tanti infiniti, di una catena infinita di
infiniti, l’uno ‘maggiore’ dell’altro...”.
“Che senso ha, Maestro, dire che un infinito è più grande di un altro?”.
“E difficile, ragazzo. Vedi, devi vincere i tuoi pregiudizi per capire. Il fatto è che, per gli insiemi finiti, lo stare dentro,
cioè, per esprimersi più correttamente, l’essere inclusi, comporta una minore numerosità. Così se l’insieme degli
italiani è incluso in quello degli europei, l’insieme degli europei sarà più numeroso di quello degli italiani. Per
l’infinito non è più così. Prendi l’insieme dei numeri naturali: 1, 2, 3… e quello dei numeri pari: 2, 4, 6… È evidente
che il primo include il secondo, ma non viceversa: ci sono infiniti elementi del primo che non sono nel secondo.
Dunque, secondo il senso comune, il primo insieme dovrebbe essere più numeroso del secondo. E d’altra parte,
segui il mio ragionamento. Non è forse vero che ogni numero naturale ha esattamente un suo doppio, che
appartiene al secondo insieme, essendo pari? E non è forse vero che ogni numero pari è il doppio di esattamente un
numero naturale? E allora cosa ci trattiene dal concludere che gli uni sono ‘tanti quanti’ i secondi?”.
Questa considerazione, del tutto ovvia e persino banale lasciò Ramon in un profondo stupore. Eppure il
ragionamento non faceva una grinza.
“Dunque Maestro nell’infinito una parte può corrispondere al suo tutto...”
“Precisamente Ramon. Altri, precisamente il grande Dedekind, hanno caratterizzato l’insieme infinito proprio così,
come entità riflessiva, ossia che può essere fatta corrispondere a una sua parte propria. Questa non è la mia via per
definire l’infinito, e tuttavia merita considerazione. L’essere-minore-di e l’essere-incluso-in, che al finito coincidono,
si scollano all’infinito e diventano proprietà separate, per cui si può dare che, sotto una certa accezione, non è più
vera quella che per secoli era stata considerata come una verità autoevidente, che il tutto sia ‘maggiore’ della parte”.
“Ma allora, Maestro, tutti gli infiniti sono uguali?”.
“No, Ramon, non è così. Proprio rifondando l’equivalenza in cardinalità sopra il concetto di ‘corrispondenza
biunivoca’, possiamo ben convincerci che vi sono infiniti ‘più grandi’ di altri. È questo quello che considero il mio
risultato più interessante, il così detto teorema fondamentale, o teorema dell’insieme potenza. In sintesi, prendi
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l’insieme dei punti di un segmento: esso sarà di numerosità infinitamente più grande dell’insieme dei numeri
naturali, non potrai mai mettere gli elementi dell’uno in corrispondenza con quelli dell’altro. Ci sono più punti in un
segmento di quanti siano gli infiniti numeri naturali. Per dirla un po’ più tecnicamente, l’infinito continuo trascende,
e va al di là, del semplice numerabile”.
Ramon era esterrefatto. Ma come, in un segmento ci sono infinitamente più punti di quanti siano i numeri, tutti i
numeri naturali? La testa girava un poco. Difficile era entrare nel paradiso di Cantor... Si ricordò che già Leibniz,
nella “Dissertatio de arte combinatoria”, ricorda come per Cardano vi fossero più tipi di infinito. Scoramento, da un
lato, ma, dall’altro, poteva ben dire a se stesso... “il naufragar m’è dolce in questo mare”.
L’arcivernice: “Lontanando morire a poco a
poco” (nona puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-lontanando-morire-pocopoco-nona-puntata-4030614423.shtml
“Quest’uomo aveva parlato con il Re Sole, con il Papa, con Pietro il Grande”. Uno
studente di filosofia riporta in vita i grandi pensatori del passato. In questa puntata è a
colloquio con Leibniz.
“Il punto è, vedi, Ramon, che il linguaggio fonetico non è composizionale. Tu prendi ‘casa’ e ‘caso’: ci sono ben tre
parti coincidenti, ma non c’è alcuna relazione tra i due significati. Impossibile dunque applicare qui il ‘calculemus’”.
“Ma come altro si potrebbe fare, Maestro?”
“Prendi una qualsiasi ideografia; l’aritmetica, per esempio. Prendi ‘1765’ e ‘1785’. Tu potrai dire che ci sono le
stesse migliaia, le stesse centinaia, le stesse unità, ma diverse sono le decine. Vedi che il segno si porta con sé le
parti del significato?”
Il naso importante, la parrucca lunghissima, ma nera, non bianca, non da nobile, nera della classe borghese, seppur
la più elevata. Quest’uomo aveva parlato con il Re Sole, con il Papa, con Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie; aveva
disputato alla pari con Newton, con Oldenburg, coi Bernoulli, aveva benedetto Gabriele Manfredi come genio
matematico. Aveva inventato il calcolo infinitesimale, la calcolatrice meccanica, corretto i cartesiani nei fenomeni di
movimento, attraverso l’introduzione dell’energia cinetica. E ora era lì, calmo e rigoroso, seppure impettito nel suo
singolare abbigliamento da cortigiano di lusso. A Ramon tremavano i polsi: che cosa si poteva chiedere a questo
ipertrofico dell’intelligenza? Ramon non se la sentiva davvero di addentrarsi nel cuore del pensiero leibniziano, delle
formule, del disegno di rendere calcolabile la verità.
“Maestro, tu ti sei sempre considerato un grande autodidatta. La scuola è inadeguata? Come dovrebbe essere una
scuola ben fatta?”
“Non abbiamo minimamente l’intenzione di abbattere la disciplina politica nelle professioni, che ha seguito
piuttosto la convenienza dell’insegnamento che l’ordine naturale.”
“Dunque c’è un ordine fondativo e c’è un ordine didattico?”
“Assolutamente sì. Tu non potresti dire a un bambino che la metafisica, per cominciare dal punto più alto, tratta sia
dell’ente, sia delle affezioni dell’ente: come però le affezioni dei corpi non sono corpi, così le affezioni dell’ente non
sono enti. Ma questa sete deve formarsi da sé, dal di dentro, dopo che il bambino ha toccato con mano che le cose
a un dipresso funzionano”.
“Ma allora va bene l’approccio attraverso il trivio e il quadrivio: prima prendi atto di qualcosa che funziona e poi
assurgi ai massimi interrogativi.”
“Tu hai letto il ‘Discourse de la Méthode’, Ramon?”
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“Non ancora, Maestro, ma ho intenzione di leggerlo quanto prima.”
“Il Cavaliere Descartes ha avuto l’educazione migliore possibile, da vero nobile: al collegio di La Flèche, dai Gesuiti.”
Ramon colse non dirò un astio, ma un certo malcelato sarcasmo in quel “da vero nobile”; Leibniz non era nato
nobile...
“Leggi bene il primo capitolo: Cartesio si vanta di essere stato uno degli allievi migliori, pronto anzi per diventare, a
sua volta, professore; eppure, conclude, non ha imparato nulla; o, meglio, non ha imparato la verità. Non dalle
lettere, per le quali bisogna essere portati, e non si imparano; non dalla filosofia, perché i filosofi dicono tante cose
bellissime, ma tutte diverse, mentre la verità è una sola; non dalle matematiche, se non il metodo, perché applicate
a questioni che non interessano. Nemmeno, qui Cartesio fa una affermazione piuttosto compromettente per
l’epoca, nemmeno dalle scienze occulte, che pure ammette di avere indagato... E, pure, quello era uno dei migliori
collegi di Francia.”
Ramon era confuso, stranito. Mai una distruzione della scuola era stata più categorica. E a parlare erano,
all’unisono, due dei più grandi pensatori di tutti i tempi.
“Che vuoi dire, Maestro? La scuola va buttata via forse?”
“No, vedi Ramon, il discorso è più complicato. Ci sono epoche storiche in cui la vera cultura si fa a scuola, ed
epoche in cui il vero sapere è espunto dalle Accademie.”
“Cosa vuoi dire, Maestro?”
“Nelle epoche di grandi cambiamenti, di rivoluzioni scientifiche e culturali, la scuola rimane indietro, e i veri grandi
pensatori vengono rifiutati. Prendi l’epoca mia. Cartesio non fu mai accademico, anche se per sua scelta (non aveva
certo bisogno di lavorare, come ci spiega lui stesso); e Spinoza? Fu addirittura perseguitato come eretico di ogni
religione. Prendi il sottoscritto, ‘si parva licet componere magnis’: la mia ‘Dissertatio de arte combinatoria’ non mi
valse la cattedra a Lipsia, che mi fu negata. A Galileo l’Università di Bologna, ma proprio quella antica università,
preferì il Guglielmini, che pure era idraulico valente. Anche se poi Galileo potè insegnare a Padova, non senza le
difficoltà che ben sai...”
“Continua, Maestro”.
“La cultura vera, la scoperta della geometria analitica, l’ideazione del calcolo infinitesimale, cui pure io
modestamente ebbi un ruolo, la fondazione newtoniana della fisica moderna, la rivoluzione astronomica,
l’invenzione del microscopio in Olanda, e così via, insomma: tutto l’impianto della scienza moderna avvenne fuori, e
non dentro l’Accademia. E questo è tipico di quando il sapere corre, e va troppo avanti, lasciando indietro,
‘perdendo per strada’ si direbbe, l’insegnamento ufficiale, quello della scolastica, della peggiore replicazione
mnemonica di un Aristotele inautentico, che si continuava a compitare nelle aule.”
“Ma oggi, Maestro, saremo messi così, in mano ai burocrati, lontani dal vero sapere?”
Qui Ramon cercò di spiegare, citò i nomi e le riforme attuali, cercò di essere chiaro e sintetico, per quanto possibile.
“Caro ragazzo, non conosco costoro. Solo una battuta sugli indici bibliometrici come strumento di valutazione delle
persone. Consentimi di autocitarmi: ‘scripsi innumera et de innumeris, sed edidi pauca et de paucis’. Probabilmente
non mi prenderebbero nemmeno oggi.”
“Già. Ho letto che il fondo leibniziano di Hannover consta di circa 150.000 pagine. Com’è possibile che tu abbia
scritto tanto… è incredibile!”
“Vedi Ramon, scrivere è un bisogno, come pensare. Nei lunghi mesi per raggiungere la Russia, ad esempio, tu non
immagini quanto io abbia scritto.”
“Ma allora, Maestro, oggi stiamo sbagliando tutto?”
Già gli abiti da cortigiano e la nera, lunghissima parrucca, si presentavano ormai come la dissolvenza di certa
tecnica cinematografica. Il naso importante era svanito, ma Ramon sperò di udire un’ultima battuta, che tuttavia non
venne. Anche se a Ramon parve di udire, confusamente, un lontano, flebile “sì”…
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L’arcivernice: “Antistene, la ricchezza e la crisi
economica” (decima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-antistene-ricchezza-crisieconomica-decima-puntata-4031180319.shtml
“Grande, immensa è stata la figura di Socrate, ragazzo; ma anche oggetto di altrettanto
grandi mistificazioni”. Uno studente di filosofia riporta in vita i grandi pensatori del
passato. In questa puntata è a colloquio con Antistene.
Ecco, Ramon non sapeva proprio chi era. Antistene? Mah. Pensò di andare su Google, e farsi un’idea. Ma perché
affidarsi a Google, se lui aveva l’arcivernice? E fu così che si lanciò.
Apparve una figura macilenta, dalla barba incolta, dalle vesti non curate. Prima che Ramon potesse proferire parola,
Antistene stesso parlò:
“Grande, immensa è stata la figura di Socrate, ragazzo; ma anche oggetto di altrettanto grandi mistificazioni”.
“Chi ha frainteso Socrate, Maestro?”
“Chi, se non Platone e i suoi ‘accademici’?”
“Mah... Non è stato forse Platone il migliore interprete di Socrate? Socrate non scrisse niente, fu Platone a
tramandarci il suo insegnamento”.
“Così credono tutti. Ma questa è la visione dei ricchi. Dimmi, ragazzo, quando mai Socrate ha parlato di un
sopramondo, dell’iperuranio?”
“Non saprei, Maestro. Ma nel Fedone... io certo non c’ero.”
“Io sì; e ti sciolgo l’enigma: mai e poi mai. Il Fedone l’ha scritto Platone, non Socrate, ricordatelo. Socrate non
parlava di “idee”, ma delle cose reali. E Platone gioca sporco, gli fa dire quello che non ha detto mai. Tanto che
quando gli rivolsi la celebre domanda, “Platone, questo è il cavallo, ma indicami ora la cavallinità”, egli non seppe
rispondere che in modo confuso. E io verso di lui ho messo a frutto quanto appresi dal grande Gorgia da Leontini, di
cui fui allievo, prima che di Socrate.”
“Ma Gorgia si faceva pagare. Dunque anche tu sei un ricco? Perché ti contrapponi a Platone?”
Antistene si accarezzava la barba, pensoso. Ma come mai costui non capiva?
“Ragazzo, ma non capisci che il pagare è il modo per rendere tutti uguali? Perché l’alternativa è essere diversi per
nascita. Come nelle cariche pubbliche: se sono gratuite, solo i ricchi possono occuparle.”
“A dir la verità, non l’avevo mai vista da questo punto di vista. Dunque tu, Antistene, ritieni che Socrate sia stato
frainteso, come svisato, da Platone?”
“Certamente, caro. Il vero Socrate è quello della sua etica, non quello delle fantasticherie del sopramondo. È quello
che rifiuta gli onori, rifugge dall’effimera gloria degli scritti, è quello cui basta l’essere in armonia con la natura, non
con le goffaggini degli uomini. È il Socrate che disprezza il valore mercantile delle cose, e a cui basterebbe, per
vivere bene, una botte entro cui ripararsi nella notte.”
Ramon pensò che dunque esistevano due linee di lettura dell’insegnamento socratico, l’una aristocratica, l’altra
quasi “proletaria”. La seconda, attraverso Diogene, e poi Zenone, confluirà nella Stoà. La linea vincente, Socrate,
Platone, Aristotele. Quella perdente, Democrito, prima di tutto, dei cui oltre trecento trattati non rimane nulla,
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quella di Gorgia, di cui rimangono solo pochi brani riportati in seconda battuta, quella dei Cinici. Molto, molto più
complicato di come scrivono i manuali di filosofia...
“Ma, Maestro, dimmi allora, che cos’è, e di chi è, la ricchezza?”
“L’aria e l’acqua, di chi sono? Non son forse di tutti?”
“Ma il frumento che mi dà la focaccia non è forse di chi ha piantato il seme, e l’ha coltivato?”
“Ma la madre terra non è forse di tutti?”
“La terra sì, Maestro, ma il lavoro delle braccia e dei buoi, e lo sforzo d’irrigare, e la raccolta, la trebbiatura... Non è
giusto che un uomo possa raccogliere i frutti del proprio lavoro?”
Qui Ramon ebbe un dubbio. Avrebbe dovuto citare Locke, e le lettere sulla tolleranza. Avrebbe dovuto parlare di
quali siano i diritti inalienabili per il liberismo. Ma come poteva, con un filosofo di duemila anni prima? Ma fu
Antistene a toglierlo d’impaccio:
“Tu mi stai gettando in faccia il diritto a godere del proprio lavoro come fondamento della proprietà privata; cioè il
fondamento del liberismo.”
“Ma tu come puoi, Antistene, sapere queste cose?”
“Le so perché sono in me.”
Ramon stava facendo uno nuova scoperta, che lo lasciva allibito. Ma come, Antistene conosceva Locke, Ricardo,
Marx? Ma che senso aveva? D’altra parte, che senso aveva l’arcivernice? Le particelle del passato muovono
all’infinito, nell’universo in espansione. Le immagini di Bruto e di Cassio che pugnalano Cesare stanno viaggiando
da oltre duemila anni, i loro fotoni non vanno mai persi, così come ogni immagine, ogni azione fatta sulla terra. E
viaggiano alla velocità della luce, verso lidi lontani. “Non potrò mai cancellare i miei peccati? - pensò disperato
Ramon - Per sempre, il passato è scritto nell’universo?”
Aveva urgente bisogno di parlare con Lavoisier, con Maxwell, con Einstein. Pensò che aveva l’arcivernice, e che lo
avrebbe fatto.
“Spiegami allora, Antistene. Tu rifiuti il ‘pactum unionis’ di Hobbes? Meglio ‘homo homini lupus’?”
“Il ‘pactum unionis’, Ramon, è legato al ‘pactum sunbiectionis’: io rinuncio a una parte della mia sovranità, a favore
di qualcun altro. E costui diventa il monarca, il dominus, che decide fin sulla mia vita. Ti pare l’unico modo civile di
andare avanti?”
Ramon avrebbe voluto chiedergli della crisi, dell’equità, della giustizia. Ma Antistene in pochi secondi scomparve..
L’arcivernice: “L’arcivernice fa cilecca”
(undicesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-arcivernice-facilecca-undicesima-puntata-4031678893.shtml
“Ramon fece così una scoperta…: non poteva richiamare nessuno per una seconda
volta”. Continua il mistero dell’arcivernice, che questa volta, però, “fa cilecca”.
Chi aveva ragione, Antistene o Platone? Qual era il vero Socrate, quello etico, dimesso, rigorosissimo nel suo ieratico
distacco, o quello delle idee in sé, del sopramondo, di quell’iperuranio che sta al di sopra del cielo?
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Ramon era molto perplesso; ma era anche fiducioso, aveva l’arcivernice. Che problema c’è? Basta chiederlo a lui, no?
Ramon tornò all’immagine di Socrate, e, con delicatezza, rispalmò quella figura camusa e austera con un po’ di
arcivernice.
Nulla.. L’immagine diventava più scura, madida, ma neutra, morta, inerte. Nulla.
“Socrate, perché non mi dici chi ha ragione, chi ti ha capito, Antistene o Platone?”
Ma Socrate era di carta, carta bagnata, che non prendeva forma. Ramon fece così una scoperta, che gli provocò
dapprima stordimento, poi angoscia: non poteva richiamare nessuno per una seconda volta.
Ma perché mai? D’altra parte, l’arcivernice stessa non era un mistero, e dei più inspiegabili? Ramon aveva la
configurazione mentale dello scienziato. Come andava a buon fine questa ricerca iconica, questo raggiungere nello
spazio infinito i fotoni dei Grandi che si allontanavano alla velocità della luce nell’universo in espansione?
E qui cominciò a capire una cosa, che l’arcivernice non resuscitava i morti, non riportava alla vita nessuno. Faceva
solo in modo che la sua materia, qui e ora, venisse in contatto con un’altra materia, di molti anni prima, ancora
organizzata chimicamente in un eterno passato. E questa singolarità poteva accadere una tantum, sotto
determinate, ma ben specifiche, condizioni.
Si rammaricò allora di tutte le domande non fatte a chi aveva già incontrato, e che non avrebbe potuto rincontrare
mai più, se non nei libri di storia. Non aveva chiesto a Leibniz delle monadi, ad Heidegger del tempo... Quasi gli
vennero le lacrime agli occhi.
Da un lato, si ripromise di agire con più attenzione, e di preparare bene lo schema delle cose fondamentali che gli
bruciavano dentro, prima di tornare a evocare un grande pensatore. Dall’altro, si ripromise di aggredire meglio il
mistero dell’arcivernice ricorrendo ai grandi della scienza. Forse Maxwell, o Einstein, potevano aprire una breccia
nella roccia del mistero.
Ma per questi incontri non era ancora pronto, doveva studiare di più.
L’arcivernice: “La felicità” (dodicesima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-felicita-dodicesimapuntata-4032377305.shtml
Ramon si confronta, in questa puntata, con la domanda delle domande, quella che,
prima o poi, tutti gli uomini si fanno: che cosa è la felicità? Quando una vita può dirsi
felice? La felicità è una questione privata, o ha risvolti sociali? Questa volta, però, senza
bisogno dell’arcivernice…
Andare, vagare per le strade, godere dello schiaffo cromatico delle insegne, immaginare il calore dentro ai bar, dove
pochi avventori schiamazzavano, nella scarso afflusso dell’ora di cena.
Ramon si sentiva felice. Curiosa situazione, questa, pensò. Felice perché? Ecco, qui stava il punto: spesso per la
felicità non c’è un perché. Così come, simmetricamente, per la depressione non c’è un motivo preciso, ma a essa
concorrono tanti piccoli particolari, alcuni persino subliminali.
L’aria fresca di un inverno assai mite entrava copiosa nei polmoni. Aria, pneuma, anima, spirito, soffio vitale, che
cosa entrava dentro a ogni passo? La vita, forse. Un passante che gli veniva incontro lo urtò, di spalla. Possibile che
ci sia gente che non ha coscienza di dove finisca il proprio corpo?
Ora il punto è: l’uomo è fatto per la felicità? O la felicità è piuttosto un punto limite, che si tocca senza mai
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possederlo del tutto, un punto improprio, un punto di fuga, un qualcosa che puoi solo accarezzare senza mai
stringere?
“Eudaimonia”: essere guidati da un buon demone, da uno spirito giusto. Ecco l’aggancio con l’etica: felicità privata,
tratta dalla propria soddisfazione, o benessere nel sentirsi opportunamente collocati nel mondo, per fare, per avere
fatto quel che si deve?
Eudaimonia come disinteresse, come egoismo, come atarassia, o eudaimonia come impegno, come atteggiamento
morale, come essere in pari con il mondo? Come soddisfacimento dei bisogni o come superamento degli stessi?
Felicità come stato intellettuale, come “epoché” (astensione del giudizio)...
Gli Stoici, gli Epicurei, gli Scettici, quante felicità diverse. L’eudaimonia aristotelica, che si delinea come il giusto
mezzo, la distanza dalle esagerazioni del poco e del troppo; o eudaimonia che potrebbe realizzarsi anche senza il
mio tornaconto personale, come per Kant.
Il guaio è, pensò Ramon, proprio questo: l’uomo è un animale sociale, “zòon politikòn”, e così la questione si
complica enormemente; la felicità non può racchiudersi tutta entro il proprio “particulare”. In un certo senso,
Latouche è buon interprete di Epicuro. Per un altro verso, il demone non ci lascia mai sopiti, ce l’abbiamo dentro: è
il pensiero. Non possiamo sospendere il pensiero, tutt’al più possiamo pensare di non pensare. E questo tarlo non ci
lascia mai. Ecco allora che non possiamo accettare la felicità degli idioti, il benessere per inconsapevolezza
conclamata.
Con questi confusi pensieri che si affastellavano gli uni sugli altri, Ramon ora procedeva a rilento, non trotterellando
più lungo la strada. E gli venne in mente Geremia Bentham, e la sua idea del maggior utile per il maggior numero
possibile di persone. Era forse questa la felicità ripensata in termini sociali? O la sua essenza era piuttosto nel diritto
al cercarla, come sancisce la dichiarazione d’indipendenza degli Stati d'America?
E, senza bisogno dell’arcivernice, risentì dentro di sé il narrato di Erodoto, come se lo sentisse parlare: quando
Creso, dopo avere mostrato a Solone tutte le sue sterminate ricchezze, ebbe a chiedergli se avesse mai incontrato
qualcuno che certamente fosse il più felice di tutti. E Solone, senza indugiare, gli rispose che sì, che l’aveva
incontrato:
“Tello di Atene, o re”.
E Creso, stupito:
“Perché mai pensi che Tello sia il più felice?”
“Per prima cosa Tello, mentre la sua città era prosperosa e fiorente, ebbe figli belli e buoni e a tutti loro vide nascere
i figli e tutti gli sopravvissero; e inoltre ebbe una fine, mentre la vita era generosa con lui, per quanto ci sia
consentito, ottima: avvenuta infatti una battaglia per gli Ateniesi contro i confinanti Eleusini, corso in aiuto e messi
in fuga i nemici, morì in modo splendido, e gli Ateniesi lo seppellirono proprio là dove cadde, a spese dello Stato, e
lo ricoprirono di tutti gli onori”.
Già. Il bilancio della felicità si può fare solo alla fine. Ramon concluse che doveva fare molte domande, e a molti
maestri.
E chissà se l’arcivernice gli sarebbe bastata...
L’arcivernice: Ramon, Poirot e il “modus ponens”
(tredicesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-poirotmodus-ponens-tredicesima-puntata-4032717330.shtml
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In questa puntata, Ramon incontra Hercule Poirot, il famoso investigatore creato dalla
penna di Agatha Christie. Quanta logica serve per risolvere un caso? E quanto intuito?
Esiste un modo per arrivare a conclusioni logicamente certe? O di Poirot c’è ne è uno
soltanto?
In fondo anche il divertimento è un diritto, a una certa età. Così pensava Ramon. Stava valutando se fosse il caso di
usare un po’ di arcivernice per potere incontrare un personaggio che lo aveva sempre affascinato, ma certo non
aveva trovato nei libri di filosofia: Hercule Poirot.
Fin da ragazzino, aveva coltivato la passione per i thriller, e Agatha Christie era da sempre il suo autore preferito.
L’atmosfera di Londra dei primi del secolo scorso, le carrozze e le prime automobili, l’efficienza dei treni, gli
ambienti aristocratici o altoborghesi, ovattati e formali... Gli sembrava incredibile come tutto in fondo funzionasse a
dovere, anche quasi cento anni fa, e, in fondo, quasi come adesso, ma entro una scansione di ritmi meno pressanti,
come se uno potesse assaporare meglio il fluire della vita e gustarne tutto l’aroma.
Tuttavia, era combattuto dai sensi di colpa. L’arcivernice non era infinita: a quale grande filosofo avrebbe dovuto
rinunciare per togliersi questo sfizio? Mentre era nello stallo di questa ansiogena decisione, avvenne un fenomeno
quasi inspiegabile, in un certo senso “pavloviano”: fu la sua mano a decidere per lui, e, con gesto sicuro e deciso,
posò il pennello sulla copertina di “Murder on the Orient Express”.
Il gilet con l’orologio da taschino, le ghette, i curatissimi baffetti, lo sguardo penetrante... Poirot aveva
progressivamente preso forma. Ma com’era possibile, come poteva prendere vita un personaggio immaginario? Ma
forse se un personaggio è stato così compiutamente caratterizzato dalla mente umana... D’altra parte, pensò
Ramon, era ben lungi dallo scoprire quali arcani e misteriosi poteri racchiudesse l’arcivernice. E poi un altro
problema si mostrava più impellente: come si comincia una conversazione con Hercule Poirot? Ma qui l’imbarazzo di
uno sconcertato Ramon venne subito meno:
“Eh bien, monsieur...”
“Ramon, s’il vous plaît.”
“C’è qualcosa che vuole chiedere a Hercule Poirot?”
“Ebbene sì, monsieur. Lei parla spesso
quanto l’intuito, nel risolvere un caso?”
delle
sue
‘celluline
grigie’.
Ma
quanto
entra
la
logica,
e
“È un discorso difficile, mon ami. Sono necessarie entrambe le cose, e secondo un ben preciso schema. Il fatto è
che, di fronte a un quesito complesso, la logica da sola non basta. Non perché sia insufficiente in se stessa, ma
perché le condizioni d’insieme sono troppo povere per permettere il ricorso a una inferenza valida. Cercherò di
spiegarmi meglio. Di solito noi abbiamo dei fatti, e abbiamo delle implicazioni. Ma queste implicazioni non si
legano in modo naturale entro un ragionamento lineare. Poniamo che A sia l’enunciato ‘Il sig. Smith è l’assassino’.
Poniamo anche che il sig. Smith sia stato trovato accanto al cadavere, con in mano un coltello insanguinato, e sia
questo l’enunciato B. Noi allora vorremmo concludere che ‘Smith è l’assassino perché è stato trovato accanto al
cadavere con un coltello insanguinato’. Ma questo è un ragionamento fallace. Noi sappiamo che vale A → B, cioè, ‘se
Smith è l’assassino allora si deve essere trovato nei pressi con un coltello insanguinato’. Ma quanto sappiamo è B,
non A. Il costrutto a cui vorremmo giungere ha la forma logica: A → B, ma B, dunque A. Ma questo è un errore
logico: lo schema di inferenza valido sarebbe
A
ma
dunque B
→
B
A
Questo è un ragionamento valido. Anzi, il prototipo del ragionamento valido: è quello che gli Stoici chiamavano
‘primo anapodittico’, i logici medievali ‘modus ponendo ponens’, o più semplicemente ‘modus ponens’, e i logici
moderni chiamano ‘rule of detachment’, o ‘regola di separazione’. Ma questo non è il caso nostro: noi sappiamo B,
non A. Non è solo A che può spiegare B: poniamo che il sig. Smith stesse tagliando della carne, e avesse in mano un
coltello insanguinato; sente delle grida, accorre, trova un cadavere. Ecco, non è solo A che può spiegare B, Smith è
innocente.
L’indagine allora considera altri fatti. Ad esempio, sia C il fatto che Smith aveva un movente. E qui si verifica di
nuovo la stessa situazione: A → C; ma C. E di nuovo non possiamo dedurre A. Possiamo continuare finché vogliamo,
aumenteremo la probabilità, ma non raggiungeremo mai la certezza.”
“Sembra che siamo in un cul de sac...”
“Mais non, mon ami. Questo è solo l’inizio dell’indagine. Allora le celluline grigie si devono porre una domanda: che
cosa manca alle mie premesse perché la conclusione divenga deducibile? È questo il processo che Peirce chiama
‘abduzione’: avvengono nella teoria alcuni fatti ‘sorprendenti’, fatti inspiegabili rispetto alle premesse. E qui scatta
l'intuito: che cosa manca perché diventino spiegabili i ‘surprising facts’? Avrà notato, monsieur Ramon, la grande
attenzione che Hercule Poirot ripone nei minimi particolari, a cui gli altri non danno importanza. Un gesto strano,
degli occhiali con una correzione sbagliata, che quindi non sono quelli di chi li porta, il fatto che un tale viene
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presentato come amico da un altro, eppure egli chiede una sigaretta a Poirot e non al suo supposto amico, la
circostanza che qualcuno dichiara di non conoscere qualcun altro ma invece... Una stonatura, insomma: come in
una sinfonia, uno strumento che non si accorda con l’orchestra. Ed è lì che l’intuito gioca il suo ruolo: qual è la
premessa che manca, e che spiegherebbe tutto? Ed è questo che indirizza l'indagine.”
“Detto così sembra semplice...”
Poirot guardava fuori dalla finestra, le cime degli alberi ancora brulli, e con la mano destra si toccava i baffetti. Poi si
voltò verso Ramon, con gli occhi scuri e penetranti, e quel suo tipico sorriso affettato, appena abbozzato.
“Se fosse semplice il mondo sarebbe pieno di Hercule Poirot. Mentre lei dovrebbe sapere, mon ami, che... il n’y a
qu’une seul Hercule Poirot…”
L’arcivernice: Ramon e Cartesio (quattordicesima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-cartesioquattordicesima-puntata-4033511379.shtml
“Tu credi in Dio, Maestro?”. In questa puntata, Ramon decide di porsi la domanda più
impegnativa di tutte, quella che riguarda l’esistenza di Dio e la vita dopo la morte.
Come interlocutore, sceglie “l’elusivo, l’affascinante” Cartesio: “Un mondo senza Dio è
irrazionale, un mondo con un Dio tiranno è riprovevole. Prega, ragazzo...”.
A chi chiedere se esiste Dio? In fondo, questa è la domanda delle domande, spesso inconfessata. Molti, i più, la
mascherano sotto le specie di molte sottodomande parziali: esiste il giusto in sé? Esiste l’anima? C’è qualcosa dopo
la morte? Chi non ha giustizia in questo mondo l’avrà in un altro? Tutte queste domande sono segno di
vigliaccheria, sono la ritrosia, il pudore, per porsi la domanda delle domande. E questo perché?
Perché, di fronte all’immane compito di questa decisione, il meccanismo di difesa consolidato è l’ironia, nella
società efficientista; altro è di fronte alla malattia fatale, o sul letto di morte. Là dove cessa il sarcasmo e prevale la
lucidità dell’angoscia. Filosofia vuol dire prima di tutto coraggio: a dispetto del “rispetto umano”, questo è il punto,
e di fronte a questo non si può arretrare: Dio esiste? Ramon non era un vigliacco; troppo facile, ma troppo
deludente, rimuovere e tornare a un difettivo concreto. Ma chi poteva gettare luce, chi evocare?
Era troppo chiaro che cosa avrebbe detto San Tommaso, o Karl Marx. A chi chiedere un barlume di luce? Forse Kant,
che da un lato smonta la prova tomista e quella di Sant’Anselmo, dall’altro apre altri spiragli, meta-spiragli… Per
ogni autore a cui Ramon pensava, si prefigurava un esito scontato. Finché a Ramon venne un’idea. Si doveva
ricorrere a un filosofo di cui non si sapesse veramente la risposta, un filosofo ipocrita.
Chi più adatto, chi meglio di Cartesio? Dell’elusivo, del falso, del geniale, dell’affascinante Cartesio? Che cosa
pensava davvero Cartesio, in che cosa credeva? Che cosa avrebbe detto e scritto se non ci fosse stato, in
contemporanea, il processo a Galileo? Ecco a chi chiedere, al Signor delle Carte... Sgombriamo il campo da ogni
“morale provvisoria”, da ogni compromesso con la Santa Inquisizione. Parliamone qui, in un Paese libero (?) e
democratico (?)...
Il Cavalier Descartes vestiva di nero, da nobile ma nel modo meno appariscente possibile, la spada al fianco a
testimoniare il suo ceto, il naso aquilino, senza la parrucca dei cortigiani, la testa alta, altera, i capelli in un
razionale disordine, l’occhio vivo e indagatore.
“Tu credi in Dio, Maestro?”
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“In Dio, in quale Dio, che cosa vuol dire ‘Dio’? Di un certo Dio c’è bisogno, ragazzo, se no sarai solo per sempre. Ce
la puoi fare, ragazzo, a pensare che la tua ragazza è un androide, che non c’è pensiero dentro, che tutto, fuori di te,
è macchina inconscia? Questo è il prezzo da pagare, sei pronto?”
“Allora Dio c’è...”
“Quale Dio? Prendi le prove di Tommaso. Io non potevo usarle, avevo distrutto il mondo dei sensi. Ma ammettiamole
pure, per amore di discussione. È certo infatti, ed è provato dai sensi, che a questo mondo alcune cose si muovono.
Ora, tutto ciò che si muove è mosso da altro. Risalendo di movimento in movimento, dobbiamo fermarci a un primo
motore in grado di muovere se stesso. E questo chiamiamo ‘Dio’. Ma è di un motore che abbiamo bisogno? Il
passaggio sta tutto qui: dal costrutto logico che smonta il regresso all’infinito, e lo riconduce all’assurdo, arriviamo
a un moto primo. Lo stesso è per la causa, e per altre vie. Abbiamo bisogno, razionalmente, di una causa prima. Ma
vedi, ragazzo, c’è un passaggio subdolo, sottinteso, che è il punto della questione. Un motore, una causa, sono
‘persone’? Che cosa giustifica il passaggio dal motore alla ‘persona’? Chi ci garantisce che la ‘persona’, con la sua
volontà, il suo intelletto, il suo ‘deliberato consiglio’, sia quel moto, sia quella causa prima? Siamo sicuri che la
‘persona’ sia la più alta forma di vita? Non sarà, questa, l’ennesima concessione a un inconfessabile
antropomorfismo? Altro è la forma anselmiana, l’idea di perfezione, inconcepibile come non ente. Vanificata con il
dubbio metodico la conoscenza sensibile, a me non rimaneva che la prova ontologica, la necessità intrinseca
dell’idea di perfezione di esistere ‘ex statuto’, per non essere imperfetta, ovvero per non essere se stessa, cosa
vietata ad alcunché, per non mancare di qualcosa. La perfezione poi garantisce l’esistenza degli altri, la credibilità
della ‘res extensa’, il fatto che la tua donna non sia un robot.”
“Allora tu credi in Dio, Maestro.”
“In un Dio che è perfezione; del quale non ho garanzia che ‘voglia’, che ‘capisca’, che ‘scelga’. Dal modo, dalla
causa, dalla perfezione, non discende l’essere ‘persona’. Tutto ciò di cui siamo certi è che un cominciamento è una
necessità razionale. Altre vie sono contraddittorie.”
“Ma è un Dio che io posso pregare... Posso dire ‘Pater noster’.”
“Fai quello che ti senti, ragazzo. Il mio Dio mi garantisce l’esistenza degli altri, l’adeguatezza dei mezzi di
conoscenza, la via d’uscita dal solipsismo cosmico, dalla solitudine agghiacciante di essere pensiero solo, puro,
delirante. Questo chiedo a Dio, e mi basta. Tu credi quello che vuoi, e prega quello che vuoi. A me, quello che dà è
sufficiente, mi fa recuperare gli alberi e le montagne, i miei simili, e gli sono grato. È questo che gli chiedo e gli
sono grato. Di più non so. Non saprei dire se ha una volontà, un intelletto, un’emotività separate e coese. Dio
persona? Può darsi. Dio come principio che vede in noi una monotona, lenta, inutile, fila di formichine vanamente
laboriose, per fini risibili, inutili e trascurabili? Forse anche. Perfetto: ma che vuol dire ‘perfetto’? Persona? Magari sì.
‘Sed contra’: se siamo vermi piatti, non vedremo mai la terza dimensione: c’è qualcosa oltre la ‘persona’, di più
perfetto ancora, di più cogente, più razionale? Forse, e allora il dialogo è impossibile.”
“Ma allora, Maestro, posso dire un ‘Pater Noster’...?”
“Forse. Un mondo senza Dio è irrazionale, un mondo con un Dio tiranno è riprovevole. Prega, ragazzo...”
L’arcivernice: La concretezza del sapere
(quindicesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-concretezza-saperequindicesima-puntata-4034054349.shtml
“Ramon comprese che, al di là di ogni fuga astrattiva, si doveva tornare al concreto, dopo
il viaggio edenico nelle ontologie regionali: il qui e ora era impellente”. In questa
puntata, Ramon riflette sul rapporto tra filosofia e mondo concreto, tra il cane, oggetto
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della scienza, e il cane concreto che scodinzola e abbaia. E questa volta, senza
arcivernice.
Qualcuno ricorderà che la finestra di Ramon era molto alta. Si potevano vedere le cime degli alberi e il cielo, ma non
il mondo sottostante, come il brulichio degli uomini. Metafora del destino, forse, dell’obbligo di guardare sempre in
alto, dove il transeunte non era rappresentabile.
Così era la filosofia, un “theorao”, un “guardare tutto intorno da sopra”? A questa idea Ramon si ribellò: e del resto
bastava uno sgabello, bastava alzarsi un po’, per vedere il giardino, spelacchiato dall’inverno, e qualche raro essere
umano che proseguiva su una via segnata da chissà quali obiettivi. Ma proprio questo era il punto: porsi problemi
filosofici, i massimi dei problemi, prescindeva dal concreto, forse?
Non così la pensava Ramon.
L’astrazione è una fuga verso il cielo, certo, è la selezione sempre più accorta sulla rilevanza dei predicati. Così per
passare dal cane reale a quello della biologia si devono mettere in parentesi tanti predicati, che il cane abbia fame, o
che sia a pelo duro. Mentre il cane che scodinzola davanti a me, che esiste, ha la sua fame, la sua precisa altezza, il
suo pelo, con la sua consistenza e il suo colore. Che farsene dei glaciali predicati rilevanti, del freddo della loro
assenza di vita, di oggetti in definitiva morti, non più individui ma universali, terrei e cerulei sui lettini dell’obitorio
dell’essere?
Bisognava pure ritrovare la via del ritorno al concreto, a questo mondo, al vissuto, dove le gote possono diventare di
nuovo rosate, nella “Erlebnis” che dà corpo agli scheletri, perché non si muovano per sempre nel mondo dei morti.
Ma come tornare al concreto, dove trovare il coraggio di gettarsi senza paracadute dalle altezze proibitive della
suprema astrazione, giù giù verso il cane che ha un colore, che ha il corpo caldo, rispetto al cane della biologia, che
un colore non ha, ma ne ha una gamma, un’altezza non ha, perché ne ha un intervallo (da… a…)?
È questo il compito del senso comune, l’oggetto dell’empiria, o della scienza se si vuole: nel darsi con i suoi
predicati, necessari, scientifici, come resistente, prepotentemente vivo, avverare o falsificare ogni suo predicato.
Allora l’albero, di cui dall’alta finestra di Ramon si vedevano solo i rami spogliati dall’inverno, ecco che si dava come
“resistente”, come portatore di infiniti predicati. E quell’albero, quell’olmo secolare, non si dava come solo
biologico, né come solo chimico, né solo fisico, né solo geometrico. Era un albero vivo, con i suoi prepotenti
attributi, con i suoi virgulti e le promesse delle sue prossime gemme.
Qui Ramon pensò alla “intionalität”, alla direzionalità del pensiero. Pensiero onnipotente quanto alla intenzionalità,
Ramon poteva dirigere la sua intenzionalità all’albero, o al suo cane, mentre il cane della biologia non scodinzola, o
alla moka che stava brontolando per segnalare che il caffè era pronto.
Ma l’albero poteva darsi come chimico senza essere fisico, biologico, senza essere geometrico? Evidentemente no. Il
qui e ora, e la resistenza dei suoi attributi, parlavano chiaro.
Ramon comprese che, al di là di ogni fuga astrattiva, si doveva tornare al concreto, dopo il viaggio edenico nelle
ontologie regionali: il qui e ora era impellente: “E come il vento odo stormir fra queste piante, io quello infinito
silenzio a queste voce vo comparando, e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e il suon di lei”; ma qui siamo, ci
siamo dentro…
L’arcivernice:
Ramon
conosce
Giulia
(sedicesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-conoscegiulia-sedicesima-puntata-4034733859.shtml
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“Inutile mentire, gli mancava Giulia. Che strano languore. Non era infelicità, anzi,
quasi tutt’altro; e tuttavia era vuoto, assenza, con la minaccia della privazione eterna e
definitiva. Il vuoto, la morte senza Giulia”. Dalla filosofia all’amore.
Dopo il Sofista, Ramon si era appassionato ai dialoghi di Platone. In una bancarella di libri usati, che aveva scoperto
sotto il “portico della morte”, aveva trovato vari piccoli libretti, li aveva comprati, e li stava leggendo con avidità.
Proprio con Gorgia, con il grande Gorgia, retore sopraffino, avrebbe voluto che Socrate si cimentasse. E invece,
quasi anche Socrate nutrisse una forma di sacro rispetto, nel momento in cui l’interlocutore era portato a
contraddizione con se stesso, Polo, l’allievo di Gorgia, prendeva il posto del Maestro. Era Polo a essere portato a
contraddizione, non il grande Gorgia.
Perché? Perché tanto rispetto per Gorgia? Non poteva, non doveva anche Gorgia essere messo alla berlina dalla
ironia, e dalla maieutica?
Strana festa davvero, quella cui l’avevano invitato. Ramon aveva il cervello intriso dei dialoghi che aveva letto,
prevalentemente quelli del ciclo contro i sofisti. Marcello, suo compagno di corso, gli si porse come contrapposto
antitetico, quando cominciò a sentenziare sul soggettivismo assoluto e sulla relatività del tutto. Che il “bello” fosse
opinabile, ancora ancora lo poteva seguire; ma il “vero”?
“Tutto è soggettivo, chi non lo capirebbe – diceva Marcello – se ciò che è la fuori, ammesso che ci sia qualcosa là
fuori, deve entrare in me, in qualche modo, allora deve per forza fare i conti con come sono fatto io”.
Laura, la padrona di casa, riccia, estroversa, saltava di qua e di là, accendendo le discussioni, provocando risposte.
Ramon era seduto sul lato corto di una grande tavola in legno, con Marcello alla sua destra, e Giulia alla sua sinistra.
Giulia: non aveva ancora proferito parola. Misteriosa biondina, occhi enormi, attenti, luminosi.
Che strana festa; ma se il gioco era questo, bisognava pur giocarlo. A Ramon venne in mente la scena del Teeteto.
Ma se ti si parasse di fronte il grande Protagora, ed egli ti dicesse che la conoscenza non c’è? E qui l’intuizione
geniale: questa affermazione si autodistrugge. Protagora, grande Protagora, tu che vuoi che il discorso, il logo,
divenga “orthòs”, corretto, tu Protagora, che neghi la conoscenza, come fai tu a conoscere? Tu, che neghi la
conoscenza, non ti proponi dunque, tu stesso, come colui che conosce? E non ti sei, così, contraddetto? Se non c’è il
sapere, come fai tu a saperlo?
Ramon aveva scoperto la “consequentia mirabilis”. E, malgrado qualche problema di lingua, ebbe buon gioco di
Marcello.
“Se la verità non c’è, questo sarebbe il vero, che la verità non c’è”.
Ramon, senza conoscere gli anapodittici degli Stoici, o il famoso passo di Euclide, senza la conoscenza formale del
principio di Clavius, aveva tuttavia capito una cosa importante.
Sentiva addosso il suo trionfo; ma più che altro guardava Giulia, sperava in un suo luminoso assenso. E invece tutto
rimaneva lì, come pietra. Giulia, bella, impenetrabile, indifferente. Difficile coinvolgerla; la sua risposta standard:
“dipende”.
Ramon le chiese di riaccompagnarla a casa. Preso, curioso, con una lieve sofferenza nell’animo. Ottenne il suo
telefono. Poi tornò a casa, e, sul letto, cercò di rilassarsi. Ma un vago languore, d’animo e non di pancia, lo assaliva
a ondate. Gli mancava qualcosa, non poteva rilassarsi. Quegli occhi grandi, quelle mani piccole, quei movimenti
felini. Inutile mentire, gli mancava Giulia. Che strano languore. Non era infelicità, anzi, quasi tutt’altro; e tuttavia era
vuoto, assenza, con la minaccia della privazione eterna e definitiva. Il vuoto, la morte senza Giulia.
Ramon capì che si era innamorato. E da lì si decise: Giulia doveva essere sua. Qualche incontro di tono intellettuale,
qualche allusione, la scoperta dei suoi interessi per l’arte e la psicologia, qualche sguardo di complicità. E infine il
successo.
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L’arcivernice: Deliri e allucinazioni. Giulia
dialoga con Freud (diciassettesima puntata)
di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-deliri-allucinazionigiulia-dialoga-freud-diciassettesima-puntata-4035400406.shtml
“L’Arcivernice c’est moi” avverte Ramon, citando la frase con cui Flaubert ha descritto il
suo protagonismo in Madame Bovary. Ma non si preoccupi il lettore: Giulia non gli
rapinerà l’Arcivernice. Ciò nonostante... Sentiamo un po’ quello che Giulia ci racconta.
La rivelazione che Ramon mi aveva fatto in una fase di stordimento effusivo, che da materia inerte come la pagina di
un libro si fosse ripetutamente potuta ergere, come il genio dalla lampada, una persona, ecco, adesso a mente
fredda mi dà un brivido da Dottor Frankenstein.
Che l’immaginetta si incarnasse, che fosse in grado quanto meno di dialogare e che perciò fosse dotata in qualche
modo anche di pensiero, per me è un’insidia. Io per vedere il buio voglio proprio che venga spenta la luce, e per
avere il silenzio, che basti stare zitti.
Ramon mi piace, ha solo vent’anni eppure manifesta una maturità di pensiero ragguardevole. Ma lo conosco ancora
troppo poco.
Sono indecisa: sarebbe utile, alla fine, chiedersi se quelle sue ripetute esperienze possano ricondursi alle teorie
scientifiche dell’allucinazione?
Là, nel mio gruppo disincantato e realista di novelli scienziati, il nostro supercomputer è capace di circa ventimila
miliardi di operazioni al secondo. Noi siamo in grado già di modellizzare la colonna neocorticale, per ora di un topo,
una struttura che - tramite un trenta milioni circa di sinapsi - collega qualcosa come diecimila neuroni di diverso tipo
dai vari strati della corteccia cerebrale. È la verità, siamo già in grado di riprodurre le percezioni e gli stimoli che il
cervello (per ora del topo) può ricevere dal suo ambiente e di osservare la conseguente formazione di nuove sinapsi.
E presto arriveremo a far luce sul punto più misterioso delle neuroscienze: come un’intelligenza umana, l’attività
della coscienza, il pensiero possano venir fuori da quell’intrico di neuroni. E quello mi parla di vernici che,
spennellate, darebbero una nuova vita alle piatte figurine incastonate in una pagina!
Non posso certo raccontarlo in giro: già i miei amici, conosciuto Ramon, e non sapendo nulla della vernice,
ridacchiando ogni volta mi sussurrano la frase di Voltaire: “quando colui che ascolta non capisce, e colui che parla
non sa cosa sta dicendo, questa è filosofia”.
E allora mi chiedo: è forse solo la consapevolezza scientifica che sa distinguere le immagini eidetiche
dall’allucinazione?
Se invece fosse vero, che la follia è matrice di creatività, che in tutti noi la follia esiste ed è presente come lo è la
ragione. Se, come scrive Basaglia: “Il problema è che la società […] dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la
follia, e invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia, allo scopo di eliminarla”?
Ramon è una persona davvero speciale; qui, nella sua stanza, ha creato un’atmosfera isolata e soffusa, calda, con
lampade, vecchie stufe, e un soffitto di travi antiche. Filosofia a parte, voglio dire. Oppure no... in questa stanza c’è
un’anima goethiana, romantica. Anche se guardandosi attorno spesso i miei amici motteggiano le parole di
Heidegger: qui il nulla nulleggia, in questa stanza c’è l’elemento onirico che fa pensare a Freud. C’è un mondo che
ti avvolge, chiuso, come lo è l’inconscio per definizione.
Freud... e se provassi? Il barattolo, ammaccato e rugginoso è lassù, e qui, in una fila di libri, c’è il volume che io ho
regalato a Ramon: Freud vi campeggia sulla copertina; posa per un busto davanti allo scultore Oscar Nemon, nel
1931 a Vienna. Qui Lui è già vecchio, è bello e serio. L’approccio al dolore, persone afflitte da mali di origine
traumatica, assilli tremendi e atrocità, ne ha già incontrate tante; da più di cinquant’anni pratica quella che ha
chiamato “la cura parlante”. Ha una faccia giusta per questo: sembra un uomo severo, ma io non ne ho paura.
Talento, eleganza, stile; con la sua psicoanalisi ha aperto immensi spazi nuovi.
Ha un fascino sorprendentemente moderno.
Chissà se l’amore per la scrittura, per i poeti, quella potenza narrativa valida per tutti, veniva fuori anche nel
parlato.
Con un moto automatico, tiro giù quel barattolo. Il pennello è lì accanto, e con un gesto scombiccherato per
l’emozione lo intingo e poi lo passo in fretta sulla fotografia. In un momento esplosivo tutto circondato di scintille,
Lui è lì redivivo, mi guarda proprio negli occhi, mi vede, si intruppa in un incontro con me, e allora tutto sale verso
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l’alto.
Avevo immaginato Ramon la prima volta, mentre balzava all’indietro per l’orrore. Questa persona invece, uscita
dall’immagine come una nuvola, sembra accogliere in sé ogni mia parte.
Da qui mi guida un istinto automatico: senza più pormi alcuna remora, mi affido a una felicità momentanea
assoluta.
“Professore - comincio così timidamente, poiché il suo sguardo sembra interrogarmi – che cosa rende possibile il
dialogo tra la propria parte razionale e la propria parte folle? Questa domanda offusca da un po’ la visione stabile e
chiara che mi ero fatta del mondo”.
“Sempre, ragazza, la scoperta della nostra follia segreta ci affascina e ci inquieta”.
“Ma esiste un ideale di normalità, Professore?”
“Lungi dal pensare la follia come la malattia di pochi, essa attraversa tutta la nostra vita”.
“È vero, allora, che la follia, il sintomo, sono testimonianze di un atto creativo che ci permette di vivere, nonostante
noi ce ne lamentiamo?”
“Il sintomo, ragazza, è quel qualcosa che ognuno si deve inventare per affrontare il dramma del proprio essere”
“Professor Freud, si sta allacciando alla sua celebre lezione numero sedici, il caso esemplare del giovane ufficiale
che era venuto da Lei per chiedere di prendere in cura la suocera?”
“Essa affliggeva la famiglia con una serie di ossessioni” risponde Lui lentamente, pensoso.
Ho ben presente la storia: nella scrittura straordinaria di Freud ballano i personaggi e gli elementi. Un anno prima
che il giovane si rivolgesse a Lui, era giunta alla suocera una lettera anonima.
“Nella lettera si accusava il marito di intrattenere una relazione con un’altra donna...”
“Il marito negava, e in effetti non intratteneva alcuna relazione” aveva scandito il Professore accennando un sorriso
arguto, e nei suoi occhi iniziava a serpeggiare una luce nuova.
“Ma nonostante ciò - io avevo proseguito sommessamente - la donna continuava a soffrire di quei deliri di gelosia.
Come far sì che l’idea delirante le si potesse estirpare? Il delirio è una costruzione ideativa che non ha riscontro
nella realtà. Non c’è farmaco al mondo in grado di eliminare il delirio!”
Per un momento avevo dimenticato di rapportarmi a quei tempi. La lezione numero sedici, se ben ricordo, viene
tenuta da Freud in due corsi, tra il 1915 e il 1917; ma è soltanto adesso che si è massificata la terapia
farmacologica.
“Che il farmaco non sia in grado di eliminare il delirio si dice oggi e si diceva allora”. Il Professore sembrava aver
tradotto il mio pensiero. Poi, con un fare ruvido: “Ma attenzione, ragazza, al delirio il paziente tiene più che alla sua
vita stessa!”
Già. Mi metto a pensare a quella donna, fissando un punto della parete, ecco il perché del suo sintomo, il suo delirio
di gelosia. La genesi del delirio era stata il suo stesso innamoramento nei confronti del genero, mostruosità per lei
insopportabile da gestire. Da lì lo spostamento, la costruzione dell’idea delirante. Il sintomo è lo strumento che si
costruisce per guarire. Ma allora i sintomi non si debbono estirpare. Il sintomo è indice di un processo di
guarigione, ecco perché cercare di toglierlo trova una resistenza fortissima da parte del paziente. E la follia è
dunque consustanziale all’essere umano.
“Se il trattamento medicale vuole estirpare il sintomo, il trattamento psicoanalitico lo utilizza, è vero, Professore?”
Sollevo gli occhi per avere da Lui un conforto a queste mie riflessioni, ma proprio adesso la sua persona va
sbriciolandosi…
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L’arcivernice: La linea e il circolo (diciottesima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-linea-circolodiciottesima-puntata-4036083105.shtml
In questa puntata, Ramon incontra Giambattista Vico, e con lui si confronta sul tema
dei cicli della Storia. “Perché gli uomini dapprima si rivolgono al necessario, poi in un
secondo momento individuano l’utile; ma, a questo punto, essi scoprono il comodo, la
dissoluzione nel lusso. E così si ha la regressione nella barbarie, da cui ricomincia un
nuovo ciclo”.
Di che cosa parlare con Vico se non della Storia? La Storia come progressione monotòna verso un fine ultimo, la
Storia come escatologia, come linea tesa da un inizio a una fine, o la Storia come inviluppo, alternanza di progresso
e regresso, come elevamento e ritorno alla barbarie?
“Nessuna delle due, figliolo: la Storia come spirale, come riavvilupparsi lungo la scansione di tre momenti, ma
rivissuti ogni volta a livello più elevato, poiché qualcosa di ciò che è stato buono nel passato rimane sempre; come
nei grandi crolli, dove una certa struttura, un certo particolare, una qualche opera d’ingegno si salva sempre.
“Ma perché, di tanto in tanto, tornare indietro, riaprire la gabbia perché esca la belva della barbarie?”
“Perché gli uomini dapprima si rivolgono al necessario, poi in un secondo momento individuano l’utile; ma, a questo
punto, essi scoprono il comodo, il piacere e la mollezza. E qui inizia la dissoluzione nel lusso, e, infine, nello
strapazzare le sostanze. E così si ha la regressione nella barbarie, da cui ricomincia un nuovo ciclo. Gli uomini
dapprima sono bestioni tutto senso, dappoi percepiscono con animo perturbato e commosso, e infine ragionano
con mente pura. Ma da una constatazione di senso comune, condivisa da tutti, per cui vi è un giudizio senz’alcuna
riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, spesso parte il degrado di chi vuole solo il
comodo e solo per sé. E da qui comincia la decadenza, o perché il popolo stesso decade nei costumi fino a
imbarbarirsi, o perché un altro popolo, più giovane e forte, lo soppianta e lo asservisce”.
“Ma, Maestro, a che punto siamo noi ora?”
“È un discorso assai difficile, ragazzo, perché il mondo ora è assai grande. Ci sono popoli che ancora lottano per il
necessario, altri che perseguono l’utile, e, infine, malauguratamente, altri ancora che stanno disperdendo le
sostanze e le ricchezze naturali sublimandole in un mondo di carta, e a tutto danno degli altri. E, per quanto essi
abbiano una forza immensa, e una preponderanza senza precedenti, la Storia, anche per loro, è scritta”.
“Illuminami, Maestro... Io sono molto curioso”.
“Bene, molto bene ragazzo: è proprio la curiosità che appronta il battesimo della scienza. Ma non c’è nulla che io ti
possa dire, e che tu non possa scoprire da te: come è distribuita oggi la ricchezza? Come sono utilizzate le risorse
naturali? Quanto cibo verrà distrutto oggi fino a sera in una parte del mondo, e quanti esseri umani moriranno di
fame da un’altra parte del mondo per l’assenza di quelle stesse sostanze? Secondo te può durare? E, per restare nei
nostri paraggi, quanta gente oggi sfoglierà un catalogo di panfili di lusso; e quant’altra andrà da un qualche amico a
chiedere un prestito per la sopravvivenza, o si arrabatterà in un qualche altro modo? E tu pensi che saranno di più
gli uni o di più gli altri? Tutto questo accadrà andando a sera; e anche domani sera; e così ogni giorno. Tu pensi che
possa durare a lungo? Già, a lungo: c’è un tempo della vita umana e c’è un tempo dei popoli. E allora ricorda il mito:
la parca che cuce, la parca che fila... ma anche per i popoli la parca che taglia è già pronta”.
È inutile dire che Ramon era scosso. Parlava Vico dei beni comuni? L’aria, l’acqua, il cibo, l’istruzione... Come sono
distribuiti, a chi sono in mano? Ramon si sentì quasi colpevole di avere ottenuto il suo Erasmus.
Ma davvero il cavallo non beve? O non gli avremo noi riempito il mastello di fiele?
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L’arcivernice: Tra il grottesco e il demoniaco
(diciannovesima puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/tra-grottesco-demoniacodiciannovesima-puntata-4036657640.shtml
“Chi non capisce teme, Maestro? È la zona scura di un pensiero che non permette
nulla?”. Giulia riporta in vita Goya per qualche minuto e con lui ragiona... sul sonno
della ragione.
La libreria di legno scricchiola nella penombra, sembra che emerga dal buio, pervasiva e sinistra con una litania di
lamenti, una specie di coro scombinato di voci stridenti che implorano di venire incarnate, chiedono di essere
liberate dal controllo colloso di quelle loro immagini di carta. Sono voci narranti confuse tra le parole stampate, e
non possono che bussare alla pagina. È innegabile, ormai, sono suggestionata dai fatti che sembrano succedere qui
dentro. Ma io ne sono certa: qui c’è soltanto una vecchia libreria sgangherata, che sembra poter cedere da un
momento all’altro cigolando penosa sotto il peso dei tanti volumi stipati. Pile sbilenche di DVD, uno zaino pieno
zeppo di roba, e un’altra borsa per il computer stretta lì in mezzo.
Mi sono avvicinata senza averlo deciso. Titoli prevedibili, la Spagna di Ramon, e poi Filosofia di questo, filosofia di
quello.
Ma di traverso sui libri allineati, ecco un volume su Francisco Goya.
Ramon ritorna sempre tardi, di venerdì. Ho tutto il tempo...
Goya nell’Autoritratto del 1815. Ho in mente le grandi pennellate furiose di Lui, quando in un’estasi da adrenalina
mi do da fare con l’Arcivernice.
Sono inspiegabilmente euforica, e come l’altra volta, non ho paura. Ma sono proprio io questa persona, che
forsennata spennella una vecchia copale che odora di zolfo sulla figura di uno che ha calcato la terra nel Settecento?
Proprio io, che di norma voglio riportare ogni aspetto della vita ad una formula, alla sistematicità di un calcolo
matematico? Io che credo ci sia un algoritmo dietro ogni esperienza visiva e sensoriale, dietro tutto ciò che si fa, dal
comperare una cosa piuttosto che un’altra, fino alla parvenza di un folle innamorarsi?
Come in risposta ai miei pensieri dubbiosi eccolo qui davanti, Lui, Goya. L’aspetto burbero, lo sguardo acuto,
indagatore, che mi intimidisce. Ma debolmente gli parlo.
“Si sa che lei, Maestro, metteva in luce i difetti della natura umana. Cercava dunque un riscatto dell’arte dai criteri
formali in cui si era isolata?”.
“Un riscatto, non soltanto dell’arte” subito mi risponde, e la sua voce è aspra, severa, obiettiva, come la sua pittura.
Già: il suo interesse per gli emarginati, i mendicanti, gli infermi, cui anche allora la Storia concedeva scarsa visibilità.
Con quei suoi occhi scuri, penetranti, lui sembra leggermi il pensiero.
“El sueño de la razón produce monstruos!” ripete infatti le sue stesse parole. Il sonno della ragione genera mostri,
traduco sottovoce. La ragione, perciò, illumina, e quando manca questa, la stupidaggine con quei suoi pochi
neuroni, può viaggiare ad una velocità che supera la velocità della luce. Dentro quel tunnel buio. In questi giorni si
dice che neppure i pochi neutrini sarebbero capaci di farlo.
Lui mi guarda, questa volta perplesso. Con le sue descrizioni della stupidità, del lato oscuro e bestiale della natura
umana, nell’ebetismo di certe facce, vede ben oltre lo scientismo dei neuroni, e tanto più dei neutrini.
“La luce...” borbotta allora concentrato “o invece il buio del colore-non colore, che è poi metafora di un certo
pensiero...” man mano si rinfranca “Persino i colori possono ritrarsi!”.
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“Chi non capisce teme, Maestro? È la zona scura di un pensiero che non permette nulla?”.
Goya mi guarda fisso stringendo gli occhi e sollevando lentamente il mento.
“Il non veduto” provo allora a spiegarmi “è ormai la graduazione dei valori/colori, nella massa servile, nella
cosiddetta civiltà attuale. E allora la missione può essere straordinaria. Ma occorre ancora indignarsi, mettere in
luce, dato che questa mia società, Maestro, è fatta anche di autentico genio, che è ipocritamente ignorato in patria”.
“Sarebbe ancora necessario purificare l’aria”. È il pensiero di Goya. Ruvido realismo, tutt’altro che neoclassicista.
Quanti asini in cattedra o al capezzale di malati, nei Suoi Capricci, non è vero, Maestro?”
Mi rivolgo a Lui, timidamente complice. Ma alzando gli occhi, una girandola fluida, ed i colori si stanno già
rimescolando, impastandosi insieme, e risucchiati, vanno a formare per un istante la tinta scura di quelle sue
Pinturas Negras, le Sue Pitture Nere desolate, di fantasmi deformi. Poi alla fine, lento, si ricompone sul foglio
l’Autoritratto, nella sua silenziosa fissità. Ma quello sguardo, sembra non smettere mai di osservare attentamente il
mondo.
L’arcivernice: Corpo e anima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
(ventesima
“Ma allora tu non credi nell’anima, Maestro?”, chiese Ramon. “Non è questo il punto.
C’è un altro modo di vedere le cose”, gli rispose Bertrand Russell.
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-corpo-anima-ventesima-puntata4037182098.shtml
Un morto ha la bocca piena di terra, e per questo non gli escono le parole. Il silenzio, eterno, terribile.
Gli antichi pensavano a una armonia celestiale, nelle sfere concentriche attorno alla Terra, dove l’armonia era
perfetta. Viceversa il vuoto. Qui non si propagano onde sonore, è l’“infinito silenzio”. Cosa ci sarebbe di peggio che
dovere ascoltare per sempre l’eterno silenzio? Quale punizione più tremenda, quale inferno peggiore, nelle miriadi
dei millenni in cui tutto rimane uguale?
Questo pensiero turbò molto Ramon; ed egli si rese conto che la vera paura, la paura primordiale e inconfessata di
ogni essere umano, non era tanto la morte in sé, ma il prosieguo della morte per sempre, la fissità dell’essere come
semplice spettatore.
Epicuro in fondo aveva ragione: perché temere la morte, l’unica cosa che non incontrerai mai? Perché finché ci sarai
tu non ci sarà la morte, e quando ci sarà la morte non ci sarai più tu.
Oppure no. Oppure, oppure... noi abbiamo un’anima immortale, che travalica l’infinito silenzio e l’infinito nulla.
Questo in fondo è il punto, è la domanda delle domande. La musica di Mozart può essere una combinazione casuale
di chimica organica? Non è come pensare che una scimmia e una tavolozza possano “per caso” creare il Cenacolo? E,
d’altra parte, perché avremo la bocca piena di terra?
Così pensava Ramon, ed era triste. L’arcivernice sembrava insufficiente. Cosa, e a chi chiedere? Tutta la scienza
umana si mostrava allora nella sua pochezza.
E tuttavia, e tuttavia... Qualcosa si poteva pur fare. Siamo fatti di anima e corpo? Qui si proponevano tanti, tantissimi
autori. Siamo, noi uomini, un tubo digerente, come dice Feuerbach, o siamo dotati di “intelletto attivo”, come dice
Aristotele? E l’intelletto attivo, ammesso che esista, è in effetti eterno? Ed è personale, o è pura funzione averroistica
destinata a far cessare il nostro “io”? Ma se è così, come si saldano il “volere”, cui pure il mio corpo obbedisce, e i
fasci di nervi e di tendini, o, se si vuole, le cellule del mondo fisico?
Come fare a uscire da questa impostazione tragica? Spinto, e angosciato, da queste ragioni, Ramon fissava
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l’immagine di Bertrand Russell, la sua distaccata sicurezza, la sua espressione pacata e arguta, sazia d’intelligenza e
di sapere. Si poteva provare...
Sir Bertrand Russell, impeccabile come sempre ma mai affettato, lo guardò bonario:
“Tu credi che anima e corpo siano sostanze disgiunte, differenti, irriconducibili l’una all’altra?”
“Be’, sì, Maestro, non è esperienza comune che noi possiamo ascoltare una fuga di Bach, e intanto avere fame?”
“Il punto è, vedi, mio caro, che tu sei vittima del pregiudizio del dualismo, di un dualismo che ti è stato inculcato
nelle viscere del cervello”.
“Cosa intendi, Maestro?”
“Che Dio fece l’uomo di creta, e poi gli spirò dentro il soffio vitale. E così Adamo non ebbe più la bocca piena di
terra. Così ti hanno insegnato, no? Tutta la tradizione giudaico-cristiana è dualista: ci sono due sostanze, lo spirito e
la materia. La sintesi teologica tomista riprende il concetto di ‘sinolo’ aristotelico: la completezza dell’uomo è data
dal corpo e dall’anima. Tanto che nella stessa escatologia che ne deriva solo con la resurrezione della carne l’uomo
si ricomporrà definitivamente. Uomo che è immagine di Dio, e in questo senso è più di un angelo, che è puro
spirito. La teoria è fortemente rafforzata da Cartesio: ‘res cogitans’, con le sue leggi, con il suo ampio grado di
libertà, e ‘res extensa’, puramente meccanica come un orologio, deterministica, amorfa. Ma la materia è veramente
solo ‘antitipia iletica’, pura passività, resistenza nell’occupare una porzione di spazio? Guarda bene dentro alla
materia, e non troverai fissità meccanica, ma molecole in continuo movimento; e guarda dentro alle molecole, e
troverai atomi, particelle mobili e veloci, cariche elettriche... Così la separazione tra materia ed energia diventa
sempre meno sostenibile: come ci ha insegnato Einstein, di fatto noi non abbiamo di fronte la pura fissa ileticità di
un monolite, ma il tensore materia/energia”.
“Ma allora tu non credi nell’anima, Maestro?”
“Non è questo il punto, Ramon. C’è un altro modo di vedere le cose. Mettiamola così, l’uomo è su una scala,
all’incirca alla metà. Sotto di sé ha cose con organizzazione povera, sopra di sé con organizzazione ricca e
complessa. E allora l’uomo chiama ‘materia’ tutto ciò che sta sotto, e chiama ‘spirito’ tutto ciò che sta sopra di uno
stesso continuum: l’armonia della Nona di Beethoven sta sopra, le onde acustiche che la propagano stanno sotto:
l’armonia è spirito, l’onda sonora materia. Non ci sono due sostanze, Ramon: questo è il modo antropomorfico in
cui abbiamo organizzato la nostra visione del mondo perché si accordasse con la nostra percezione. C’è invece un
continuum, secondo la teoria unificante che ha realizzato un secolo fa l’unificazione di materia ed energia, un
passaggio analogo a quel che ora si sta tentando di fare fra microcosmo e macrocosmo con la teoria delle stringhe,
mettendo assieme le leggi della meccanica quantistica con la relatività generale”.
Ramon non sapeva cosa fosse il tensore materia/energia, né aveva mai sentito nominare la teoria delle stringhe; si
rese conto che aveva molto da cercare con Google, almeno per capire di cosa si stesse parlando...
“Maestro, tu credi dunque in un’unica sostanza?”
“Questa a cui ti ho accennato, Ramon, è la mia teoria del ‘monismo neutro’. Vedi, il dualismo è un’ipotesi, non una
necessità logica. Prendendo per impredicato, in via provvisoria, il concetto di ‘sostanza’, su cui ci sarebbe da aprire
un capitolo a parte, che ci siano esattamente due sostanze è una teoria che ha dilagato nel pensiero occidentale, e
per molti versi anche in quello orientale. Ma essa può essere negata, e in due modi: o asserendo che la sostanza è
una sola, e allora avremo il monismo, o che ve ne sono più di due, tante, magari infinite, e questo è il pluralismo. Se
poi scegliamo la prima via, potremo supporre che l’unica sostanza sia spirito, e allora avremo lo spiritualismo, o che
è materia, e allora avremo il materialismo. Come al solito, le cose non sono così semplici”.
“Maestro, mi puoi fare qualche esempio?”
“Ma certo: pensa a Berkeley, per un monismo spiritualista, o ai grandi pensatori dell’idealismo romantico tedesco;
pensa a Marx per il materialismo. Sostenere poi che questa unica sostanza coincida con il mondo, e con Dio, si
chiama immanentismo, pensa a Spinoza, anche se il discorso qui sarebbe ben più complicato. Se poi vuoi un
esempio di pluralismo, al di là dei così detti pluralisti presocratici, pensa a Leibniz e alla teoria delle monadi”.
Ramon capì che c’era molto da studiare; e molto, molto da riflettere. Il volto di Russell cominciò a scomparire; ma il
suo bonario sorriso sembrò godere di una permanenza maggiore, se ne andò per ultimo. Come per il gatto di Alice,
in questo modo, per un attimo si poteva vedere un sorriso senza nulla attorno; almeno, così parve a Ramon.
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L’arcivernice: Ramon scopre la semantica
(ventunesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
“Anche le parole hanno una vita... Ma anche i significati possono cambiare?”. Ramon
riporta in vita Ferdinand de Saussure e dialoga con lui di semantica, tra linguistica e
filosofia.
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-scopresemantica-ventunesima-puntata-4037822556.shtml
La catena favola/mito/filosofia. Le favole sono “false”, ma false in che senso? E il mito, da cui è nata la filosofia? Il
più noto, il mito della caverna. Le ombre che sole vedo, e che mi testimoniano di un mondo esterno. Cosa c’è di
vero e di falso nel mito? L’ircocervo, l’asino di Buridano, l’auriga con i due cavalli dell’anima umana, il magnete... La
leggenda di Arione, che, suonando quasi meglio di Apollo, commuove i delfini. Tutto questo è falso? Ma quello che
ne traggo come insegnamento è falso o è vero?
Il falso esiste? Se il significato di un enunciato è quello che avviene nel mondo, c’è un antimondo per le cose false?
Così pensava Ramon, e soffriva sul fatto che il problema del significato fosse complesso come non mai avrebbe
supposto.
La prima idea ingenua, che viene normalmente in mente, è che ci siano le espressioni da una parte e le cose
dall’altra. Troppo semplice, come al solito. Che cosa capiamo, quando comunichiamo tra di noi? La prima risposta è
quella degli ingegneri, copiata poi dai semiologi. Abbiamo un emittente, A, un ricevente, B, un canale, un codice, un
messaggio. Se il codice è applicato correttamente, il canale è affidabile, non ci sono “rumori” o disturbi, quanto
viene emesso da A arriva a B. Evviva.
Ma chi è A, che pensieri, che ansie, che visioni ha? E come le prende B, che riceve il puro strato digitale e meccanico
del messaggio di A? Il processo non è simmetrico, come nella visione ingegneristica: ciò che arriva a B non è il
pensiero di B, ma il pensiero di A. E B lo deve “interpretare”; cioè, far sì che il pensiero di A entri nel suo proprio. Ciò
che si ottiene è come B capisce il pensiero di A. Non è come in uno specchio. O, meglio, lo specchio può essere
deformante.
Gli venne in mente l’esempio di Frege. C’è un cannocchiale puntato sulla Luna. Io guardo, e c’è la mia
rappresentazione mentale della Luna. È mia, è diversa da tutte le altre.
Poi guardi tu, e c’è la tua, la tua rappresentazione, magari sei miope o daltonico: in ogni caso la tua
rappresentazione non sarà mai identica, o, meglio, la stessa, della mia.
C’è l’immagine riflessa dentro al telescopio, e questa è la stessa per tutti. E c’è la Luna, là fuori, la stessa.
Ma il modello shannoniano non va fino in fondo. È come il gas perfetto, ciò che non esiste. La mia Luna, la tua
Luna... e la Luna di tutti qual è?
Ramon sfogliò con avidità, e finalmente trovò l’immagine di de Saussure. Cosa avrebbe potuto sperare di più?
“Maestro, cosa lega il significante al significato? Che legame c’è tra ‘Luna’ e la Luna?”
“La parola ‘cane’ non morde, Ramon, e la parola ‘tetto’ non rientra nella parola ‘casa’”.
“Ma allora tutto è pura convenzione, tutto avviene dentro di noi, per un patto sociale atavico mai esplicitato?”
“La lingua non è ‘nomenclatura’, come aveva già capito Aristotele, non è cioè una corrispondenza necessitata di
parole e di cose; ma la ‘convenzione’ fa sì che una certa entità acustica (significante) venga legata a un certo
concetto (significato). La varietà delle lingue dimostra che tra le due entità non vi è alcun legame ‘naturale’. Da lì in
poi significante e significato sono come due facce dello stesso foglio”.
“Tuttavia, tuttavia... La gente usa le parole in modo diverso, e le parole stesse cambiano nel tempo; e con esse i
significati”.
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“Vedi Ramon, tu devi distinguere tra la lingua e il suo uso. La prima è un sistema teorico, il secondo un accadimento
concreto. Da un lato abbiamo la ‘langue’, il sistema della legalità a priori, che è come il gas perfetto; dall’altro la
‘parole’, cioè l’insieme degli atti umani, personali e irripetibili, dei parlanti. Ma il sistema nel suo complesso è un
corpo vivo, e come tale si evolve. Così tu puoi studiare la linguistica come la fotografia dello stato di cose a un certo
istante, ossia in modo sincronico, o come il processo di continuo cambiamento che avviene da un lato entro la
dialettica langue/parole, dall’altro per lo stesso fluire del tempo della storia, cioè in modo diacronico. Per fare il più
banale degli esempi, una parola difficile da pronunciare viene usata sistematicamente in modo errato dai più; nel
tempo, la parola errata prende così il posto, soppianta quella corretta. Un fenomeno assai frequente è quello della
metabasi, cioè dello scambio di due lettere, che avviene spesso semplicemente per rendere più agevole la pronuncia
della parola. Così dal greco ‘arpax’ si passa al latino ‘rapax’ e all’italiano ‘rapace’”.
“Anche le parole hanno una vita... Ma anche i significati possono cambiare?”
“Le parole possono cambiare di significato, cioè avere significati diversi in epoche diverse; così come cambiano le
cose, e questo induce dei mutamenti nel significato delle parole. Ma attenzione a non confondere il significato con
la cosa: il primo appartiene al linguaggio, la seconda al mondo”.
“Ma allora il significato è un ente linguistico?”
“Questo è il problema dei problemi. Nel mio sistema, sì, ma è una accezione tecnica di ‘significato’, è l’altra faccia
del significante. Cosa sia il significato in termini generali è problema filosofico e non linguistico, e ben lontano
dall’essere risolto. C’è chi colloca il significato nel mondo delle idee oggettive, chi nella mente umana, chi nelle cose
stesse in quanto risultato di un processo astrattivo ma impersonale, oggettuale...”
“Ma, Maestro, dimmi il tuo parere”.
Di Ferdinand de Saussure erano ormai indistinguibili i contorni, e le piccolissime particelle luminose svanivano
rapidamente ad una ad una.
L’arcivernice: Un altro elogio della
(ventiduesima puntata) di Giulia Jaculli
follia
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-altro-elogio-folliaventiduesima-puntata-4038616611.shtml
I pensieri di Giulia sono scossi dalle riflessioni di Edgar Morin sulla follia, decide
dunque di cercare risposta nell’Arte e riporta in vita, con l’arcivernice, Marcel Duchamp.
“La follia è parte della condizione umana: è solo il culto della ragione e dell’ordine, che non accetta questa verità.
Ma è proprio quel culto, ad essere demens, poiché la parte irrazionale di noi non è distruttrice o asociale: genera
invece la tenerezza, l’eros, la gioia...”
Mi stavano aprendo molti confini le parole fatate del vecchio Edgar Morin. La sua frase fermentava nell’Aula Magna
di Santa Lucia, e forse in tutte le nostre menti. In quel momento, in silenzio, stavamo forse tutti provando a
capovolgere il senso comune.
Dunque è nel dialogo poco giudizioso tra ordine e disordine, tra la misura e l’eccesso, tra la parte sapiens
dell’uomo e quella demens, lì si troverà la creatività? Ma in questi tempi, anche l’immaginare è difficoltoso. E in
questi tempi il disordine appare una minaccia.
Sento che le parole di Morin sono perfette. Credo che a volte nella persona “qualcosa” voglia raggiungere i propri
spazi interni meno spiegabili; si infiltra, evitando con cura i nuclei razionali. E sembra non volere spiegazioni né
consolazioni.
Soprappensiero, cammino lentamente verso la stanza di Ramon, attraversando quel corridoio buio dove non riesci
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mai a estraniarti del tutto dall’odore forte di effluvi di cucina e di risciacquo di piatti. Se penso adesso alla follia
umana, mi viene in mente solo un nero e untuoso gorgo di lavandino.
Ma non è un buco nero, la follia. È forse invece tra le poche entità davvero piene e trasparenti esistenti nell’uomo.
Se è vero che la follia spesso è gioiosa anarchia, è perché forse l’anomalia ti compensa? È la risorsa che inventa un
territorio diverso quando quello vero è diventato invivibile? È l’atto creativo, dunque, che permette di vivere? Con un
brivido nuovo che sembra mi colpisca come un fulmine, e con gesti portati dallo stupore per lo scostamento
dall’immagine di me che mi ero costruita, spennello con furia l’Arcivernice.
Marcel Duchamp è qui, e sta abitando forse nella stanza. Ma certamente sta abitando in me.
“Togliamo alle persone la follia che le attraversa, e abbiamo queste società di Zombi” mi dice lui leggendomi il
pensiero. Io so che si ritiene che persino le aree cerebrali di chi soltanto fruisce l’irrazionale, specie quelle connesse
alle emozioni, si attivino molto di più, di fronte a qualche folle anomalia, davanti alle imperfezioni piuttosto che alle
performance senza difetti.
L’esecuzione “sbagliata” emoziona, mentre quella perfetta perde efficacia. Come il tic tac dell’orologio: non lo senti
più.
“L’errore, il caos, sono elementi artistici, Maestro, ma ciò che se ne trae in insegnamento, è folle o è razionale?”
“Come ha scritto Apollinaire nel 1913, si tratta di elementi la cui percezione non è ancora divenuta una nozione.”
“Diventerà poi dunque un canone?” Gli chiedo. Ma so che la follia si accetta solo se questa anomalia, questo mondo
diverso, se questo canone in divenire viene riconosciuto come Arte. Solo allora, ha il consenso sociale, altrimenti
rimane un gesto eccentrico, è il buco nero, allora il gesto è solo folle. E la persona è inadatta, inadeguata. Pazza. La
società in questo caso si spinge a condizionare l’indisciplinato, agisce su di lui per conformarlo man mano, e
sempre più energicamente, per fargli entrare in testa idee che contrastino le sue immaginazioni.
“La società non è emancipata, Giulia, e vi impedisce di scaricare le vostre espressioni anomale, mentre le applaude e
le pretende da noi artisti. Noi, unici usciamo vittoriosi dal caos che altrimenti ci avrebbe inghiottiti!”
Rimango un attimo pensosa, e poi azzardo in un sussurro: “È un genio pazzo ad esempio John Cage, quando
illogico attacca alle corde di un pianoforte, meglio se quelle di un mitico Steinway, gli oggetti più disparati. E quelle
corde nobili si torcono, sotto le viti, sotto i pezzi di plastica, i tappi di bottiglia; e le note ne escono snaturate, ma
dense di nuove possibilità timbriche, sonorità aggiuntive. È l’elemento umoristico demolitore e aleatorio che vi
accomuna, Maestro?”
Lui non risponde, ma assorta, guardando il vuoto, continuo a pensare: curiosità nutrite di intelligenza vigile,
personalità ardite, mosse da indipendenza di giudizio. Disubbidienza. Pensieri elastici, liberi da un galateo e da
qualsiasi legaccio.
“Usciremo, Maestro, da questa Storia convenzionale paralizzata, usciremo dal buio fondo della notte di Heidegger,
potremo meritarci un territorio con gusti artistici dai grandi confini, con grandi spazi, gli odori, i piaceri?”
Sollevo gli occhi e Duchamp è sparito dalla stanza. Oppure chissà, non c’è mai stato.
L’arcivernice: Il filosofo del mistero
(ventitreesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-filosofo-misteroventitreesima-puntata-4038932496.shtml
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“Maestro, qual è l’ora della filosofia, l’alba o il tramonto? Deve prevalere la previsione
del fatto o la comprensione profonda dello stesso?”. Ramon riporta in vita il Filosofo di
Porticello.
La filosofia deve prevedere il futuro o interpretare le cose dopo che sono successe? E che importanza ha prevedere,
chi darebbe retta ai filosofi? Così si chiedeva Ramon, mentre nella sua stanza si manifestavano le prime ombre della
sera incipiente. Riadattato al vissuto personale, l’ora della filosofia è nello straniamento silenzioso dell’alba, o nel
languore del tramonto? La filosofia si studia o si vive? Vivere senza filosofia, facendone a meno, è una filosofia,
direbbe Engels; e dunque la scelta non è tra fare o non fare filosofia, ma tra fare filosofia consapevolmente o
inconsapevolmente, cioè tra il fare “buona” o “cattiva” filosofia. Anche se essa, a dar retta a Hegel, è come la nottola
di Minerva, arriva alla sera, a capire quanto è già successo. Ma forse no... Le grandi escatologie dei visionari...
Ramon non era in animo di scegliere un grande a cui fare domande. Su queste cose voleva prima farsi una propria
idea. E tuttavia aveva voglia di arcivernice. Gli capitò sott’occhio l’immagine del Filosofo di Porticello. Ritrovato nei
pressi dello stretto di Messina, e risalente al V secolo a.C. Perché no, magari in questo modo si scopre anche chi è...
“Maestro, qual è l’ora della filosofia, l’alba o il tramonto? Deve prevalere la previsione del fatto o la comprensione
profonda dello stesso?”
“Dopo un tramonto c’è sempre un’alba, e dopo un’alba un tramonto. Che importanza ha dove sei tu?”
“Dunque alla fine i conti si pareggiano...”
“L’essere non ha bisogno che tu lo pensi per darsi”.
“Ma la mia interpretazione può influire sul mondo, e quindi sul suo modo di essere...”
“Questa è la grande illusione: sopra di te veglia il Fato, Tyche, figlio del Caos e della Notte”.
“Vuoi dire quindi che sei determinista, credi che tutto accada per necessità”.
“Sì e no; perché il Fato è cieco. Anche gli Dei devono obbedirgli, ma lui non vede quello che fa”.
“Quindi il Fato gioca a dadi col mondo?”
“Come tu giochi a dadi nella tua mente. Ma l’essere non risente delle uscite dei tuoi dadi”.
Ramon cercava di interpretare questo strano pensatore. Per un verso pareva avere tratti eraclitei, nell’allusione al
ripetersi continuo e al susseguirsi delle cose; per un altro considerava l’essere fisso nei suoi ferrei legami come un
eleate. Pareva determinista come Democrito, ma a uno stadio più ancestrale, mitologico quasi.
“Ma se io mi convinco di un’idea, poi agisco per farla prevalere, e ho successo, non ho cambiato forse il mondo?”
“La tua idea l’hai prodotta tu, nel senso che l’hai tratta dal nulla? Certamente no, ammetterai. Non ha senso trarre
dal nulla. E allora i tuoi dadi sono truccati...”
“Io ho però una volontà”.
“O non hai piuttosto la capacità di operare la somma dei pro e dei contro?”
“Io ho degli ideali, una morale che voglio seguire, non calcolo un utile quando decido”.
“Certo, ma anche gli ideali, anche i precetti etici entrano nel computo; e così sempre di una somma si tratta”.
Il discorso virava sempre più al determinismo; ma in un modo quasi primordiale, in quanto non ne venivano
esplicitati i primi principi, gli assiomi di partenza. Ramon decise di essere più drastico, per stanare l’interlocutore.
“Maestro, ma di cosa è fatto il mondo?”
“Di aria, acqua, terra e fuoco: delle radici, che si intersecano e si mischiano, mostrandosi in forme frammiste”.
Oddio, pensò Ramon, che sia Empedocle? In fondo è probabile che fosse un filosofo siciliano.
“E queste cose io le posso conoscere, e, come dire, misurare?”
“Certo che puoi: le radici sono fatte di monadi materiali, di replicazione indefinita dell’Uno, e formano così i numeri,
che tu puoi calcolare, e che si danno in mille forme diverse tra di loro ma sempre uguali a se stesse”.
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A Ramon ormai girava la testa; queste ultime erano affermazioni di scuola tipicamente pitagorica. D’altra parte la
scuola pitagorica era fiorente nelle città ioniche della Calabria: Sibari, Crotone, Metaponto...
Era inutile cercare di indovinare. In quel pensatore c’era tutta la cultura della Magna Grecia, c’era un modo di
pensare per un verso eclettico, per un altro estremamente connotato e deciso. Ramon si arrese: “Maestro, ma chi sei
veramente? Dimmi il tuo nome”.
Il filosofo di Porticello stava svanendo; il Fato, Tyche, non aveva voluto il disvelamento, ma il perdurare del mistero.
Fino alla prossima alba o per sempre?
L’arcivernice: Death and Disaster
(ventiquattresima puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-death-and-disasterventiquattresima-puntata-4039530855.shtml
“Si compra per consumare e ricomprare ancora, e per riempire i vuoti svuotati”. Giulia
riporta in vita Andy Warhol e lo interroga su morte e materialità.
Mi terrorizza a volte una mia nuova fantasia: in una fase intermedia mostruosa, tutte quelle figure, sotto l’effetto
dell’Arcivernice, passano, nella loro rinascita, attraverso un aspetto fetale di piccoli corpi umani rannicchiati con
teste enormi calve, vecchieggianti e pensose.
Sì, sono stanca. I miei amici si sono accorti tutti di qualcosa, e pensano a un’influenza negativa che viene da Ramon.
Quel mio famoso entusiasmo, la prospettiva ottimistica, che è propria della scienza, di guardare al futuro come
progresso, tutto questo si è in parte affievolito. Tutti i saperi mi attraggono, ma la filosofia non mi fa bene, con le
sue parti cupe, tenebrose, quella visione sotterranea del mondo, gli aspetti dottrineschi con la pretesa di educare gli
uomini. Quante promesse storicamente fallite...
Questa è una società del fare per distruggere. Ma un mondo che viene consumato come se ognuno se ne mangiasse
voracemente una parte, che mondo è?
“Comprare è molto più americano di pensare”, aveva scritto Andy Warhol nella sua “Filosofia”. Sì, si era detto tanto
che l’America fosse il paese del consumo, della ripetizione, dell’uso, dell’omologazione. E adesso anche qui, tutti
abbiamo gli stessi idoli, tutti guardiamo le stesse cose, tutti mangiamo la stessa zuppa. Se infine proprio questa è la
virtù della democrazia, ciò che però ne risulta, è veramente l’immobilità di un cadavere?
Nel silenzio della stanza di Ramon la mia voce rimbalza imprevedibile, come fa il gioco con la palla ovale. E
nell’ultimo bagliore del tramonto, non accendo la luce.
Non mi è rimasto un grammo di criterio: sto lambiccando ancora furibonda con l’Arcivernice.
L’uomo si sveglia traballando sulla pagina senza fare rumore, pallido e degradato come un clone, mi guarda solo un
istante, con distacco. Sono terrorizzata, perché ancora mi appare come un’ombra che si muove dietro a una tenda.
Può essere che uno, gironzolando, sia penetrato di soppiatto nella stanza. Sarebbe anche più verosimile e normale.
Ma invece è proprio Lui, Andy Warhol, che fissa distaccato davanti a sé, mentre la tenda si gonfia, ondeggia un po’
producendo un fruscio lieve, una musica triste ma reale, che in parte mi consola.
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Conosco bene l’immagine di Warhol, è freddo, inaccessibile, sfatto, come la sua pittura, ma spinta da un moto
compulsivo, oso parlargli:
“Ho in mente, Maestro, tutte quelle cose che noi consumiamo. Cose guardate da migliaia di occhi, pupille che le
hanno osservate, passando e ripassandoci sopra. Finché, come la statua di Guidarello a Ravenna, sono state scavate,
erose, degradate”.
“Si compra per consumare e ricomprare ancora, e per riempire i vuoti svuotati”. Lui mi risponde, mentre il suo viso
gelido, gessoso, si incrina sgretolandosi in una smorfia per un attimo.
“Maestro, le tue opere rappresentano immagini di cose troppo logorate da una esagerata frequentazione della mass
culture...”.
“Sì”, mi risponde, “maschere che volevano porsi prive di potenziale emotivo. Oggetti – o personaggi, non importa –
che erano allora molto ‘nostri’, molto americani, tutti con un aspetto, o un sorriso, congelato, lontano,
mummificato”.
“Erano dunque macabri feticci, erano tutti morti, come del resto così era il titolo della tua serie di opere fatte tra il
1962 e il ‘63: ‘Death and Disaster’. Dunque i tuoi quadri parlano di morte. Ma perfino la morte, filtrata
dall’informazione, perde la sua drammaticità e diventa così più morta ancora”.
Lui allora mi coglie di sorpresa, fissandomi con il lampo di uno sguardo intenso, come solo i poeti e i bambini
sanno fare. “È perché”, mi risponde, “io volevo evocare un dramma più devastante ancora, la noia, il completo
distacco da ogni impegno emotivo, l’insensibilità alle tragedie, l’indifferenza dell’informazione che trasforma in
spettacolo ogni cosa. Mettevo lì quegli oggetti a interrogare gli spettatori sul loro significato profondo”.
Lo guardo anch’io con dolcezza: “Volevi trasformare te stesso in una macchina che registra impassibile la realtà, ma
registrare così è stato un atto d’amore”, gli dico piano. “È come quando si guarda fermi in silenzio la persona amata
che se ne sta andando. La lasciamo libera di andare, di scegliere il modo migliore per porre termine al nostro
rapporto”.
Muta spettatrice della sua dissoluzione, osservo la pallida presenza di Andy Warhol che, consumandosi anch’essa
piano piano, galleggia nella stanza ancora un po’, mentre il suo sguardo, che si atteggiava a gelido disinteresse, sta
riannegando in un mare di nebbia.
“Ciao” gli dico sottovoce. “Adesso puoi tornartene a casa, e come ogni giorno desideravi, puoi toglierti il costume da
Andy”.
Nell’aria continua a suonare quella musica triste, in re minore (1). Sola, non riesco a capire da dove viene questa
nostra paura del nulla. Quel nostro maledetto horror vacui.
--(1) Quella in re minore è la tonalità della morte nella musica.
L’arcivernice: il buio e la luce (venticinquesima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-buio-luceventicinquesima-puntata-4040645559.shtml
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“Il mondo reale è quello delle immagini che vediamo? I colori in fondo dipendono dalla
frequenza di un’onda. Allora esistono gli alberi, e i tavoli, o le onde?”. Ramon a
colloquio con Thomas Nagel.
Le ombre si allungano nella sera, sembra che tentino di farsi tutt’uno col buio. Il giardino, mal tenuto e spoglio, che
Ramon vedeva dalla finestra, si andava annerendo di aloni attorno alle cose, ai pochi alberi, alle siepi, quasi a
evocare un verde imbrunito e innaturale. “Forse è davvero la sera l’ora della filosofia”, pensò Ramon, “nella
rappresentazione di un pittore abilissimo, ma che ha una tavolozza di tanti colori neri, come dice Hegel”. Ma perché
il buio e la luce?
Il mondo reale è quello delle immagini che vediamo? I colori in fondo dipendono dalla frequenza di un’onda. Allora
esistono gli alberi, e i tavoli, o le onde?
Thomas Nagel, ecco a chi chiedere. Ma non era facile trovarne l’immagine, troppo recente. Ramon concepì un
esperimento. Andò su Wikipedia, e stampò la fotografia di Nagel. Poi provò. Funzionava...
“Allora, che effetto fa essere un pipistrello, Professore?”
“Il mondo del pipistrello è esperito attraverso il sonar. Come faccio a immaginarmi il suo mondo senza essere un
pipistrello? Eppure siamo nella stessa stanza, la bestiola vola in modo caotico, ma evita gli ostacoli, proprio come
me, che aggiro i tavoli e le sedie. Ma siamo nello stesso mondo? Se io avessi l’apparato sensoriale di un pipistrello,
quel barattolo di arcivernice sul tavolo sarebbe un insieme di vibrazioni, più o meno sfumate...”
“E magari il mondo è così, e noi viviamo un filmato, una continua illusione ottica?”
“O forse il mondo è tutt’e due le cose insieme, e la nostra coscienza, la nostra ‘intenzionalità’ fa il resto. La nostra
cultura nasce dall’immagine, è essenzialmente visione, è ‘teoria’, da ‘theorao’, mi guardo attorno. E lo scopo del
filosofo è giungere ad una Weltanschauung, a una visione-del-mondo o a una immagine del mondo. Il fenomeno, ciò
che arriva fino a noi, ci insegna Kant, deve attraversare le due lenti colorate dello spazio e del tempo, e lo spazio è
vissuto come euclideo, tridimensionale, colorato. Ma come sarebbero le forme a priori dell’intuizione sensibile per
un pipistrello? Riusciamo a concepirne una ‘estetica trascendentale’? E la coscienza interna come ne deriverebbe? Un
mondo senza luce, che vibra...”
“Ma non sarebbe la stessa situazione in cui si trova un uomo cieco?”
“Assolutamente no. Un uomo cieco si forma, attraverso gli altri sensi, comunque una ‘visione’. La sua fantasia si
sostituisce alla sensazione a formare, con l’aiuto degli altri sensi, una forma dell’oggetto, di questo tavolo, di
questo barattolo, che è essenzialmente, intrinsecamente un’immagine, anche se un’immagine non vista ma
costruita. Un cieco non pensa come un pipistrello, né un pipistrello come un cieco. Per il pipistrello il mondo vero è
il suo, è quello del sonar, delle frequenze e delle onde, dei rimbalzi dei suoni...”
“Ma... varrebbe la stessa matematica? In fondo in linea teorica il pipistrello potrebbe ‘contare’ le sensazioni”.
“Forse si salverebbe la stessa geometria, da un punto di vista astratto, ossia algebrico. Se ammettiamo che si sia
una legalità a priori, noi potremo intenzionarne una determinata ontologia regionale, il pipistrello un’altra”.
“Affascinate”, pensò Ramon. E, per un qualche imperscrutabile percorso associativo, forse per una percezione
fugace apparsa in modo subliminale, magari una bolletta della luce (ecco un’altra bega che i pipistrelli non
hanno...), gli venne in mente la crisi. E pensò che il Paese che lo ospitava, e che tanto lo attraeva per i tratti della sua
cultura, stava perseguendo in modo sistematico un disinvestimento drastico e drammatico sulla scuola,
sull’università, sulla ricerca. Che andava curando l’assenza di sviluppo tagliando proprio l’origine di ogni sviluppo.
Che per curare la recessione adottava scelte sempre più recessive. E gli venne un dubbio. Che i politici vivano il
mondo dei pipistrelli o il nostro? Ramon aveva letto la nota di Giulia su Goya; forse quella corretta è la
riformulazione di Arbasino: il sonno della ragione genera ministri.
Ormai era venuto il buio; i tratti di Nagel si potevano intravedere appena alla fioca luce pallida della luna. Ma Ramon
viveva una strana inibizione ad accendere la luce. Gli sembrava quasi di cancellare un mondo, quello del
pipistrello...
E, per di più, un pensiero all’improvviso lo turbò. Thomas Nagel era vivo e vegeto, era dall’altra parte dell’Atlantico
in quello stesso momento; ma allora, con chi stava parlando? Qual era quello “vero”? Come stava, Nagel, di là, che
coscienza aveva di questo dialogo? Le molecole vere, quelle del mondo, erano lì, davanti a lui, o là, seimila
chilometri più a ovest? E poi il tempo... Che senso aveva parlare di contemporaneità? Il simultaneo dipende dal
sistema galileiano di riferimento, ci insegna Einstein. Spazio e tempo... Mentre Nagel diveniva invisibile, Ramon
pensò che se anche il mistero dell’arcivernice era inspiegabile, non potevano avere ragione i pipistrelli.
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L’arcivernice: Come Ramon vede la crisi
(ventiseiesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-come-ramon-vedecrisi-ventiseiesima-puntata-4041272616.shtml
“Il primo pensiero che gli venne fu di quanto fosse strano il mondo. Una parte ricca,
sostanzialmente minoritaria, e grandi aree di sottosviluppo e di fame. Strano mondo”.
Stavolta Ramon non riporta in vita i grandi pensatori e tira fuori del suo.
Ramon non aveva voglia di alzarsi, quella mattina. Mise il cuscino quasi in verticale, e, semiseduto ma ancora a
letto, si pose le mani dietro la nuca, con i gomiti lontani all’estremo. Gli venne in mente Cartesio, e la sua abitudine,
nel collegio di La Flèche, di soffermarsi a lungo a pensare, la mattina, alzandosi tardi. E la tolleranza del padre
Mersenne, che aveva intuito la genialità di quell’allievo tutto particolare. Ramon pensò che difficilmente avrebbe
fatto una scoperta paragonabile a quella della geometria analitica; e tuttavia aveva voglia di pensare. Non di leggere
o di studiare, né di camminare per la città, incontrare gente, parlare, discutere; ma, semplicemente, di pensare. E il
primo pensiero che gli venne fu di quanto fosse strano il mondo. Una parte ricca, sostanzialmente minoritaria, e
grandi aree di sottosviluppo e di fame. Strano mondo. E tuttavia, pensò, la ricchezza materiale non era affatto
distribuita in questo modo. Paesi ricchissimi senza alcuna “materia prima”, paesi ricchi di materie prime, ma
assolutamente poveri al punto che la gente vi moriva di fame. Paesi con una economia tutta fondata sul petrolio,
con poche famiglie ricchissime, ma un tenore di vita, comunque, di alto livello.
Ramon pensava al suo paese d’origine, la Spagna, e al suo paese ospitante, o d’interesse, l’Italia. Che cosa avevano
e che cosa non avevano? E, in questo quadro, che cosa avevano e che cosa non avevano la Spagna e l’Italia, rispetto
al resto del mondo? E quale natura aveva questa “crisi” protratta e incombente? E, in definitiva, giunse a chiedersi:
ma che cos’è la ricchezza?
D’un tratto decise che doveva fare domande, decise che era il momento dell’arcivernice. Balzò in piedi, e sfogliò i
suoi libri. Schumpeter, Pareto, Ricardo, Adam Smith, Marx, Keynes... A chi chiedere che cos’è la ricchezza, a chi
chiedere come uscire dalla crisi?
Ma dopo un po’ di consultazione frenetica, di uno sfogliare affannoso, gli venne in mente il monito di Aurelio
Agostino, o Sant’Agostino per i credenti: “noli foras ire. In te ipsum rede”. Sì. Il punto è non solo chiedere, ma
pensare; “veritas est in te”.
Ramon tornò sul letto, senza coprirsi questa volta, di nuovo contro il cuscino verticale. Qual è il punto? Hobbes o
Rousseau? Qual è lo stato di partenza: “homo homini lupus” o il “buon selvaggio”? La politica nasce dalla necessità
di uscire dallo stato ferino, in cui ognuno è nemico a ogni altro, o, viceversa, è stata propria l’introduzione della
dimensione “sociale” che ha posto il primo filo spinato, il primo confine fra il “tuo” e il “mio”, fondando la proprietà
privata? E la proprietà privata è un “furto”, o è l’inalienabile diritto a godere del frutto del proprio lavoro? La
questione, così posta, perde i tratti dell’occasionalità, e assurge al livello più alto della politica in generale. Il punto
è: il sistema neoliberista possiede al suo interno gli anticorpi sufficienti al superamento della crisi, o no? Nel primo
caso, dovremo passare all’analisi degli strumenti tecnici, in fondo tutti già previsti e catalogati:
aumento/diminuzione di questo o quel parametro, rifinanziamento o definanziamento di questa o quella tipologia
di strutture, incremento o decremento di questo o di quel tasso, e così via. Se invece si desse il secondo caso, il
modo di ragionare cambierebbe radicalmente; il punto in discussione sarebbe il sistema come tale, nel suo
complesso. E lo scenario ci costringerebbe al conseguente inevitabile passo successivo: quale altro sistema, allora?
Hobbes: per uscire dalla situazione ferina, dobbiamo ognuno rinunciare a parte della nostra libertà, attraverso un
“pactum unionis”, in primis, e di un “pactum subiectionis”, di conseguenza, conferendo parte della nostra libertà a
una autorità, la quale “lex suprena esto”, sarà assoluta, nel senso di “legibus soluta”, sciolta dalle leggi.
Locke: esistono diritti inalienabili, il diritto di opinione, di espressione, di godere dei frutti del proprio lavoro.
“Inalienabili” vuol dire che rimangono fuori dal “pactum subiectionis”, a essi non posso rinunciare: è ciò che non è
vendibile. Poi c’è la ricchezza: la civiltà antica cristallizzava la ricchezza nel capitale morto, le piramidi. Il mondo
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moderno, il capitalismo, sposta la ricchezza nel capitale mobile, quello che “produce” nuova ricchezza. E da qui la
teoria del plusvalore, come metro unificante del valore d’uso e del valore di scambio.
Proviamo a fare una sintesi: Esistono in sostanza tre teorie:
Visione 1 – Prevalenza dell’individuo; stato leggero il più possibile; il grosso della ricchezza è in mano ai privati
Visione 2 – Prevalenza della società; interesse del singolo marginale; il grosso della ricchezza è in mano allo Stato
Visione 3 – Ricchezza suddivisa in tre parti : a) proprietà privata; b) proprietà dello Stato; c) proprietà comune, a
quest’ultima appartengono i beni primari per la sussistenza
È evidente che la sopravvivenza debba essere garantita, pena tornare allo stato ferino, o fronteggiare la rivoluzione
cruenta: al di sotto del livello della sopravvivenza qualsiasi animale, anche l’animale uomo, per la disperazione,
aggredisce.
Che cosa appartiene ai “beni comuni”? L’aria, l’acqua, la sussistenza. L’istruzione? Certo, anche l’istruzione: la
differenza tra la specie umana e le altre è che i suoi miglioramenti non dipendono solo dall’interazione con
l’ambiente: essa “progredisce”, attraverso la trasmissione del sapere di generazione in generazione.
Ramon pensò che i politici a volte non la pensano così, e tentano di sottrarre i “beni comuni” alle nuove generazioni.
L’arcivernice: MA CHE TIPUS ! (ventisettesima
puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ma-che-tipusventisettesima-puntata-4042604945.shtml
“Le mie teorie non volevano portare a sottovalutare in assoluto le capacità autodecisive
in favore di un rigido fatalismo biologico”. Giulia incontra Lombroso, lo studioso
fondatore dell’antropologia criminale.
Camminando, continuo a domandarmi che senso abbia per una come me l’Arcivernice.
Certo il pensiero umano è ancora misterioso. Tutti i circuiti del cervello sono un po’ come questa vecchia dimora
che ospita Ramon, densa di voci dietro le porte scricchiolanti, piena di corridoi lunghi con le pareti annerite e
spaventosi ritratti appesi, di cui a malapena, in quell’odore umido, si riconoscono i contorni. Vaghi sorrisi
guardinghi e visi torvi che digrignano i denti. Gli sguardi spiritati come di uno che quantomeno ha le scarpe strette.
E occhi risentiti chiedono di fulminare il mondo.
Ecco, di questi tempi almeno avrebbero ragione.
Nell’ombra di quei corridoi e dagli sfondi neri dei dipinti con le facce tremende che escono dal buio, certo
sembrerebbe prevalere il sentimento della crudeltà.
Mi torna in mente il passo di Cervantes: “‘Ma’ chiese Sancho ‘da che riconosce che il mio padrone è pazzo?’ ‘Eh,
signore’ rispose il curato gioviale ‘non vede che non ride mai?’”.
Ecco, forse la frase oggi andrebbe ribaltata.
Le pallide espressioni d’altri secoli, corrucciate sulle pareti, sembrano lì a mezz’aria. O nella formalina dentro un
vaso di vetro. Come al museo Lombroso.
Bene, per lui i delinquenti ce l’hanno scritto in faccia, ma anche i geni. Così sarebbe facile...
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Se ti cali là dentro, in questo odore di buio, facce che possono essere vittime o carnefici, però non certo querule, ma
taciturne. Sembra che a lui, a Lombroso, le facce invece raccontassero qualcosa, storie, e turpi per lo più. Mentre a
noi proprio non dicono nulla. Da quei ritratti come persone in fila sottovetro, non potremo mai avere risposte. Resta
una zona grigia, un territorio inesistente, che potrebbe essere invece produttivo. Quei ritratti contengono storie
vissute nel passato. Dovremmo assistere, solo, a quelle storie, secondo i canoni aristotelici, con terrore e pietà?
Assistere. In una sua puntata, Ramon parlava della fissità del rimanere semplici spettatori. E infatti parlava di
morte.
Bisognerebbe entrare nello spirito giusto, togliere quelle facce da quel buio, poi però a volte ribaltare ogni cosa,
come fa Dylan Carlson con la sua musica; ed ecco forse allora: “Gli angeli dell’oscurità e i demoni della luce”.
Certo l’intuizione può funzionare, occorrerebbe però uno spazio piccolo, di poche note, e non, come si fa sempre
più spesso, suonare veloci più note possibili. Suonare meno note, ma più espressive. Note pensate per un orecchio
che ascolti. Ma in questi luoghi attuali rumorosi, sentire e farsi sentire è sempre più complicato. In queste reti, in
questo spazio sconfinato con tutte quelle facce, sembra sempre che siamo tutti connessi, però non riesci mai a
riallacciare trame comuni.
La suggestione dei luoghi. Vittima dei miei pensieri, rasento il muro di fronte verso la cameretta rustica di Ramon,
provando a rendermi invisibile e con un senso assurdo di vergogna. Dubito, in quei passaggi, di conservare un
contegno dotato di un po’ di dignità.
La donna con gli occhi arrossati scantona ogni volta dall’ombra della guardiola per dirmi che Ramon non c’è ancora.
Credo che mi rivolga la parola solo perché io non m’illuda di essere passata inosservata.
Non posso non pensare che poi sentirà delle voci tonanti dietro la porta chiusa dialogare con me.
Dentro, il mucchio di libri impilati sul tavolo, illuminati dalle strisce di luce che filtrano tra le persiane. Li sfioro con
le mani, ma questa volta qualcosa mi impedisce di aprirli. Le pagine si incollano le une sulle altre fino a formare una
poltiglia densa.
Dopo un istante vuoto nelle mie strutture cognitive, dalla poltiglia, come plasmata da dita sicure, si forma una
figura umana che non riconosco.
La figura sbotta immediatamente, quasi fosse stata compressa fino a quel momento, per qualche secolo:
“Altri, non io, si preoccuparono solo di stabilire una rigida dosimetria che ha poi condizionato certi comportamenti,
ha ispirato persino qualche riforma troppo sbrigativa nella legislazione!”.
“Come si fa”, gli domando smarrita dato che intanto l’ho riconosciuto, “quando succede che dei processi eccentrici,
scivolosi, con una libertà forse troppo spavalda per il proprio tempo, ci slittano altrove, verso interpretazioni forse
immaginose? Rischi così di diventare ‘l’inventore stralunato’ di Disneyland, o ‘lo scienziato pazzo’”.
“Le mie teorie non volevano portare a sottovalutare in assoluto le capacità autodecisive in favore di un rigido
fatalismo biologico”. Così Lombroso sembra cercare da me un’assoluzione.
“Ho persino richiesto che alla mia morte venisse effettuato sul mio corpo lo stesso trattamento autoptico, per
dimostrare che la scienza, come la morte, ignora le differenze sociali”. Continua infatti. Come il barone di
Münchhausen: prova a tirarsi su dalle sabbie mobili tramite il suo stesso codino.
Avverto ancora in lui l’ansia dello scienziato, della rivelazione che svela il senso dell’altro. Lui stava certo
interpretando attentamente sulla mia faccia il mio pensiero, cercando di leggere in ogni minima mia lievitazione
fisiognomica.
“Quest’ansia”, mi dice poi, azzeccandoci,“si riproduce in ogni viva intelligenza”.
Il tono della sua voce si sta facendo via via più roboante. E mi balena in testa la donna dagli occhi arrossati e il suo
orecchio enorme appoggiato alla porta.
“Forse bisogna solo intendere che non è necessario tradurre in certi termini rigidi di proporzioni e rapporti”, tento
timidamente, “ma qui è il tema stesso a essere troppo scivoloso e ambiguo”.
“Così sono il classico agnello sacrificale, intorno al quale in tanti stanno ancora continuando a pasteggiare!”
“Tanto che sembra che una sua salvazione sia impossibile”.
“Me ne rammarico. Ma lo scienziato ha il dovere morale del maestro di scuola? E comunque io ho aperto
un’autostrada nella Scienza, da me infatti nasce la Criminologia!”
È vero, accade anche, a volte, che si riesca ad aprire una porta con una chiave sbagliata e rugginosa. Intanto, un’aria
fredda, e forse la mia stessa ridda di pensieri dubbiosi, mi sfiorano la pelle, e in un dignitoso, virile svolazzo, con
una specie di sospiro rassegnato e convulso, la figura si ridisegna veloce su un foglio, dove ogni suo elemento si
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ricompone. Poi, come una carta da gioco nelle mani del prestigiatore, il foglio torna a nascondersi, risucchiato nella
pila di libri.
Resta però nell’aria ancora un’ombra, resta una macchia, ineffabile, ambigua, persistente.
L’arcivernice: Individuo e sostanza, l’essere si
dice in molti modi - I (ventottesima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-individuo-sostanza-lessere-si-dice-molti-modi-iventottesima-puntata-4043340172.shtml
“Aristotele si presentava ben diverso da Platone, e, per quanto Ramon fosse di carattere
piuttosto ardito e deciso, per la prima volta dall’inizio di questi incontri prodigiosi si rese
conto che la sua voce era lievemente tremante”. Ramon riporta in vita Aristotele.
La haecceitas, l’essere proprio quella cosa lì, e non un’altra. A questo pensava Ramon, mentre di mattina presto
prendeva atto che finalmente la primavera era arrivata. Era un fresco diverso, e il pur malconcio e poco curato
giardino, di cui vedeva solo la parte più lontana, data l’altezza della finestra, aveva tuttavia qualcosa di più
rigoglioso e più rasserenante del solito.
Secondo una certa linea di pensiero, quella occamistico-empirista, solo gli individui esistono, le idee generali
essendo “flatus vocis”, o costruzioni mentali. Ma l’esser-un-individuo è davvero qualcosa di più immediato, di
riscontrabile, di più facile da capire di un universale, di un collettivo, o, più banalmente, “e parte sermonis”, di un
nome comune? Quando fermarsi nell’analisi per trovare l’in-dividuo, ciò che non si può più dividere? Per gli
organismi viventi in fondo la cosa è dominabile, perché fa da discriminante quella misteriosa cosa che noi
chiamiamo “vita”. Così sembra plausibile che un cane, o un cavallo, siano un individuo, e non un insieme di
molecole: tagliandolo a pezzi, il cavallo “muore”. Viceversa per le cose inanimate il problema pare di tutt’altra
natura. Un tavolo è un individuo o un ammasso di legno, o di molecole, o di atomi, o di particelle sub-atomiche, o,
persino, nemmeno di materia, ma di materia/energia?
Secondo una certa altra chiave di lettura, un individuo è una astrazione metaempirica al pari di una categoria: in
realtà noi esperiamo sempre e solo dati sensibili, e solo attraverso la percezione e la concettualizzazione li
organizziamo poi in individui e collettivi. Così l’individuo sarebbe una astrazione, un punto limite mai esperito,
mentre il nostro vissuto si svolgerebbe entro una dimensione intermedia, un fascio di sensazioni simile alla
primordiale broda cartesiana. Ramon prese una decisione che, oltre che emozionarlo, un poco lo spaventava. Era
deciso a chiamare in causa nientemeno che “il maestro di color che sanno”. Non gli fu difficile trovarne l’icona.
Aristotele si presentava ben diverso da Platone, cui a Ramon venne naturale paragonarlo: l’aria pensosa, la
corporatura molto più minuta, nessun segno di alterigia, si accarezzava lievemente la barba a tratti già bianca. Per
quanto Ramon fosse di carattere piuttosto ardito e deciso, per la prima volta dall’inizio di questi incontri prodigiosi
si rese conto che la sua voce era lievemente tremante.
“Maestro, tu dividi l’essere in dieci categorie, ma ritieni poi che l’ambito della conoscenza scientifica, ciò che
definitivamente e pienamente è, sia solo la prima, quella della sostanza, l’‘ousia’”.
“È così; la sostanza è autonoma, autosufficiente, non ha bisogno d’altro che di sé per esistere. Non così le altre
categorie, i ‘symbebecota’”.
“C’è un salto ontologico tra la sostanza e le altre...”
“Non solo ontologico, ma anche logico, Ramon. Entro la categoria della sostanza si svolge l’analitica, perché il
discorso della sostanza è transitivo, mentre al di fuori della sostanza non lo è. Se io dico che Socrate è uomo, e
uomo è animale, concludo di necessità che Socrate è animale. Ma se faccio intervenire predicati esterni alla
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sostanza, la transitività non vale più. Se tu dici che Socrate è bianco, e bianco è colore, non potrai certo dedurre che
Socrate è un colore, o alcunché d’altro”.
“Ma allora, che cos’è l’individuo, l’individuo è sostanza?”
“Sì. Tu puoi dire l’essere in tanti modi, e anche così: esso si sviluppa nelle categorie, nei generi e nelle specie e
sottospecie, in una grande piramide, la grande piramide dell’essere e del dirsi-di. Fino alla soglia delle specie
infime, sotto le quali non stanno altri collettivi, ma le sostanza prime, che esprimono l’essere in massimo grado;
come questo uomo, che sei tu, o questo cavallo”.
“Ma come convincerò di questa visione chi ci assimila a un fascio di percezioni? Che cos’ha la sostanza prima di
diverso, perché io la possa distinguere?”
“Tu lo dimostrerai così: togli a Socrate una mano, e quegli sarà ancora Socrate, Socrate monco. Tu togli un lato a un
esagono, e non sarà più un esagono. Togli un requisito a una proprietà, e non sarà più quella proprietà, diventerà
un’altra proprietà. Togli al verde la componente blu, e non sarà più la proprietà dell’essere verde, ma quella
dell’essere giallo. Solo la sostanza prima, l’individuo cioè, è fatto per accogliere i contrari, può accogliere la
gioventù e la vecchiaia, la salute e la malattia, l’integrità e la menomazione”.
“Tu sai bene, Maestro, che c’è stato chi ha considerato la sostanza una entità metafisica, indimostrabile o
addirittura malfondata”.
“Questa mia via è uno dei modi di dire l’essere. Anche chi la nega in realtà spesso implicitamente vi aderisce, senza
esserne consapevole. Essa è insita nelle lingue fonetiche occidentali, in tutte. La struttura stessa del linguaggio ne è
portatrice, l’organizzazione del logos in ‘hypokeimenon’, soggetto, copula e predicato, indipendentemente poi dal
fatto che la copula sia assorbita o meno nel predicato”.
Ramon doveva pensare. Seguì un lungo silenzio.
L’arcivernice: Individuo e sostanza, l’essere si
dice in molti modi - II (ventinovesima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-individuo-sostanza-lessere-si-dice-molti-modi--ii-ventinovesima-puntata-4044017072.shtml
“Tentare di dimostrare tutto significherebbe o cadere o nella dimostrazione circolare, il
circulum in demonstrando, o nel regresso all’infinito”. Ramon riporta in vita Aristotele.
Dopo una intensa meditazione interiore, Ramon proseguì:
“Sotto questa organizzazione io posso dunque sviluppare l’analitica, cioè la scienza delle inclusioni e delle
esclusioni, la scienza deduttiva, quella che i posteri chiameranno la logica. È da qui che nasce la tua sillogistica...”
“Già. Ma la scienza deduttiva, o, come la chiami tu, la logica, ma lo stesso vale per tutte le scienze ‘formali’, le
scienze matematiche, hanno bisogno di principi primi, di punti di partenza non dimostrati, siano essi definizioni, o
postulati, o nozioni comuni a più scienze, quelli che oggi si chiamano ‘assiomi logici’”.
“Una scienza dimostrativa, o deduttiva, ha dunque in sé qualcosa di non dimostrato?”.
“È necessario Ramon. Tentare di dimostrare tutto significherebbe o cadere o nella dimostrazione circolare, il
circulum in demonstrando, o nel regresso all’infinito”.
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“Ma allora da dove acquisiamo la certezza dei primi principi?”
“Tutti gli animali hanno capacità sensoriali. Ma solo alcuni, più evoluti, hanno la capacità rammemorativa, la facoltà
di trattenere la parvenza della sensazione anche quando l’oggetto di essa non è più presente. Alcuni animali
superiori, tra questi, hanno poi la capacità di tesaurizzare le rappresentazioni passate, fino a formare quella che si
chiama empeiria, ‘esperienza’. Infine all’uomo può accadere di cogliere l’unità nella molteplicità, e formarsi così
l’universale. Attento Ramon: non è un’induzione per somma semplice, e non dipende dal numero delle esperienze,
ma è un processo noetico, che passa attraverso l’intellettualizzazione. A volte non cogli la causa analizzando mille
accadimenti, altre volte ti basta una sola esperienza per capire, cioè per cogliere l’uno nel molteplice. Tu vedi
l’eclissi, e non ne sai dare una spiegazione; poi ne vedi un altro, e un altro ancora, e non capisci, come è successo
per migliaia di anni. Ma supponiamo adesso che tu sia sulla Luna, durante l’eclissi. Capiresti subito che il Sole entra
nel cono di ombra, e coglieresti la causa con una sola esperienza. Il punto è allora che il principio, o la causa, o
l’universale, non si ottiene per aggregazione semplice di esperienze, ma con l’intervento del nous, dell’intelletto”.
“Dunque la conoscenza nasce dalla intellettualizzazione dell’esperienza”?
“Questa è l’origine; questo spiega cioè come si formano in noi i primi principi. Ma una volta scoperti, nasce la
scienza deduttiva, la quale si sviluppa senza più l’intervento dell’esperienza, perché anzi essa deduce ogni
esperienza possibile. Altro è il percorso della scoperta, altro l’ordine fondativo. Pensa alla geometria: per millenni
essa è stata “geo-metria” appunto, cioè misurazione della terra. Ma dopo Euclide si è liberata delle scorie empiriche,
e ci fornisce una conoscenza certa e formale, perché i primi principi sono stati colti”.
Ramon seguiva, ma a fatica. A ogni affermazione di Aristotele gli sgorgavano nella mente mille domande, il fiume
del pensiero si complicava in mille rivoli diversi, ciascuno complesso, sfidante, torrentizio. Delle tante, riuscì a
formulare una domanda:
“Maestro, ma tu pensi che quello che è accaduto per la geometria, una millenaria istruttoria empirica e poi il
passaggio a scienza deduttiva, si verificherà anche per le altre scienze, è cioè questo il percorso del progresso del
sapere”?
Purtroppo l’effetto dell’arcivernice cominciava a venire meno, e già Aristotele appariva diafano, impalpabile ed
evanescente. A Ramon parve di udire queste ultime parole:
“Per altre scienze di sicuro sì; se ciò valga per tutte...”
L’arcivernice: L’ironia, la metafora e la legge
animale (trentesima puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-ironia-metaforalegge-animale-trentesima-puntata-4044880577.shtml
“Piena di sensazioni di paranoie e di insidiose nevrosi, senza nemmeno usare il pennello
verso direttamente sulla fotografia di Lorenzo Milani l’Arcivernice, come un denso
sciroppo”.
“Di cosa speravano di prosciugare ancora uno studente Erasmus?” rifletto a voce alta: “non è che possa trattarsi di
uno scherzo?”.
Ramon mi sta passando velocemente davanti, diretto verso la porta. “Credevo che gli scherzi dovessero far ridere”,
dice ovviamente, sbattendosi l’uscio alle spalle.
Mi guardo intorno desolata, gli oggetti, i vestiti di Ramon sparsi e ammucchiati sul pavimento in un brutale
disordine. Ramon mi aveva chiamata che ancora era quasi notte, molto agitato, dicendo che dovevo correre da lui,
che aveva trovato tutto sottosopra... Però sembrava intenzionato ad andare eroicamente all’università anche quella
mattina.
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Rimasta sola là in mezzo, comincio a girare per la stanza a casaccio.
Cercare di rimettere un po’ in ordine non è una buona idea, l’ho letto tante volte nelle trame giallistiche dei racconti
polizieschi: non bisogna toccare mai niente, prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. Non ho nemmeno il coraggio
di risciacquare al lavello le nostre due tazzine del caffè.
Secondo l’infelice conclusione di Ramon, mi spetta adesso restare qui fino all’arrivo di quei tipi, la polizia, o i
carabinieri. Poi dovrò frantumare una realtà quotidiana per farla analizzare da loro. Dovrò sorbirmi un sacco di
ingerenze, perché alla fine possano farci credere di aver ricostruito una realtà più intera e sana di quella di prima.
Quelle gran verità che senti dal lettino degli psicoterapeuti, o quelle di alcuni politici, o vengono dalle cattedre di
certi professori.
Quando arrivano loro, nei vetri è ancora buio fra le trame dei lunghi rami neri che grattano alla finestra con mani
adunche per voler entrare. Il boato, lungo le scale, è di scarponi pesanti, da assetto antisommossa.
Dunque so già che da adesso dovrò tenere a bada tutta la mia dialettica e la loro. Da “dià légo”, dialettica. È come
dire “parlo fra”, ma anche “parlo contro”. Dovrebbe poter esserci divergenza di opinioni tra persone che “parlano fra”
loro. Ma qui ti rivolgono domande a senso unico. Un po’ come i quizzoni per passare agli esami. E certamente – ma
forse loro non lo sanno neanche – ancora abbeverati a qualche cosa che prende dalla teoria dell’atavismo criminale.
E alla fine si inceppano trattando stimoli linguistici come l’ironia, l’umorismo, la metafora...
Mi viene in mente il dialogo di Alice con la Regina Rossa: “Tu che conosci le lingue”, le chiese la Regina, “come si
dice in francese Violin-di-di”. “Se tu mi dici cosa significa Violin-di-di, io ti dirò come si dice in francese”, rispose
Alice. “Le Regine non mercanteggiano!” disse sdegnata la Regina Rossa.
Ecco, ho sbagliato nell’altra puntata, a evocare Cesare Lombroso. Avessi incontrato, che so, Jacques Lacan, mi
avrebbe fatto riconquistare una “parola piena”, in cui potersi sempre riconoscere. Oppure John Dewey, allora qui il
rapporto, il parlare delle cose, non sarebbe fondato su diffidenze, paure, ma sulla interazione libera fra persone.
Dico tanto di voler rubricare i luoghi comuni e poi casco su Lorenzo Milani. “I care”, il tuo problema è il mio, mi
riguarda, ti accudisco... Un po’ come l’alveo materno, condurre per mano l’interlocutore attraverso un processo di
interpretazione, un dialogo confrontante verso la scoperta del contenuto dello stato mentale dell’altro.
Sui vetri si sta già stampando un cielo sfacciatamente blu, mentre il rumore degli scarponi pesanti rimbomba
perfido come un nido di vespe per la stanza di Ramon, nell’affrettata ricerca del “modus operandi” di ladruncoli,
dicono loro, occasionali.
Strano però che Ramon abbia potuto attrarre una banda di ladri, con quel suo look obbligatoriamente di basso
profilo. Quale bottino potevano aspettarsi di trovare, qui, in questa camera piovosa di studente fuorisede? Lo
scalpiccìo marziale intanto si allontana, presto rimango sola. Mi avvicino esitante all’acciaccato barattolo
dell’Arcivernice. Ancora dunque? Sono già stralunata, ben consapevole di nuove ossessioni, compulsioni che non
sono più in grado di tenere a freno. Eppure sono certa, non credo negli zombi, né al transumanare di anime vaganti
da un posto all’altro. Per spregio di me stessa, piena di sensazioni di paranoie e di insidiose nevrosi, senza
nemmeno usare il pennello verso direttamente sulla fotografia di Lorenzo Milani l’Arcivernice, come un denso
sciroppo.
“Non la verità unica, dunque, Professore, non il canone infine, ma forse la disposizione umana all’empatia, i piccoli
riconoscimenti, e l’accoglienza”.
Lui, quel suo sguardo dolce e severo. Spesso ci insegnano a fornire soltanto performance faticose e modeste –
penso – ci insinuano canoni indicatori, implicazioni parassite. Restringimenti arbitrari, come quando si pone al
bambino la domanda tranello: pesa più un chilo di paglia o un chilo di ferro? Cadrà in inganno, perché nella parola
“paglia” è insito il connotato della leggerezza trattato come attributo assoluto anziché come concetto relativo.
“Scorgere con occhi torvi soltanto le carenze, scartare quelli che ‘fanno fatica’, abbandonare i più deboli...”. Queste
parole mi riportano alla realtà.
“Competizione indotta, Professore? E al prezzo di quanta solitudine!” rispondo amaramente.
“Basta guardarsi indietro”, lui conferma; nella sua voce tagliente, qualche residuo di raffinatezza potente e cristallina
che resta impressa: “in quel nostro comune passato neanche troppo lontano. I pasti cannibalici... Adesso quegli
orrendi banchetti hanno preso altre forme!”
“Allora dunque”, gli dico in un sussurro, “l’equivalente cannibalico oggi è l’incentivo alla competizione,
all’annientamento dell’altro, della sua componente più giovane, innovatrice, entusiasta. Perché devi arrivare alla
valutazione migliore, al traguardo per primo”.
“Si può sempre zoomare di più, Giulia, si può cambiare il fuoco, allargare, e nella lente analizzare chirurgicamente
anche se non più i corpi, se non le facce con stampigliati dei segni, delle mandibole enormi, o una fronte
sfuggente... Si considerano adesso altre cose, ma per poi sottoporle ad analogo trattamento!”
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“Così c’è sempre qualcuno che viene depredato, lasciato indietro, escluso”, scandisco piano abbassando la testa,
“certo è un modello altrettanto selettivo...”.
Sollevo un po’ lo sguardo in attesa di un’altra di quelle sue risposte nette e coerenti, ma un forte colpo di vento
spalanca i vetri ormai pieni di luce.
Sembrava che il sole e il tempo avessero cominciato a sciogliere quella bella figura fino al completo suo
disfacimento, lasciando solo una piccola goccia brillante sul vetro. Che si era poi smarrita tremolante, dimenticata
del tutto in quei colori abbaglianti.
L’arcivernice: Il mondo esterno e i frattali
(trentunesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-mondo-esternofrattali-trentunesima-puntata-4045416431.shtml
“Maestro, ma allora il mondo è ‘frattale’?”. Malndenbrot aveva già i contorni sfumati
dell’evanescenza. Ramon colse un ultimo flatus vocis: “forse, ragazzo”.
Ramon si risvegliò preso da un grande senso di confusione. Mondo/sopramondo. Il mondo del pipistrello. Le “cose
comuni” che travalicano l’uso, che si porgono come datità quotidiana, come insegna Warhol a Giulia. La domanda
che suscita angoscia: ma cosa c’è là fuori? E poi, c’è un di-fuori? Non avrà ragione Fichte, c’è solo l’io, che altro mi
consta, se non il residuo come non-io? Pessima mattina, ogni ingenua ovvietà viene meno, mancano i puntelli cui
appoggiarsi. Si può vivere senza il mondo esterno? Il paradiso della geometria di Euclide pare dissolversi. Bacillum,
diminutivo di baculum, bastone: Ramon si sentiva un “imbecille”, cioè colui che ha bisogno di un bastone per andare
avanti.
Ramon doveva capire meglio, capire di più. Non ha senso chiedersi se il mondo sia euclideo, il mondo non è una
“geometria”. Ma non pare nemmeno farsi ridurre a resistenza iletica, antitipia; il mondo è energia, è dynamis,
virtualità, poiché c’è un seguito, l’unico seguito irreversibile, quello del tempo.
Così pensava Ramon, mentre, distratto, eseguiva meccanicamente il rito del risveglio, l’accensione della macchina
del caffè, le abluzioni mattutine.
Si sedette poi al tavolo di legno massiccio, con la tazza del caffè fumante in una mano, mentre con l’altra prese a
sfogliare un grosso tomo che Giulia gli aveva regalato, “Della geometria e dintorni”. C’era troppo a cui pensare, la
mente rischiava l’overflow, il tilt, il blocco definitivo e finale. Sfogliando, si imbattè nella foto di Benoit Mandelbrot,
l’ideatore dei frattali. Che sia questa la via per capire come è fatto il mondo esterno? Che sia questo il bastone? La
decisione di ricorrere all’arcivernice fu presto presa.
“Maestro, come è fatto il mondo esterno?”
“Noi siamo abituati a studiare gli oggetti, dal punto di vista matematico, riportando il problema che ci interessa a un
loro modello ideale, geometrico o matematico, il quale, nella sua idealità, appunto, presenti i caratteri della
regolarità. Per esempio, calcoliamo l’area di un terreno triangolare ragionando su un triangolo perfetto, che giace su
un piano, e i cui bordi sono linee perfettamente rettilinee, dotate di lunghezza ma non di larghezza né di spessore.
In altre parole, ci volgiamo al mondo delle idee, che è privo di irregolarità, per conoscere quello delle cose, che ne è
un’imitazione difettiva”.
“Mentre invece...”
“Assumiamo di dovere compiere la misurazione di una costa, per esempio, d’Inghilterra. Se compiamo questa
operazione su una carta d’Europa, saranno segnati pochi punti rilevanti. La costa, per noi, sarà una spezzata che
collega in modo rettilineo quei punti rilevanti. Se ora passiamo a una carta più dettagliata, scopriremo che i punti
rilevanti sono molti di più, e che quei tratti che prima abbiamo considerato segmenti rettilinei sono a loro volta delle
spezzate. E così via, fino a un punto che dipende dalla lunghezza minima che intendiamo prendere in
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considerazione.
“E quindi...”
“La caratteristica fondamentale delle strutture frattali è, quindi, prima di tutto, quella che è stata chiamata della
auto-similitudine o auto-somiglianza: nella parte ritroviamo, ricorsivamente e a livello più piccolo, la struttura
dell’intero. Così la parte di un cavolfiore è un piccolo cavolfiore in miniatura, e il ramo di un albero è simile
all’intero albero, così come i rami più piccoli che si dipartono da esso. Questa caratteristica, ben nota ai matematici
per gli insiemi infiniti, viene qui assunta anche per quelli finiti. Riprendiamo, ad altro titolo, l’esempio della carta
d’Inghilterra: al punto estremo di precisione, la carta è fatta tanto bene, a un tale livello di dettaglio, che dentro alla
carta c’è la carta stessa, molto più in piccolo, naturalmente, e il processo è iterabile a piacere. A questa specie di
paradosso ci aveva abituato la definizione costruttiva di infinito alla Dedekind, come insieme auto-riflessivo.
Adesso, per capire i frattali, ci si chiede di compiere lo stesso percorso intellettuale anche per gli enti finiti”.
“Ma, professore, il mondo è ‘frattale’?”
“Che il mondo sia frattale non lo so. Ma questo approccio consente una via intermedia tra determinismo e non
determinismo.”
“In che senso, perché il mondo esterno non dovrebbe essere deterministico?”
“Il tratto della causalità non deve essere ridotto a quello della semplicità, e quindi calcolabilità: un fenomeno, nel
rispetto della causalità, può presentare un grado di complessità tale che la cosa migliore che possiamo fare è di
descriverlo come casuale. Qui l’esempio canonico è quello delle previsioni meteorologiche: un sistema di turbolenze
è composto di vortici, i quali a loro volta sono composti da vortici più piccoli, e così via. Il sistema è frattale, e, a
ogni livello, ritroviamo, nel rispetto della causalità, un grado di complessità indominabile. Ecco quindi che il
macrofenomeno acquista un carattere di apparente casualità. Tanto più in considerazione del fatto che il suo
andamento può essere fortemente influenzato da una causa indefinitamente piccola.
“Ma questo non dipende dalla nostra ignoranza, dal non sapere ancora spiegare compiutamente i fenomeni?”
“O non sarà tuttavia, gnoseologicamente vero che comunque ogni ente che si dà nel mondo debba avere, o
assumere, le caratteristiche euclidee, secondo la teoria delle forme a priori dell’intuizione sensibile kantiana?”
“Ma cosa vieta che le dimensioni siano numeri non interi? Accanto alle dimensioni 1, 2, 3... perché non si potrebbe
dare la dimensione un mezzo?”
“Maestro, ma allora il mondo è ‘frattale’?”
Malndenbrot aveva già i contorni sfumati dell’evanescenza. Ramon colse un ultimo flatus vocis: “forse, ragazzo”.
L’arcivernice: Scienza, fallacie e progresso
(trentaduesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-scienza-fallacieprogresso-trentaduesima-puntata-4046036329.shtml
“La scienza è certa? La scienza è stabile? La scienza è ‘vera’? Come fa una conoscenza a
darsi da un lato come definitiva e dall’altro come in progresso?”. Ramon decide di
chiederlo a Comte.
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Da dove cominciare? Ramon pensò che il primo problema, quello che consideriamo fondativo della filosofia, il suo
battesimo, fu “che cos’è l’arché”, il principio primo di tutte le cose. L’antichità classica, la cultura greco-romana,
prende l’abbrivio dal mondo: da dove comincia, come è fatto il mondo? Questo è il problema ontologico; sull’essere.
Il medioevo cristiano parte da Dio; e in base alla soluzione al problema teologico spiega il mondo, l’uomo, il
conoscere. Poi c’è la svolta cartesiana. Nasce la filosofia moderna. Il punto di partenza diventa il nostro conoscere e
i suoi limiti. E questo vale tanto per i razionalisti quanto per gli empiristi: filosofia come studio dei limiti della
conoscenza umana. Il problema gnoseologico diviene il punto nodale, il primo fra i problemi: “tu come fai a
saperlo?”. Questo approccio domina poi tutta la filosofia moderna, con rare eccezioni. E, per questa via, la domanda
diventa allora: “che cos’è la conoscenza scientifica?”.
Per un verso essa si autocomprende come certa, sicura, convalidata, in posizione contrastiva con quanto è
opinabile, incerto, non provato. Per un altro, tuttavia, essa si pone come pulsante entro un inarrestabile progredire.
Come si conciliano la certezza e il progresso? Il progresso non è forse messa in discussione, ripensamento,
smentita infine? Come può questo tratto convivere con la certezza, la validità universale?
Pessima giornata, pioveva, con quella pioggerellina insistente, lieve ma duratura, sempiterna, come se dovesse
piovere fino alla fine del mondo. Ramon vedeva, nella zona lontana del giardino, il verde delle foglie ravvivarsi,
qualche ramo più debole e flessibile agitarsi al vento. Il mondo esterno, fatto di colori o di onde, interno o esterno
alla coscienza, par reclamare, comunque, una esistenza per sé. Devi farci i conti, pensa quel che ti pare.
La conoscenza scientifica. La scienza è certa? La scienza è stabile? La scienza è “vera”? Eppure, per ogni epoca, è
facile trovare controesempi: il flogisto, la quintessenza, le forze vive, la Terra al centro dell’universo ecc. Quante
falsità ci ha propinato la scienza? E, d’altra parte, una volta di più, come fa una conoscenza a darsi da un lato come
definitiva e dall’altro come in progresso?
Ramon decise per Comte. Chi più di lui aveva dedicato la sua indagine alla scienza?
“Chi può negare di avere vissuto, nella sua vita, una fase ‘teologica’, una ‘metafisica’, e solo alla fine una
‘scientifica’?”
“Maestro, ma solo l’ultima ha la verità?”
“No, Ramon, ogni stadio ha la sua quantità di verità. Ma un conto è la metafora, un altro è il sapere positivo. In ogni
fase dello sviluppo c’è un quantum di conosciuto e un quantum di non conosciuto, meglio, non ancora conosciuto,
perché l’inconoscibile è concetto di per sé contraddittorio. Così la scienza procede dal generale al particolare, e dal
semplice al complesso. La prima scienza fu l’astronomia, quando l’uomo, in quella terra fertile racchiusa tra il Tigri
e l’Eufrate, spinto dalla sua naturale curiosità, volse gli occhi al cielo stellato, scrutandone i bagliori, e cercando di
carpirne i segreti. Poi venne la fisica; poi la chimica; poi la biologia; e, infine, la sociologia, la “scienza bambina”, la
più particolare e complessa, nel processo dall’inorganico all’organico, dal generale al particolare. E ciascuna scienza
è articolata in una parte statica, che ne giustifica la stabilità, ovvero l’aspirazione alla certezza, e una parte
dinamica, che la proietta verso il superamento e l’apertura di nuovi fronti”.
“Maestro, ma non vedo, nella tua gerarchia, che posto occupi la matematica”.
“Vedi Ramon, non lo vedi perché la matematica nella mia gerarchia non c’è proprio. La matematica non è una
scienza a sé, ma l’essenza stessa della scienza: è il metodo condiviso, il presupposto di ogni sapere scientifico.
Come ha già detto anche Kant, in ogni sapere vi è tanto di scienza quanto vi è di matematica”.
“E nemmeno vedo la psicologia”.
“Qui il discorso è diverso. La psicologia come scienza positiva è un’illusione, perché pecca del peccato d’origine
della autoreferenzialità: come può la mente umana sdoppiarsi, e studiare se stessa come se fosse altro da sé?
Quanto vi è di scientifico nella psicologia si riconduce dunque nella sua parte statica nella biologia, e nella sua parte
dinamica nella sociologia. Sociologia che, appena nata, attraversa ora la sua prima fase, la fase ‘teologica’”.
Ramon rimase molto colpito da questa visione, così monolitica e onnicomprensiva. Chissà come in essa andrebbero
inseriti i saperi ulteriori, più recenti, come per esempio l’informatica, o l’intelligenza artificiale. Quale migliore
soluzione che chiederlo a Comte?
“Maestro, posso chiedere...”.
Purtroppo l’effetto del prodigio aveva avuto un brusco degrado, e solo dei tratti ormai quasi indistinguibili della
figura occupavano qualche tratto cromatico della dissolvenza.
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L’arcivernice: Scienza, fallacie e progresso
(trentaduesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-filosofia-carlo-alcunidubbi-teologici-trentatreesima-puntata-4046498421.shtml
“Ramon cercava di sfruttare al massimo il grande privilegio di essere coinvolto in una
riforma epocale dell’università. Cercava di capire la situazione, e seguiva attento tutti i
provvedimenti di legge, pur nel loro incalzare quasi quotidiano; e tuttavia, per quanto
dominasse molto bene la lingua italiana, il gergo giuridico dei decreti che si
susseguivano incalzanti gli era ostico”.
Giulia aveva un cane, un carlino. Un carlino di nome Carlo. Ora, un carlino è un cane per modo di dire; Ramon se ne
era reso conto subito. Per prima cosa, un carlino non si autocomprende come cane, ma come essere umano. Per
quanto non capisca bene la differenza, è abbastanza disinteressato ai cani e perfino alle cagne. Di fatto pensa di
essere umano, anche se con qualche perdonabile lacuna. Il carlino è un cane snob, non ha molto l’istinto alla
riproduzione: come quel famoso dandy, forse direbbe: “la fatica è tanta, la soddisfazione effimera, la posizione
ridicola”...
Ramon aveva un buon rapporto con Carlo. Gli parlava spesso di filosofia, e gradiva molto il fatto che Carlo non gli
facesse delle domande cretine. Carlo guardava, con quegli occhi estremamente espressivi, e così comunicava.
Ramon doveva studiare la Fenomenologia dello spirito di Hegel, e si intrattenne a lungo sulla dialettica servopadrone. (Herrschaft und Knechtschaft). L’autocoscienza, per Hegel, nasce da qui, dalla lotta e non dall’amore
(come aveva pensato in un primo tempo). Da qui l’importanza del rapporto signoria/servitù, che tanto influenzerà
Marx nella concezione della “lotta di classe”. La lotta vede prevalere il padrone, mentre il servo si assoggetta pur di
sopravvivere. Ma poi, senza che vengano meno i ruoli originari, accanto a questi si instaura il loro capovolgimento:
il padrone si rende conto di dovere il suo status al servo, e persino il suo mantenimento, dato che il servo lavora per
lui; e dunque rimane ingabbiato nel suo essere servo dell’essere padrone. Così il padrone, per essere se stesso,
diventa servo, in quanto condizionato, del servo che diventa padrone. E quello, nella comprensione del suo ruolo e
del suo lavoro il servo, non coinvolto in modo affettivo in quanto lavora su ciò che non gli appartiene, domina i suoi
desideri. Qui sta la radice dell’autocoscienza, che non è più semplicemente in Hegel un pensiero autoriflessivo, ma
si colloca, al solito, in una situazione dialettica.
Ramon riassunse tutto ciò a Carlo, che lo guardava con occhi allucinati. Poi Carlo disse: “Qui bisogna spiegare” non
è che Carlo parlasse davvero, ma i suoi occhi così espressivi comunicavano molto bene con Ramon. Così, appunto,
disse: “Tu mi mantieni, mi dai da magiare, mi porti a passeggio almeno due volte a giorno, mi porti dal veterinario
se sto male, e paghi tu. Mentre io me ne sto tranquillo tutto il giorno a fare quello che mi pare. E tu saresti il
“padrone”? Ecco una banalizzazione della dialettica servo-padrone illuminante. Carlo capiva bene Hegel, pensò
Ramon, forse meglio di lui.
Poi pensò che il carlino non è propriamente un cane; ha diversi tratti del gatto. In primo luogo, graffia. Non avendo
le unghie retrattili come i gatti, non graffia solo quando vuole, ma anche quando non vuole. Pazienza. In secondo
luogo, un carlino fa le fusa. Chi non ne ha avuto esperienza farà fatica a crederci, ma è così: dai a un carlino un cibo
che gli piace molto, e comincerà a praticare quella strana, indescrivibile attività propria dei gatti. Infine, il carlino si
toeletta con la lingua, almeno due volte a giorno, come i gatti.
Ramon non poté esimersi dal pensare che, millanta anni fa, qualche gattina in calore possa avere ceduto le sue
grazie a un qualche cane, disperato dalle sue scariche di adrenalina. Chissà. O forse viceversa. Darwin considera il
concetto di specie in base al fatto che la riproduzione avviene all’interno della stessa. Così il concetto di “razza”
sarebbe spurio, in quanto privo di una definizione funzionale: da ogni accoppiamento vien fuori qualcosa, che non è
un “ibrido” in senso biologico, ma un essere vivente a sua volta in grado di riprodursi. Ma Ramon pensò: chissà
poi... È già un casino accoppiarsi con individui della propria specie, chi ha mai provato con tutte le altre?
Ramon volle ancora parlare con Carlo di filosofia. E gli occhi vivissimi del cane ne proclamarono i principi basilari, si
vedevano benissimo negli occhi vivaci, ben noti e condivisi da tutta la sua specie: “Di fronte al nuovo, devi prima di
tutto cercare di conoscerlo, di annusarlo”. Qui Ramon capì che la visione era tipicamente canina. Anziché all’olfatto,
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un uomo si poteva affidare ad altre modalità, la vista, la lettura, l’analisi; ma questo poco importava rispetto alla
teoria filosofica di fondo.
Carlo continuò: “Dopo averlo fiutato, devi vedere 1) se ci si può fare l’amore; 2) se si può mangiare; se 1) e 2)
falliscono, devi alzare la gamba e...”.
Era una filosofia ragionevole, malgrado tutto, pensò Ramon. Forse non troppo sofisticata, ma sicuramente chiara ed
efficiente, come vuole la mentalità aziendalistica imperante.
Ramon cercava di sfruttare al massimo il grande privilegio di essere coinvolto in una riforma epocale dell’università.
Cercava di capire la situazione, e seguiva attento tutti i provvedimenti di legge, pur nel loro incalzare quasi
quotidiano; e tuttavia, per quanto dominasse molto bene la lingua italiana, il gergo giuridico dei decreti che si
susseguivano incalzanti gli era ostico.
Aveva sul tavolo la stampa del DL 76, con i criteri per le abilitazioni da professore; il suo professore di filosofia del
linguaggio, l’esame che stava preparando il quel periodo, gliene aveva parlato, accennando a una mediana una e
trina; e aveva aggiunto che lui, in sede statistica, aderiva alla eresia monofisita; Ramon non era tanto sicuro di
capire bene. Pensò di cercare di indagare su come la pensava Carlo: gli porse la stampa, che aveva diligentemente
ottenuto dal sito del MIUR, e la porse a Carlo. Lui la fiutò a lungo, l’odore tipico della stampa densa di toner. Carlo
stabilì subito che non era commestibile. Si rese anche conto ben presto che non ci si poteva fare l’amore; e,
giocoforza, ne dovette trarre, operativamente, le ineluttabili conclusioni.
L’arcivernice: Un angosciante dialogo a tre
(trentaquattresima puntata) di
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-angosciante-dialogo-tretrentaquattresima-puntata-4049387695.shtml
“Che tipo di cortocircuito avrebbe potuto avvenire tra un pensatore triste, malinconico,
profondamente e rigorosamente cristiano, dominato da sensi di colpa e afflati ascetici,
e l’oppositore del sopramondo, il raffinato filologo classico, pervaso dallo spirito
dionisiaco fino alla follia?”. Nietzsche e Kierkegaard.
Distratto, pasticcione. Nella mente di Ramon risuonavano queste parole, con cui lo sgridava sua madre,
nell’adolescenza. Ma come poteva essere accaduto? Va bene che le due icone erano vicine, ma cavolo...
Aveva combinato un pasticcio, questo era chiaro. Voleva dialogare con Nietzsche, filosofo che sentiva di non aver
capito fino in fondo; ma il largo pennello aveva coinvolto la figura consecutiva, quasi tutt’uno, quella di Sőren
Kierkegaard. E adesso, ecco, ce li aveva entrambi davanti agli occhi; e sembrava che essi, quasi senza accorgersi di
lui, si studiassero a vicenda.
Che tipo di cortocircuito avrebbe potuto avvenire tra un pensatore triste, malinconico, profondamente e
rigorosamente cristiano, dominato da sensi di colpa e afflati ascetici, e l’oppositore del sopramondo, il raffinato
filologo classico, pervaso dallo spirito dionisiaco fino alla follia? Ramon pensava a come rimediare al fattaccio, ma
non aveva idea di come far regredire gli effetti dell’arcivernice.
Nietzsche: gli occhi vividi, aggressivi, al contempo indagatori e pungenti, così come curiosi di tutto, gli spessi
baffoni a coprire il labbro superiore, il brillio del genio e della follia, della musica di Wagner e della licenziosità di
Lou von Salomé. Il sublime arpeggio del greco di Teocrito, la sfida impudente del Wille zu Macht. E, di fronte,
l’uomo soggiogato dal senso del peccato, il teorico dell’“uomo religioso” come fine ultimo, l’uomo che ha
perpetuamente una “scheggia nelle carni”. Quale connubio più inconcepibile, quale antitesi più paradossale. Che
cosa li accomunava, se non il rifiuto degli esiti hegeliani? Eppure i due si guardavano con una evidente attenzione,
quasi con rispetto, con mutua curiosità.
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Fu Friedrich il primo a parlare: “Ho letto il tuo ‘Timore e tremore’; e anche ‘Briciole filosofiche’. Opere pervase di
angoscia, di bisogno del sopramondo, opere ‘deboli’”.
Ecco, il dado era tratto. E ora che dire, come inserirsi, che altro rimaneva se non assistere?
Kierkegaard aveva tutto di austero; i vestiti scuri, lo sguardo melanconico e bonario, ma con un sottile sottinteso di
tagliente ironia. Pacatamente reagì.
“Non ho molto interesse al gradimento delle mie opere. Per altro, tu vivi e vivrai la tua angoscia, come io la mia. Poi
potrà anche farti gioco il negarlo, l’atteggiarti a super-uomo; ma alla sera andrai a letto con te stesso”.
“Dunque io dovrei rifugiarmi nell’edenica favola del sopramondo, per lenire le mie ansie metafisiche entro un
mondo ovattato, che funga da placebo al mio io?”
“Tu sai dentro di te che stai male; altro che super-uomo, tu sei nella fase del Don Giovanni, che coglie fior da fiore il
meglio della vita, dominato da un ideale puramente estetico ed edonistico”.
“Tu invece ti assoggetti all’‘etica degli schiavi’, alla difesa del debole, contro le leggi di natura. Il tuo ‘padre di
famiglia’, o, ancor più e ancor peggio, il tuo ‘uomo religioso’, non sono forse esseri difettivi, che non sono in grado
di ‘dare norma a se stessi’, che devono pietire il loro essere appellandosi alla misericordia di una entità superiore?”
“Ma tu, nel tuo delirio onirico di onnipotenza, nel tuo ‘conoscere’” e dare norma al mondo, anziché riceverla, ti senti
realizzato, stai bene? O soffri di quella ‘angoscia’ che volentieri non si confessa?”
Qui a Ramon sembrò di capire. Ecco perché, ecco dove, i due pensieri, pur così antitetici, pur così apparentemente
inconciliabili, si incontrano. Ecco perché entrambi sono considerati gli antesignani dell’esistenzialismo. Avrebbe
voluto inserirsi; ma come fare, tra due mostri sacri? Ramon era coraggioso, e provò:
“Chi, se non un dio, può creare questa discrasia sofferente tra un’ansia metafisica di infinito e l’hic et nunc del
quotidiano dasein?”
L’effetto fu come se, durante una conversazione scherzosa, uno avesse chiesto ad alta voce: ‘quanto costa una
cassa da morto’? Entrambi tacquero pensosi, per un lungo momento.
“Friedrich decise di autocitarsi: ‘In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi
solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più
menzognero della storia del mondo: ma tutto durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si
irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Quando tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di notevole’”. [1]
“Già. Il tuo ‘Verità e menzogna’. Ma questo tuo mondo casuale, che ritorna all’infinito su se stesso, nell’eterna
ciclicità del banale non può stare in piedi da solo, non sta sulle sue gambe, non può essere causa sui”
“E allora è meglio inventarsi un sopramondo che lo tenga annodato ai suoi fili come una marionetta?”
Tutti e due, pensò Ramon, vivevano, ciascuno a suo modo, la disillusione dovuta al crollo dei grandi sistemi
onnicomprensivi e ottimistici, come l’idealismo e il positivismo, disossati e falcidiati dalla mannaia darwiniana. E
tutti e due ripartivano dall’individuo e dalla sua angoscia; attenti alla lezione nichilista, al pessimismo
schopenhaueriano, prendendo l’abbrivio dallo stesso punto di partenza, come in una pista d’atletica, partivano con
lo stesso grande slancio ma in direzioni opposte: quella tra il superuomo e l’uomo religioso era una gara
impossibile.
[1] F. Nietzsche, “Sul pathos della verità”, 1870-1873, incipit di “Verità e menzogna in senso extramorale”, Opere, v.
III, t. II, p. 216.
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L’arcivernice: e c'è qualcosa in quel nulla
(trentacinquesima puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-doctor-angelicustrentaseiesima-puntata-4050803273.shtml
“E, come per le opere Work in Progress, anche il pensiero dovrebbe poter scorrere,
spinto da libertà, riempire i vuoti. Senza pareti nivee, erte e rassicuranti, di canoni e
risposte chiuse. Soltanto in questo modo, di una vita puoi dire che è stata proprio una
vita”. Basquiat.
Ormai è quasi autunno; il vento forte fa tremare i vetri con un suono di scalpiccii veloci, i fruscii e sospiri. Una come
me può trarre qualsiasi conclusione da certi rumori: la donna della guardiola, ad esempio. Secondo me potrebbe
ciabattare di soppiatto, avanti e indietro sul pianerottolo strusciando le pattine di panno sul pavimento, e origliando
alle porte. Con il suo orecchio enorme. Secondo me sarebbe anche disposta a fare “il lavoro sporco”, tipo fare la spia
per il nemico. Forse ha la paranoia di chi si sente chiamato a purificare il mondo... e in questi tempi le tossine sono
velenose.
Certo, Ramon ha un'esistenza che si muove senza perno, disordinata; a volte, mentre è intento a seguire i ghirigori
della sua fantasia, sembra perfino in stato di possessione. Uno come Ramon può destare sospetto, ecco perché
hanno accusato lui, per il grande graffito tracciato sul portone d'ingresso. Invece la mia vita sembra lineare, io filtro
tutto con infinita cura, senza concedere nulla di più. Realtà meditata, ridotta all'essenziale, al valore. Così scavalco
ogni pregiudiziale filosofica. Ramon ha l'abitudine di vivere con una grande intensità emotiva, restando concentrato,
quasi involuto. Ma si sa, lui è venuto dal Paese dell'amore per il rituale, l'esaltazione di emozioni che quasi ti
estraniano dal mondo. Così la sua tendenza a considerare unica norma e legge il proprio istinto.
Intelletto ed emozione. Normalmente si pongono come contrari; bisognerà trovare una sintesi, o mantenerli
debitamente separati? E oggi è ancora l'artista che deve rompere la relazione dialettica, porre il problema in termini
diversi, fondere intelletto ed emozione in uno stesso ritmo?
Passo davanti al biasimato graffito sul portone. Lo scarabocchio immondo, lo sfregio, come sdegnati lo definiscono
gli altri inquilini. Quanto meno sentito come irriverente, certo verso di loro. Poi attraverso soprappensiero il lungo
corridoio, straniero in patria ogni volta, solennemente in punta di piedi, in quel mio insopportabile rito compulsivo.
Dentro, si nota subito qualcosa: Ramon si è portato via uno zaino di libri, per il suo esame. Gli spazi vuoti, nella
libreria mezza rotta, in quella disinvolta confusione, sembrano vuoti il doppio. Già, anche Bologna è una città piena
di vuoti da riempire. È ancora indecisa se diventare metropoli, o rimanere una città di provincia. Tutto così rimane
chiuso nei suoi muri, dove i muri però non sono spazi, ci sono solo per chiudere. Senza poter volare, senza poter
scavalcare l'orizzonte, come nei claustrofobici test-a-risposta-chiusa: è così che poi i cervelli fuggono altrove, e certo
non per spirito migrante.
Forse i Writer, i graffitisti, sono sfrontati nell'assalire i vuoti, i muri, con quel loro gesto clandestino, semplice e
secco, con l'energia. Forse sono aggressivi quando, anche cromaticamente, loro vanno oltre l'infinito. Gli spazi sono
inerti, fermi da tanti secoli, e i Writer stabiliscono dei percorsi giocosi o di angoscia, percorsi aperti, e te li
impongono, perché la mente impari ad orientarsi in modo indipendente. Una realtà imprevedibile. Perciò, per tanti,
spaventosa.
È magia? No, non è un attimo poi tutto torna come prima, un'esplosione, un volo fuori dal cappello a cilindro poi
inghiottito di nuovo: da adesso quei graffiti staranno là per sempre. E c'è qualcosa in quel nulla.
Se poi nessuno avrà, con pennellate censorie, coperto tutto.
Sì, perché là in quei graffiti c'è un discorso diaristico, ma c'è anche la denuncia di malefatte degli altri...
Mi trovo con le mani sull'Arcivernice quasi senza propormelo.
Il gesto, nella suggestione, è altrettanto clandestino e rabbioso, ma anche qui è nel contempo tenero, delicato, una
carezza su quello sguardo sincero. Anche loro, sono appunto arroganti e sfrontati nell'innovazione frenetica. Eppure
delicati, solitari e indifesi, se immaginati in quei momenti notturni.
Spennello anch'io così, con quello stesso furore, su una delle tante foto di Basquiat. E la sua forma si delinea
lentamente nell'aria fino a che i lineamenti si completano.
“Maestro...”, inizio allora titubante, poiché non so se gradirà l'appellativo borghese, da vecchio provinciale. Ma lui
sembra soltanto attento a stabilire "quel dialogo eloquente di solito impedito dalla solitudine in cui vive gettato
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l'uomo urbano" [1]. Così continuo, timida e indecisa: “...un destino tracciato, un delitto compiuto con bombolette
spray?”
“Certo”, lui mi risponde subito, “uno shock estetico e psicologico! Qui nulla è ovvio e confortante, perché da
entrambe le parti non assolve”.
E poi nessun sistema di stabilità: quelle libere aggiunte, l'intercambiabilità, la sovrapposizione evidente di stili
diversi, a volte semplicità scheletrica, a volte ridondanza. Un universo gioioso e conflittuale. Certo uno spirito
insolente. E quelle generose sovrapposizioni di mani, gli accostamenti - ma dove non si danno gerarchie - anche di
intere generazioni attraversate da forze diverse.
“In questi spazi urbani, c'è ancora adesso il rifiuto della prontezza ad accogliere quelle spinte spontanee, espressive
e generose. C'è il monopolio, il privato, i filtri dei canali di informazione, la rigida chiusura entro recinti più
rassicuranti”. Azzardo poi.
“Tranne per chi possiede, o permette, l'espressione di processi mentali liberi, raffinati, Giulia. Pensa, già il vostro
Bruno Maderna: nel consegnare all'editore la sua partitura, la strutturò in singoli fascicoli non rilegati, che non
avessero un ordine vincolante per l'esecuzione!”
Già, e penso ogni volta anche a John Cage, con i suoi inserimenti materiali, le interazioni, i tocchi, gli spostamenti
coraggiosi, per far esistere sonorità libere e nuove, come lo sono questi dialoghi notturni, queste tracce scoppiate
sui muri. E prima ancora Desargues, nel suo libro “Le brouillon”, il “brogliaccio”, lui adottò il “mal parlare in
matematica”. Una stramberia, che infatti rimarrà sempre un po' incompresa, il suo vocabolario nuovo per aprire la
scatola buia in cui siamo prigionieri. E così niente più punti, rette, segmenti, in quella scatola chiusa, ma alberi,
ceppi, nodi, al loro posto, e ramoscelli... E così gli orizzonti si spalancano.
“E come per le opere Work in Progress”, lui, Basquiat, mi conforta nei miei timorosi ragionamenti, “anche il pensiero
dovrebbe poter scorrere, spinto da libertà, riempire i vuoti. Senza pareti nivee, erte e rassicuranti, di canoni, e
risposte chiuse. Soltanto in questo modo, di una vita puoi dire che è stata proprio una vita”.
Forse questo c'è stato, in una vita così breve.
Riempire i vuoti.
Solo un istante, poi tutto torna come prima. Esco, e sul portone “il reato” è stato già cancellato. Già, l'estate è finita.
[1] A. Bonito Oliva, "L'ombra perenne dell'arte nella vita breve di Basquiat", Ginevra-Milano 2005.
L’arcivernice: Il Doctor Angelicus – I parte
(trentaseiesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-doctor-angelicustrentaseiesima-puntata-4050803273.shtml
“Substantia est quod existit in se et per se” (“La sostanza è ciò che esiste in sé e per sé”).
Tommaso.
Ramon meditava sulla critica del concetto di sostanza sviluppata da parte dell'empirismo inglese, da John Locke in
particolare.
Da un lato gli era evidente quanto questo concetto fosse metafisicamente compromesso (nell'accezione di
“metafisica” postkantiana e in specie della così detta filosofia analitica), dall'altro si chiedeva come se ne potesse
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fare a meno, senza affogare nella broda cartesiana. Togliamo le sostanze, pensò, assumiamo cioè che non esistano.
E qui ebbe due visioni. La prima fu di un mondo in cui tutte le cose si mettessero a correre, come in un film
proiettato a velocità supersonica, molto più veloce, cioè, di quando noi scorriamo in avanti o indietro velocemente
un film, per ritrovarne un punto preciso: figure quasi indistinguibili, macchie colorate quasi prive di forma. Tutto
che sibila e corre, tutt'intorno. La seconda visione era quella opposta: tutte le cose si fermano, si cristallizzano, non
c'è modo di spostarle di un millimetro; tu giri entro questo assurdo labirinto, che non ha vie d'uscita, e ti ritrovi
sempre allo stesso punto. Ramon capì che aveva ritrovato Eraclito e Parmenide. E capì anche che il suo Io era
divenuto un fascio di percezioni, senza una contropartita razionale. Allora la sostanza ci è necessaria, pensò. Ma,
d'altra parte, indispensabile o no che sia, resta spalancato il problema di cosa essa sia.
Ramon capiva bene che avrebbe dovuto riparlare con il Maestro di color che sanno, farsi rispiegare daccapo; ma
d'altra parte sapeva bene che ciò travalicava le regole dell'arcivernice. Che fare? Si ricordò allora di un consiglio che
una volta gli aveva dato il suo strampalato professore di filosofia del linguaggio: leggi pure le edizioni moderne di
Aristotele, l'Opera Omnia di Cambridge, leggi i commenti, come quello stupendo di David Ross ai Secondi Analitici;
se vuoi rendere concreto Aristotele, leggi la traduzione inglese. Ma se i conti non ti tornano, se capisci di non
capire, allora leggi il Didot, e guarda il latino. E leggi i commenti di Tommaso: nessuno ha capito Aristotele quanto
Tommaso. E tuttavia, per quanto Ramon fosse in quel periodo in una fase di agnosticismo, quanto meno sul piano
filosofico, parlare con un Santo (e che Santo!) gli creava una certa titubanza. Ma la Curiosità, che, come dice Vico, è
sì figlia dell'Ignoranza, ma è madre della Scienza, non poteva non prevalere.
Tommaso era corpulento, non tanto alto ma imponente, pochi i capelli e una chierica che rasentava la calvizie.
- Che cos'è la sostanza, Maestro?
- “Substantia est quod existit in se et per se”. “In se et per se” stanno per “kath'hautò” e “he autò”. L'essere “per se”,
ossia “a causa di sé”, il non avere bisogno d'altro per essere. “In se” significa non in altro, come il bianco che deve
stare “nella cosa”, ma l'autosufficienza del darsi “da soli”, senza appoggio esterno. Un cavallo non ha bisogno
dell'essere sauro, ma l'esser sauro ha bisogno del cavallo. Rendiamo la cosa allo stato attuale della modernità: i
mondi possibili delle semantiche “à la Kripke”, o, meno tecnicamente, “à la Benson Mates”. Ci può essere un mondo
possibile senza cavalli? Certamente. Ma è concepibile un mondo possibile in cui vi sia l' “essere sauro” e in cui non vi
siano cavalli? Di fatto, chi cerca di andare oltre Aristotele assume la persistenza degli individui, o di alcuni di essi,
nella catena dei mondi possibili e, nell'indicizzarli, ne fa variare le “proprietà”.
Ramon non era così ferrato nelle semantiche modali e questo tipo di risposta, assolutamente antiscolastica, lo lasciò
frastornato. Da Tommaso si aspettava tutt'altro. Pensò allora che un genio non può essere prevedibile, non sarebbe
più tale.
L’arcivernice: Il Doctor Angelicus – II parte
(trentasettesimapuntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/matteuzzi37a-4051484888.shtml
“Ramon voleva arrivare alla domanda delle domande: tutto ciò che è, è frutto davvero
di un disegno intelligente? O, ancor più direttamente, esiste Dio?”.
- Ma, Maestro, perché Dio avrebbe dovuto creare sostanze e qualità? Non bastava creare le sostanze?
- E come farebbe una sostanza a non avere proprietà? Come sarebbe fatta? E poi il mondo diverrebbe inconoscibile;
e ti spiego perché. Come dice Aristotele, sostanza in massimo grado, e nella più grande misura è la sostanza prima,
questo uomo, questo cavallo. Immaginiamo allora un mondo di individui, A, B, C… Non sarebbe più possibile altro
enunciato se non quello particolare negativo, e cioè “A non è B, B non è C etc.”. La conoscenza, viceversa, aspira alla
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proposizione universale, del tipo “Tutti gli A sono B”. In questo senso “singularis non datur scientia”. La sostanza
non può che essere soggetto, e non predicato, se non “per accidens”, come quando dico che colui che si avvicina è
Callia: capita così, accidentalmente, non per necessità.
Ramon ce la metteva tutta, ma arrancava. Anche perché era dominato da un pensiero di fondo, che si accavallava
con i complessi argomenti del Doctor Angelicus. L'occasione era troppo ghiotta, in presenza di Tommaso. E cioè
voleva arrivare alla domanda delle domande: ma perché tutto questo? O, meglio, tutto ciò che è, è frutto davvero di
un disegno intelligente? O, ancor più direttamente, esiste Dio? Quale fosse il parere di Tommaso era scontato. Ma
quanto i suoi argomenti sarebbero stati decisivi? Si lanciò:
- Maestro, ma perché un Dio già in sé perfetto avrebbe dovuto fare tutto questo? E che certezze abbiamo che Egli
esista, e abbia deciso tutto questo?
- Ramon, abbiamo le mie cinque vie per convincercene, oltre a quella di Anselmo, di cui non voglio parlare qui in
quanto troppo intellettuale e densa di questioni difficili (come, ad esempio, il fatto che l'esistenza sia un attributo e
non una sostanza). Ripercorri con me la prima, quella del moto, o del mutamento, che è forse la più facile da
intendere: nel mondo esiste il mutamento; tutto ciò che si muove è mosso da altro; se ciò che è causa del moto, a
sua volta, si muove, per il punto precedente è necessario che anch’esso sia mosso da qualche altro ente; tuttavia,
non è possibile procedere all’infinito nell’identificazione delle cause del moto, perché, in tal modo, non si
troverebbe mai l’origine del moto; ma senza l’origine del moto non ci sarebbe alcun moto, il che è contraddetto
dall’esperienza; perciò è necessario inferire l’esistenza di un “primo motore”, che non sia mosso da nient’altro.
Esiste quindi un “primum movens quod in nullo moveatur”. A tale moto tutti attribuiscono il nome di Dio (ente
immutabile e indiveniente).
Ramon fu tentato di portare il discorso sulla fisica moderna; in realtà, la fissità è apparente e tutto si muove. Dove
trovare qualcosa che sta fermo... se non alla teorica temperatura dello zero assoluto? Ma poi pensò che il punto
filosofico non era tanto quello e che il discorso si doveva sviluppare, tale e quale, anche per la seconda via, quella
della causa.
- Ma l'impossibilità (o, forse, potremmo anche dire la contraddittorietà) di un regresso all'infinito, il quale, negando
il primo elemento, nega di conseguenza tutti gli altri, quella stessa impossibilità già così ben spiegata nei Secondi
Analitici da Aristotele prova che vi sia un primo elemento, non che esso sia Dio. A prescindere dal nome che
vogliamo attribuirgli.
- E come altro potresti considerare ciò che è in grado di muovere se stesso ed è, soprattutto, “causa sui”, ragione di
se stesso?
- Il punto è, Maestro, se un tale ente debba necessariamente essere persona...
- E cosa vi è di più perfetto della persona? È forse più perfetta una forza bruta, senza intelletto e senza volontà,
senza sentimenti?
- Il problema, Maestro, è quello dei vermi piatti: dei vermi piatti che girano su una sfera non coglieranno mai la terza
dimensione. Un cerchio e un cono sarebbero per loro la stessa cosa. Così, noi riteniamo che la nozione di persona
rappresenti l'espressione somma della vita e dell'esistenza; ma chi ci garantisce che non vi siano forme più evolute
in una dimensione superiore alla nostra? Non saremo, noi stessi, dei vermi piatti, delle formiche, che non
potrebbero mai cogliere il senso del Codice Civile, o della Gioconda?
- Ma come concepire una sostanza perfetta priva di intelletto, o di volontà? E, a riprova, Dio si è fatto uomo, e non
altro, in funzione della Salvazione. Cioè persona.
Ramon capì che erano entrati in un loop infinito, perché la linea di demarcazione era la Fede. Che, d'altra parte, tale
non sarebbe se la dimostrazione dell'esistenza di Dio fosse così scientificamente comprovabile da definirne anche i
suoi attributi. Geniale la teoria tomista della “analogia entis”: per capire com’è fatto Dio, per quel tanto che all'uomo
è dato, si devono proiettare gli attributi positivi sull'infinito. Per cui si ha: saggio/onnisciente; buono/infinitamente
buono etc. Anche se il processo cozza contro l'obiezione che certe infinità si escludono a vicenda: non si può dare
misericordia infinita assieme a giustizia infinita, per la “contradizion che nol consente”, direbbe il Poeta; ma proprio
questo è il punto di discontinuità tra il credente e l'agnostico, l'accettare il mistero. Mentre si attardava in questo
faticoso lavorio, coi neuroni a 1000, Ramon non si era accorto che l'effetto era svanito, e Tommaso non c'era più. E
capì anche che avrebbe dovuto convivere con i suoi dubbi.
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L’arcivernice: L'iperuranio o la scimmia?
(trentanovesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-iperuranio-o-scimmiatrentanovesima-puntata-4053322048.shtml
“Ramon voleva arrivare alla domanda delle domande: tutto ciò che è, è frutto davvero
di un disegno intelligente? O, ancor più direttamente, esiste Dio?”.
Ramon era ancora ancorato ai pensieri sul senso della vita. Vita per la conoscenza o vita per la felicità? Ma,
soprattutto, spiegazione per cause o spiegazione per fini? Esiste la finalità?
Certo, è difficile spiegare che cosa sia un' “azione” senza il concetto di finalità, la funzione obiettivo. Alfred Schütz
arriva a dire che lo scopo è il significato dell'azione, un'azione senza scopo essendo, appunto, insensata. Per un
altro verso, come ammettere di trovare le ragioni del darsi nel futuro, anziché nel passato, se il futuro ancora non
c'è? Ecco un secondo problema, che aggrava il primo. Se conoscere è “scire per causas”, come dice Aristotele, non
deve essere tutto spiegabile “ex ante”, e non “ex post”? Ancora, tra le cause si dà in effetti la causa finale, come
aveva teorizzato lo Stagirita? L'alternativa è il meccanicismo, il mondo materiale di Cartesio, il dominio delle leggi
fisiche della meccanica. Molte teorie sono basate sul finalismo. Ma un colpo terrificante a questo approccio venne
dato da quello straordinario libro che è “L'origine delle specie”, libro che ha sconvolto non solo la biologia, ma tutto
il modo di pensare moderno. Sì, concluse Ramon, doveva assolutamente trovare un'immagine di Charles Darwin.
Non fu difficile. La barba bianca lunga e fluente, il vestire sobrio molto scuro, quasi nero, l'ampia calvizie centrale,
Charles Darwin, per quanto apparentemente dimesso, sembrava tuttavia imponente, ieratico quasi.
- Maestro, davvero la vita può essere ricondotta a nient'altro che evoluzione biologica?
- Io questo non l'ho mai detto.
- Ma tu escludi la presenza di un disegno intelligente, di una finalità...
- Sì, non c'è alcun disegno; e se mai ci fosse, non sarebbe certo “intelligente”: la natura trova la sua via per prova ed
errore, attraverso milioni e milioni di fallimenti, eliminando con rigore e crudeltà la maggior parte degli individui
“venuti male”, cioè inadatti o solo semplicemente meno adatti. Ti pare che questo si possa definire un disegno
intelligente? Sarebbe come se un ingegnere navale, anziché calcolare il suo progetto sulla base delle leggi
dell'idraulica, per fare una nave che sta a galla facesse cento, mille navi, destinate per lo più ad affondare, e
finalmente tenesse quelle poche che stanno a galla. Vedi, Ramon, per capire bene il mio pensiero devi prima di tutto
leggere Malthus. Qualsiasi popolazione di individui, e non parlo solo degli uomini, ma di qualsiasi specie animale,
tende ad aumentare in numerosità, e trova un limite nella finitezza delle risorse naturali, e nell'analoga tendenza
delle specie concorrenti. Per cui, necessariamente, la vita è prima di tutto lotta per la sopravvivenza; ed essa si fa
sempre più crudele all'approssimarsi di tale limite.
- Ma come spiegare, per questa via, il formarsi della coscienza, o la nona di Beethoven?
- Questa domanda, che mi è stata rivolta in tante forme diverse, ma nella sostanza equivalenti, ha sempre suscitato
in me un certo stupore. Perché dovremmo meravigliarci del fatto che il cervello secerne pensiero più di quanto ci
meravigliamo della gravità che ci mostra di avere la materia? Non è meraviglioso, incredibile, e apparentemente
intelligente che due corpi si attraggano in ragione diretta del prodotto delle loro masse, e in ragione inversa del
quadrato della loro distanza? Ma che ne può sapere la materia della gravitazione universale di Newton? Ramon, non
ti fare circuire dalle teorie platoniche: la credenza platonica in un mondo delle idee, la tesi che la conoscenza, che le
nostre idee nascano dalla preesistenza dell'anima è corretta, ma a patto che tu, per “preesistenza”, legga “le
scimmie”.
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- Ma secondo questo argomento, lo stesso si può dire allora anche del mondo non vivente...
- Certo, la situazione è la stessa. C'è chi vede un grande progetto intelligente nelle leggi della fisica, che fanno sì
che la Terra orbiti in un certo modo intorno al Sole, senza essere fagocitata dal suo campo gravitazionale (nel caso,
tutti noi saremmo arsi in un istante…) e senza essere lanciata, per la forza centrifuga dell'orbita, negli spazi vuoti,
alla deriva nella gelida infinitezza del vuoto. Ma basta riflettere un attimo e si capisce che quei pianeti per i quali la
forza centrifuga e la forza gravitazionale non si facevano perfetto equilibrio sono morti per selezione naturale, non
possono più esserci, sono combusti, o vagano ghiacciati per inerzia nello spazio interstellare.
Ramon restò molto colpito. Capiva che quell'approccio mandava a gambe levate una fetta cospicua del pensiero
occidentale. Ora capiva bene il senso della battaglia, tutta politica e legale, e per niente scientifica, condotta di
recente negli Stati Uniti dai sostenitori del così detto “Intelligent Design”, con il chiaro intento di reintrodurre una
qualche forma di creazionismo; e gli divenne chiaro come, su una strada assai simile, si fosse mossa di recente in
Italia il ministro Moratti. Pensò istintivamente che avrebbe voluto richiamare Tommaso, e farlo argomentare sulla
sua celebre quinta via all'esistenza di Dio, quella basata sulla perfezione del creato. Probabilmente Tommaso
direbbe: è possibile che tante componenti prive di intelligenza formino per prova ed errore un elemento
intelligente? Prendiamo un computer. Potrebbe mai formarsi combinando componenti elettronici per prova ed
errore? Sembra assurdo, ma solo nella percezione della durata che ha l'uomo, che è commisurata alla propria vita;
Darwin ribatterebbe: in qualche miliardo di anni sì, è possibile.
Ramon sentiva l'urgenza di altre domande. Cominciò: “Maestro...”.
Ma dell'austera figura rimaneva ormai solo una confusa macchia nera.
L’arcivernice: Ramon e il Sommo Poeta
(quarantesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-sommo-poetaquarantesima-puntata-4053958427.shtml
Dall’esperienza bolognese alla questione della lingua unica europea, passando per la
"terribile" Gelmini: l’incontro di Ramon con Dante Alighieri.
Ora Ramon si rendeva conto di avere fatto un azzardo troppo grande, quasi una follia. Per quanto fossero ormai
alcuni mesi che era in Italia, e per quanto avesse anche precedentemente studiato la lingua e la letteratura italiane,
ora era ben consapevole che aveva esagerato, e poteva essersi messo in un guaio. Ma la curiosità era il tratto
prevalente del suo carattere, e non aveva saputo resistere: non aveva potuto passare oltre, di fronte a
quell'immagine così carismatica, così drastica, così espressiva. E ora si trovava di fronte a colui che mostrò ciò che
potea la lingua nostra, al padre della lingua italiana. Avrebbe retto a tanto?
Dante portava il classico copricapo della Firenze trecentesca, una specie di berretto da notte senza il fiocco apicale,
che diventava floscio nella parte posteriore, e dal cui bordo raddoppiato su se stesso uscivano i paraorecchi
invernali. Naturalmente il copricapo era rosso, come del resto le vesti. I lineamenti marcati, il naso aquilino e
volitivo, lo fissava con gli occhi scuri e penetranti.
- Che vuoi tu da me, ispanico?
- Maestro... che dire, tutto e niente, sono emozionato. Come definiresti la tua vita?
- Col nome che più dura e più onora
io vissi in terra.
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Come Tosco I' fui nato e cresciuto
sovra 'l bel fiume d'Arno alla gran villa.
L'Arno mi fe', disfecemi Ravenna.
- Mi stai dando la riprova di una certa tesi, che ho sentito: che con le parole della tua Commedia si possa dire
tutto... Ho sentito questa storia, di due fiorentini che stavano pranzando assieme. L'uno appunto affermò questa
tesi; l'altro, incredulo, lo sfidò: “prova a dire con le parole di Dante quanto io sto facendo ora, e cioè che mangio
una costata di maiale”. E il primo, pronto: “e 'fiorentino spirito bizzarro / in sé medesmo si volvea co' denti”.
Dante accennò un leggero sorriso, poco più di una lieve increspatura delle labbra.
- Sono tante le domande che ti vorrei fare, mi si accavallano nella mente. Ad esempio, tu hai studiato a Bologna;
perché hai lasciato la tua Firenze per Bologna?
- A que' tempi a Florentia c'erano artisti e cenacoli, c'era fervore culturale. Ma non c'era ancora un'Università. A que'
tempi, Raimondo, uno che fosse attratto dalla professione del cerusico, o fosse curioso delle scienze naturali,
poteva andare a Salerno. Se invece era attratto dalle arti liberali, dalla studio della legge, dalle materie del Trivio e
del Quadrivio, la scelta era molto ristretta. Bologna o Parigi, altro non v'era. Fu un periodo forse fra i più felici della
mia vita, della mia giovinezza. Spensierato infine, a dispetto delle faide che certo nemmeno là mancavano. E quando
scrissi di Montecchi e Cappelletti, di Monaldi e Filippeschi, avrei potuto altrettanto bene scrivere di Geremei e
Lambertazzi. Sì che girar di notte, sotto quei portici sostenuti da dura quercia squadrata, alta e nera, incuteva un
certo timore anche al giovane disinvolto qual io era. Pur anco, v'eran colà femmine per cui conveniva fronteggiar
fatica e rischio. E proprio per questo fu d'uopo ch'io ratto fuggissi una certa fiata. Ma ricordo volentieri molte cose,
come lo spiazzo delle torri, e 'l senso che facea la Carisenda, mettendosi dalla parte dove già allora pendeva. Così la
ripensai quando immaginai che il gigante Anteo si chinasse sopra di me:
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, che ella incontro penda;
tal parve Anteo a me...
Ramon cominciava a prendere coraggio; pensava che a sua volta la sua lingua era fondata su una letteratura di
immenso valore, gli tornavano in mente Cervantes, e Lope de Vega, e Calderon, e Lorca, e infiniti altri. Le domande
gli vennero così più naturali:
- Maestro, tu che hai forgiato una lingua, e una delle più belle del mondo, che ne pensi tu dell'enorme problema
linguistico che ha l'Europa, con ben venticinque idiomi? Con l'enorme fardello sulle spalle di dover esprimere ogni
provvedimento, ogni direttiva, ogni risoluzione in ciascuna di esse? Ho sentito dire che vi sono ottomila persone
completamente adibite a questo scopo di un ininterrotto tradurre…
- Trovo che così una vera unione d'Europa non si farà mai. Che questo sia follia. E mi ricorda l'Italia dei miei tempi,
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
- Tu allora auspicheresti che la questione sia risolta come fu risolta per l'Italia, facendo prevalere una sola lingua che
unificasse i dialetti? E dovremmo tutti abbandonare la nostra lingua madre, e magari parlare in Inglese?
- Una unificazione tra lingue così diverse è impossibile. Diverse e, per di più, radicate nei secoli e nell'uso, e negli
animi e nelle menti, e ricche di letterature sublimi. Ma io penso che le lingue che hanno una vera letteratura, che
foggia l'identità, la tradizione, la cultura del continente, non siano poi tante. Oltre alla mia, ho in mente l'Ispanico, e
'l Franco, e l'Alemanno, e infine sì, anche l'Anglo, naturalmente. Basti pensare al sommo Calcearius, che fondò
quella lingua (non senza viaggiar per l'Italia e attingere dalla nostra letteratura), all'immenso Crollalanza, o
Sachespeario se più ti piace, a Milton, all'ideazione del genere “romanzo”, nel Settecento, ai grandi romantici del
secolo successivo... Ma troppo sarebbe quanto si perde abbandonando le altre che ho detto. Il Nuovo Continente
dovrebbe avere quelle lingue, e quelle letterature, e quelle tradizioni che ho detto. Il modello funzionante ce l'avete
sotto gli occhi: è la Confoederatio Helvetica.
Ne verrebbe qualcosa di un po' più complesso, e un po' più grande, ma che funzionerebbe senza perdere la propria
storia. E dovrebbe nascere dai popoli, non dai loro governi corrotti ed incapaci. Cioè dal basso, e non dall'alto. E poi,
come fidarsi di gente che chiama orsi i cavalli, e chiama caldo il freddo?
Ramon ci mise un po' a cogliere l'ultimo gioco di parole, che gli suonò strano entro un discorso di tono così elevato,
e in bocca a un personaggio così austero; ma evidentemente anche Dante sapeva scherzare, giocare con le parole
doveva essere facile per lui...
- Maestro, allora tu pensi che sia sbagliato costringere i nostri atenei a tenere lezioni in Inglese, come sta
avvenendo, ad esempio, al Politecnico di Milano?
- Ma a chi poté mai venire idea sì tanto bizzarra?
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- Ma, vedi, c'è tutta una linea di pensiero, un'idea dell'Università come industria, o comunque preparazione ad essa;
a chi si deve l'idea? Ma, se dovessi fare un nome, direi a un nostro recente ministro dell'istruzione, di nome Gelmini.
Qual è colui che un grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi l'Alighier nell'ira accolta.
La figura parve irrigidirsi, il viso, volitivo e stagliato, pareva ora terreo, l'espressione stizzita, il livore evidente.
Dante non si dissolse lentamente, com'era sempre accaduto, ma scomparve di botto, a Ramon parve quasi di udire il
tipico rumore di una porta sbattuta con violenza.
Temp'era dell'inizio della sera; Ramon sentiva il bisogno di una boccata d'aria fredda. E uscì in giardino a riveder le
stelle...
L’arcivernice: Ma che intenzioni hai? Ramon e
un
incontro
difficile...
(quarantunesima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ma-che-intenzioni-hairamon-incontro-difficile-quarantunesima-puntata-4055262606.shtml
"Il grande equivoco è proprio questo: ciò che si considera empirico è l'oggetto, il fatto
fisico. Ma non è così. Niente è meno empirico dell'oggetto. Ciò che tu sperimenti non è
l'oggetto, ma il tuo percepire un oggetto". Franz Brentano.
-
Vedi Ramon, il grande equivoco è proprio questo: ciò che si considera empirico è l'oggetto, il fatto fisico.
Ma non è così. Niente è meno empirico dell'oggetto. Ciò che tu sperimenti non è l'oggetto, ma il tuo
percepire un oggetto.
Questo modo di vedere le cose risultava completamente nuovo a Ramon; eppure non avrebbe saputo cosa
contrapporre all'argomento di Brentano.
- I fenomeni possono essere psichici o fisici. Fisico è il rumore che io odo, il tavolo che io vedo; psichico è il mio
udire un rumore, il mio vedere il tavolo. Empirico è ciò di cui ho esperienza. Ora, di cosa ho esperienza, del mio
udire un rumore o del rumore che ho udito? Detto in altri termini, l'oggetto mi si porge con un guscio, la mia
percezione. E ciò che io esperisco è in ogni caso il guscio.
- Ma il guscio non ci sarebbe senza l'oggetto...
- Questo è tutto da dimostrare: non mi mancherebbero i controesempi. Anzi, proprio la rammemorazione, il potere
di trattenere il guscio ora svuotato dal darsi nel tempo, secondo Aristotele, caratterizza l'animale superiore. Ecco
dunque il perché di una “Psicologia dal punto di vista empirico”.
- Ma non finiamo così nel far collassare l'esperienza nel delirio fantasmatico, o nell'allucinazione onirica?
- Il rischio c'è. A riprova, basta vedere quanto Cartesio si industria per trovare la linea di demarcazione tra il sogno e
la veglia. Per non dire dei pensatori posteriori al criticismo kantiano, che si rendono conto che, riducendo a questo
il ruolo del noumeno, se ne potrebbe benissimo fare a meno. E tuttavia essi, come Cartesio, non pongono la dovuta
attenzione alla caratteristica precipua del pensiero umano.
- E sarebbe?
- L' “intentionalität”, l'intenzionalità: il pensiero umano è “direzionale”. È come una freccia, e noi possiamo scagliarla
dove vogliamo, far sì che punti al bersaglio scelto. Io posso scegliere, come oggetto del mio atto psichico, proprio
Ramon; posso pensarlo, osservarlo, ascoltarlo... Ma posso invece, a mio insindacabile arbitrio, pensare, o guardare,
il giardino ormai poco verde. Questo arbitrio è perso nel sogno, così come nel delirio allucinatorio: io non posso
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decidere cosa sognare, o quale sia l'oggetto del mio delirio. Ma attenzione, io posso dirigere il mio atto psichico,
che come tale è “vero”, “dato”, “empirico”; ma non posso determinarne i connotati a piacere. Io posso decidere di
pensare a Ramon che è spagnolo, ma non posso decidere io che Ramon è spagnolo. In senso aristotelico,
l'intenzionalità fa capo all'intelletto attivo, mentre le determinazioni dell'oggetto fanno capo a quello passivo.
Assumere queste ultime come intenzionate genera il delirio allucinatorio. L'afferenza del predicato al soggetto non
è posta in essere dall'intenzionalità, ma riposa sul reale. Così, Cartesio avrebbe dovuto smarcare la veglia dal sogno
non basandosi sul livello di coerenza, o sulla connessione temporale, ma sulla capacità intenzionante, che nel sogno
va persa; o, meglio, è eterodiretta, nel senso che possiamo solo sognare di averne la facoltà, senza di fatto poterla
esercitare.
- Dunque, Maestro, secondo te i fatti psichici sarebbero più “reali”, più “oggettivi”, delle cose materiali stesse che noi
tocchiamo, con le quali abbiamo continuamente a che fare?
- Solo i fenomeni psichici contengono in sé intenzionalmente un oggetto. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa
di simile. Nella rappresentazione è rappresentato qualcosa, nel giudizio qualcosa è riconosciuto o rifiutato,
nell'amore amato, nell'odio odiato, nel desiderio desiderato... L'oggetto intenzionale, mentale, è immanente alla
coscienza (in-esistente), e cioè sta-dentro. La sedia che tocchi è forse esistente, ma non in-esistente, non sta dentro.
Dunque la vera esperienza è del primo, non del secondo tipo, e solo questo è il luogo dell'evidenza, della certezza
delle rappresentazioni, dei giudizi, delle emozioni.
- Ma non si ricade con questo nel più assoluto idealismo soggettivo?
- No, Ramon. Così sarebbe se il potere di evocazione fantasmatico potesse agire sull'inerenza dei predicati al
soggetto, se la fantasia fosse produttiva. Ma, come ho detto, la capacità intenzionante può scegliere il “telos”, non i
suoi attributi. In questo, nel farsi da attivo a passivo, nel subire il mondo, l'intelletto recupera la propria dimensione
realista.
Mentre dell'austera figura erano ormai visibili pochi punti evanescenti, la folta barba sola mostrava una qualche
lentezza, quasi a non voler scomparire, Ramon pensò che, se fosse riuscito a capire fino in fondo, avrebbe compiuto
un passo fondamentale verso la comprensione di Husserl, di Meinong, di Heidegger, e di tutta la filosofia moderna.
L’arcivernice:
La
voce,
l'icona
e
la
rappresentazione (quarantaduesima puntata)
di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-voce-iconarappresentazione-quarantaduesima-puntata-4056440509.shtml
Di fronte alla parola “gatto” ognuno di noi pensa a un qualcosa di almeno un po'
diverso; invece, nel comunicare, noi facciamo appello a un gatto, a un idealtipo che
deve essere lo stesso per tutti, altrimenti non ci capiremmo: è un gatto inesistente, non è
nessun gatto e nel contempo è ogni gatto.
C'era Handimatica a Bologna. Ramon e Giulia andarono assieme, alla tavola rotonda della mattina. Claudio
Imprudente fa un bell'intervento, denso della solita intelligente ironia. Il luogo, la fondazione Aldini Valeriani,
immenso. Un dedalo, un labirinto vero, per fortuna squadrato. Modernissimo. A Ramon venne naturale il parallelo
con il luogo del recente convegno di Educationduepuntozero, dove pure erano stati assieme lui e Giulia. La bellezza
di un palazzo mediceo del Cinquecento, gli arredi d'epoca, i loggiati sfarzosi e inutili, le volte affrescate, gli arazzi
di sei metri. Lo sfarzo del Rinascimento italiano, inimitabile, incomparabile; la commistione del classico, con il suo
senso dell'armonia simmetrica, equilibrata, centripeta, perfetta nei suoi equilibri, con la potenza della pittura e della
scultura, forse le più perfette, sul piano della potenza, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Sì, probabilmente, pensò
Ramon, questo aspetto aveva giocato un ruolo decisivo nella sua scelta di venire a studiare proprio in Italia. E,
dall'altro lato, l'architettura funzionale moderna, aule e luoghi rettilinei, soffitti molto più bassi, pareti bianche nella
loro neutralità, un computer o un'altra diavoleria ad ogni angolo, e corridoi talmente lunghi che non se ne vede
l'esito; un teatro interno alla scuola; i luoghi degli espositori di tecnologie, le più diverse, le più innovative, le più
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inverosimili. A suo modo anche quel posto era grande, era incredibilmente grande. Ma tutt'altro che sfarzoso.
Ramon pensò allo strano modo con cui si era distribuita la ricchezza, nei secoli. Alla potenza dei Medici, di una
famiglia che può esprimere papi, zarine, e trattare il Re d'Inghilterra come oggi una banca tratta un impiegato che
chiede un mutuo. In una stanza del palazzo Medici Riccardi Ramon aveva bene osservato l'effige di Cosimo, il
banchiere forse più ricco e più potente di ogni tempo. Lì dov'erano ora, nessun ritratto, nessun quadro, ma schermi
ultrapiatti, a volte giganteschi, anche loro vivi, pur se a loro modo, come lo sguardo accigliato di Cosimo, vivi in
quanto mai statici, mai domi, sempre in perenne cambiamento, là dove lo sguardo di Cosimo sarebbe stato lo
stesso per sempre. L'architettura esprime il modo con cui si accumula, o si distribuisce, o comunque si manifesta, la
ricchezza. Che ricchezza era quella di Cosimo? Una fortuna che non può avere paragoni nella contemporaneità.
Oggi anche la più grande delle ricchezze ha qualcosa di più effimero, di meno fondato. Una grande fortuna può
essere dissipata in una sola generazione, e i fattori di rischio sono meno governabili dalle persone, le fortune stesse
sono in un qualche senso impersonali: di chi sono le grandi multinazionali? Anche il vero ricco ne possiede una
frazione irrisoria. A Ramon venne in mente la Lehman Brothers, il più grande fallimento della storia di tutti i tempi.
La finanza disancorata dall'economia, diciamo ora. E la ricchezza di Cosimo, com'era? Disancorata dalla proprietà
terriera, per la prima volta: il Re d'Inghilterra aveva potere su un territorio dieci, venti volte la Toscana, ma doveva
chiedere a Cosimo: lì era finito il feudalesimo. E allora ecco che l'architettura rispecchia l'immensità dello sfarzo.
Meglio Giuliano da Sangallo o Le Corbusier? Nessuno dei due, naturalmente, pensò Ramon. Poesia e razionalità
fanno due mestieri diversi; e grazieadio si danno entrambe nella Storia, si srotolano nel divenire, anche se a
singhiozzo e in modo spesso ingovernabile e a volte persino incomprensibile.
Con la testa piena di cose, Ramon osservava in modo meccanico, con ammirazione, l'interprete LIS, e continuava a
chiedersi come potesse stare al passo del fluire del parlato: strana semantica, né totalmente fonetica né totalmente
ideografica, il labiale a soccorrere l'assenza del “cherema”, l'espressione del viso a determinare il registro
comunicativo, l'interrogativo ad esempio, o l'enfasi sull'emozione positiva o negativa (viso ridente o viso
corrucciato); per certi versi, come gli “smiles” nelle email. Così perso in questi pensieri, e ancora legato ai
retropensieri di cui s'è detto, Ramon fece quasi fatica a capire quanto stavano comunicando: la sera ci sarebbe stata
la proiezione del film “Il discorso del Re”, nella versione fruibile tanto per non vedenti che per non udenti. Non si
poteva mancare, anche se, dopo un'intera giornata di congresso, e relazioni stimolanti, il nuovo impegno pesava.
Ma poteva dirsi un impegno la visione di un film che aveva vinto quattro Oscar? Giulia l'aveva già visto, Ramon no; e
la curiosità era tanta. Come rendere fruibile l'immagine a un cieco? E questo, senza rallentare il flusso, cioè
inserendosi nei tempi di fruizione dell'utente vedente...
Prima della proiezione parlano brevemente i curatori della particolare edizione. Introduce Angelo Errani, e le
considerazioni sono da filosofo del linguaggio, oltre che da pedagogista: la convenzionalità del simbolico versus
l'iconicità della comunicazione visiva. Così, mentre nell'interpretazione della parola io non posso prescindere
dall'intellettualizzazione, dall'attraversamento del “nous”, perché solo per un preaccordo sociale posso recuperare il
“páthema”, nella visione io ho la “rassembranza”, l'iconicità immediata, la somiglianza fattuale, la coincidenza
almeno prevalente delle linee e dei colori, della stessa Gestalt, di fronte alla quale ho assai meno difesa: dalla retina,
mi entra direttamente nel cervello, mi eccita i neuroni, mi sconvolge le sinapsi, e non ci posso fare niente.
Il film comincia. Una voce narrante, dalla dizione perfetta, descrive con estrema sinteticità le immagini.
Contemporaneamente scorrono i sottotitoli. Ramon si accorge che, pur sentendoci benissimo, non può fare a meno
di leggere anche i sottotitoli. Che cosa vorrà dire? Così come sente ovviamente anche la voce narrante, quell'io
impersonale, quell'io-penso kantiano che pare quasi un’insperata conferma dell'esistenza di un mondo esterno,
luogo dell'oggettivizzazione dell'esperienza. Meglio, pensa Ramon, molto meglio che il mondo esista, e che non ci
sia solo io; gli viene automaticamente da stringere la mano di Giulia, per un’ulteriore conferma.
Ecco, il film è finito, Re Giorgio VI è riuscito a fare il discorso, ha vinto la balbuzie, ha infiammato il suo popolo.
Esperienza magnifica, accumulazione di tante domande. Ramon pensò a quanti ciechi c'erano in quella sala. E pensò
che, per quanto la descrizione della voce narrante fosse stata la stessa, certamente ognuno di loro si era dato una
rappresentazione interna diversa. Chissà com'era il viso di Lionel nelle varie menti. Un fatto privato. Quasi l'opposto
del paradigma aristotelico, secondo cui le cose che sono nella voce sono diverse per tutti, ma le immagini mentali le
stesse. Qui viceversa, tutti hanno sentito la stessa voce, ma generato visi diversi. Sarebbe fantastico potere guardare
dentro alle menti, potere vedere se questi mille visi hanno qualche tratto in comune, e quale. Negli schemi della
semantica ordinaria, pensò Ramon, si dà la rappresentazione privata: di fronte alla parola “gatto” ognuno di noi
pensa a un qualcosa di almeno un po' diverso; invece, nel comunicare, noi facciamo appello a un gatto, a un
idealtipo che deve essere lo stesso per tutti, altrimenti non ci capiremmo: è un gatto inesistente, non è nessun gatto
e nel contempo è ogni gatto. Qui il processo era avvenuto nella direzione opposta: una voce narrante, una
descrizione condivisa, e da lì la generazione di tante rappresentazioni private.
Ramon pensò che doveva quanto prima parlare con Frege, affrontare direttamente “Über Sinn und Bedeutung”. A
quell'ora e da soli, era veramente troppo per quel giorno
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L’arcivernice:
Ramon
fa
un
(quarantaquattresima puntata) di
sogno
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-fa-sognoquarantaquattresima-puntata-4057697235.shtml
“Trascurando l'istruzione, la cultura, la protezione del territorio, il paesaggio, si vede
bene cosa accadrà nel futuro: l'Impero Ottomano scomparirà, ed entro breve non ci
sarà più”. Visioni e riflessioni nel sogno di Ramon (che ci ricorda qualcosa...).
Mai avrebbe creduto di poter assistere a un dialogo del genere. Da una parte sedeva per terra, con le gambe
incrociate, il Gran Visir Olezzo, responsabile di tutta l'istruzione delle scuole coraniche di tutto l'impero Ottomano;
di fronte a lui sedeva Ottis, Satrapo della provincia così detta “l'Anormale” (doveva il suo nome al fatto che là c'era
un obelisco pendente, che tuttavia stava su da secoli). E così il Satrapo disse:
“Il primo e più importante dei problemi è quello di ridare dignità agli insegnanti delle scuole coraniche, che sono
avviliti sia quanto a orgoglio che nella paga dalla politica di tagli del Sultano Promontorio I, che tu rigorosamente
metti in atto”.
“Recentemente sono stato in visita a molte scuole; ho trovato tante belle realtà, tante persone degne”.
Si udì distintamente una voce stentorea fuori campo: “Non sequitur!”.
“Anche quest’ultima uscita del Sultano, che li accusa di pigrizia per non avere accettato di far fare due preghiere in
più al giorno, non ha giovato. E poi ha frainteso: il tuo disegno era di farne fare non due, ma ben sei in più. Già ne
facciamo cinque, sarebbero divenute ben undici al giorno; persino Allah si sarebbe infastidito. Non si può fermare
continuamente il Paese”.
“L'importante è che non sia uno ‘stop-and-go’, ma un processo poliennale. E poi la cosa è comunque decaduta”.
Si udì distintamente una voce stentorea fuori campo: “Non sequitur!”.
“Voglio aggiungere che c'è un brutto clima nelle province. Questa decisione della visir Forno Bianco (era così detta
perché discendente da un grande capo pellerossa) di tagliare la mano sinistra a tutti gli anziani dell'impero non ha
giovato. E poi credeva che fossero cinquantamila, ma quando le hanno portato, con tanto carri, quasi
quattrocentomila mani mozzate, si è dovuta ricredere, e ha addirittura pianto lei stessa”.
“Io sono Gran Visir da solo un anno, cosa potevo fare se non oliare, oliare, oliare?”.
Si udì distintamente una voce stentorea fuori campo: “Non sequitur!”.
“Ma scusa, quando vi riunite nel Gran Consiglio, non puoi chiedere più soldi per le scuole, non puoi fare sentire la
tua voce?”.
“No. Nel Gran Consiglio il Sultano vuole che si parli solo di tagli, e di nuove tasse. Dice che deve finanziare il grande
banchiere Dragone, che sta alla Mecca naturalmente, e che tiene le finanze di tutto l'Islam. E poi ci sono le spese
militari che incombono. Sai che abbiamo comprato ben novanta nuove navi da guerra, con il doppio sistema, sia a
vela che a vapore?”.
“Ma in nome di Allah, a chi mai dovremmo muovere guerra? Siamo appena riusciti a far vincere una guerra persino
agli Italiani, che non ne vincevano più una dai tempi dei Romani, e abbiamo perso le terre della Tripolitania e della
Cirenaica... Noi dobbiamo solo sperare che non avvenga un'altra guerra, che segnerebbe definitivamente la nostra
fine”.
Qui Ramon capì che ci si trovava attorno al 1912, dopo la guerra di Libia. Ma la cosa che lo stupiva di più era che
questo strano colloquio, seppure di cento anni fa, era dato per televisione, e per questo lui poteva assistervi.
Il Gran Visir Olezzo riprese:
“La politica del rigore è una necessità. Comunque ho un paio di idee per tranquillizzare i tuoi insegnanti. Questa
dignità che vogliono quanto costerebbe? Gliela possiamo dare, ma senza oneri per il bilancio dello Stato. Faremo
così. Alziamo due pali, noi Ottomani siamo esperti nel genere, e ne mettiamo uno mediano. Anzi, mettiamo tre
mediane. Poi li facciamo saltare, e se uno ci riesce gli diamo un titolo onorifico, che ne so, professore ad esempio.
Poi però gli diciamo che anche se ha saltato bene, non possiamo davvero promuoverlo, perché soldi per aumentare
le paghe non ce ne sono. Non è una bella idea? Poi facciamo anche un concorsone per gli insegnanti delle scuole
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coraniche dei più giovani, un bel quizzone come un bingo, ma accettiamo soltanto le prime undicimila tombole, su
centocinquantamila che giocheranno; diremo che abbiamo finito i fagioli. L'importante è evitare gli ‘stop and go’,
ossia la fregatura deve essere continua”.
Si udì distintamente una voce stentorea fuori campo: “Non sequitur!”.
“Trascurando l'istruzione, la cultura, la protezione del territorio, il paesaggio, si vede bene cosa accadrà nel futuro:
l'Impero Ottomano scomparirà, ed entro breve non ci sarà più”.
Si udì distintamente una voce stentorea fuori campo: “Hoc sequitur!”.
Ramon si stava riavendo dal sogno, in fondo che stesse sognando ne era sempre stato consapevole. Anzi, in un
angolo remoto del cervello un retropensiero continuava a dirgli: per fortuna che è un sogno; quale governo, quale
responsabile dell'istruzione di un grande Paese potrebbe fare una politica così dissennata? Quale governante
potrebbe sbagliare i conti da cinquantamila a trecentocinquantamila? Chi se la prenderebbe mai con gli anziani, con
gli studenti, a tutto vantaggio dei Satrapi, e dei latifondisti?
Ma di chi era quella voce fuori campo, quella che parlava in latino? Si accorse allora che Giulia sedeva di fronte a un
frate francescano, dalla figura minuta ma dai lineamenti decisi, che proprio in quel momento stava dicendo:
“È proprio così, Giulia: ‘frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora’! Ecco la regola d'oro del mio ‘rasoio’; o
anche, ‘entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem’. E questa è la fine di ogni platonismo”.
“Ma ci dovrà essere un modo per distinguere il caso di una parola che ha un senso, come ‘gli uomini’ dai nomi
vuoti, come la chimera o l'ippogrifo...”.
“Certamente. Nel mondo non esistono ippogrifi, ma uomini. Ma ciò che esiste non è “l'uomo in sé”, o l'archetipo
dell'iperuranio, bensì i singoli uomini: tu, io, Ramon, papa Bonifacio VIII... Quando dico ‘gli uomini’ non faccio altro
che usare una scorciatoia linguistica per non nominarli tutti, uno ad uno; ma mentre Ramon esiste - vedi che è lì che
si sveglia - mentre ogni singolo uomo esiste, ‘l'uomo’ in quanto tale tu non lo incontri nel mondo. I nomi collettivi
altro non sono che nella voce, sono ‘flatus vocis’”.
Ramon capì bene che si trovava al cospetto del “doctor invincibilis”, del grande Guglielmo da Ockham. Che, al di là
delle sue dottrine teologiche e filosofiche (che avrebbero cambiato il mondo, e forgiato per sempre il pensiero
anglosassone) fu anche sommo logico. E se una cosa non consegue, non consegue: “non sequitur”, appunto.
L’arcivernice: Considera la metamorfosi della
tartaruga (quarantacinquesima puntata) di
Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-considera-metamorfositartaruga-quarantacinquesima-puntata-4058305443.shtml
“Vedere meglio, Giulia. Che non vuol dire vedere di più come con il cannocchiale. Vuol
dire usare gli occhi come strumenti che vedono, e insieme la mente che intanto riordina
i dati sensoriali”.
Ormai è dicembre inoltrato, ma la giornata è stupenda, esposta tutta al sole. Le celebri penombre di Bologna, il
filare dei portici, oggi non riescono ad attenuare questa intensità, i colori gagliardi e gli sfumati. Oggi la luce, con
una specie di languore, si stende libera ovunque.
E mi sembra felice anche Ramon, perché il sorriso per una volta sta intersecando la sua espressione pensosa. Lui è
stupito, non aveva mai visto Bologna così: i portici, che per la prima volta con un gioco incalzante, anziché mitigare
questa gettata di luce, quasi la fanno girare, tanto che adesso, senza imbrigliarcisi, la luce vibra anche di più
rimbalzando attraverso quelle cavità.
Molti architetti di questi tempi affermano che il luogo è soprattutto mentale, che è come lo vuoi vedere, che è la
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conferma di ciò che avevi già deciso di vedere. Loro così ribadiscono che il modo con cui guardi influisce sull'esito
di quello che vedi. E il loro scopo non è certo quello di fornire materia di studio alla psicologia sperimentale!
Dunque “qualcosa” esercita su di noi una dolce tirannia?
Qui ha senso forse parlare di emozione, però così siamo all'opposto della cultura della ragione, dove invece
“emozione” non ha senso, e dove l'ispirazione si condanna. Dove è vietato il gusto di elaborare con occhi e mente
esaltati assieme: perché così non trovi la verità salda, oggettiva, ma sentimenti diversi di momento in momento. Ma
la mente, si sa, vuole selezionare i dati sensoriali come le pare, valuta a parte per i fatti suoi. Adopera lo spazio e la
profondità in modo che il buio possa venire lacerato da fantasticherie vertiginose. E così la visione è imbevuta anche
di sogno.
La voglia di sottrarsi, chiamarsi fuori, forse perché ci accorgiamo che certi fini non sono anche i nostri fini. Ci
tappiamo le orecchie come i bambini che fanno finta di non esserci.
Ho sempre davanti a me la risorsa di quel percorso: il bar di fronte alla casa di Ramon, con la macchinetta dove i
ragazzi giocano a video-qualcosa, gli occhi da formichiere di quella donna della guardiola... Anche in questi
momenti vorrei una specie di guscio di tartaruga in cui ritirarmi. Eppure la saluto, e lei impugna la risposta come
un'arma, con la sua voce stabilmente arrochita in basso cavernoso.
Ma quello è l'unico campo di gioco che esista per sentire le voci, con l'Arcivernice. Qualche risposta pertinente alla
“query”.
“Il meglio, alla fine, sta nel vedere con gli occhi e con la mente assieme?”. Domando già: “Ti viene naturale
combinare le parti, in un processo sinergico che aumenta la potenza di ciascuna. Non puoi tagliare con l'ascia,
vedere un bianco totale senza retinati, senza nemmeno grigi. Oppure vedere il nero più brutale, assoluto come
l'ombra lunga della paura”.
Eccolo lui, il grande Le Corbusier. Per primi appaiono soltanto quei suoi occhi attenti, galleggiano nel buio. Poi la
figura intera si protende a possedere lo spazio, a captare la realtà. Ma di lui non c'è solo inerte estensione, c'è il
ritmo motorio dell'agire, il gesto rapido, risolutivo, come nel suo disegno.
Così continuo: “Perché, maestro, la sua opera a un tratto ha impresso genialmente un ritmo imprevisto? È l'esito
anche il suo, forse, del disinganno amaro che dopo la seconda guerra mondiale ha demolito la sua illuministica,
utopistica fiducia nella razionalità naturale degli uomini?”.
“Vedere meglio, Giulia. Che non vuol dire vedere di più come con il cannocchiale. Vuol dire usare gli occhi come
strumenti che vedono, e insieme la mente che intanto riordina i dati sensoriali”.
“Ma sulla scia dell'emozione del momento - insisto - la mente forse si impone, tracciando un percorso per arrivare a
un'interpretazione più morbida, giocosa: spesso la felicità dell'esistenza e forse non la vita per quello che è. È una
visone fedele, maestro? La volontà di conoscere il mondo o un'interpretazione per evitarlo?”.
Cerchi di sintonizzare la tua esperienza in modo tale da non dover fare i conti con la realtà, continuo dentro di me.
Una realtà che però non si dovrebbe liquidare con facilità.
Il grande architetto sembra scrutare attento anche nel mio pensiero: “In quei momenti decisivi della Storia, e non
solo la storia delle forme ambientali”, dice, “bisogna sempre rifiutare elementi discordanti con la chiarezza del
razionalismo di chi per molti anni, anche oscuri, è riuscito a credere ancora nel ruolo illuminante della ragione
umana”.
Io penso a ciò che afferma Borges nella sua “Metamorfosi della tartaruga”: “L'arte vuole sempre irrealtà visibili”. O,
per contro, penso alla celebre definizione dell'architetto Pier Luigi Nervi, per cui l'arte sarebbe la fusione “di
multiformi aspetti”. Dunque aspetti scientifici, estetici, tecnici e sociali, che esprimono “la capacità di un popolo, il
grado della sua civiltà”.
Allora anche Ramon, un po' sconvolto per quei personaggi che vado a scovare, pone subito lui la sua domanda, e lo
fa con solennità semiseria, mentre sembra che srotoli man mano una pergamena con sopra scritto un proclama
reale: “L'arte dunque non è irrazionalità pura, per gli architetti che applicano alle città la teoria dei valori visivi, che
si interessano della psicologia dei luoghi e anche del tormento esistenziale dell'uomo!”.
E io subito aggiungo, quasi avidamente: “Maestro, anche in questo periodo di comunicazione onnivaga, l'arte non è
libertà assoluta, inventiva del pensiero?”.
Di tanta frenesia interrogativa Le Corbusier non raccoglie la suggestione, quasi intendesse spogliare anche questa
vicenda da ogni esclamativo. E la sua immagine sfuma, mentre un singhiozzo va lontanissimo a fondersi con la
carezza dell'aria.
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L’arcivernice: Suarez e il Natale
(quarantaseiesima puntata) di
andaluso
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-suareznatale-andaluso-quarantaseiesima-puntata-4058438826.shtml
L'incontro di Ramon con il “doctor eximius”, fra sostanze spirituali distinte “solo
numero”, mandati politici revocabili e Consigli di Amministrazione delle Università...
Voleva risentire il profumo del Guadalquivir, era come la “madeleine” di Proust; aveva nella retina le asperità della
Sierra Morena; e il retrogusto del Turrón, dei Polvorones y mantecados, della casa di campagna dei nonni. Insomma,
Ramon cominciò a chiedersi se, per le feste della Navidad, sarebbe tornato in Andalusia.
Uscì nel giardino, nel buio della fredda gelida serena notte invernale. In fondo, lì dov'era c'erano tanti amici, c'era
Giulia, c'era un certo mondo, ormai consolidato. Ma la notte era serena, e si vedeva il luccichio degli astri; fu allora
che Ramon sentì la nostalgia, e gli parve che una voce gli parlasse, come una lunga, scura, triste lingua, per formare
una pozza d’agonia vicino al Guadalquivir delle stelle.
E, concentrandosi meglio, risentì le parole del suo illustre conterraneo, ma questa volta suonarono così:
“Como una larga, oscura, triste lengua, para formar un charco de agonía junto al Guadalquivir de las estrellas”.
Strano, incurabile, irrazionale disagio la nostalgia. Ramon rabbrividì nella giacca, e rientrò in casa turbato. Doveva
parlare con uno spagnolo, meglio, con un andaluso. Si ricordò di un'immagine, sfogliò forsennatamente, e ritrovò
l'icona ieratica e magrissima, le guance scavate, di Francisco Suárez, il “doctor eximius”.
Malgrado la severa austerità del portamento e dei modi, Ramon avvertiva una sensazione originaria, un senso di
consuetudine e di casa (quanto è forte, e irrazionale, il rapporto dell'uomo con la terra, e con la propria in
specie...).
“Maestro, maestro...” balbettò, quasi senza che altra parola potesse essere ripescata da quello scombussolamento
mnestico.
“Ramon, che hai scoperto, dunque, dalla filosofia?”.
“Tante, troppe cose; al punto che ora dubito assai più fortemente di prima di se e di che cosa si possa dare
conoscenza”.
“La conoscenza, la cognizione diretta, si dà solo del singolare, Ramon; come vedi, un gesuita tomista come me non
è poi così lontano da Ockham... ma dirò di più: io credo persino all'esistenza di sostanze spirituali distinte 'solo
numero'. Anche se il 'principium individuationis' in generale non può fondarsi solo sulle determinazioni spaziotemporali, stante la pura potenzialità della materia. L'universale è allora posteriore alla conoscenza dell'individuale,
è un cogliere l'unità nella molteplicità, come dice Aristotele. E voglio aggiungere ancora questo: forse ti sembrerà
non particolarmente importante l'ammettere sostanze spirituali distinte 'solo numero', e tuttavia questa assunzione
ha una conseguenza dirompente: manda all'aria le celebri cinque vie di Tommaso; perché il ragionamento non può
concludere per l'unicità e l'infinitezza del 'principium' dedotto. Dunque l'unica via a Dio è a priori, è dall'Ens 'a se'
che si deducono la necessità e l'unicità di Dio, come già Anselmo aveva capito”.
Ramon non aveva dimestichezza con il registro semantico della tarda scolastica, e si trovò subito spiazzato, a dover
pensare. Ma un meta-pensiero lo consolava: buon segno, quando si vede pensare...
Quasi indovinando quel disagio, Suárez continuò:
“Sai, Ramon, che, per quanto le mie tesi ti possano sul momento sembrare astruse, esse sono penetrate
profondamente nella filosofia moderna, hanno influenzato Cartesio, Leibniz, e, attraverso Wolff, persino Kant. Nelle
mie 'Disputationes' sta in nuce la separazione dell'ontologia dalla teologia, persino al di là dei miei intenti; e,
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distinguendo tra una metafisica generale, o dell'essere e delle sue qualità trascendentali, e una metafisica 'speciale',
o dei vari enti specifici, e cioè di 'anima', 'mondo', 'Dio'... Ti ricorda qualcosa, Ramon?”.
“La dialettica trascendentale... Kant...”.
“Bravo Ramon!”.
“Maestro, mi pare di ricordare che anche il tuo pensiero politico ha avuto vasta influenza...”.
“La mia teoria politica, che forse a qualcuno è parsa strumentale in funzione antianglicana, è stata lodata persino da
Hugo Grotius, il fondatore del giusnaturalismo. Il potere politico non appartiene a nessun uomo, ma alla pluralità
degli uomini, che per natura nascono uguali. E così il potere, ancorché assoluto, se pure legittimo all'origine, non
può essere usato contro il bene comune. Dunque il mandato, il 'pactum subjectionis', può sempre essere revocato
da chi è in effetti vero detentore del potere. Così, se il sovrano agisce contro il bene comune, la collettività deve
potere riprendersi quel potere, e ritirare quel mandato, se l'autorità degenera in tirannide. E il despota deve essere
osteggiato, combattuto, deposto, e perfino mandato a morte”.
Ramon rimase colpito. In effetti, a parte le dittature esplicite, gli venne in mente un solo caso di mandato
irreversibile: quello dato ai Consigli di Amministrazione delle Università secondo la nuova legge italiana. Si rese
conto di quanto calava il principio generale nel contingente, e di non sapere forse discriminare, in quel momento, il
transeunte dall'eterno; ma quello dell'università era in fondo il suo attuale universo. E gli venne in mente quante
volte era stato chiesto da studenti, dipendenti, professori dell'università di eliminare quella assurda anomalia, ma
non c'era stato niente da fare. Un Consiglio di Amministrazione non sfiduciabile da chi l'ha nominato non è forse un
esempio di un'intangibile oligarchia degenere?
Strano davvero questo incontro. Un tardo scolastico, da cui ti aspetti una piena immersione in un remoto passato,
che in prima approssimazione pare il classico nemico della modernità, e che, tuttavia, pur così ancorato alla
tradizione, fornisce spunti importanti a Kant, è citato e apprezzato da Schopenhauer, viene considerato da
Heidegger troppo poco valutato, etc. E nei termini della cui teoria politica si può persino ragionare sul “particulare”
del triste momento dell'accademia. Davvero, si ripresenta così e si srotola davanti agli occhi la nozione di
“philosophia perennis”, anche in senso non necessariamente mistico, come in Agostino Steuco, in Leibniz e, più
modernamente, da Huxley.
Ramon
pensò
di
parlarne
con
Suárez,
ma
il
piccolo,
magro
gesuita
si
stava
ormai
dissolvendo.
Decise allora definitivamente che avrebbe trascorso la prossima Navidad nella sua Siviglia.
L’arcivernice: I pensieri di Ramon al suo ritorno
(quarantasettesima puntata) di
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-pensieri-ramon-suoritorno-quarantasettesima-puntata-4059843979.shtml
“La storia della filosofia è nata con Hegel, pensava Ramon. Prima non c’erano “storie”,
ma summulae, trattati, manualistica: la cronologia andava recuperata nella propria
mente. Ancora oggi nei seminari la filosofia si studia così, secondo un indice
sistematico: teologia, ontologia, gnoseologia ecc.”.
Mentre l'aereo virava su Bologna alla ricerca del giusto corridoio per l'atterraggio, la città cambiava continuamente
di prospettiva. E sembravano tante città diverse a chi non la conoscesse poi così bene. A Ramon venne in mente un
famoso paragone di Leibniz, che, per spiegare come le monadi fossero tanti punti di vista diversi su uno stesso
mondo, diceva appunto che era come arrivare in una stessa città da punti differenti. Leibniz, grandissimo
viaggiatore, quante volte avrà visto comparire Firenze venendo da nord, da Bologna, o da sud, da Roma! Due
scenografie diversissime della stessa cosa; che solo a Dio era consentito di vederla in proiezione ortogonale, tutta
distinta e precisa in ogni componente.
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Il tocco delle ruote sulla pista, il ritrovarsi “terrestre”, nella situazione naturale di noi, bipedi implumi, senza
branchie e senza ali. E, in quel contatto col suolo, l'affievolirsi fino a sparire di tutto il folklore andaluso.
Ecco, bisognava tornare ai massimi problemi. Ma da dove riprendere? La storia della filosofia è nata con Hegel,
pensava Ramon. Prima non c'erano “storie”, ma summulae, trattati, manualistica: la cronologia andava recuperata
nella propria mente. Ancora oggi nei seminari la filosofia si studia così, secondo un indice sistematico: teologia,
ontologia, gnoseologia ecc. E preti e frati spesso conoscono la filosofia meglio di coloro che l'hanno studiata
“storicamente”. Nei licei italiani, viceversa, non si studia “filosofia”, ma “storia della filosofia”, ovvero ciò che Croce
chiamerebbe “storiografia”. In questi tutte le lingue esistono due parole diverse per designare la storia come
passato dalla storia come scrittura. E il problema della filosofia della storia è tutt'altro che semplice. Per la visione
positivistica, la storia è costituita dal passato, più il pensiero dello storico, dove questo deve tendere a zero. Ma si
capisce che così non funziona: al limite auspicato, troveremmo la cronaca e non la storia. Più opportunamente Henri
Marrou, ne “La conoscenza storica”, parla del rapporto tra il passato e il pensiero dello storico. Ma il rischio allora,
rispetto alle sintesi largamente usate nel medioevo, è quello di non toccare mai con mano l'autore, ma di farselo
raccontare. E d'altra parte, come sperare di leggere, in una sola vita, tutti i grandi classici? Quando solo a leggere
tutto un autore anche solo un po' prolifico ci si impiegano vent'anni?
Così pensava Ramon, in specie nella prospettiva di sfruttare al massimo l'enorme fortuna che gli era toccata di
trovare l'arcivernice. E pensò che forse l'arcivernice era proprio questo: la lettura diretta dei grandi classici, che ci
parlano, con le loro proprie parole, senza mediazioni ermeneutiche. Ma purtroppo noi li “sverniciamo” molto poco.
Ramon pensò che avrebbe dovuto trovare un'immagine di Popper, e interrogarlo a fondo su “Miseria dello
storicismo”. E gli venne subito in mente che la critica più serrata di Popper, quella allo storicismo ideologico e
totalizzante, consiste esattamente nel suo carattere escatologico e nella sua pretesa capacità predittiva. E questo,
anche nel lunghissimo periodo: come il giudizio universale e la resurrezione della carne per la filosofia della storia
cristiana, o la società senza classi per i marxisti. E gli venne in mente che oggi questa tendenza si invera e si
realizza, più che in ambito filosofico, in ambito economico: sono gli economisti, coloro che capiscono il mercato e
la dinamica delle aziende, che hanno il compito, il diritto/dovere, di prevedere. Sono, insomma, i professori
bocconiani che vegliano sul nostro futuro, perché sanno che cosa succederà.
Fino ad epoca moderna, e purtroppo anche dopo, un compito simile era affidato agli astronomi: tra i suoi obblighi,
un professore di astronomia doveva fare l'oroscopo al re, e trarre presagi. Il povero Keplero doveva interrompere i
suoi calcoli scientifici, per comunicare come andasse letta l'influenza di Saturno quando entrava in una certa
costellazione zodiacale; e doveva dare alla cosa un aspetto scientifico, mischiare frasi vacue a calcoli e misure, per
conferirle quel senso di oggettività che solo i numeri sanno dare.
Così molti dei nostri economisti; che, per la legge dei grandi numeri, prima o poi ne azzeccheranno bene una...
L’arcivernice: Gli scherzi non sono più quelli di
una volta (quarantottesima puntata) di Giulia
Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-scherzi-non-sonopiu-quelli-una-volta-quarantottesima-puntata-4061355310.shtml
“Sì, nella scorsa puntata Ramon parlava appunto ‘dell’enorme fortuna che gli era
toccata di trovare l’arcivernice’. Addirittura dichiarava di pensare che l’Arcivernice
fosse proprio questo: la lettura diretta dei grandi classici, che ci parlano con le loro
proprie parole, senza mediazioni ermeneutiche. Invece per me quel sentire ‘parlare con
le proprie parole’, sono allucinazioni acustiche sacrosante ed autentiche”.
Insomma, questa strada che porta alla casa di Ramon mi si propone anche troppo spesso, si avvia verso suoni,
direzioni, odori desiderati, trova la sua quadratura che mi spinge a percorrerla.
Con tormentate manovre di accostamento striscio davanti agli occhi agonici della custode, che iniziano a vibrare
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solo quando si sentono scricchiolare i miei passi cauti nell’androne. C’è un’atmosfera gotica qui intorno, già prima
della stanza di Ramon, e quella donna ha una luce nello sguardo che inizia a dardeggiare non appena mi vede,
come in una figura diabolica.
Quali che siano i motivi per continuare le visite a Ramon, è certo che vogliono escludere del tutto l’Arcivernice. Solo
Ramon su quel fatto ci marcia, e spesso anzi lo vellica, agitando acque già di per sé agitate.
Certi eventi prodotti con l’Arcivernice non si spiegano. E se analizzata col metodo della conferma scientifica, quella
specie di beffa, quel colpo di scena delle improvvise apparizioni a volte anche attraverso le pareti, l’ho già detto, se
prese sul serio possono essere ricondotte solo alle teorie dell’allucinazione.
Però sarebbe meglio forse lasciar stare, qui, l’approccio scientifico, e affidarci all’intuito; questa “cosa” non può in
alcun modo sottostare a spiegazioni rigorose, anche se la “mia” scienza, bisogna dirlo, non è poi tanto rigorosa,
poiché io vi inserisco in mezzo pensieri, emozioni confuse e chiasso, distrazione. Le ripetute incarnazioni
confermano forse un sentire più filosofico, sfuggente. Se ci appelliamo invece alla scienza rigorosa, il risultato non
può che essere miseramente attribuito, appunto, al fenomeno allucinatorio: un panorama violento, espressionista.
L’andare a ricercare certi effetti è un po’ come una droga, una schiavitù, una dipendenza: esigerebbe una ferrea
personalità, il farne a meno. Altro che due persone rintronate davanti a una vernice trasparente assurta forse a
panacea di questi guasti del terzo millennio.
La mia ansia, lo so, è situazionale. Ho voglia di sottrarmi. E se l’ansia per Darwin è un’emozione preziosa, però
diventa un problema se ti blocca i processi mentali di elaborazione. Ed è inquietante anche quel pizzico d’invidia
che provo per la tranquilla acquisizione dei fatti da parte di Ramon, e per quel suo leggero favolare su queste cose.
Mi dà delle risposte divaganti, e certo, come ha detto Pirandello, “i libracci di filosofia gli hanno sconcertato il
cervello”.
Sì, nella scorsa puntata Ramon parlava appunto “dell’enorme fortuna che gli era toccata di trovare l’arcivernice”.
Addirittura dichiarava di pensare che l’Arcivernice fosse proprio questo: la lettura diretta dei grandi classici, che ci
parlano con le loro proprie parole, senza mediazioni ermeneutiche. Invece per me quel sentire “parlare con le
proprie parole”, sono allucinazioni acustiche sacrosante ed autentiche, dove si avvertono voci inesistenti. Neanche
“acoasmi”, quindi, che sarebbero forse fenomeni un po’ meno insidiosi, allucinazioni più semplici, leggere, come
fruscii, campanelli, sibili, ronzii, per cui uno può cavarsela andando dall’otorino a farsi riscontrare un acufene. Qui
sono proprio voci articolate, e oltretutto fornite anche di contenuti. Un ampio spettro di voci, sonore, dolci, vibranti,
stentoree, che sembrano proprio collocate fuori dalla nostra testa, là nell’ambiente esterno; con un sapore di verità
e realtà, sembrano provenire proprio da una persona.
Avverto un brivido che mi attraversa verticalmente la schiena: mi sa tanto che qui il significato prognostico sarebbe
sfavorevole. Depone per un quadro di follia, altro che l’acufene.
Ci sono tutti gli elementi di Jervis: l’ambigua sovrapposizione, la confusione tra il sentire la voce “nelle” orecchie
oppure il sentirla “con” le orecchie, e così via. E il rischio è dunque la dissociazione, che poi caratterizza le
condizioni psicotiche. È la Spaltung di Bleuler. E gli ingredienti, anche qui, ci sono tutti: c’è la trasformazione
fantastica della realtà e c’è la direzione autocentrica, perché interpretiamo i fenomeni di quelle incarnazioni come se
si rivolgessero a noi, senza più il vaglio critico.
Già, tutto dipende dalla relazione tra Io/il nostro corpo, e Mondo Esterno: se i confini si perdono, se la definizione e
il limite tra il nostro spazio interno e quello esterno sono imperfetti e confusi, e se il vissuto interno si decompone e
frana su quello esterno...
L’arcivernice: Irnerio e un muro contro gli
studenti
(quarantanovesima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
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http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-irnerio-muro-controstudenti-quarantanovesima-puntata-4061870954.shtml
“A chi può essere venuta un’idea così? Sradicare l’attività di un centro culturale dal
cuore della città, dai posti frequentati dagli studenti, e collocarla fra le fabbriche e gli
opifici. I ragazzi certo fanno musica, fanno il loro mestiere, fanno i giovani; ma la città
li deve davvero vivere come un disturbo? Cosa sarebbe Bologna senza i suoi 80.000
studenti?”
Ramon studiava la cartina di Bologna, e cercava di capire dove fosse effettivamente il quartiere “Roveri”. Sì, perché lì
l’università aveva deciso di affittare un capannone industriale, per le attività culturali e ricreative degli studenti.
Era stata una storia faticosa. Un gruppo di studenti, che ottengono uno spazio dall’Ateneo in comodato. Lì fanno
attività teatrali, conferenze, musica. Ad un certo punto l’Ateneo, per suoi progetti, reclama indietro gli spazi. I
ragazzi chiedono un luogo alternativo. L’università, d’accordo con il Comune, affitta un capannone alle Roveri,
appunto. Zona industriale e lontanissima, di là dal cerchio della tangenziale, come sta scoprendo Ramon sulla
cartina. I ragazzi rifiutano. L’università allora mura, con un muro fisico, l’entrata del loro spazio, e manda la polizia
a presidiarlo. Si arriva anche allo scontro.
Pensa Ramon: ma come si fa a chiedere di spedire i ragazzi fin là, ma a chi può essere venuta un’idea così?
Sradicare l’attività di un centro culturale dal cuore della città, dai posti frequentati dagli studenti, e collocarla fra le
fabbriche e gli opifici. I ragazzi certo fanno musica, fanno il loro mestiere, fanno i giovani; ma la città li deve
davvero vivere come un disturbo? Cosa sarebbe Bologna senza i suoi 80.000 studenti? Vogliamo parlare anche solo
di economia, visto che questo è ormai l’uso dominante? E allora parliamone: quanto portano alla città 80.000
persone che, poco o molto, spendono, mangiano, vanno al cinema, si vestono... Chissà se i residenti benpensanti
sarebbero contenti di vivere in una città dal reddito dimezzato. Sì, forse sentirebbero un po’ meno di rumore, forse
ci sarebbe più pace in certe zone. Magari si sentirebbe meno anche il rombo delle grosse cilindrate, e molti
benpensanti, moderati e paciosi, andrebbero a piedi. Ora, che non lo capisca il negoziante medio, che vede solo i
quattro metri quadri del portico davanti alla sua vetrina, si può anche intuire. Ma che non lo capiscano il Comune e
l’università è un po’ paradossale.
Così pensava Ramon, ricalcolando anche le sue private spese personali. E pensare che aveva scelto Bologna proprio
per la fama che gode della sua apertura, della sua vivacità culturale, della sua tradizione di tolleranza. Una
università che non è, che non ha un campus: è essa stessa, è il suo centro storico il campo, lo studio è sempre stato
intessuto del centro e il centro dello studio. L’archiginnasio, sede storica, addirittura, dal 500, direttamente sulla
piazza Maggiore; poi, in seguito, Palazzo Poggi, a cento metri dalle due torri.
Che tristezza, quando si distrugge il passato, si rende irrecuperabile una sensazione, una storia, una tradizione
millenaria. Già, millenaria quasi. Ramon avrebbe voluto parlarne con Irnerio, il fondatore delle arti liberali e della
scuola dei glossatori; ma non gli riuscì di trovare un’immagine, e così l’arcivernice era inservibile. Chissà se Irnerio
sarebbe stato disposto ad andare a commentare il Corpus Juris alle Roveri; forse avrebbe risposto che avrebbero
potuto mandarci Titius, Gaius, Sempronius; ma che lui, come l’illustre predecessore Pepone, partiva per Parigi.
Anche senza arcivernice, Ramon la domanda volle farla lo stesso: Maestro Irnerio, l’avresti mai fatto un muro contro
gli studenti?
L’arcivernice: I limiti della ragione e la morte
della metafisica (cinquantesima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-limiti-ragione-mortemetafisica-cinquantesima-puntata-4062466225.shtml
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“Con la testa piena di queste cose, Ramon prese il coraggio di invocare Kant. In fondo,
la parola più decisiva nella distinzione tra ‘fenomeno’ e ‘noumeno’ l’aveva detta lui.”
Il crepuscolo. Quei mezzi colori che d’inverno spariscono in fretta, rabbuiandosi in un mondo dipinto tutto di nero.
E allora viene naturale chiedersi: “ma cosa ci sarà poi là fuori?”. I canali dei sensi a volte ci ingannano, lo sappiamo
da sempre. Poi in realtà quel che ci riguarda direttamente non è la sensazione, ma la percezione, che quasi mai
coincidono. Ramon stava giocherellando con una moneta da un Euro. E ricordò il celebre esempio: noi siamo tutti
d’accordo che la moneta da un Euro è tonda. E tuttavia, quando mai vediamo un cerchio perfetto? Noi vedremo
sempre un’ellissi, o addirittura una linea un po’ spessa, o, se la teniamo in mano, un semicerchio dalla base
irregolare. Ma chi metterebbe in dubbio che è tonda? Questo vuol dire che i nostri sensi non fanno breccia diretta
nel nostro cervello, le pulsioni che ci giungono dall’esterno sono sempre e comunque elaborate, intellettualizzate a
priori, prima ancora di varcare il livello della coscienza. Così il delfino vede un mondo assai diverso dal nostro, per
non dire del flusso che entra nel cervello del pipistrello, come già ci ha spiegato Nagel. Un modo di echi, di suoni, di
rimbalzi di onde. E lo stesso i colori: là fuori ci sono onde di una certa frequenza, o il verde dei campi, il bianco
della neve, il grigio del piancito della parte lastricata del giardino? O forse, niente di tutto ciò, ma altro ancora. La
Gestaltpsychologie bene ci ha illustrato come “vediamo” ben altro da “quello che c’è”.
Con la testa piena di queste cose, Ramon prese il coraggio di invocare Kant. In fondo, la parola più decisiva nella
distinzione tra “fenomeno” e “noumeno” l’aveva detta lui.
“Che cosa c’è davvero la fuori, Maestro?”
“Che cosa conta, Ramon?”
“Conta per la curiosità del conoscere...”
“Proprio per questo non conta: è ciò che non conoscerai mai; ciò che non supera la soglia di spazio e tempo; ciò che
non si può fare ‘fenomeno’, cioè non può, per definizione, ‘mostrarsi’”
“Ti riferisci ad ‘anima’, ‘mondo’, ‘dio’?”
“In primis, ma non solo. Potrebbe esserci qualsiasi ‘cosa in sé’ là fuori; ma a te non giungerà mai ‘l’in-sé della cosa’”
“Ma perché allora a certuni, più dotati, si mostrano con evidenza più cose, e ad altri meno; questo non rende
indeterminata, o imprecisa, la classe dei ‘fenomeni’”?
“Io non parlo di quello che entra nella ‘tua’ conoscenza, ma in ogni conoscenza possibile, là dove vi sia una mente.
Parlo del ‘trascendentale’ come normativo di ogni conoscenza possibile, non della conoscenza fattuale che per
ventura un qualche uomo ha incontrato. Le regole sono quelle degli schemi categoriali. Assumerle, così come
definite dalle condizioni di formalizzazione dello schema entro lo spazio e il tempo, è condizione preliminare di
ogni esperienza possibile, non solo delle esperienze passate”
“Ma tutto ciò, se spiega il ‘come’, non può spiegare il ‘perché’? Perché il qualcosa e non il nulla, come si chiede
Leibniz? Dove cogliere il senso?”
“Non nella logica trascendentale, ragazzo mio; non nella ragion pura. Per il senso dell’essere, dobbiamo rivolgere lo
sguardo al cielo stellato sopra di noi, e alla legge morale in noi; dobbiamo lasciare l’intelletto al suo destino e ai
suoi limiti, dobbiamo disvelare e denunciare le illusioni della ragion pura, e volgerci alla ragion pratica, alla
metafisica dei costumi e ai suoi fondamenti, all’imperativo categorico che è, quanto meno come forma virtuale, in
noi”
“Ma di tutto questo, sul piano conoscitivo, potremmo benissimo fare a meno; e ci sarà chi in effetti lo farà...”
“La via del solipsismo, della vanità del mondo, della riduzione del tutto a “non-io”, non l’ho aperta io; ma si è aperta
dal primo momento che Cartesio ha riportato il punto di partenza della filosofia all’analisi dei nostri mezzi di
conoscenza. È certo più comodo, filosoficamente, assumere in partenza il mondo con le sue fattezze, o addirittura
più mondi; o assumere un Dio perfetto, buono e onnipotente, com’era il presupposto medievale. E dopo tutto segue
con semplicità. Via comoda, in discesa, che ci lascia il solo compito di precisare alcuni dettagli. Altro è quello che ho
fatto, altro è un ‘sistema’”
La fronte aperta, “costruita per il pensiero”, come ce la descrive Herder, spaziosa, spaziosa e quasi più larga di
quanto fosse lungo l’intero volto; la figura asciutta e minuta, le mani abbandonate, quasi dimenticate in fondo alle
braccia: Kant si arrestò in silenzio. Ramon fu preso dalla vertigine di essere di fronte a un monumento al pensiero
umano; e a sua volta sentì di dovere stare in silenzio, a pensare.
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L’arcivernice: L’intelligenza e la
(cinquantunesima puntata) di
Matteuzzi
semantica
Maurizio
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-intelligenzasemantica-cinquantunesima-puntata-4063690619.shtml
“L’Intelligenza Artificiale è dunque un sogno, professore?”. Ramon parla con Herber
Simon.
Uno dei tratti dell’intelligenza, pensava Ramon, è quello di sapere trasferire alcune funzioni dal proprio corpo al
mondo esterno, potenziandole enormemente. Una scimmia antropomorfa che non riesce ad arrivare al cibo, ma
nella cui gabbia sia stato messo un bastone, dopo un po’ capisce che con il suo aiuto può arrivare dove non arriva
con gli arti, e riesce a sfamarsi. Così si dice che lo scimpanzé è più “intelligente” di altri animali.
Forse è proprio questo l’aspetto peculiare dell’intelligenza umana: riuscire a utilizzare il mondo esterno per
aumentare, accrescere le proprie capacità corporali. Così un martello prolunga la leva del braccio, e consente di
applicare una forza molto maggiore, con la sua resistenza metallica. Un qualsiasi utensile è un moltiplicatore delle
capacità solamente corporali. In un certo senso anche il linguaggio, la capacità simbolica, l’uso del segno in
funzione vicariante dell’oggetto sono una versione più sofisticata dello stesso processo. Allora la sfida diventa:
posso usare il mondo esterno non solo per potenziare le mie capacità fisiche, ma anche per potenziare quelle
psichiche? Posso portare l’“intelligenza” fuori da me, dal mio io? Per contare, quando non gli bastarono le dita,
l’uomo inventò l’abaco, e poi la calcolatrice, fino al moderno computer. Ma ecco, quest’ultimo non si accontenta di
contare, si impossessa del simbolico, manipola segni di qualsiasi natura, elabora il linguaggio umano. È possibile
una “intelligenza artificiale”, e, se sì, fino a dove può spingersi?
Ramon trovò una fotografia di Herber Simon, uno dei padri fondatori della moderna “Artificial Intelligence”. Simon,
premio Nobel per l’economia, psicologo, informatico, fu uno dei partecipanti della celebre summer school di
Dartmouth, nella quale, nel 1956, fu coniata la stessa espressione poi rimasta nella storia.
“Professore, che cos’è l’‘intelligenza’”?
“È l’incontro di due componenti: un sistema simbolico, con le sue regole, e un processore fisico che lo sappia
elaborare. Questo è quanto prende il nome di ‘modello fisico-simbolico’. Come vedi, è sufficientemente generale da
potere essere riferito a un essere umano o a una macchina”.
“È dunque possibile realizzare compiutamente una intelligenza puramente e completamente artificiale?”
“In linea teorica sì, Ramon. Ma a suo tempo ci illudemmo, io e Newell e altri, che l’imitazione del funzionamento
della mente umana nella sua abilità a risolvere i problemi, colta la chiave, il punto di attacco da cui partire, sarebbe
stata sviluppata e perseguita facilmente, e in un arco temporale dominabile. E fu una grande illusione. Ci
dedicammo al progetto del GPS, il ‘general problem solver’, il programma dei programmi, l’algoritmo che risolve
tutto. Malgrado parecchie innovazioni e scoperte, malgrado risultati parziali interessanti, quello era destinato a
rimanere un grande sogno destinato al fallimento. Perché vedi Ramon, spesso si confonde l’Intelligenza Artificiale
con l’Informatica, o Computer Science. Ma il nostro intendimento era affatto diverso: noi non eravamo concentrati
sulla soluzione dei problemi, o sulla definizione degli algoritmi risolutivi degli stessi, quanto piuttosto a riuscire a
capire, attraverso l’emulazione, il funzionamento della mente umana. Ecco perché, in un certo senso, l’Intelligenza
Artificiale è una forma di ‘psicologia’. Ma la complessità della mente si è rivelata di un ordine di complessità ben
maggiore della semplice capacità di elaborazione sintattica dei segni”.
“L’Intelligenza Artificiale è dunque un sogno, professore?”
“No, non è un sogno, è un percorso scientifico; lungo e faticoso come tutti i campi di indagine. Vedi Ramon, dalla
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‘tesi di Church’ noi sappiamo che esistono problemi computabili e problemi non computabili, ossia per i quali non
esiste un algoritmo risolutore. L’Intelligenza Artificiale nasce dalla constatazione che l’uomo è in grado di risolvere
anche problemi non computabili. E allora vale la tesi di fondo di questa disciplina, espressa mirabilmente da
Mitchie: ‘Se io fossi in grado di descrivere abbastanza minuziosamente come fa l’uomo a risolvere un problema non
computabile, allora sarei anche in grado di scrivere un programma che si comporta allo stesso modo’. Il primo
problema è allora quello di esplicitare le regole che l’esperto umano, spesso inconsciamente, applica nei suoi
processi risolutivi”.
“Non basta allora, per la vera intelligenza, che si dia un ‘sistema fisico-simbolico’?”.
“No, non basta; questa ne è solo una precondizione. Non basta l’elaborazione del segno, ma è necessaria la
comprensione del significato, ossia il governo della ‘semantica’; ed è da questo che siamo ancora lontani”.
“E lo saremo per sempre, professore?”
“Chissà, Ramon...”
***
La redazione precisa che un dibattito tra Herber Simon e Maurizio Matteuzzi sulla natura del significato in IA
accadde effettivamente, entro un confronto in rete tra vari studiosi sul tema delle “due culture”. L’esito fu pubblicato
sulla Stanford Humanities Review. Per approfondimenti si invita a leggere: “A basic Question about Meaning: does
Language denote Things or Thoughts?” di Maurizio Matteuzzi (Una domanda fondamentale sul significato: il
linguaggio denota cose o pensieri?). Le risposte di Simon sono pubblicate nello stesso volume, /SEHR, volume 4,
issue 1: Bridging the Gap/
L’arcivernice: La barzelletta di Spinoza
(cinquantaduesima puntata) di Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-barzelletta-spinozacinquantaduesima-puntata%20-4064849469.shtml
“Maestro, ma il tuo Dio, allora, non è 'persona'?”. Ramon parla con Spinoza.
“Sì, è vero, non sappiamo quasi nulla, meglio, nulla di quanto c'è là fuori. Ma, anche in condizioni di scarsa
conoscenza, non è forse opportuno concepire un modello razionale, e attenervisi il più possibile?”.
A Spinoza Ramon rispose: “Forse sì, maestro... È un po' come la seconda regola della morale provvisoria di Cartesio:
una volta che hai deciso, sii coerente. Tuttavia, un conto è basare la propria visione su dati, ancorché difettivi, un
altro non avere alcun puntello, alcuna certezza da cui prendere le mosse”.
La figura ieratica, secca e ascetica di Spinoza si irrigidì in un pensiero, si capiva bene che tutto il complesso di nervi,
di muscoli, di fisicità corporale quasi si fermava, poneva uno iato all'essere, nel momento del raziocinio. Ma dopo
pochi secondi di intensa riflessione, Spinoza parlò:
“Caro Ramon, tu da me ti aspetteresti tutto, fuorché quel che sto per porgerti. Ebbene sì, un puntello te lo voglio
dare, ma a modo mio. Ti racconto una barzelletta. Ci sono tre filosofi, un dogmatista, cioè a dire, più o meno, un
aristotelico, un analitico, e un empirista, i quali per la prima volta sono in viaggio, in treno, attraverso la Scozia. Ad
un certo punto del viaggio, dal finestrino, si vede una pecora. Allora il dogmatico parla per primo, e dice: 'Oh vedi,
anche in Scozia le pecore sono bianche'. Passa qualche minuto di imbarazzato silenzio, e l'analitico ribatte: 'Scusa,
illustre collega, ma mi pare che tu abbia fatto una generalizzazione indebita; tutto quello che noi possiamo
constatare, allo stato attuale, è che in Scozia alcune pecore sono bianche, poiché ne abbiamo vista almeno una. E
ciò basta per concludere quanto sopra'. Dopo pochi, silenziosi altri minuti, parla infine l’empirista: 'Scusate illustri
colleghi, ma sono costretto, a contraddirvi: entrambi avete fatto delle generalizzazioni indebite. Tutto quanto
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possiamo dire, al momento, è che in Scozia c’è una pecora, ed essa ha un lato bianco'. Qual è il senso, o, come si
usa dire, la morale? Non c'è limite a farsi del male. Distruggiamo pure, aspiriamo ad avere le macerie del pensiero, e
di certo per questa via le avremo”.
“E allora invece, maestro?”.
“Allora per prima cosa dobbiamo liberarci degli idola, dei pregiudizi sovraimposti al reale; e prendere il reale tutto
intero, come un solo ente, l'essere appunto, il “mondo”, il nostro Dio, Deus sive natura. Ci siamo dentro, capisci?
Non va posta la domanda 'ma cosa c'è là fuori', ma piuttosto quella 'dentro a cosa noi siamo'. Non va confuso
quanto noi, quel poco di noi, possiamo “vedere”, come ha fatto Cartesio: res cogitans e res extensa, va bene; ma
perché solo quello? Noi siamo in un tutt'uno, che ci mostra a volte qualcosa, i suoi “modi”, pensiero ed estensione.
Ma quanti infiniti altri modi avrà, quanti terrà per sé, quanti non dovranno disvelarsi? La sostanza, per sua natura, è
unica. È il mondo”, ed è indivisibile. Altrimenti vi sarebbero più sostanze, contro quanto abbiamo assunto del
“mondo” come un tutt'uno. Ecco allora che bisogna evitare il circolo vizioso, cogito, dimostro Dio, Dio poi crea il
mondo come altro da sé, dal mondo in cui io sono ritorno a Dio. Questo è lo schema consolidato. Ma il punto è che
l'edificio traballa, barcolla come un ubriaco. Dio è causa sui e dunque causa di ogni cosa, e dunque di quel mondo
che abbiamo assunto come un tutt'uno: Dio è il mondo, Dio è le cose”.
“Maestro, ma il tuo Dio, allora, non è 'persona'?”.
“E perché dovrebbe esserlo? Non ti accorgi, Ramon, di quanto sia antropomorfica questa visione? Abbiamo
concepito un Dio fatto come noi, intelletto, volontà, sentimenti, ragione...
Un giorno, diceva un padre santo, a sua immagine Dio l'uomo compose; l'uomo, un tal gli rispose, immaginando
Dio, fece altrettanto. Noi concepiamo l'essere ‘persona’ come la forma più elevata dell'esistere. Ma Dio non è
esistenza, è essenza. La sua stessa definizione, l''idea', ne comporta l'esistenza, qui hanno ragione Anselmo e
Cartesio. Ma che senso ha questa via antropomorfica? Dio è Dio cioè è tutto ciò che è, il mondo, le cose, persino,
oserei dire, le 'non-cose'. Tutto il resto è modalità, è variazione, è quello che Aristotele direbbe il 'ta pros ti'. Allora
prima ne prendiamo coscienza, meglio è. Che cosa potrebbe essere fuori di Dio, senza costituirne una limitazione?
Ed ecco, l'impersonalità di Dio”.
“Maestro, sono confuso. Ma allora non potremmo neanche pregare...”.
Purtroppo la già esile, minuta figura del filosofo si era ridotta ad un tratto indistinto del mondo, anzi, di Dio.
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Immagine in testata di Leonk / commons.wikimedia (licenza free to share)
L'arcivernice: Tantum possumus quantum
scimus (cinquantatreesima puntata) di Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/-arcivernice-tantum-possumus-quantumscimus-cinquantatreesima-puntata-4066266432.shtml
“Quale potere ci dà il sapere, Maestro?” “Prima di tutto, prima ancora di quello del
dominio sui beni materiali, che pure prima o poi ne consegue, il potere di essere uomini
veri”. In questa puntata Ramon parla con Francesco Bacone, Barone di Verulamio.
“Per prima cosa, per giungere al vero 'giudizio', caro Ramon, ci si deve liberare dal “pre-giudizio”; ovvero dai molti
pregiudizi, dalla ingenua credenza nelle falsità. Come quando tu vuoi trasformare la tua vecchia casa in una casa
bellissima, devi prima di tutto avere il coraggio di abbattere quella brutta. Solo dopo potrai edificare, e la nave del
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tuo pensiero potrà oltrepassare con il vento in poppa le colonne d'Ercole che ne inibivano il veleggiare nei marosi
dell'agitato oceano della conoscenza”.
Il Barone di Verulamio, con i suoi paramenti da alto dignitario, incuteva rispetto, e un certo disagio a Ramon; che
tuttavia non esitò a tentare di approfondire:
“Quali pregiudizi, Maestro?”
“I condizionamenti sono numerosissimi, e noi non ce ne rendiamo conto. Li assumiamo senza spirito critico, li
diamo per scontati, sono quasi, verrebbe da dire, insiti in noi, nella nostra natura. Ma possiamo catalogarli in
categorie:
• i pregiudizi tribali, quelli radicati nella stessa natura umana, e nella sua storia ancestrale; quelli che io chiamo
idòla tribus; gli errori della tribù, quelli radicati nella specie umana, che è fatta in modo tale che inevitabilmente
commette errori. Il fatto stesso di essere uomini ci porta ad errare;
• quelli personali, della propria insufficienza particolare, che si sommano ai primi, quelli della grotta di Platone, da
cui si vedono solo le ombre di ciò che sta fuori: io li chiamo idòla specus, gli errori della spelonca;
• quelli indotti dal contatto sociale, dalle relazioni con gli altri, che normalmente si situano nel linguaggio; perciò io
li chiamo idòla fori, o della piazza, del dire, del detto, spesso equivoco, convenzionale e ingiustificato;
• quelli, infine, della finzione scenica, dell'illusione, il mondo favolistico che ci racconta la filosofia stessa, ad
esempio il mondo non così com'è, ma come lo concepiscono gli aristotelici, che preferiscono leggere i testi dello
stagirita anziché andare a vedere come le cose siano; e questi io li chiamo gli idòla theatri, i pregiudizi della
rappresentazione scenica secondo un copione prefissato”.
Per ognuna delle classi Ramon avrebbe avuto tante domande; ma, conscio dell'effetto così effimero dell'arcivernice,
preferì procedere rapidamente alla parte costruttiva:
“E dopo, Maestro, dopo la liberazione, dopo avere abbattuto gli idoli, che dobbiam fare?”
“Dopo dobbiamo rivolgerci al reale così com'è. Studiare, osservare, annotare, e cogliere i collegamenti, le
concomitanze, andando a discriminare tra la coincidenza e l'essenza. Dobbiamo, cioè, imparare a leggere nel gran
libro della natura. Dobbiamo annotare le presenze sistematiche, e le co-presenze. E lo stesso per le assenze,
rilevando le cose che sono in relazione tra di loro, quelle che si escludono, quelle semplicemente disgiunte. E
dobbiamo anche sforzarci di valutare il grado di coesione delle cose, l'intensità del loro correlarsi; compilare, cioè,
quelle che io chiamo le 'tabule gradus'. Da questo lavoro emerge la regolarità, e dal raggiungimento del possesso
intellettuale della stessa, infine, la conoscenza”.
Adesso Ramon capiva bene perché Francesco Bacone era considerato il padre dell'empirismo.
“Ma, Maestro, oggi molti pensano che l'istruzione non debba essere funzionale al conoscere, ma al collocamento
sociale, all'inserimento nel mondo, all'applicazione in un qualche lavoro delle nozioni acquisite...”.
“Questo è segno di grande ignoranza, figliolo. È una regressione verso il tribale, di cui ho già detto. In realtà 'sapere
è potere', e chi non ama l'idea di condividere il sapere lo fa semplicemente per conservare il potere per sé”.
Naturalmente a Ramon vennero in mente i dibattiti attuali tra gli studenti suoi compagni, il problema di valutare gli
studi, e le eccellenze degli atenei sui tempi in cui i laureati si inseriscono nel mondo del lavoro, il dramma della
battaglia dei nostri governi contro la cultura vera, del 'sapere', in nome di un 'saper fare' funzionale al dio mercato.
Ma si immaginò quale disprezzo avrebbe suscitato in Bacone anche solo la formulazione di una qualche domanda in
merito, e si astenne.
“Quale potere ci dà il sapere, Maestro?”
“Prima di tutto, prima ancora di quello del dominio sui beni materiali, che pure prima o poi ne consegue, il potere di
essere uomini veri”.
E poi, quasi intuendo il pensiero del ragazzo, Bacone aggiunse:
“Con tutto il rispetto per il genio di Aristotele, commisurato alla sua era, io voglio ragionare con la mia testa, e non
con quella di Aristotele; e forse tu vuoi ragionare con la tua, e non con quella del dirigente di un opificio”.
Suonò d'improvviso una campana, cui quasi subito si aggiunse il suono di una seconda, e la sonorità, asincrona, si
spargeva per la campagna; Ramon, d'istinto, guardò verso l'alta finestra ormai buia, come se il suono si potesse
vedere. Chissà che idòlum era questo?
E quando ritornò con lo sguardo nella sua stanza il suo interlocutore non c'era più.
***
Immagine in testata di Wikipedia (licenza free to share)
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L'arcivernice:
Deduzione
e
induzione
(cinquantaquattresima puntata) di
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/-arcivernice-deduzioneinduzionecinquantaquattresima-puntata-4067007954.shtml
Tabulae praesentiae, tabule absentiae, tabule gradus; così rimuginava Ramon, dopo
l'incontro con Bacone. Era questo dunque il “metodo” nuovo, il, battesimo della
“scienza sperimentale”? E tuttavia, noi oggi parliamo del “metodo galileiano”, non del
metodo “baconiano”... Ecco la necessità di chiedere chiarezza a Galileo in persona.
“Maestro, le tabulae, dunque...”.
“Sì, Ramon, ma esse non bastano. Con l'osservazione di concomitanze o di mutue esclusioni non individuerai mai
una legge della fisica”.
“Cosa manca, dunque, al metodo baconiano?”.
“Due cose essenziali. La prima è l'ambiente. Lo scienziato deve costruire un ambiente adatto, isolato, scevro dalle
possibili perturbazioni esterne. Hai mai provato a lanciare una palla a favore di vento o controvento? Lo
spostamento che ne risulta può essere diversissimo. E allora si capisce che per giungere alla legge di natura la tua
esperienza deve essere in un ambiente senza vento, ossia affrancata da perturbazioni esterne. Così nasce uno dei
concetti più fecondi e più imprescindibili della scienza induttiva, il concetto di ‘laboratorio’: un mondo asettico,
quasi teorico, un mondo in un certo senso platonico, creato ad arte dall'uomo“.
“E la seconda?” chiese con impazienza Ramon.
“La seconda cosa è che la natura è un grande libro, che sta spalancato davanti ai nostri occhi, è verissimo; questo
libro però non è scritto nel linguaggio umano, ma è scritto in caratteri matematici. Con semplici tavole tu non
troverai mai una formula, neanche la più banale, nemmeno f = ma, la forza è uguale alla massa per l'accelerazione.
Ecco allora il punto: prima della sperimentazione, tu devi formulare un'ipotesi espressa in termini matematici.
L'esperimento te la confermerà o te la smentirà; ma il successo ti avrà fatto trovare una 'legge scientifica', non una
vaga correlazione”.
“Bacone era dunque in errore...”.
“Niente affatto, Ramon; Bacone ha aperto un sentiero, individuando il tragitto, come spesso fa l'esploratore, quando
si approccia a mondi nuovi. Spettava ad altri trasformare il sentiero in una strada”.
“Ma, Maestro, il risultato non potrebbe essere casuale? Voglio dire, non potrebbero esserci dei 'falsi positivi'?”.
“Ecco un punto essenziale. La risposta è complessa. Per prima cosa, uno dei caratteri distintivi dell'esperimento deve
essere la sua riproducibilità: devo poterlo replicare tutte le volte che voglio, e sempre con il medesimo esito. E
questa è la prassi scientifica. Sul piano filosofico, tuttavia, l'esito andrebbe controllato ad infinitum, o, meglio, per
tutti gli infiniti casi possibili, perché potresti avere infiniti casi favorevoli e al contempo infiniti casi contrari; e
questo tipo di verifica non può appartenere all'esperienza umana. A rovescio, un solo caso contrario basta ad
inficiare una teoria, per le leggi della logica: se tutti gli A sono B, è sufficiente che io mostri un B che non è A per
dichiarare l'ipotesi fallace. Ma questi esiti sono quelli della tua era, non della mia: potresti parlarne più
proficuamente con Karl Popper”.
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Ramon meditò di farlo quanto prima. Il discorso era estremamente affascinante, toccava direttamente la possibilità
di una scienza induttiva.
“Dobbiamo concluderne che ha ragione Hume, il principio di induzione non è dunque mai certo...”
“Bisogna distinguere, Ramon. Ci sono vari tipi di induzione. Hume ha certamente ragione per quanto riguarda la
così detta 'induzione empirica': dati N casi favorevoli, per N grande a piacere, nulla risulterà dimostrato per N+1.
Ma, come già aveva capito Aristotele, c'è anche una induzione che potremmo chiamare 'matematica', la quale altro
non è che una forma diversa di deduzione, anche se la strada è percorsa a ritroso. È quella che diventa,
modernamente, l'induzione completa, principio dell'aritmetica e della computazione. In una posizione intermedia si
colloca la mia, quella che ti ho spiegato sopra, il così detto 'metodo galileiano'; soltanto per questa via possiamo
aggredire i segreti della natura, cioè del mondo reale; perché la logica e la matematica non parlano di questo
mondo, ma di ogni mondo possibile”.
Ramon pensò che, nella storia del pensiero scientifico, c'erano due punti di discontinuità: la rivoluzione di Euclide e
quella di Galileo. L'insorgere della scienza deduttiva e l'insorgere di quella induttiva. Fu preso così da un'ansia di
entrare più addentro, umanamente, nell'uomo che gli stava davanti; e gli venne naturale cercare di capire, oltre che
la sua grande forza intellettuale, i suoi sentimenti, il suo patire, l'obbligo dell'abiura, la sofferenza data da quel
cannocchiale puntato nei cieli di un mondo limpidamente copernicano, che tuttavia fu costretto a 'vedere' come
tolemaico. La sofferenza del vero che non si può dire... Prese così il coraggio a due mani, e cominciò:
“Maestro...”
Ma l'augusta figura, quasi per ritegno, si era di già dissolta.
L'arcivernice:
Congetture
e
confutazioni
(cinquantacinquesima puntata) di
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-congetture-confutazionicinquantacinquesima-puntata-4068467722.shtml
“Maestro, ma allora non avremo mai certezze scientifiche?. “Il versante da
seguire è l'altro lato della montagna. Se lo schema che ci servirebbe per
l'induzione è fallace, non è cioè un'inferenza valida, lo è tuttavia il gemello
duale del modus ponens, il modus tollens…”. In questa puntata Ramon incontra
Karl Popper.
“Il fatto è, caro Ramon, che la generalizzazione si basa su una fallacia logica. La struttura logica sottostante è
questa: A implica B; ma si dà B; dunque A. Ad esempio: “se la Terra girasse intorno al Sole, e anche gli altri Pianeti, e
a velocità di rotazione diversa, si avrebbe la retrogradazione di alcuni Pianeti; ma la retrogradazione si dà in effetti
come dato osservabile. Dunque la Terra gira intorno al Sole”. La struttura logica sottostante è semplicemente errata,
per quanto persuasiva possa apparire. La struttura:
A implica B
ma B dunque A
semplicemente non è un'inferenza valida; mentre è valida
A implica B
ma A dunque B
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ossia il famoso modus ponens. Possiamo convincercene facilmente, solo che pensiamo che B potrebbe essere
causato da molte altre situazioni al posto di A. Tanto è vero che anche la teoria tolemaica, con l'introduzione degli
epicicli, spiega altrettanto bene B, cioè la retrogradazione dei pianeti. Come ci muoviamo allora noi, a livello
intuitivo? Troviamo un altro fatto osservabile o comunque provato, diciamo C, e ritentiamo:
A implica C
ma C dunque A
Vale lo stesso discorso, abbiamo semplicemente guadagnato qualcosa solo in termini di probabilità. E allora
andiamo avanti, dopo che con B e con C, ad introdurre un D, e poi un E, ecc.
Questo processo è inutile, l'inferenza rimane errata, per quanti elementi io possa sostituire a B. Ciò che si ottiene è
semplicemente una maggiore credibilità di A, sul versante psicologico, ma mai la prova dello stesso. Se vuoi, è la
stessa struttura del processo indiziario; se Mario è l'assassino, allora avrà le mani sporche di sangue; ma ha le mani
sporche di sangue, dunque Mario è l'assassino. Se Mario è l'assassino, allora era nei pressi della vittima all'ora
dell'omicidio; ma Mario era effettivamente in quei paraggi; dunque Mario è l'assassino. E così via. L'esito può essere
quello di condannare all'ergastolo il macellaio sotto casa... (che, poveretto, aveva le mani sporche di sangue, era nei
paraggi, ecc).
Questa situazione è paradigmatica della struttura della maggior parte dei gialli, romanzi o telefilm che siano: tutto
converge ad accusare un innocente, che poi viene salvato dal protagonista, detective o avvocato che sia. Ciò che
manca perché il ragionamento chiuda, cioè diventi valido, è che solo A spieghi i fatti. Tanto è vero che, per tornare
al paradigma giuridico, nel processo indiziario il compito della difesa è proprio quello di mostrare che esiste un'altra
possibile spiegazione dei fatti, o di “istillare nella giuria un ragionevole dubbio”: tutti i fatti in esame si spiegano
non solo con A, ma anche con X, per un X qualsiasi. Ciò (in teoria) basta per l'assoluzione, quanto meno in linea di
principio e in punta di diritto (almeno per quello anglosassone, cui di solito fanno riferimento le detective stories)”.
Popper aveva pronunciato queste parole quasi tutto d'un fiato, anche se con la dovuta lentezza, per dare tempo
all'interlocutore di seguire il ragionamento.
“Maestro, ma allora non avremo mai certezze scientifiche?.
“Il versante da seguire è l'altro lato della montagna. Se lo schema che ci servirebbe per l'induzione è fallace, non è
cioè un'inferenza valida, lo è tuttavia il gemello duale del modus ponens, il modus tollens, tanto per continuare a
seguire le etichette della logica medievale:
A implica B
ma non-B
dunque non-A
Con questa inferenza valida noi possiamo invalidare A, e questo lo otteniamo provando un unico fatto, non-B. La
confutazione è ineccepibile. E qui dobbiamo cercare un solo fatto, non escludere gli infiniti non-A, come nel primo
caso. Abbiamo cioè uno strumento potentissimo di confutazione. Ecco perché io amo parlare di falsificazionismo.
È pur vero che, in ambito scientifico, il nostro A è di solito di natura assai complessa, di norma un'intera teoria. E
dunque, come notano Quine e Duhem, il nostro concludere per non-A non ci dice ancora precisamente che cosa in A
va rivisto, quale parte induce l'incongruenza; ma avremo delimitato fortemente il campo di analisi. A volte può
essere facile vedere quali principi, quali equazioni, quali assunzioni, magari implicite, provochino la prima
premessa, quella che da A segue B. Magari un piccolo ritocco salva la teoria dalla invalidazione, semplicemente
inibendo la derivazione di B da A”.
“Resta il fatto che non abbiamo dimostrato la teoria, ma l'abbiamo soltanto salvata dalla falsificazione”.
“Sì, è così, e qui io assumo un atteggiamento in un certo senso pragmatista, o utilitarista. Ma prima fammi trarre
una importante conseguenza da quanto s'è detto, e a cui tengo molto: la mia concezione fornisce una demarcazione
netta tra scienza e non scienza, o scienza e cialtroneria: soltanto ciò che è in linea di principio falsificabile è
scientifico”.
“Diceva di un atteggiamento pragmatista...”
“Sì, quasi peiceiano: a parità di evidenza sperimentale, una teoria è preferibile, ossia ha più valore, in tanto in
quanto è più applicabile di un'altra. Cioè spiega tutti gli stessi fatti, e altri ancora che sfuggono alla prima. O, anche,
una teoria è migliore di un'altra quando consente previsioni più affidabili sulla realtà. Si instaura pertanto una forma
di selezione naturale, in senso darwiniano, tra le teorie. E questo è il senso del progresso. Una gran quantità di fatti
esperiti e validati era spiegabile tanto nei termini tolemaici quanto in quelli copernicani.
Ma la seconda teoria spiegava anche il fatto che i satelliti di Giove, i famosi pianeti medicei di Galileo, potessero
orbitare nel senso contrario alla teoria degli epicicli. E in effetti è probabile che proprio con questa osservazione,
descritta nel 'Nuncius sidereus', Galileo si sia definitivamente e interiormente convinto per quelle tesi che la violenza
lo costrinse a rinnegare”.
Ramon non era entusiasta; gli sembrò di avere acquistato nell'affidabilità del metodo, ma di avere perso in certezze.
La strada sembrava più in salita di prima. E nel contempo gli veniva alla mente quel po' che aveva letto dei molti
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allievi di Popper, che in un secondo tempo lo avevano fortemente criticato, come Thomas Kuhn o Paul Feyerabend.
Aggiunse soltanto:
“Maestro, la strada che mi hai indicato è più faticosa di prima...”.
“Ragazzo, se qualcuno ti ha promesso una strada in discesa, non è certamente un vero scienziato”.
L'arcivernice: Ramon incontra il suo professore
(cinquantaseiesima puntata) di
Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-incontra-suoprofessore-cinquantaseiesima-puntata-4069093609.shtml
In questa puntata Ramon decide di rivolgere alcune domande al suo professore
di Filosofia del Linguaggio. “Allora la competizione tra teorie non è un fatto
darwiniano...”. “Caro Ramon, il discorso è complesso. […] Accontentati di
questo: che una scienza è una catena di teorie omogenee, alle quali il vero e il
falso sono intimamente correlati…”.
“Prof, posso chiederle cosa ne pensa di Popper e del falsificazionismo?”.
Ramon era rimasto sconcertato da quell'ultimo incontro. Era rimasto con uno strano disagio dentro, come se
nella sua mente si fosse istillata una qualche forma di scetticismo strutturale. Non quello scetticismo
totalizzante alla Pirrone, quello che pensava di potere sconfiggere con i classici mezzi messi a disposizione
nella Metafisica di Aristotele (“se lo scettico non ammette neanche questo [l'esistenza del significato], allora
egli non parla, è come una pianta”); e dall'argomento del Teeteto platonico: di rimando al grande Protagora,
comparso a dirti che la conoscenza non esiste, Socrate ha buon gioco semplicemente ribattendo: “e tu coma
fai a saperlo?”. La consequentia mirabilis: se un enunciato è implicato dalla sua negazione, allora esso è
necessariamente vero.
Ma un accento sostanzialmente scettico era implicito nella tesi popperiana, uno scetticismo ben più sottile e
pericoloso di quello totale e totalizzante delle correnti antiche: un darwinismo delle teorie può forse
soddisfare la prassi, ma non certo la teoresi, di chi cerca la verità: nessun aggancio si intravede tra la teoria
che finisce con il dominare, rispetto a quelle dominate, quanto alla garanzia del vero. Così aveva deciso di
rivolgere qualche domanda al suo professore di Filosofia del Linguaggio, che di solito si mostrava ben
disponibile a questo genere di chiacchierate.
“Caro Ramon, mi chiedi una lezione privata o ti interessa come la penso io?”.
“La seconda, prof”.
“Allora ecco. Il cuore della tesi centrale del falsificazionismo non è una grande novità. Diciamo pure che lo
schema di ragionamento è ben noto, e usato da sempre, in sede formale: per smentire una proposizione
universale è sufficiente provare un controesempio; la negazione diametrale di una universale affermativa,
“tutti gli A sono B”, è la particolare negativa, “esiste almeno un B che non è A”. Questo sta già scritto nel
celebre quadrato di opposizione che Aristotele così precisamente delinea nel “Dell'espressione”.
Lo stesso per la versione al negativo, ossia per l'altra diagonale del quadrato.
Attenzione però: le due particolari, affermativa e negativa, hanno portata esistenziale, mentre le universali
no. Ma di questo parleremo un'altra volta, se ti interessano le “logiche libere”. Venendo a Popper, mi affascina
e mi convince il suo assumere le teorie come un tutt'uno, come elemento molecolare costitutivo del sapere
scientifico. Ma io mi spingerei oltre”.
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“Cioè...”.
“Il concetto di 'teoria' è in questo contesto piuttosto vago. E non aiuta l'accezione volgare, secondo la quale
una 'teoria' è una spiegazione organica ma possibile, non provata, in un certo senso pre-scientifica. Io credo
che la nozione di 'teoria' si possa, anzi, si debba, matematizzare. Una teoria non è un semplice insieme di
enunciati, come spesso si assume in matematica. Non è, in definitiva, un insieme, ma una vera e propria
struttura in senso matematico, ossia un insieme strutturato. Essa è la tripla ordinata di tre componenti
fondamentali: un universo di riferimento, o base ontologica, un linguaggio, entro cui si possa parlare degli
elementi di quell'universo, e un apparato deduttivo, ossia una logica.
Vista la cosa in questi termini, la lotta darwiniana concepita da Popper può essere notevolmente arricchita, e
meglio articolata. Una teoria può soppiantarne un'altra secondo vari aspetti. O perché si dà un allargamento
dell’universo, con l'aggiunta di evidenze fattuali prima assenti, o con l'assunzione di un linguaggio più
raffinato, in grado di cogliere distinzioni ulteriori, o con il potenziamento dell'apparato deduttivo”.
Ramon aveva il cervello in subbuglio, come quasi sempre gli accadeva quando parlava con il suo professore, e
i suoi neuroni erano un vortice in ebollizione, in una grande tensione intellettuale.
“E quindi la comparazione tra teorie va vista in modo complesso, attraverso la comparazione dei rispettivi
componenti...” azzardò.
“Sì. Meglio: una teoria può soppiantarne un'altra in quanto ne ristruttura un componente. E lo può fare in due
modi canonici: per ampliamento o per invalidazione. Per ampliamento, in quanto spiega più fatti, allarga
l'universo di riferimento, ad esempio. Prendi la fisica einsteiniana: non smentisce la meccanica razionale
newtoniana, ma la generalizza a coprire nuove lande dell'universo, quelle delle velocità prossime a quelle
della luce; ma le formule newtoniane rimangono valide. All'opposto, la teoria copernicana invalida quella
tolemaica.
Poi tu devi pensare a una teoria non come a un dato in sé conchiuso: una teoria è una vera e propria
macchina per pensare: viene scoperto un oggetto dell'universo, e allora ecco che nel linguaggio gli si dà un
nome, e la logica della teoria ne deduce nuove verità, che andranno reinterpretate sull'universo, e così via. La
teoria pulsa, in un certo senso agisce, fino a che non è satura”.
“Una teoria si satura, prof?”.
“Certo. Prendi il calcolo delle proposizioni. Abbiamo un metodo decisionale per calcolare il valore di verità di
qualsiasi formula, e in modo algoritmico-meccanico. Nessuno scienziato si porrebbe ora la questione se una
certa formula è sempre vera: basta verificare, con la tavola di verità, o con il metodo di Quine, o con quello
delle forme normali, ecc. Insomma, la teoria, pur inducendo infiniti teoremi, che mai potremo enumerare
tutti, tuttavia non ci può dare altro: è satura. Il che vuol dire che “è in loop” su se stessa. Per dirla con Tarski,
Cn (Cn (T)) = Cn (T): l'insieme delle conseguenze delle conseguenze di T è uguale a quello delle conseguenze
di T. Non c'è più nulla da scoprire”.
“Allora la competizione tra teorie non è un fatto darwiniano...”.
“Caro Ramon, il discorso è complesso. I rapporti tra teorie, così intese, si dispiegano nelle distinzioni tra
teorie e sovra-teorie, teorie e metateorie, meta-meta-teorie, e, infine, teorie miste. Io sono, e lavoro, per
un''algebra delle teorie'. E su questi presupposti si può, si deve costruire un percorso fondativo della
conoscenza; ma ora ti devo lasciare, ho esami, e un'orda barbarica spinge alle porte.
Accontentati di questo: che una scienza è una catena di teorie omogenee, alle quali il vero e il falso sono
intimamente correlati; ne riparliamo quando vuoi, e andremo avanti nel ragionamento, c'è molto altro da dire;
ma ora togliti dalle scatole, torna quando vuoi”.
Ramon, un po' confuso, obbedì.
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L'arcivernice: La linea più breve tra due punti è
l'arabesco (cinquantasettesima puntata) di
Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-linea-piu-breve-due-puntiarabesco-cinquantasettesima-puntata-4069747302.shtml
Mentre va a trovare Ramon, Giulia cammina per strada immersa nei suoi pensieri: “I
filosofi credono alle verità senza motivo: la fede contro ogni evidenza. Ben venga
l'universo di Einstein che ci inserisce in un sistema elastico, dove forse il limite manca.
Ma qui ti manca la terra sotto i piedi. Il limite, questo è il problema: se sia più nobile a
questo punto dire “no”, se sia il caso di sospendere la nostra credulità, o continuare
liberi, senza limite, a volare.”
“Einstein”, aveva appena detto in aula il professore, “lui è stato designato, nel Novecento, l'uomo del secolo.
Lui ha cambiato il modo di pensare lo spazio, il tempo, e l'energia, la luce, la materia...”.
Forse però non siamo pronti ancora oggi, forse il mondo di Newton ci rassicura: quel tempo assoluto che
valeva per l'intero universo. Altro che appendersi con Einstein a un raggio luminoso; con la mela di Newton
vai sul sicuro, quella mela che stabilmente ha percorso la Storia: dal giudizio di Paride alla mela di Guglielmo
Tell, la mela di Biancaneve, e poi la Grande mela, e la Beatles'Apple ancora, fino qui, alla mitica Apple.
Sto andando da Ramon, naturalmente, ed è “quel fatto”, “quello”, che non va giù, non mi convince. Già,
intendo quelle misteriose incarnazioni. I filosofi credono alle verità senza motivo: la fede contro ogni
evidenza. Ben venga l'universo di Einstein che ci inserisce in un sistema elastico, dove forse il limite manca.
Ma qui ti manca la terra sotto i piedi. Il limite, questo è il problema: se sia più nobile a questo punto dire
“no”, se sia il caso di sospendere la nostra credulità, o continuare liberi, senza limite, a volare.
Oggi attraverso la strada pensierosa. Gli edifici, le vie, tutto è confuso, anche il ritmo del tempo. Come la
musica blues, ciclica, che continua a rotolare su se stessa, anche qui l'atmosfera sembra mancare di un
confine, di un limite: manca il Limes romano, manca la Grande Muraglia cinese, manca una linea Maginot,
qualcosa che ti tolga l'incertezza, che ti faccia sentire più protetto.
Ma si può continuare a credere a qualcosa che, come il bosone di Higgs, conferisca una massa a particelle di
carta in due dimensioni?
Entro, e trovo Ramon in una sua postura fantozziana. Lui è collassato sul divano, attorcigliato in un panno di
lana, in bocca la cannuccia del termometro.
Forse il suo male è la filosofia. Ma quella è una malattia contro la quale non si ha conoscenza di erbe e
rimedi...
Ecco infatti, il dottore è già qui, parametrato sullo stereotipo del medicatore tratta Ramon con simpatia
animalista. I medici... mi fanno pensare ogni volta al Pinocchio di Collodi:
– A mio credere è bell'e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è
sempre vivo
– Mi dispiace – dice il secondo medico – il dover contraddire il mio illustre amico e collega, per me, invece, è
sempre vivo, ma se, per disgrazia, non fosse vivo allora sarebbe segno che è morto davvero
Ma in sostanza Ramon ha soltanto una forte infreddatura dovuta al faticoso passaggio di stagione: da giorni il
vento soffia con le guance paffute, porterà almeno via le nuvole? Così che il vento furioso diventi una
carezza... Alla diagnosi davvero poco infausta, Ramon balza fuori dalla benda di lana che lo mummificava, e
la sua parte debordante e vorace si ripresenta. È più che mai ironico, beffardo, stralunato. Poi tutto intorno,
all'unisono, riemerge piano piano dalla penombra anche il vociare degli amici che fino adesso erano stati zitti,
seduti intorno al tavolo, tutt'al più intenti in silenziose esibizioni furibonde sulle tastiere Qwerty.
Tutti filosofi, qui... Il culto della ragione che tutti questi esseri seriosi coltivano, tende a bandire le libertà
degli artisti, le follie da scienziati, il riflettere in modo nuovo, gli esperimenti di pensiero, e prevedere nuove
conseguenze. Qui è l'assoluto, altro che la relatività: qui medicalizzerebbero l'irrazionale, dovremmo darci
tutti una sola direzione, e sistematizzare, anziché abbandonarci.
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Invece nella scienza, come nell'arte, gioca l'ardire: amo la nostra parte irrazionale, che non è distruttrice e
asociale; penso anch'io sempre che l'irrazionale poi genera l'eros, la tenerezza, la gioia. Che dall'irrazionale
nasce il coraggio di non adeguarsi, la voglia di sottrarsi, di giocare. E anche il gusto di starci a dispetto. Forse
per questo, la rana crocifissa di Kippenberger, la Piss Christ di Serrano, il Wojtyla schiantato dal meteorite di
Cattelan...
Sogno matite colorate di bambini, e il sogno è senza vite disperate, e nel sogno gli opposti coincidono senza
conflitti, senza scissioni, sfide, dimissioni e golpettini.
Cusano faceva l'esempio del cerchio che, dilatato all'infinito, diametro, raggio, circonferenza, finiscono per
coincidere. Cosa c'è di più contrario della circonferenza e il suo raggio? Dunque se, come la circonferenza,
anche la mente si dilata e si allarga, allora forse è l'armonia universale? O è follia anche questa.
Eravamo d'accordo. Oggi avrei fatto parte anch'io delle loro diatribe filosofiche, parte del Contraddittorio.
Io qui sono l'apolide. Il boicottaggio, le misure xenofobe, è questo adesso che temo.
Sono nella tana del lupo, e si comincia:
“Tu che studi psicologia, Giulia, che cos'è la mente?”
Ecco dunque che parte la rasoiata,
non dovrò farmi mettere nell'angolo,
sarà per la prossima puntata.
L'arcivernice: La linea più breve tra due punti è
l'arabesco (cinquantottesima puntata) di Giulia
Jaculli e Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-pianoforte-matita-strettadenti-cinquantottesima-puntata%20-4071037543.shtml
“È proprio nel tassello fuori posto che trovi la spinta per cercare. Su questa
strada, dunque, è plausibile anche che la funzione psicologica, la mente, possa
immaginarsi al di fuori della forma anatomica, fuori dalla limitazione
corporea.” […] “Il tuo, Ramon, è un mondo isolato dal pathos; dobbiamo usare
anche l'immaginazione, in questo enorme gioco”.
Ramon balza fuori dalla sua coperta e dal suo raffreddore in una specie di esplosione: per un momento,
sembra lo Snoopy della danza di primavera, ma poi, in quella sua rinnovata esuberanza, è come in preda a
uno Swipe maniacale.
“E innanzi tutto, allora, Mente e Corpo”, dice con enfasi. “Ma perché sempre questo dualismo, e non monismo
oppure pluralismo. Esiste la mente, la mente sola, non il sistema cervello/pensiero? Tu che studi psicologia,
Giulia, che cos'è la mente?”
“C'è chi bandisce, infatti, come Fodor, sistemi incapsulati”, gli rispondo perplessa, “Fodor esclude, per la
mente, una rassicurante architettura: legami, connessioni permanenti, corrispondenze stabili tra la forma
anatomica e la funzione psicologica. La mente dici, Ramon? Secondo me abbiamo ancora un sistema che
trova difficoltà nel confrontarsi con le metodologie della conferma scientifica. Dove si trova – siamo sempre
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qui a chiederci – il correlato neuronale della coscienza? Dove si può collocare quella struttura centrale che si
interfaccia con noi? Da qualche parte c'è? Sarà una strana orchestra fatta di particelle fisiche. Ma poi chi, che
cosa ne è il Maestro?” Cerco di sottolineare, e poi respiro forte: “L'opera c'è, la “musica”; ma ancora, ad
esempio, non si è certi se quell'opera viene prima, dopo, o durante l'integrazione percettiva”.
“È che la mente è il più chiaro esempio del principio dell'olismo”, mi risponde Ramon: “il tutto è ben maggiore
delle sue parti; quanto meno se le parti sono quelle che conosciamo per adesso; nella mente abbiamo le
cosiddette ‘qualità emergenti’…”.
“Forse”, azzardo io, “occorre abbandonarsi a un sentire più fantasioso che scientifico. Si ha a che fare con
fatti che non possono ancora essere verificati: tutto all'inizio è legittimo, salvo poi alla fine smentire tutto, ma
cosa importa... La mente?” lo sfido un po': “potrebbe avere la sua collocazione nel cervello. Lì, nel cervello,
però forse anche fuori, intorno...”.
Ramon, come previsto, risente qui di un fenomeno afasico: per un momento perde la parola. Ma poi, subito
dopo, gli parte la risposta divagante:
“Intorno? No, Giulia, su questa via non ti seguo. Quello che si può aggiungere ai geni, e quindi, forse, la
spiegazione è in termini di evoluzione darwiniana, sono i ‘memi’ di Dawkins, come ci spiega Dennett. In
questo senso solo, sono intorno. Probabilmente i memi, impalpabili condizionamenti culturali, entrano nella
selezione naturale al pari dei geni fisiologici, concorrono a determinare la coscienza”.
“Allora”, dico subito, “si può lasciarsi andare a credere che la nostra coscienza altro non sia se non un
tafferuglio di antenati, così, a partire dai nostri genitori?”.
Già, penso intanto, abbandonarsi a un sentire fantasioso... Però l'immaginazione, la libertà, per Ramon, ha un
sapore di paura. E tutto ciò per il bisogno di controllare l'imprevedibile, che appunto mette angoscia. Anche
le sue parole, ancora non spiegano molto. I memi? La coscienza, così, è un brusio indistinto di voci lontane.
“Il tuo, Ramon, è un mondo isolato dal pathos”, allora gli rispondo, “dobbiamo usare anche l'immaginazione,
in questo enorme gioco”.
Tra me e i filosofi c'è sempre questo silenzio: nella Camera Anecoica di Harward si è sperimentato che il
silenzio totale è impossibile e irraggiungibile, come la temperatura pari allo zero assoluto. Eppure qui, tra
noi, il silenzio assoluto si trova. Quelle che usano Ramon e i suoi amici sono parole antiche che io a volte non
sento. Sono parole che, come le musiche del passato, le musiche tonali, ruotano attorno ad un'unica nota su
cui si appoggiano, su cui ritornano sempre. Mentre io mi spingo in esplorazioni, nei miei percorsi armonici
invento scale nuove che si allargano, si spalmano piano, e che forse all'inizio creano disorientamento rispetto
a ciò che ci si aspetterebbe. Lo dico sempre, sarei come John Cage: lui dà solo un impulso, una traccia, e poi
l'esecutore completerà come vuole. Certo, anche coi gomiti, coi palmi delle mani sulla tastiera! È proprio nel
tassello fuori posto che trovi la spinta per cercare. Su questa strada, dunque, è plausibile anche che la
funzione psicologica, la mente, possa immaginarsi al di fuori della forma anatomica, fuori dalla limitazione
corporea.
La spinta per cercare... Sì, la ricerca... Ma poi che ne facciamo adesso di questa ricerca, portata come la
valigia dell'emigrante.
La voce di Ramon mi interrompe i pensieri: “Sai, come dice Dennet ‘La coscienza umana è essa stessa un
enorme complesso di memi, o di effetti provocati dai memi nel cervello. Si può capirlo pensando al
funzionamento di una macchina virtuale neumanniana, implementata sull'architettura parallela di un cervello
che non era progettato per attività del genere’ (C. Dennett, Coscienza. Che cos'è, Bari 2009). L'idea è questa”,
continua Ramon: “il cervello è una rete neurale, fortemente parallela, mentre noi lo forziamo verso una
macchina sequenziale alla von Neumann. La controprova sta negli sviluppi dell'Intelligenza artificiale:
problemi fortemente simbolici, a carattere formale, vengono meglio affrontati con programmi ‘cognitivisti’,
ossia dotati di semantica esplicita, mentre la simulazione dei processi percettivi ha più successo ricorrendo
alle reti neurali e ai sistemi subsimbolici, basati su algoritmi statistici e ciechi su ogni semantica”.
“Qui tutto sembra gelido, metallico, isolato”, lo interrompo con foga. “Si sa, la cultura libera impaurisce, così
non ce la vogliono dare, a meno che non sia appunto ingessata fra regole del genere, entro questo tipo di
potere”.
Già, penso intanto: siamo in una società pratica, autofaga. Con il mio metodo, almeno, non ci sarebbe più
qualcosa di fruibile solo da una élite di cui accrescere ricchezza, che poi alla fine è, ancora e sempre, capacità
di potere.
“In quel tuo modello della mente, Ramon”, soggiungo allora, “dove sono finiti gli affetti, le passioni, la parola
dell'altro... Il soggetto è il prodotto dell'azione dell'altro. Facciamo esperienza dell'inconscio quando l'altro ci
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parla. Ma tu lo sai bene, Ramon, perché qui si parte dal pensiero hegeliano. Poi Levi-Strauss, Althusser... Ciò
che avviene nel soggetto dipende dall'altro. Sai, Ramon, se proprio vuoi, io, tra i tanti modelli, sarei tentata da
quelli basati su un principio di organizzazione gerarchica del processo cognitivo, che si possono far risalire a
Jackson – uno dei più illuminati neurologi, vissuto tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo – e che
diventeranno poi il tema centrale della scuola di Luria e della neuropsicologia in genere (vedi ad esempio
Shallice e Duncan). Qui si afferma che le rappresentazioni cognitive, passando dai centri più bassi a quelli più
alti della gerarchia, diventano più generali e meno specifiche. Qui i processi superiori, quelli meno riflessi,
opererebbero sulla base di informazioni fornite da sistemi di input che non sarebbero quindi, per dirla con
Fodor, sistemi incapsulati, non avrebbero un dominio specifico, una rassicurante architettura; e il già vissuto
e il presente verrebbero messi in relazione, integrati”. E aggiungo anche, con bizzarro entusiasmo:
“Rappresentazioni di tipo amodale, dunque, e potrebbero essere le più prossime a ciò che sarà poi la
semantica, l'intenzionalità, la coscienza”.
Mi avvicino a Ramon, sento forte il bisogno del calore che emana. E poi continuo più dolce: “Vedi, nel mio
esempio ci starebbero anche l'eros, il gusto, perfino l'ossessione, vivi e disordinati. La chimica di tutto
questo, invece, nel tuo modello, dov'è andata a finire?
Sistemi liberi, diffusi, penso ancora, con una connettività instabile. Però si afferma un sentire sfuggente, e
pericolosamente carico, oltretutto, di connotazioni religiose.
Mi stringo ancor di più a Ramon: “Io voglio espormi al mondo, mettermi in contatto con le emozioni, anche
sotto, forse, il livello di coscienza”.
Quando era diventato sordo, Beethoven appoggiava al pianoforte la punta della sua matita e la stringeva tra i
denti, per sentirne arrivare le vibrazioni
L'arcivernice: La linea più breve tra due punti è
l'arabesco (cinquantanovesima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-ombrecinquantanovesima-puntata-4074184675.shtml
“Se capisco bene, Maestro, gli infiniti mondi materiali sono esplicazione di Dio,
in un certo senso sono tutt'uno con esso. Ma allora perché guardare le ombre, e
non rivolgersi direttamente verso l'alto, verso la luce, verso Dio?”. Ramon
riporta in vita Giordano Bruno.
Stava calando lentamente la luce del giorno, e la stanza si stava immergendo in quella fredda penombra in cui
le forme sono ancora ben distinguibili, ma le tinte sfumano tendendo a una sempre maggiore uniformità,
quasi aspirassero alla fusione perfetta. Era quel momento, insomma, in cui uno si chiede se sia già il caso di
accendere la luce artificiale.
Ramon rimandava quella decisione, deciso ad assaporare quel progressivo lento volgersi del giorno nella
notte.
E notò che, malgrado la poca luce, gli oggetti sul tavolo facevano ancora un'ombra, lieve e allungata. Le cose
materiali hanno un'ombra, pensò Ramon, quelle immateriali no.
Ma un ricordo inaspettatamente riaffiorò nella sua mente, o forse, direbbe qualcuno, in un angolo del suo
cervello. De umbris idearum. Dove l'aveva pur letto... Google... Ecco, Giordano Bruno, ma certo. La
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mnemotecnica, l'arte del ricordare. I cerchi concentrici, simili a quelli di Lullo, a combinare segni,
un'anticipazione dell'ars combinatoria di Leibniz.
Difficile, Bruno, arduo capire il suo stile immaginifico, le sue metafore, i suoi voli pindarici; ma valeva la pena
provare.
Ramon trovò subito varie immagini; ma così diverse... Quale far rivivere, il bellissimo giovanetto, esile e
minuto, con i baffetti appena accennati e l'abbondante capigliatura, finemente e un po' vezzosamente curata,
o l'austero pensatore cinquantenne, che rifiuta l'abiura? Quello che, incutendo timore ai suoi stessi carnefici,
affronta la prova del rogo, con la lingua bloccata da una morsa perché non possa parlare, perché non possa
ripetere il suo celebre anatema: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accidia” (“Forse
tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla”), come disse al cardinal Bellarmino e
agli altri quando lo condannarono ad essere arso vivo?
Ma ecco che una terza immagine si porse a risolvere il problema: Bruno maturo, lo sguardo severo, vestito da
frate, in quel saio che aveva ripudiato e ripreso più volte.
“Maestro, davvero anche le idee hanno un'ombra?”.
“Ramon, cosa vedeva l'uomo sul fondo della caverna di Platone? Non vedeva forse l'ombra delle idee?”.
“Ma come può un'idea fare ombra?”.
“Partiamo dalla natura: infinita, e infinitamente complessa. Materia, buio. Dall'altra parte la luce infinita, le
idee nella loro perfezione, Dio. L'uomo sta in mezzo a questi due poli, e riceve ombre, le ombre delle cose, da
una parte, e quelle delle idee, dall'altra. E solo attraverso le ombre intellettuali, difettive ma simili alle idee,
l'uomo può riscoprire la natura come effetto del divino, e, in definitiva, giungere alla verità”.
“Se capisco bene, Maestro, gli infiniti mondi materiali sono esplicazione di Dio, in un certo senso sono
tutt'uno con esso. Ma allora perché guardare le ombre, e non rivolgersi direttamente verso l'alto, verso la
luce, verso Dio?”.
“Gli antichi già sapevano, Ramon, come si osserva un’eclissi senza farsi accecare: si guarda il riflesso in una
bacinella d'acqua. Per speculum in aenigmate, come scrive Paolo ai Corinzi. Le ombre, quelle buone, quelle
intellettuali, non mentono, non tradiscono; solo, ti rivelano le vestigia, i contorni, senza accecarti”.
“Ma non ci sono ombre false?”.
“No Ramon. Come ho scritto, tandem umbrarum cum ideis similitudo tum enim umbrae, tum et ideae non
sunt contrariae contrariorum. Con la stessa idea conosci il vero e il falso, e così con la stessa sua ombra. Lo
stesso per il bene e il male, il perfetto e l'imperfetto. L'idea di bene ti fa conoscere il male come deficienza di
bene, così come l'idea di reale quella dell'irreale. Non esistono dunque idee irreali, o ombre irreali. Spetta a
noi cogliere il positivo, e distinguerlo dalla sua assenza. Malum enim imperfectum, et turpe proprias quibus
cognoscantur non habent ideas: quia tamen cognosci dicuntur et non ignorari, et quidquid cognoscitur
intelligibiliter per ideas cognoscitur: in aliena specie cognoscuntur, non in propria quae nulla est”.
Ramon aveva messo in conto una conversazione difficile, ma non credeva tanto. Bruno passava dal latino
all'italiano e poi di nuovo al latino senza alcuna pausa, e senza dargli il tempo di tradurre; si limitava a capire
il senso complessivo, a intuito. Glielo disse. E Bruno:
“Ecco, vedi ragazzo, tu stai conoscendo non le miei i dee, ma le loro ombre...”.
Bruno, martire della conoscenza, copernicano convinto prima di Galileo, sostenitore dell'infinito in atto,
dell'infinità dei mondi, anticipatore della relatività: non c'è un centro nel suo infinito. Bruno, arso vivo nella
piazza di Roma Campo de' fiori, l'unica piazza antica della capitale in cui non compaia una chiesa. Chissà se
avrebbe gridato, sentendo quell'immenso dolore. Non lo sapremo mai, poiché gli avevano messo il morso alla
bocca.
E così a Ramon piacque pensare che avrebbe avuto la forza di lanciare di nuovo la sua atroce e perpetua
condanna:
forse tremate più voi nel farmi questo, che io nel subirlo!
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L'arcivernice: Non ci sono più quei bei cretini di una volta (già
rimpianti da Sciascia) (sessantesima puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-non-ci-sono-piu-quei-beicretini-una-volta-gia-rimpianti-sciascia-sessantesima-puntata-4074989893.shtml
“Voglio dire, Maestro: si può immaginare la vita, come fa Borges, un 'jardìn de
senderos que se bifurcan'... ”. “Sì, è la coscienza, Giulia, che questa vita attuale,
è vero, procede per continue biforcazioni. E la consapevolezza che forse ognuna
delle strade porta verso dimensioni possibili che nella realtà potrebbero
coesistere. Così la simultaneità. Il desiderio di capire la realtà scomponendola e
riassemblandola”.
È questo di lei che non mi va. La sua faccia da apatico batrace che all'improvviso si anima, che si affaccia di
colpo alla guardiola. Quando le arrivo davanti sembra spararmi fuori ancor di più con due molle i suoi occhi
sporgenti. A quel punto vorrei indietreggiare, ma tanto vale... così continuo veloce, con passi concitati, quasi
in corsa. “Ramon è uscito, è inutile che sali”.
Questa ingiunzione non mi garba molto; poi quella faccia e la sua voce resteranno nel mio registro sensoriale
ancora un po', per tutta la durata del tragitto, dal portone d'ingresso fino alla scala; ma già anche dentro, in
casa di Ramon. Tanto così che temo, con orrore, che si unisca anche lei, là, un po' sospesa, in uno stonato
accorpamento, un esecrabile dialogo a tre col personaggio.
Dato che proprio sto per spennellare
un qualche grande, sommo luminare...
Quindi, mi sono convertita! abbandonata anch'io del tutto all'Arcivernice? Ultimamente mi vengono anche
fuori queste assurde rime baciate..., in una specie di sterminio della mia intelligenza.
Sì. in questa corrusca primavera e nelle sue improvvise schiarite, l'ombra di Pier Lambicchi mi governa con
l'incantesimo di un mito:
“1. Pier Cloruro de' Lambicchi
tra matracci e storte e bricchi
studiò tanto che, felice,
ritrovò l'Arcivernice:
2. se i ritratti egli spennella
ricoprendoli di quella,
le persone pinte allora
tornan vive per un'ora!”
Voglio anch'io questo, adesso? Incredibile, mentre online e in tv le parole fanno un rumore, hanno un suono
che sembra così diverso. Ma è proprio poi tanto diverso? Mi viene in mente il concetto di “tempo” nella
musica: assume significati nuovi nel corso del XX secolo anche grazie alle teorie di Husserl e Bergson sulle
composizioni che si sottraggono alla concezione lineare del tempo, propria del linguaggio tonale. Ma a quel
linguaggio tonale ci hanno talmente abituati che è diventata una nostra forma mentis.
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Il tempo della musica, quello dell'arte in genere, aveva chiesto a un tratto una forma indipendente.
L'autonomia dei flussi spazio-temporali. Il rovesciamento, la scomposizione, l'apertura di forme. Il Cubismo,
ad esempio, ha scomposto modelli esistenti e ne ha utilizzato i frammenti per creare mondi nuovi.
“Nella tendenza alla crescente complessità di tutta la scrittura artistica, si scorge il rispecchiarsi della
complessità e molteplicità della realtà attuale?” Parto perciò con la domanda, e decido, ancora un po'
timorosa, di rivolgerla a Lui, Pablo Picasso:
“Voglio dire, Maestro: si può immaginare la vita, come fa Borges, un 'jardìn de senderos que se bifurcan'... ”
“Sì, è la coscienza, Giulia, che questa vita attuale, è vero, procede per continue biforcazioni. E la
consapevolezza che forse ognuna delle strade porta verso dimensioni possibili che nella realtà potrebbero
coesistere. Così la simultaneità. Il desiderio di capire la realtà scomponendola e riassemblandola”.
Polistratificazioni, dunque, politemporalità... Penso ad Apollinaire, penso a Luigi Nono, e penso a Jean
Cocteau e al suo sogno di sentire la musica delle chitarre di Picasso.
“Un numero infinito di attimi vissuti simultaneamente, dunque, Maestro? È una sfida gioiosa, ma anche piena
di risentimento”.
“L'artista, per ogni forma d'arte, se vuole mai sperare di rendere questa complessa realtà, deve poter indurre
la fluttuazione della prospettiva. Deve trovare il mezzo per creare la sensazione di quei livelli diversi di
profondità. Modelli controintuitivi, forse, che la retorica gestuale, comunque, non è più in grado di mostrare”.
La stratificazione di livelli; le prospettive simultanee, dunque. Bisognerebbe che il tempo scoppiettasse,
scorresse non solo orizzontale, ma anche verticale e obliquo.
“È stato un grande sforzo, infatti”, continua Lui, il Maestro, come se avesse letto il mio pensiero: “una
strutturazione che a un tratto si è sentita l'urgenza di compiere per sottrarsi alla forza del tempo
cronometrico, spazializzato che volevano, che ancora vogliono imporre. Ma tu potrai sperare di vedere che
anche da questa apparente complessità di linee emergeranno percettibilmente, piano piano, regolarità e
coerenze, e perfino una certa misura di prevedibilità”.
“La prevedibilità, Maestro, quello che non inquieta e non stupisce, che si legge tranquillamente come l'effetto
di una causa: il suo accadere dev'essere previsto, perché in quanto previsto, non spaventi”.
In un lampo di luce vedo ancora più chiaro che quella dell'artista è una straordinaria missione storica: dunque
si ristrutturi il pensiero, la concezione lineare del tempo, si scompongano forme ancora esistenti, con una
frantumazione violenta, distruttiva. Idee spericolate, poiché anche i poteri forti hanno messo in opera i loro
mezzi di distruzione, tanto che la massa servile non ha un suo tempo e un suo pensiero autonomo, libero.
“È la funzione dell'artista, Giulia, che non è quella di educare la società, ma di rap-pre-sen-tar-ne le
contraddizioni e i conflitti, testimonianza anche crudele di esperienza”.
“Già”, gli sussurro sottovoce, emozionata “è per questo motivo che durante l'occupazione tedesca di Parigi, ad
alcuni critici tedeschi che ti parlavano di Guernica, tu hai detto amaramente:
“non l'ho fatta io, l'avete fatta voi”.
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L'arcivernice: Un breve excursus entro lo Spirito Assoluto
(sessantunesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-breve-excursus-entrospirito-assoluto-sessantunesima-puntata-4076132926.shtml
“Maestro, che cos'è di preciso la dialettica? Davvero è una logica, è il
superamento, anzi, della logica tradizionale?”. “La dialettica è la modalità del
ribaltamento del razionale sul reale, è il modo con cui l'Assoluto si fa nella
storia”. In questa puntata Ramon riporta in vita Hegel.
Andava pur fatto. Ramon se ne rendeva perfettamente conto: come prescindere, in quella strana,
particolarissima esperienza filosofica che stava vivendo, da Hegel, probabilmente il pensatore che più ha
influenzato, nel ben e nel male, la filosofia moderna? E tuttavia esitava, e più del solito. Avrebbe capito?
Sarebbe riuscito a instaurare un dialogo, seppure minimo, seppure, al solito, quasi ad intervista? Ma la
curiosità, che come sappiamo da Vico, è sì figlia dell'ignoranza, ma è anche madre della scienza, non poteva
alla fin fine che prevalere.
Era un Hegel anziano, quello che gli stava di lì a poco davanti: impettito, il volto molto lungo, due accentuate
borse sotto agli occhi profondi sì, ma quasi in un qualche senso sfuggenti, in quanto sembravano puntare
non tanto sull'interlocutore, e, in un certo senso, neanche su questo mondo; i capelli tra il grigio e il bianco,
piuttosto lunghi, e pettinati in avanti, quasi a voler mascherare un'incipiente calvizie. Nell'insieme, un volto
niente affatto banale, e che incuteva rispetto. Friedrich Hegel: l'uomo dagli infiniti ammiratori e dagli
altrettanto infiniti critici radicali, colui che ha influenzato pesantemente, per imitazione o per contrasto,
pensatori totalmente diversi e contraggeni, da Marx a Heidegger, tanto per fare un esempio.
A Ramon venne subito in mente uno dei cardini del pensiero hegeliano: la dialettica. Tanto utilizzata, citata,
criticata. E, comunque sia, architrave della “filosofia dello Spirito”. Da lì tentò di partire:
“Maestro, che cos'è di preciso la dialettica? Davvero è una logica, è il superamento, anzi, della logica
tradizionale?”.
“La dialettica è la modalità del ribaltamento del razionale sul reale, è il modo con cui l'Assoluto si fa nella
storia”.
“Chi critica la dialettica – riprese Ramon – la accusa di incongruenza: in specie, il passaggio dalla tesi
all'antitesi appare costruito nei modi più diversi. A volte l'antitesi è la negazione diametrale della tesi, come in
“essere / non-essere”; altre volte si porge come semplice alternativa, come in “quantità / qualità”. Sembra,
insomma, che sia l'autore stesso a scegliere l'antitesi più adeguata all'ulteriore sviluppo del sistema...”
“Queste critiche le ho lette e sentite tante volte. La dialettica non è una logica nel senso formale, matematico;
non si candida a rimpiazzare quella che si chiama normalmente “logica simbolica”. La dialettica è una logica
in un senso molto più ampio, nel senso della conoscenza del logos, o dello Spirito Assoluto, così come esso
si comporta. Che il superamento della tesi avvenga a volte per negazione, altre per semplice alternativa non
complementare ma contrapposta non l'ho deciso io: è il mondo nel suo divenire incessante che si comporta
così. Io mi sono limitato a capirlo...”.
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“Ecco, il ‘mondo’ ha detto; perché allora parlare dello spirito?”
“A ben vedere sono la stessa cosa. A cosa serve il noumeno kantiano, se non giunge mai a noi, se non
emerge mai alla nostra conoscenza? E allora, dov'è il mondo se non in noi, e intersoggettivamente, in senso
assoluto, nello ‘Spirito’? È l'Uno di Plotino che si protende nella storia, nel divenire, ma non per esserne
depauperato, come nelle visioni neoplatoniche, ma per arricchirsi continuamente, nella coincidenza del reale
con il razionale; l'Uno che aspira al suo opposto, alla sua antitesi, al Molteplice; e che persegue questa finalità
nella Storia”.
Già, la storia; Ramon pensò che in effetti la storia come categoria, la storia della filosofia era in definitiva un
parto della mente di Hegel. Anche lo “storicismo” veniva da lì. Non ci sono storie della filosofia prima di
Hegel, ma solo “summulae”, cioè sintesi, riepiloghi, spesso neanche cronologici; e volentieri gli si può
perdonare questa sua continua riproposizione per medaglioni triadici, che pure a volte è fuorviante per capire
certi autori, ma altre è illuminante; e ci consegna in ogni caso un modo di pensare, una “categoria dello
spirito”; attento, Ramon, si disse, non starai diventando hegeliano?
“Ma accettato tutto questo, la coincidenza del tutto con il tutto, questo immanentismo panteistico, non ci
ritroviamo, in definitiva, entro il sistema di Spinoza?”
“Il sistema di Spinoza è statico, è dato una volta per tutte, è privo della ‘dialettica’, appunto. Esso fotografa
un istante dell'Assoluto. Non ne distingue i momenti e non spiega quindi il suo farsi. Lo Spirito, in prima
istanza, si incarna nel pensiero dei greci, dove dio fa tutt'uno con la natura; questo è forse un universo
spinoziano. Ma poi giungono le religioni giudaico-cristiane, che pongono Dio al di fuori, al di sopra, e lo
separano dalla natura e dall'uomo; e l'uomo sperimenta l'angoscia del distacco, del figlio rifiutato in quanto
autore del peccato originale: è il Medioevo. Ma finalmente la sintesi supera entrambi i momenti, e si libera
della ‘coscienza infelice’: lo Spirito si riconcilia con il mondo, diviene Autocoscienza, superamento di ogni
scissione. La religione a sua volta entra in esso, così come vi rientra un Dio ritrovato”.
Ramon era da un lato affascinato e da un altro perplesso. Domandò infine: “Maestro, ma allora che spazio ha,
in questo srotolarsi dell'essere nel tempo, la vita umana? Quali scelte possiamo, dobbiamo fare per
uniformarci ad esso?”
“Vorresti fermare il mare in tempesta, Ramon? Dominarne i marosi, appiattirli con le tue mani? Non ti è dato
di modificare l'Assoluto, naturalmente, ma di farvi parte, come atomo minimo entro il disegno. Quel che puoi
fare, è capirlo”.
L'arcivernice: L’innominato (sessantaduesima puntata) di Giulia
Jaculli
http://educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-innominato-sessantaduesimapuntata-4078939786.shtml
Con una raffinatezza degli effetti degna della migliore simulazione tecnologica,
lo Sconosciuto mi compare davanti all'improvviso. Una specie di clone, perfetto
fin nei pori della pelle, perfino nei follicoli piliferi, e anche in grado di compiere
tutte le azioni umane. Dunque, mentre ero immersa nei miei pensieri, Ramon
l'ha generato, con la vernice e il pennello. Ma non mi ha detto chi è!
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“C'è un'atmosfera gotica in certa vostra nuova filosofia”, dico a Ramon perplessa, interrompendo il ripasso ad
alta voce del suo prossimo esame, “a volte la penombra di finestre oscurate”. Continuo: “E c'è 'il rivo strozzato
che gorgoglia', e poi c'è 'l'incartocciarsi della foglia', 'la statua nella sonnolenza del meriggio'. E c'è anche 'il
cavallo stramazzato' ”. Poi: “Eugenio Montale”, declamo scandendo lentamente. Gli strizzo l'occhio e sorrido,
ma proseguo: “E certe piazze vuote di De Chirico. Oppure le stazioni di Binswanger, dove i treni non passano
più”.
C'è tutto, per cruentarsi la vita dentro una depressione, medito poi tra me, mentre Ramon, adesso silenzioso,
sfoggia però il suo miglior piglio derisorio, e si finge concentrato a sfogliarsi il suo ponderoso manualone.
“E si sa, l'ombra crea incertezza: e l'incertezza è potere”. Continuo ad alta voce, pronta a tutto. “Ed è un
processo lento, carsico, insidioso”.
Le astruserie da filosofo, penso poi nel silenzio ostinato di Ramon. Se se ne fossero accorti i redattori del
nuovo tanto atteso DSM V, si sarebbero attrezzati per tradurre anche la filosofia in una forma di patologia
piuttosto chiara: sguardo che svuota la vita, e gelido senso che tutto dilegua lungo le strade impolverate e
perse in lontananza, su sfondi silenziosi e continui di qualche assenza. Certo è un nuovo disturbo di
personalità.
“Ma Freud”, chioso ancora, impavida, “affermava che una rosa non è meno bella per il solo fatto che il suo
destino è sfiorire!”
E continuo a pensare tra me: certo, di questi tempi vogliamo tutti sentirci connessi, speciali, attraverso il
lavoro e i Social network e LinkedIn, e chiediamo a tutti di metterci un 'like', di partecipare alle nostre
realizzazioni con qualsiasi magia digitale. Per certa filosofia, invece, dovremmo argomentare in un
rattrappimento di energie, pensieri deboli dentro una non-comunicazione buia e omertosa. Così si attacca il
bisogno umano attuale inevitabile: di sentirsi speciali per gli altri.
Ma cos'è giusto? E la patologia, se c'è, dove si colloca? In quei sentieri bui e tortuosi in un sentire sfuggente,
nebuloso, e nei fantasmi che qua e là vi galleggiano, oppure negli spazi aperti troppo esposti di luci a video
accecanti, effetti ottici falsi, artificiali, e luci stroboscopiche, fari laser e Led, e spara-bolle, e folli palle a
specchi nel realismo magico, immateriale dei pixel?
La negazione del reale. C'è una legge del funzionamento mentale, in psicoanalisi: quello che si vuole
cancellare dalla memoria, comunque sia ritorna nella realtà, e spesso ha la forma dell'incubo.
Già, se il confine fra Io il nostro corpo, e il Mondo esterno reale si perde, come sostiene Bion c'è la patologia.
Quando appunto il confine tra l'interno e l'esterno non permette lo scambio e non consente l'attraversamento.
C'è la patologia quando il confine è murato e viene meno l'ossigeno dell'altro.
Filosofese: quel linguaggio filosofico-criptico già caro agli aruspici. Sembra che i filosofi aruspici fossero fieri
di certe loro formule fumose, 'fatte apposta' dicevano 'per ingannare i creduli'. Così certa attuale filosofia:
sembra faccia di tutto per rendere le sue stesse ragioni incomprensibili; zone d'ombra ostinate, dove poi di
sicuro ogni comunicazione s'inceppa.
Ma a fronte di dirette, esuberanti simulazioni tecnologiche, falsificazioni della realtà e visual effects, forse è la
filosofia, oggi, a sembrare malata: debole, ingobbita, lo sguardo perso nel vuoto e biascicanti parole a cui
non si sa come rispondere. Ed è cortocircuito. Che cosa ha indotto lo scatenamento, il declenchement
lacaniano dell'una o dell'altra di queste deliranti sostituzioni di qualche cosa che è venuto a mancare? Certi
panorami d'interni bui e di finestre accostate perché si azzeri il sole, la luce. Quella ricerca della solitudine,
per cui il significato prognostico è sfavorevole, poiché la vita dev'essere limpida relazione. Oppure quei videosalotti accecanti, piuttosto, di forzato pensiero positivo, di ottimismo naïf: qui dove tutto è splendido, in vista
e luminoso, tutti si scambiano email e numeri di telefono, e ti invitano allegri alla conversazione. Ci
confrontiamo tra noi, e c'è risposta su tutto; i commenti, le frasi intelligenti, tutti possono essere ricchi e
felici, in un flash che ti abbaglia. Teatro dell'assurdo comunque.
In tutti e due i casi è rifiuto della realtà, e sostituzione della realtà con qualcosa che comunque non esiste.
Nietzsche, con la sua meta vitale del Superuomo, lui con la sua 'volontà di potenza', aveva colto l'insorgere di
certe debolezze fisiologiche, l'essere prede ormai del nichilismo, l'andare alla deriva, di questa società.
Il passato minaccia, il nuovo fa paura. È in tutti i casi una vita in trincea. Forse è l'unica scelta, la negazione
delirante della realtà per questi uomini, tanto poco potenti così che Deleuze aveva definito la loro vita
'impersonale', né di persona né di cosa.
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Quale sarà il bisogno fondamentale, cosa dovrebbe accadere di magico se forse siamo, alla fine, tutti
anonimi, soli. Qui non capisco il punto.
Con una raffinatezza degli effetti degna della migliore simulazione tecnologica, lo Sconosciuto mi compare
davanti all'improvviso. Una specie di clone, perfetto fin nei pori della pelle, perfino nei follicoli piliferi, e
anche in grado di compiere tutte le azioni umane. Dunque, mentre ero immersa nei miei pensieri, Ramon l'ha
generato, con la vernice e il pennello. Ma non mi ha detto chi è!
“Il linguaggio universale, certo, è un'utopia”, parte subito Lui con una voce sonora, senza che ancora nessuno
lo abbia interpellato, “oggi però, sono venute meno ovunque le certezze dell'uomo. Nessuno regge più il peso
delle responsabilità. Così vi abbandonate, tutti solitari e passivi, accettate il destino contro cui pensate di non
potere più nulla. Disponete di un cervello preistorico e dovete vivere in un'era post-moderna: potete
solamente consegnarvi alla rassegnazione”. Il suo parlare è secco, il suo sorriso è un po' dolce e un po'
severo.
“L'Oltreuomo di Vattimo? Di questo sta parlando, Professore?” Già, Professore, come altro potrei nominarlo...
Lui glissa sulla domanda. “È il venir meno delle certezze salde dell'uomo, la progressiva scomparsa delle
verità stabili, delle totalità. Ma dovete imparare a conviverci senza ansie e nevrosi, guariti proprio attraverso il
dolore dei fallimenti e la fatica delle realizzazioni, forse adattati all'inesistenza di scopi nella vita”.
“E questo vale, Professore, sia per l'effetto di solitaria esaltazione dei scintillanti link multimediali, sia per gli
occhi pensosi e malinconici del filosofo che si ostina ancora a imparare soffrendo, e cerca ancora la
prevedibilità, il télos della vita?”
Ma quelle guance scavate e quell'eloquio solenne, lo sguardo distaccato, il viso bello e carico di attrattiva
nostalgica, si stanno già dileguando.
L'arcivernice: Ramon difende la filosofia (sessantatreesima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ramon-difende-filosofiasessantatreesima-puntata-4081541767.shtml
“La foglia si incartoccia, come la carne umana quando è bruciata. Streghe,
maghi, eretici si ‘accartocciano’. O filosofi? Donne indemoniate, uomini malati
di coerenza, e poi il rogo, che tutto cancella, anche il peccato.”
Giulia. Che tipo. Che scrittura elevata. Per questo me ne sono innamorato, pensò Ramon. Affascinante, anche
quando ha torto. Torto marcio: la filosofia non si può giudicare, senza dare luogo a una nuova filosofia. È una
condanna, o se si vuole un'ancora di salvataggio. Tanta cicuta è stata ingoiata. Ma non ne esiste abbastanza
al mondo per far morire la filosofia: sarebbe una filosofia.
Quel che si può fare, è ammazzare i filosofi. Questo è più facile. Socrate apre la strada. Durante la rivolta
antimacedone, Aristotele dice agli ateniesi: me ne vado, per non farvi peccare di nuovo contro la filosofia.
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Da allora, quanti martiri! Partiamo dai più noti, Ippazia, fatta a pezzi, Campanella, 29 anni di carcere,
Giordano Bruno, arso vivo, Galileo, costretto all'abiura e alla reclusione.
Ma questi sono i casi eclatanti, quelli che hanno raggiunto la fama. Nelle centinaia di migliaia di persone
bruciate dagli inquisitori, quanta filosofia c'era?
È comodo stare a guardare la statua nella sonnolenza del meriggio. Altro è farsi torturare, e ammazzare, per
le proprie idee. Affascinante Montale; divino, ma imperioso, tragico, eroico Giordano Bruno. E i Catari, i
Parati, i seguaci di Dolcino, i Templari, i Libertini? È stato giusto strappargli le unghie e le carni per cercarne
l'anima nei muscoli e nelle ossa?
Cartesio stette molto attento: si trasferì in Olanda, il luogo più tollerante, sostenne sempre che le sue idee
erano pure ipotesi, negoziate nella morale provvisoria con il rispetto dell'autorità. Cartesio è abbastanza
furbo, e ha il vantaggio di essere nato nobile. Ma, proprio seguendo il suo insegnamento, la ragione si
distribuisce bene tra gli uomini; poi gli altri, caso mai, si bruciano.
La foglia si incartoccia, come la carne umana quando è bruciata. Streghe, maghi, eretici si “accartocciano”. O
filosofi? Donne indemoniate, uomini malati di coerenza, e poi il rogo, che tutto cancella, anche il peccato.
Per una lunga epoca non si sa cos'è il fuoco: si pensa che sia uno degli elementi di base: aria, acqua, terra,
fuoco. Si inventa il flogisto, la “focosità” dell'esser fuoco. L'idea di “combustione” verrà solo dopo Lavoisier.
Una delle grandi bufale della storia della scienza, il flogisto.
Antipatici, i filosofi. Ti costringono a pensare, o almeno a fingere di farlo. Magari, se bruciavamo anche
Kant...
Ma i costumi si evolvono, non si può direttamente passare al rogo. Gli strumenti sono altri, togli la cattedra a
Enriques, amico di Einstein e grande matematico. Caccia via Levi Civita, è ebreo. Eccetera. Il rivo strozzato
gorgoglia...
La filosofia, nel suo senso più ampio di amore per il sapere, beve altra cicuta. Ma è abituata. Nei millenni si è
mitridatizzata: la manda giù bene. La palingenesi è dietro all'angolo. Che l'angolo sia distante vent'anni, o
ventimila, poco conta. Per il vero filosofo, naturalmente...
L'arcivernice: infinitologia (sessantaquattresima puntata) di Giulia
Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-infinitologiasessantaquattresima-puntata-4082736814.shtml
“L'artista dunque è distaccato testimone del suo tempo, chiarisce con le opere
quale può essere l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla realtà. Ecco, l'artista
coglie, documenta malesseri e non nasconde nulla. Non sceglie.”
In queste settimane di fine settembre Bologna è ancora un po' imbambolata, è pigra e insonnolita, così
sembra sempre un'isola di pace. La vivo con certe mie bizzarre vocazioni contrastanti, di noia e di una specie
di arruffata allegria, come se questo spazioso, ininterrotto taglio di luce che fa cambiare i colori, le vibrazioni
luminose e le profondità della scena, scacciasse finalmente certe inquietudini.
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Ramon è uno che non rimane, che guarda e poi un giorno se ne andrà, come un disegno solcato in un campo
che poi la pioggia cancella.
Ora mi parla a voce bassa come in chiesa, come leggesse piano un anonimo corsivo, per rispettare, credo,
questi miei giorni di spazi metafisici, per accordarsi. I primi brividi d'inverno, gli odori di focaccine dolci, i
suoni di carta colorata che si scartoccia lenta. Infanzia, cioccolata, sorprese, occhi sgranati. E immaginare
l'inimmaginabile. Infinitare: l'antropologa inglese Mary Douglas all'incirca cinquanta anni fa, riteneva che i
larghi spazi ordinati perfino incrementassero la rettitudine morale. Io so soltanto che la mente, così, in questi
spazi quasi immateriali, mi si avvia verso nuove, libere direzioni, una continuità melodica infinita di gesti e
invenzioni inconsuete; brani suonati con la Glass armonica.
Ma Ramon corre sempre dietro la pista della sua filosofia, lui non ha mai questi miei armamentari di
smancerie. E mi racconta, calmo ma irrequieto. È come quando Nietzsche ci parla della morte di Dio, della
caduta degli idoli. È il timore e tremore di Kirkegaard. Briciole filosofiche. Ma la tragedia, è soltanto una
catastrofe distruttiva, oppure offre altre chances? Dionisiacamente parlando, il dolore andrebbe inteso come
la sofferenza della partoriente: sarebbe segno di ricominciamento. Una giustificazione forte, questa, per la
sofferenza: la ricompensa, il riscatto. Sono lezioni di vita o lezioni di morte? Ma non importa, il bene e il male
non vanno tenuti separati come nei film scadenti.
Socchiudo gli occhi appena dentro la stanza di Ramon, nella trasfusione improvvisa di nebulose penombre
d'interni.
Ma qualcosa di bianco mi sembra passi e ripassi tra le pile alte dei libri polverosi: fantasmi? O è Ramon che
sta ancora usando la sua vernice collosa, come un creatore di Visual Effects. In questi casi lui sembra sempre
non avere la percezione di qualcosa che non esiste; io credo che tutto questo sia ritenuto reale da lui:
bisognerebbe avviarlo a un buon percorso terapeutico... Col tono della profonda saggezza del Zarathustra,
Ramon sorride alle mie pretese di cogliere significati in quelle incarnazioni: “Lascia che le immagini nascano”,
mi dice, “è l'effimero dei fenomeni naturali. Vedi? non c'è divario tra la tua esperienza e la mia”. Come i pittori
impressionisti vogliono rendere la sensazione allo stato puro, qui forse anche Ramon si propone di liberare la
sensazione visiva da ogni nozione, coglierla prima che venga elaborata e corretta dall'intelletto. Io invece
assisto ogni volta con stupore al fenomeno, mi interrogo, ne riconosco l'irrealtà; anche se lo scenario, lo
ammetto, qualche indice di credibilità spesso lo induce.
Ora sembra, ad esempio, che qualcuno si faccia avanti veramente, scostando una pila di libri come fosse un
sipario o una fronda. Un viso carico ancora di attrattiva, gli occhi pensosi e malinconici dell'uomo che ha
imparato soffrendo. Solitario e passivo, vittima forse della forza della Natura, si abbandona alla Storia contro
cui crede di non potere nulla.
È lui, è il grande, l'immenso William Turner. Certo, lo riconosco intimorita. Proprio per lui lo spazio è un
contenuto-forza, che agisce qui e ora. Per lui lo spazio è un'estensione infinita; una forza universale anima
quello spazio, un fattore coesivo, e le cose, alberi acque nuvole, sempre si intramano, nella sua pittura. Si
intrecciano e si riassorbono in grandi vortici e luci.
Già, si dice che lui abbia anticipato il movimento impressionista. Infatti proprio per gli Impressionisti è così: si
propongono di rendere l'autenticità del reale nella purezza assoluta della sensazione visiva, L'impressione
luminosa, ad esempio, e la trasparenza, dell'atmosfera e dell'acqua. Smantellando però tutte le concezioni a
priori della realtà.
A un tratto, lui, il Maestro, mi parla, e di sicuro non mi sto allucinando la sua frase. Già, quelle immagini
incarnate “sanno” quello che abbiamo pensato e che stiamo per dire. Perciò, in un certo senso, ora lui
risponde ai miei pensieri:
“Ma non sarete mai voi, a dare senso ai miei spazi”, dice, “sono i miei spazi, la rottura degli argini, che
suscitano la reazione passionale. È come per le sinfonie dove l'autore ha scritto lunghi passaggi che sono
solo percorsi per condurti, attraverso un cammino silenzioso, verso l'esplosione dei sensi dove tutto è poi
suggestione”.
“Eppure”, gli sussurro, “la tua veduta, Maestro, non la sento come veduta 'emozionata'”.
“Forse, Giulia. Forse la mia non è una veduta emozionata, però è una veduta 'emozionante', ti rapisce
nell'estasi, oppure ti precipita nello sgomento. Senza che tu pretenda di interpretarne i sentimenti, sfugge al
controllo, senza che tu possa far niente”.
Limpide intelligenze, penso, un rapporto come quello che lega individuo e Società: non lo controlli, non puoi
far altro che vivere con lucidità questo rapporto, che comunque sarà un rapporto attivo. Devi buttare via però
gli schemi, i pregiudizi, le convenzioni. E per toccare con mano la realtà, la luce della Storia, devi eliminare
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l'illusione, e farlo attraverso la pura e semplice constatazione del vero. L'ambiente della vita può essere
accogliente oppure ostile: una nazione in regresso, ad esempio, la decadenza.
“Non c'è nemmeno, in chi guarda” bofonchia allora Ramon “l'ironia superiore del filosofo”.
Il Maestro ci osserva con sguardo distaccato, ma il suo eloquio è solenne: “E perciò” poi continua, scandendo
chiaro: “non la proiezione, non l'eco del reale, ma proprio un pezzo di realtà, esperienza lucida, autentica”.
“Perciò la nozione intellettuale sarebbe dunque esperienza inautentica?” Bisbiglio quasi tra me: “Sarebbe
un'arte cortigiana, che ti nasconde il brutto della vita poiché non riflette la realtà così com'è, ma come si
vorrebbe che fosse...”
L'artista dunque è distaccato testimone del suo tempo, chiarisce con le opere quale può essere
l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla realtà. Ecco, l'artista coglie, documenta malesseri e non nasconde
nulla. Non sceglie.
“L'artista è un testimone a carico, Maestro?”
Ma poi che cosa vogliono queste immagini animate. 'Loro' sono già ormai rassegnati, fuori dal sangue della
propria opera. Forse pensano ancora in proprio, desiderano cose, vorrebbero portare noi da qualche parte. E
se poi anche hanno l'anima di carta...
A volte è una carta fragile, rinsecchita dal tempo. Basta un soffio e si sbriciola.
Joseph Mallord William Turner, Light and Colour (Goethe's Theory) - the Morning after the Deluge,
Moses Writing the Book of Genesis (1843) (Wikimedia, licenza free to share)
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L'arcivernice: Guardando fuori dalla finestra (sessantacinquesima
puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-guardando-fuori-finestrasessantacinquesima-puntata-4083285437.shtml
“Dunque noi possiamo crearci “pseudo-oggetti”, oggetti “falsi” in quanto solo
rappresentati...”. “Ma non è certo un male, Ramon. Come faremmo a fare
scienza senza gli oggetti dell’intelletto, o le “relazioni”, che hanno appunto
questa natura? È la grande dote della nostra specie, l’unica forse ad avere a che
fare anche con oggetti immanenti, cioè solo nostri e non “trascendenti”, ossia
propri del mondo esterno”.
Il mondo è fatto così, pensava Ramon: il giardino, gli alberi, quelle due case che si vedono più in là. Ma forse
no; sappiamo che i colori sono onde, e la luce è fatta di fotoni che viaggiano in esse, ecco quel che ci arriva.
Che là fuori ci siano onde, invece, diverse per frequenza, per ampiezza?
Però quelle case ci sono davvero, magari non saranno colorate, ma, insomma, sono resistenti all’urto, sono
antitipia, corporeità.
Ma a pensarci bene poi no, sono tutt’altro che corpi coesi, sono fatte di molecole in perpetuo movimento.
Ecco allora, là fuori ci sono molecole.
Però però...
No, le molecole sono costruite sugli atomi, e questi sulle particelle subatomiche, tali che tra l’una e l’altra ci
sono distanze ben superiori alla loro massa.
Che cosa c’è là fuori? E c’è un “di fuori”? E se il tutto del mio vissuto non fosse altro che il prodotto della
collisione dei miei neuroni; e il residuo il semplice non-io, come direbbe Hegel? Ritornavano alla mente tutti i
dubbi sulla madonnina fosforescente...
“Our Knowledge of the external World”; chi l’aveva pur scritto... Ecco, Russell, sì, certo. Anche nei “Problemi
della filosofia”: il ragionamento del gatto. Io guardo il mio gatto. Esiste perché lo guardo, perché là fuori non
c’è niente di sensato. Poi me ne vado per ore. Conseguentemente, il gatto non esiste più. Ma quando torno il
gatto ha fame. Perché, se nel frattempo non è esistito?
Allora il mondo esterno deve esserci, l’inganno sarebbe troppo ben congegnato. Le invarianze, le leggi e la
regolarità dei fenomeni, almeno di certi fenomeni...
Allora il punto è: posto che la conoscenza è una bipolarità soggetto-oggetto, e assunto che il soggetto sono
“io”, che cos’è l’oggetto? E l’oggetto esiste, sempre, o può anche non esistere?
Il filosofo di riferimento non poteva che essere l’autore di “Sulla teoria degli oggetti”.
Una rapida, forsennata ricerca, ed ecco l’icona giusta, Alexius Meinong, non a caso in polemica proprio con
Russell.
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“Tu puoi pensare al tuo gatto, anzi, a essere precisi, a Carlo, il tuo cane carlino, Ramon; e puoi pensare
altrettanto bene a una montagna d’oro. Ma Carlo esiste, una montagna d’oro no. Dunque tu puoi pensare
all’oggetto in-esistente”.
Meinong si accarezzò la lunga barba, e si ravviò i capelli, abbastanza lunghi e disordinati, in attesa della
reazione.
Ramon esitava, non vedeva obiezioni di principio, eppure le due cose, di per sé accettabili, dovevano essere
tenute distinte, pensava. E allora Meinong riprese.
“Vi è un’esistenza materiale, effettiva, un esserci nel mondo; poi vi è la sussistenza, o consistenza, come è
quella di un personaggio letterario, o di qualsiasi rappresentazione che abbia un senso; perché l’oggetto
contraddittorio non può nemmeno sussistere. E altro ancora è la “datità”, condizione minima per entrambe le
cose, la “Gegebenheit”, il porgersi.
Poi gli oggetti si possono combinare in vario modo, determinando gli “oggetti di ordine superiore”, come
l’“orchestra” che suona una “melodia”. Tu poi puoi avere anche uno scopo, o un desiderio; e non puoi dire che
“non c’è”, può essere tanto forte che ti uccide. Vedi bene come l’essere si dica in tanti modi: il tuo desiderio
“c’è”, ma è datità diversa da come “c’è” il tuo cane”.
“Maestro – si risolse infine Ramon – ma io posso rappresentarmi altrettanto bene sia il mio cane che una
montagna d’oro...”.
“Già. Ma in un caso il contenuto della rappresentazione ti trascende, nell’altro è solo in te. Ti si può dare, e
quindi “sussiste”, ma non “esiste”. Poi c’è il quadrato rotondo, che non può avere nemmeno datità, in quanto
non rappresentabile affatto; in fondo la matematica, da un certo punto di vista, è la migliore anticamera di
una teoria dell’oggetto”.
“Dunque noi possiamo crearci “pseudo-oggetti”, oggetti “falsi” in quanto solo rappresentati...”.
“Ma non è certo un male, Ramon. Come faremmo a fare scienza senza gli oggetti dell’intelletto, o le
“relazioni”, che hanno appunto questa natura? È la grande dote della nostra specie, l’unica forse ad avere a
che fare anche con oggetti immanenti, cioè solo nostri e non “trascendenti”, ossia propri del mondo esterno”.
“Ma allora... – tentò di continuare Ramon, che tuttavia era conscio di essere prossimo a una crisi confusionale
– ma allora gli pseudo-oggetti sono importanti come gli oggetti?”.
Purtroppo i contorni del viso austero del filosofo si stavano già rarefacendo. Dall’“esistenza” Meinong era
rapidamente passato alla “sussistenza”.
L'arcivernice: Guardando fuori dalla finestra (sessantaseiesima
puntata) di Giulia Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-proust-ad-esempiosessantaseiesima-puntata-4085067673.shtml
“L'odore già dell'inverno mi entra nelle narici dalla finestra aperta. Il ricordo di
inverni mi viene forse dai primi profumi delle caldarroste. Ricordare è creare
[...]”
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“Proust, ad esempio”, aveva detto a lezione il professore, “come Balzac, del resto, raccontavano i mali del
mondo occidentale attraverso il filtro delle classi abbienti”.
Il sole. Lo sto già allucinando come un bene impossibile, perduto: è autunno e tutto inizia a venire risucchiato
in un gelido, untuoso gorgo di lavandino, dove poi non è facile ripescare qualsiasi cosa ci sia caduta dentro.
Oggi anche le mie letture vecchie e nuove, frugando in questo fondo limaccioso, mi sembrano superflue; un
panorama intellettuale che prima era, come per Wittgenstein: “lo sfondo sul quale distinguo tra vero e falso”,
e adesso sembra un gioco senza regole che ognuno può giocare a modo suo. Come si fa ancora a vivere al
fianco di certi miti da museo. Possiamo sentirci autorizzati a usarli solo per il piacere furbetto del
citazionismo.
Cosa volete, i tempi si sono fatti duri, ma se a “calarsi le paste” ... che se poi sono queste Madeleine, è tutto
senza postumi, si rischia solo, casomai, di cadere nel flusso di coscienza. Sicuro è un buon percorso di
prevenzione: non ti dà dipendenza, e non ti abbassa la serotonina. E certo non distrugge la creatività.
La figura di Proust è pigramente adagiata sulla pagina, come su un vecchio canapé di quelle abitazioni
sempre in penombra. Lo sguardo qui ne rivela l'umanità, la sua fragilità e la sua forza; sembra un
sopravvissuto alla fine del genere umano. Dovrò “fare il bianco” del mio mondo per lasciarlo entrare.
“Montaigne sosteneva, Maestro, che 'il pregio dell'anima consiste non nell'andare in alto, ma nell'andare con
ordine'”. Ad ogni mia pennellata furibonda, lui, Marcel Proust, si era costruito piano piano, plastico, con
l'Arcivernice, fino a sembrare fatto di sostanza umana. “La sua scrittura invece, Maestro, naviga senza
bussola, e sembra indizio di un respiro convulso”.
“Non vedo altra strada”, lui mi conferma col suo sorriso fragile, “per cogliere la verità. Ma anch'io comunque
ho bisogno di compiutezza formale”.
“Il suo narrato, con i verbi molto spesso coniugati all'imperfetto, ti dà il senso di un tempo sempre aperto,
tiene il lettore quasi senza respiro, ad annaspare in una sospesa medietà”, azzardo piano. “Meglio così,
comunque, che essere braccati dall'orrore di perdere il passato per sempre. Però la risalita sembra
impossibile”.
La musicalità delle sequenze – continuo poi a pensare – elementi, passaggi. Nel brano, con rarefazioni
improvvise e poi addensamenti, e anche cambiando la tonalità continuamente, ne viene fuori un senso di
disorientamento. Come quando nel sistema tonale di una scala in do minore si contrappone, in un processo
continuo, la gaiezza del modo maggiore: ti dà anche, forse, malinconia e rimpianto.
“Compito del narratore è scrivere per dare alla vita un significato, lo sai Giulia. Però forse la vita non ne ha
nessuno. Mi sono abbandonato, niente poteva trattenermi, e la scrittura è venuta, si è scelta lei per me”.
La scrittura di Proust scorre con discrezione nei rivoli ramificati del tempo. Sì, l'obbedienza all'ordine, alla
linearità della forma, è una misura, un codice a cui non ci si sente, a volte, di assoggettarsi, di restare
braccati, hai voglia a volte di scompigliare le cose che erano prima ordinate e composte.
Ma il suo capolavoro sta sempre lì a dimostrare che un romanzo con più rigore non avrebbe potuto essere
scritto.
“Un battitore libero, Maestro?”
L'odore già dell'inverno mi entra nelle narici dalla finestra aperta. Il ricordo di inverni mi viene forse dai primi
profumi delle caldarroste. Ricordare è creare; quella figura un po' snob sembra ottenuta con effetti in 3D, una
raffinatezza degna della migliore simulazione tecnologica.
Ma se è così basta premere un tasto o due per farla scomparire.
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L'arcivernice: Ogni cosa a suo tempo... (sessantasettesima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-ogni-cosa-suo-temposessantasettesima-puntata-4085877342.shtml
“Quello vero, quello della 'durata'. Il tempo fisico è una finzione senza durata.
Se tutto l'universo si muovesse più lento, diciamo, il doppio più lento, non
cambierebbe niente nei nostri orologi. Ma la tua sofferenza sarebbe doppia.”
Più che d’insonnia, Ramon soffriva a volte di risveglio precoce. E quando gli capitava, in verità non così
spesso, non c'era verso di riprendere sonno. Decise pertanto, anche quella volta, di eseguire le procedure del
mattino, e cominciare la nuova giornata, malgrado fosse ancora buio, praticamente ancora notte.
Là fuori, un raro biancheggiare cominciava appena a rendere alle cose le forme che la notte aveva sottratto. A
Ramon era sempre piaciuto osservare questo lento passaggio dal buio alla luce; ne era affascinato.
Lento quanto? E che ora era, poi? Ecco il demone del pensiero, che a sua volta si risveglia dal disordine
onirico, a rivendicare di nuovo la sua forma di logos. Il tempo. Mistero infinito pensò Ramon. E il suo
complesso sodale, lo spazio. E, in un certo senso, il loro avvilupparsi l'uno nell'altro, in un amplesso
inestricabile, non si sa quanto amichevole, imposto, forse, persino incestuoso.
Spazio e tempo; ad Aristotele servono come vaccino contro la malattia della contraddizione: piove e non
piove; già, ma piove a Toronto, e non piove a Roma. Ecco che la contraddizione, di per sé immonda, è vinta e
soccombe. Così Socrate è vivo, e Socrate è morto; già, è vivo prima del 399 a.C., è morto dopo. E di nuovo la
belva furiosa è vinta.
Spazio e tempo come funzioni logiche, come custodi della legalità a priori del logos; senza la quale tutto
l'essere diventa l'informe brodo di Cartesio. Spazio e tempo “non sunt res, sed phaenomena bene fundata”,
dice Leibniz. Essi non sono cose, e dunque non ci sarebbero senza le cose: sono relazioni d'ordine tra le cose.
Se esistono le cose, è già dato il prima e il poi, è già dato il sopra e il sotto, non occorre crearli ad hoc. E
senza cose spazio e tempo si dissolvono nel nulla indistinto.
All'opposto, Newton considera spazio e tempo cose, anzi, le grandi coordinate, i grandi contenitori
dell'essere. E, per Kant, l'omologarsi in essi diventa condizione imprescindibile per darsi al conoscere, essi
diventano un guado necessario dove rassegnarsi a divenire fradici, perché non c'è alcun Caronte che sia
disposto a traghettare il noumeno fino a noi.
Cugini, di più, gemelli, amanti forse; nell'affetto, o nella furia colpevole del peccato? E perché l'uno si lascia
percorrere in tutte le direzioni, e il suo dispettoso compare non ci lascia che procedere in avanti? Perché la
massa diventerebbe negativa, così ti direbbe Einstein; e in fondo così aveva già detto Fantappié. Ciò che non
mi basta e non mi placa, pensò Ramon.
Il tempo. Il tempo perduto, ha cercato Giulia in Proust. Il tempo ritrovato. Ma che cosa è riemerso, cosa si è
ritrovato? Che me ne faccio della fragranza di una madeleine, del suo aroma di zafferano, se lei sta là, in un
passato intoccabile e remoto, e io sono qui, all'alba, a pensare?
Henri Bergson, ecco chi ci voleva!
Minuto, quasi pelato, le mani ossute e nervose, Bergson lo osservava in modo quasi timido, mentre il
biancore dell'alba aveva ormai invaso ogni anfratto della stanza.
“Così, ci sono due tempi, maestro?”
Con il suo tipico tono delicato, il fare modesto, tuttavia Bergson non si esimeva dall'essere categorico:
“No, Ramon, c'è un solo tempo, quello vero. C'è il “tuo” tempo, il tuo vissuto, che è tuo e di nessun altro. Il
resto è finzione”.
“Ma il mio orologio allora mi mente, maestro?”
“No, Ramon, il tuo orologio ti dice la verità. Ma un'altra verità, quello dello spazio che intercorre tra due
tacche, quella che puoi condividere 'esternalizzando', per dovere sociale; ma il 'tuo' tempo è un'altra cosa”.
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“Cosa intendi, Maestro?”
“Ti farò un esempio molto semplice, Ramon, e dopo ragioneremo meglio. Tu aspetti di sapere l'esito del tuo
esame. Sbuffi, ti siedi, ti alzi, passeggi avanti e indietro. Soffri. Magari salta tutto, salta la borsa Erasmus,
perdo Giulia. Quanto 'tempo' passa? In un'ora ci sono passioni, desideri, sofferenze, climi, odori, paure,
assilli, a volte angosce. Tu pensi che tutto questo possa essere riportato nello scatto di una lancetta di una
corda di un quarto di centimetro su un cerchio graduato? Quello è 'spazio', Ramon, non 'tempo'. Non ha
durata, è semplicemente una successione di stati. È il tempo della fisica, il tempo spazializzato che ti
consente di socializzare, di parlare con altri. Non è tuo quel tempo”.
“E il mio tempo qual è, Maestro?”
“Quello vero, quello della 'durata'. Il tempo fisico è una finzione senza durata. Se tutto l'universo si muovesse
più lento, diciamo, il doppio più lento, non cambierebbe niente nei nostri orologi. Ma la tua sofferenza
sarebbe doppia”.
“Ma non sono, dunque, le cinque del mattino?”
“Nel nostro io c'è successione senza esteriorità; per chi 'sono le cinque'? Per te, Ramon, non vuole dire niente:
non c'è 'durata'; il tuo flusso di coscienza non è spazio, è vissuto, che non si lascia ridurre a successione di
spazi consecutivi. Il tempo della fisica lo devi assumere solo nei rapporti sociali. Se non c'è nessuno che
aspetta, non sono le cinque. Ci sei tu, con il tuo vissuto. E il tuo vissuto non si lascia misurare dalle lancette,
o da qualche diavoleria digitale. Il senso comune ti obbliga a una visione deformata, che non ha durata ma
solo concatenazione di istanti, o, se vuoi, di 'spazi', più o meno lunghi; ti obbliga, cioè, a proiettare il tempo
sullo spazio, fino a definire una linea continua irreale; non ti accorgi che il tuo 'io' non si lascia ridurre a uno
spazio e a un numero?”.
“Ma se io ora chiamassi al telefono Giulia, Maestro, mi direbbe: ‘ma sei matto, sono le cinque del mattino’.
Dunque che siano le cinque è un dato oggettivo, non è una mia visione fantasmatica...”.
“Perché anche lei userebbe il 'tempo della scienza'; quello senza continuità e senza durata, fatto di istanti
concatenati e misurabili, utili solo per capirsi fra di noi, senza quel tempo psichico in cui le essenze non si
succedono ma convivono. Quell'unico tempo per il quale posso dire 'io', ed emanciparmi dal fascio di
percezioni di Hume”.
“Ma perché è sincronizzato, è lo stesso per tutti, se è finzione?”
“Non ho detto che è finzione, ho detto che è spazio. Tra Parigi e New York c'è sempre lo stesso spazio, no?
Ma non è tempo, è una successione come i fotogrammi di un film su pellicola; senza movimento se non
apparente. E tuttavia tu e Giulia vedreste lo stesso film...”.
“Ma allora, Maestro, del tempo vero, del tempo mio privato che me ne faccio?”.
“A parte vivere Ramon? A parte superare la materia per avere 'memoria'? A parte travalicare l''intelligenza'
attraverso l''intuizione' del complesso? Ti saluto, Ramon, non ho più 'tempo', il mio tempo finito...”.
“Quale, Maestro?”.
L'arcivernice: ... ed è subito sera (sessantottesima puntata) di Giulia
Jaculli
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Nella fotografia, Hannah Arendt sembra guardare il vuoto alla ricerca di un
senso, come un quadro di Hopper. “Ti parlerò di questa tua paura del futuro
senza alcuna accezione spregiativa, Giulia, perché anche nella vostra Babele
politica e culturale, dove tutto si mischia, si confonde, non si può altro che
essere demotivati e confusi”. Lei inizia a parlare “ex abrupto”.
Il buio arriva presto, da quando l'ora solare è rientrata nei ranghi. La sera fa un balzo in avanti improvviso, e
con un passo vorace sguscia fuori un 'notturno' atonale.
E adesso? Si prospettano notti sfocate, suoni sordi, notturni in si bemolle da dimenticati da Dio. Perché non
so più leggere con ironica spavalderia tutto questo? Mi sentivo in un mondo poetico, circense. Adesso non so
più abbandonarmi lieta al futuro; in questo buio di periferie senza speranza non si sa che futuro immaginarsi.
È un brodo di coltura delle malinconie. Tutta la vita davanti, sì, ma è come camminare in una notte senza
luna, in mano soltanto una candela: tutto quello che poi ci viene incontro a spezzoni, ai bordi della strada, è
inaspettato e indistinto. È lo spegnimento sgangherato di ogni profondità.
Allineati in casa di Ramon, quei volumoni pesanti di filosofia creano effetti gotici, un bisbiglio attraversa quei
libri come un coro lontano, una specie di nemesi sonora, d’ineluttabile vendetta. La mia poetica adesso deve
lasciare da parte i dubbi e le riserve circa il delirio entro il quale queste figure a un tratto, sotto un pennello,
si sviluppano. Storie di lievitazioni. Come l'antico sogno di bere l'ambrosia degli dèi. La mia poetica adesso
deve fondarsi sulla ricerca del movimento nella fotografia, sulla possibilità di restituire una vita di sentimenti
e di emozioni alla carta patinata. Facce e corpi che lottano con forze ed eventi misteriosi e violenti. Devo
farlo, a costo di torturare anch'io queste figure con un pennello e una strana vernice.
Nella fotografia, Hannah Arendt sembra guardare il vuoto alla ricerca di un senso, come un quadro di Hopper.
“Ti parlerò di questa tua paura del futuro senza alcuna accezione spregiativa, Giulia, perché anche nella
vostra Babele politica e culturale, dove tutto si mischia, si confonde, non si può altro che essere demotivati e
confusi”. Lei inizia a parlare “ex abrupto”.
In questa confusione naturale e artificiale l'Arcivernice m’invade ogni volta. Mi viene da pensare al mito di
Prometeo: l'uomo che trasgredisce e che teme però di venire punito per il suo oltraggio alla sacralità. Ma la
sacralità viene a cadere, se in fondo sto parlando con un post-umano, se l'artificio è entrato nel suo corpo, e
lei vive in questa forma succedanea. Così, chiamandola per nome, mi aiuterà ad ancorare al concreto quella
sua figura aggraziata.
“Infatti, Hannah”, ribatto sottovoce, “qui, in questo gioco, adesso tutti si tirano indietro sconcertati. Lasciano
fare, anziché provare ad accenderci la fantasia, a insegnarci a rubare suggestioni, a far fiorire in noi qualche
loro esperienza per trasformarla in qualcosa di nostro”.
“Officianti troppo discreti!” Lei mi risponde subito. “E se accusati, rispondono di volervi riconsegnare la vostra
ingenuità, mentre invece, irresponsabilmente, vi portano a una condizione impersonale, in un piattismo
cerebrocardiaco. Non siete più capaci di essere 'due-in-uno', parlare con voi stessi, così poi vi trovate calati in
una prospettiva indecifrabile, dove ogni certezza si sfalda”.
“Dunque uno stile basso, Hannah, tutti noi oggi appoggiati su questo terreno limaccioso...”, la incalzo con
perplessa ammirazione. Lei mi guarda affettuosa, mi conquista, con questo nostro dialogo ardito, così sono
obbligata ad ammettere tra me quello che più vorrei allontanare: che così ti consegnano all'analfabetismo,
all'ignoranza. E poi le dico ancora: “Pochi respingono questo disimpegno per affermare il dovere di
intervenire sulla persona. Tutti acquiescenti, e perciò complici...”.
“Sì, tutti si adeguano al 'conformismo sociale', ciò che può trasformare una persona mediocre in un mostro!”
Quasi la sua voce adesso trema di sdegno. E poi: “Vedi, Giulia, voi siete nuovamente nella crisi che Husserl
descrive come la caduta di quella finalità, di quel telos, che sarebbe innato nell'umanità. Il rischio è che
l'acquiescenza si trasformi nella complicità ai più terribili misfatti. La volontà dunque dev'essere: formare
un'umanità fondata sull'agire per la conoscenza”.
“Perché è poi dall'agire che dipende il conoscere...” continuo io quasi timidamente.
“E dunque dall'agire dipende anche quel senso morale che deriva dall'intimo viaggio dentro il sé!”, lei mi
risponde ficcando uno sguardo ora impietoso anche su di me. E poi: “Il dramma è l'isolamento di chi, gettato
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nella solitudine, è ridotto a profeta che parla nel deserto”. E continua severa: “Se la parola è materia non più
animata, se la parola non è significante, se non è poetica là dove la poetica è poiein, fare, il fare che prevale
sulla teoria: allora la parola non esprime, non comunica altro che uno stato di malessere”.
Sì, penso, è quella la banalità arrogante e insieme ingenua e smargiassa, così perfettamente espressa, oggi,
da Jeff Koons. Lui, l'icona neo-pop, l'illustratore ironico della banale forma stucchevole di quotidianità
massificate.
Così, stordita e come avvolta dalle gigantesche, vivide immagini di Koons, sussurro: “Tutto è terribilmente
normale, Hannah?”
Ma mi è sfuggito l'attimo in cui lei sta già svanendo piano piano. Era una goccia brillante che in questo buio
freddo, umido come di febbre, tremola ancora sulla pagina. Esita un po' a svaporare.
La notte è presto arrivata, col suono misterioso del si bemolle: una nota infelice.
L'arcivernice: Husserl, al di sotto della visione ingenua - parte prima
(sessantanovesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-husserl-di-sotto-visioneingenua--parte-prima-sessantanovesima-puntata-4088530164.shtml
Cosa vuol dire che mi hai “capito”? Tu sei lontano, non vedi il gatto. La mia
rappresentazione del gatto è passata in te, si è duplicata, tale e quale, nel tuo
“io”? Certamente no. Tu hai ora in te coscienza che “Ramon vede un gatto”. Ma
com'è il tuo “gatto”? Magari è pezzato, mentre io ho visto un soriano.
Forse proprio questo è il tratto peculiare del filosofo: trovare lo scandalo celato al di sotto della visione
ingenua. Noi parliamo, e ci comprendiamo a vicenda. Che cosa c'è di strano, se parliamo la stessa lingua è
ovvio, no? Questo fatto appare all'osservatore comune del tutto “naturale”. È qui che interviene la filosofia a
buttare all'aria ogni cosa. Che cosa passa da me a te quando ti parlo? C'è una qualche forma di “travaso”, e se
sì, di cosa? Così pensava Ramon, con inquietudine..
Io ho in me, nel mio “io”, qualsiasi cosa esso sia, una “rappresentazione” derivante da un’esperienza, poco
importa qui se sia un’esperienza sensibile o rammemorativa, un'”idea” nel senso degli empiristi, di Locke per
dire. Ad esempio, scorgo un gatto che si avvicina lungo il muro, con il suo passo felpato, la sua tipica
circospezione. E allora ti dico: “Ecco un gatto”. E tu mi “capisci”.
Cosa vuol dire che mi hai “capito”? Tu sei lontano, non vedi il gatto. La mia rappresentazione del gatto è
passata in te, si è duplicata, tale e quale, nel tuo “io”? Certamente no. Tu hai ora in te coscienza che “Ramon
vede un gatto”. Ma com'è il tuo “gatto”? Magari è pezzato, mentre io ho visto un soriano. Magari te lo
rappresenti di fronte, mentre la mia rappresentazione è di profilo. Le nostre rappresentazioni sono fatti
privati, mai e poi mai saranno coincidenti. Ma allora cosa ti ho “passato”, cosa è transitato da me a te? Il gatto
della biologia? Certamente no, il gatto della biologia non ha un colore, non ha un'altezza precisa, non ha
un'età; questo gatto che si avvicina sì, è, in senso aristotelico, una “sostanza prima”; o se vuoi è cosale; o se
vuoi “esiste”, non è un universale, è vivo, e può morire, cioè “essere predisposto per accogliere i contrari”. Il
gatto della biologia non può morire; semplicemente perché non può vivere.
“Che cosa gli ho passato, dunque, Maestro?” chiese Ramon, un po' titubante, e quasi pentito del suo azzardo,
aveva una gran paura di non capire. Quel che aveva letto sui manuali gli era parso ostico, complesso, in un
qualche senso “sfuggente”.
98
Husserl si toccò la barba bianca e abbondante del mento, racchiudendola tra il palmo della mano, sul davanti,
e il pollice contrapposto, dietro. Il pizzo era abbondante, nel resto del volto si trattava semplicemente di
barba non fatta da un paio di giorni. Lo sguardo severo, dietro gli occhiali cerchiati, la figura austera, la bocca
resa quasi invisibile dai baffi spioventi, lunghi verso il basso.
“Non è così semplice, Ramon – disse poi lentamente – non è così semplice. Le menti non sono vasi
comunicanti. Penso che tu non gli abbia passato niente”.
“Ma... ora il mio amico ha in sé un’informazione, che prima certamente non aveva. E dunque, probabilmente,
anche una 'rappresentazione'. Qualcosa come 'Ramon vede un gatto', o 'c'è un gatto nei pressi di Ramon'. E
lui si dovrà pure rappresentare la cosa in qualche modo. Si è dunque data una modificazione del suo 'io'“.
Lentamente Husserl riprese: “E tu pensi di avere duplicato la tua rappresentazione, e di avergliela in qualche
modo inoculata? E come, per 'azione a distanza', o grazie alle 'forze vive'? Vuoi resuscitare le risibili fallacie di
secoli ormai remoti, Ramon? Forse è necessaria un'analisi più profonda”.
“Sono pronto a seguirti, Maestro; ma non so andare avanti da solo...”.
“Partiamo dall'inizio del processo, Ramon. All'origine sta sempre e comunque l’'intenzionalità': tu hai diretto
la tua mente sul gatto; la mente è sempre 'direzionale', e tu l'hai appuntata sul gatto. Da qui è sorta la tua
Darstellung, tu ti sei 'rappresentato' il gatto. A questo punto hai deciso di comunicarlo al tuo amico, cioè di
'oggettivizzare' l'esperienza. Perché solo rendendola 'oggetto' la tua rappresentazione può uscire da te, può
essere 'esternalizzata', partire dal flusso della tua coscienza per andare nel mondo esterno; al quale anche gli
altri hanno accesso. E, a questo punto, hai fatto ricorso al 'linguaggio'; che proprio in questo consiste,
nell’'oggettivazione' della coscienza”.
“E così ho concepito un enunciato che potesse informare il mio amico...”.
“Piano, Ramon. La strada è ancora lunga, e in salita. Tu hai formulato un’espressione descrittiva, secondo le
regole delle Bedeutungskategorien, le categorie che presiedono alla condizione dell''avere un senso', secondo
le regole a priori della legalità linguistica.
A questo punto hai parlato al tuo amico. E gli hai fornito una prima informazione, e cioè che intendevi
condividere un’informazione: stavi compiendo un 'atto significante', un atto 'donatore di senso'. Qui poi viene
attraversato il piano della forma linguistica, che giunge al tuo amico. Ed ecco che lui è spinto a cercare, nel
suo vissuto, quale sia il possibile 'riempimento'. In sintesi: tu gli passi una 'forma', e lui scandaglia la sua
Erlebnis per trovare qualcosa che le corrisponda, che vada dentro perfettamente a quello stampo. Trovato il
'contenuto riempiente', ecco la saturazione del processo: la forma è ora dotata del suo contenuto. Che
tuttavia non sarà mai la tua rappresentazione di partenza, ma una selezione dal 'suo' vissuto di quanto di
meglio si adatti alla forma oggettivizzante che ha fatto da tramite nella dimensione linguistica. Dalla
semantica di A, di partenza, si giunge a come B si rappresenta la semantica di A. La supposta simmetria tra
parlante e ascoltatore è una pura finzione”.
Quel che Ramon temeva si stava puntualmente avverando; che fatica seguire la teoresi pura di Husserl,
l'analisi fenomenologica..
L'arcivernice: Husserl, al di sotto della visione ingenua - parte
seconda (settantesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-husserl-di-sotto-visioneingenua--parte-seconda-settantesima-puntata-4088932590.shtml
99
Il gatto, nel frattempo, aveva smesso la manovra di avvicinamento, era saltato
su una calda sedia di paglia, e si era appallottolato nella tipica modalità fetale.
Forse aveva intuito che si parlava di lui, e voleva tenersi a distanza da simili
complicazioni...
“Allora, Maestro, quel che passa, il “significato”, è una specie di mediazione, un'astrazione da quanto di
diverso hanno i singoli gatti, in modo che si crei una nozione “negoziabile” con altri?”.
“Di nuovo non bisogna semplificare. L'aspetto che hai individuato è corretto, ma parziale: è uno dei modi di
oggettivazione. Ma non è il solo. O quanto meno, si può dare in molti modi. Intanto, dopo l'atto
d’intenzionamento, io posso passare attraverso il piano dell'indicalità, o quello della descrizione, o attraverso
entrambi. Dipende se ricorro a degli indici o a dei segni: vi può essere un processo 'individuante' ma non
descrittivo, o, in un certo senso, denotativo. Si dà quando faccio ricorso agli indici, anziché ai segni. Se io ti
dico 'Dammi quella lì', indicando la penna sul tuo tavolo, ho individuato benissimo l'oggetto, attraverso la
ostensio ad oculos, e tu mi capisci. Ma non ho detto niente della penna, anzi, non ho neanche detto che è una
penna. Ma posso anche dire: 'Dammi la penna blu che è sul tavolo alla tua destra'; e qui l'ho 'espressa'
descrittivamente. Ma posso anche fare ricorso a entrambi gli indicatori: 'Dammi quella penna blu lì che è sul
tavolo'. Per questo io ho introdotto la distinzione tra segno espressivo e indice.
Che cos'è un indice, se non un marcatore di diversità? Prendi una formula matematica: in ai + aj che funzione
hanno gli indici i e j? Come vedi, j non denota: ti dice soltanto 'prendi l'a che ti pare, purché non sia quello di
prima, ai'. Vedi bene che non è banale, il triangolo semantico, sia quello aristotelico che quello stoico, non
basta più. I momenti del comunicare, il determinarsi dell'espressione, della 'lexis', per la quale andrà trovato
un soddisfacente 'lektòn', dictum, espresso, ma che sarà quello dell'ascoltatore, non del parlante, sarà il suo
'contenuto riempiente', è processo articolato e complesso. Per questo va distinto l'Anzeichen, indice,
dall'Ausdruck, segno espressivo. Non basta più il triangolo, che tra l'altro non rende conto delle asimmetrie: i
piani coinvolti sono almeno cinque”.
“Maestro, ammetto di essere confuso; ci devo pensare”.
“Questo è tipico della filosofia, Ramon. Io lo dicevo ai miei allievi: non solo leggere e scrivere, ma 'pensare' è
il luogo del conoscere. Lo studio è necessario, ma la riflessione lo è altrettanto, se non di più. Per questo i
tempi incalzanti e contingentati di tanti corsi accademici, così detti 'intensivi', che finiscono nell'arco di un
mese, sono inadeguati per certe discipline: se anche le ore di lezione sono le stesse di quelle di un corso
annuale, essi non danno ai discenti modo di pensare, cioè di capire e assimilare pienamente”.
“Ma quando avrò ripensato a tutto questo, Maestro, sarò padrone del mistero del 'significato' ?”.
“Ramon, la strada è lunga, ed è in salita. Prendi la parola 'io'; qual è il suo 'significato'? e cosa 'denota'? È del
tutto chiaro che se tu dici 'io' il denotatum è Ramon, mentre se lo dico io il denotatum è 'Husserl'. Allora
come la mettiamo? Il denotatum è 'fluttuante'. E tuttavia, per un altro verso, potremmo dire che il significato
di 'io' è sempre: 'colui che parla'; dunque c'è un'invarianza di significazione, altrimenti il processo di
oggettivazione si perderebbe nel caos. Io chiamo queste 'espressioni essenzialmente occasionali'. Se io dico
'oggi piove' e 'il 27 novembre piove', c'è un momento nel tempo, il 27 novembre appunto, in cui i due
enunciati sono equivalenti. Ma la magia della corrispondenza dura lo spazio di un giorno, il giorno dopo l'una
potrà essere vera e l'altra falsa. E questo vale per una vasta classe di espressioni, ogni volta che c'è un
rimando a uno dei fattori dell'atto linguistico: 'io, tu, oggi, ieri, qui, ora ecc.'; vedi come il significato si
complica...”.
“Maestro, ma, aggiunta quest’ulteriore complicazione, quando avrò interiorizzato tutto questo, potrò dire di
avere compreso il significato di 'significato'?”
“Non ancora, Ramon, ma ti sarai messo sulla giusta strada; perché l'indagine non muore mai. Ora ti devo
lasciare, Ramon; spero di averti trasmesso più della rappresentazione di un gatto. Ora ti lascio il tempo per
pensare...”.
Il gatto, nel frattempo, aveva smesso la manovra di avvicinamento, era saltato su una calda sedia di paglia, e
si era appallottolato nella tipica modalità fetale. Forse aveva intuito che si parlava di lui, e voleva tenersi a
distanza da simili complicazioni: ribanalizzando, il mettere a disposizione la sua rappresentazione gli pareva
contributo più che sufficiente.
Si era alzato un po' di vento, e dal giardino si sentiva che gli alberi avevano preso a sussurrare. Ramon pensò:
come avrebbe catalogato Husserl quel discontinuo, coinvolgente sussurro? Meglio non complicare
ulteriormente le cose...
100
L'arcivernice: L’eterno ritorno e l’interpretazione
(settantunesima puntata) di Maurizio Matteuzzi
dei
sogni
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-l-eterno-ritorno-linterpretazione-sogni-settantunesima-puntata-4089663999.shtml
“Ecco, questi accostamenti credo che si possano fare; così, Ramon, tu capisci per
un attimo cosa era Apollo, il Dio che mandava i sogni, è l’inconscio, e ha anche il
senso d’inconscio collettivo. All'altro capo della scala dei viventi troviamo la
bestia, e la bestia che cos’è? È il senso di colpa collettivo”.
Ma in fondo perché no? Un filosofo vicino, troppo vicino anche emotivamente; ma uno dei pochi dal
pensiero originale, non uno dei tanti replicanti del secolo scorso. Proviamo.
“Maestro, La linea e il circolo, perché?”.
“Tu chiamami Enzo, e io ti chiamo Ramon; altrimenti devo darti del ‘lei’, perché sempre le persone
devono avere pari dignità; e io do del ‘lei’ solo alle persone che non sopporto.
Ma vengo alla tua domanda. La linea, l'escatologia, il progresso verso un telos, ad esempio la dottrina
cristiana: si va verso i ‘novissimi’, verso il giudizio universale, c’è un punto di proiezione nel futuro che
dà senso al vissuto. Oppure il circolo, Vico, l'eterno ritorno di Nietzsche, l'anno cosmico dei presocratici
e di Platone, il tornare e ritornare sull'eterno presente. Perché nell'eternità tutto si deve
necessariamente ripetere, prima o poi. Dunque, il dilemma: la linea o il circolo?”.
“E la soluzione? Ehm... Enzo?”
“La soluzione non c'è. Trovala tu, Ramon, se puoi. L'aporia sta nella contrapposizione antitetica di due
paradigmi esplicativi, coerenti in sé, e che tutto spiegano entrambi, ma nell'ambivalenza dell’ontologia
seconda, o, se vuoi della semantica”.
Ramon era stato avvisato, il suo prof. glielo aveva detto: Melandri parlava in melandrese, non in italiano.
A dir la verità, parlava bene anche in francese, in inglese, in tedesco ecc.; ma sempre in una lingua tutta
sua, che provocava più di un crampo mentale. Ramon si fece forza, rimandando ogni riflessione a un
momento successivo, e riprese:
“Il sottotitolo rimanda all'analogia. Che c'entra, Maes... Enzo?”.
“Ana – logos; qui logos è prima di tutto ‘rapporto’; uguaglianza di rapporto, di relazione. Analogia come
inferenza: ‘a’ sta a ‘b’ come ‘c’ sta a ‘x’, e allora devo scoprire ‘x’; oppure analogia come metafora,
come potere semantico e immaginifico: l'erba ondeggia. Cioè: come le onde sul mare, così l'erba sul
prato...; le onde stanno al mare come l'erba sta al prato: ci sono sempre quattro termini in relazione
conforme. Come quando dico che la coppa sta a Dioniso come la spada sta a Ermes; per cui posso dire
che la coppa è la spada di Ermes. E allora si apre la via per la scoperta della conoscenza: che cosa
manca perché si riformi l'equilibrio, dove sta la ‘x’? Ecco la logica della scoperta. Non è molto diverso
da quanto dice Hofstadter”.
101
Ramon era un ragazzo intelligente, e portato per la filosofia; ma si sentiva completamente perso. E
decise di andare avanti e di riflettere solo in seguito.
“Enzo, so che hai tenuto un corso molto profondo sugli stoici. Che c'entrano gli stoici? Io ne ho tratto
solo una dimensione pratico-morale, poca o nulla teoresi...”.
“Questo dipende dalla tradizione latina, da Cicerone e Seneca, che hanno tratto dagli stoici ciò che era
più consono alla mentalità assai ‘pratica’ dei romani. Ma la scuola stoica ha una teoresi assai profonda e
articolata. Che prevalentemente è andata persa. Per gli stoici la conoscenza è il viaggio
dell’informazione di senso fino all’inglobamento nel pensiero: viaggio, viatico, trapasso continuo.
Se la conoscenza la poni invece come un’istanza separata dal reale, se la mente non è il corpo, hai la via
platonica. Vedila attraverso il mito: Apollo è il Dio che manda i sogni. Aristotele dice che i sogni
vengono o dalla cattiva digestione o risultano dalle combinazioni delle vicende della vita quotidiana o ci
sono mandati dal Dio. Apri ‘L’interpretazione dei sogni di Freud’ e leggi che i sogni vengono dalla
cattiva digestione o derivano dalle faccende della vita quotidiana, o vengono dall’inconscio. Nessuno
che abbia recensito la ‘Traumdeutung’ ha notato che inizia come il libro di Aristotele.
Ecco, questi accostamenti credo che si possano fare; così, Ramon, tu capisci per un attimo cosa era
Apollo, il Dio che mandava i sogni, è l’inconscio, e ha anche il senso d’inconscio collettivo. All'altro capo
della scala dei viventi troviamo la bestia, e la bestia che cos’è? È il senso di colpa collettivo”.
“Cosa devo studiare, allora, per diventare filosofo, Maestro, Enzo?”.
“Chi lo sa, Ramon; tutto, tutto, o niente. L'importante è che tu pensi, di continuo, ossessivamente, fino
a soffrirne...”.
Melandri si tolse gli occhiali dalla montatura metallica, se li pulì con un fazzoletto, lo faceva sempre,
per la sua forte miopia. Diceva che si era rovinato gli occhi leggendo tanto...
L'arcivernice: I personaggi in-esistenti (settantaduesima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-personaggi-inesistenti-settantaduesima-puntata-4091640591.shtml
“La zia di Euclide, Tomas di Kùndera e i sei personaggi di Pirandello, era giusto
e legittimo che non esistessero? Ex-sistere, stare fuori dall’essere... Ma l’essere
cos'è, se non le infinite possibilità che sono in noi? Pirandello dice che l’uomo è
tanti, uno per ciascuna possibilità di essere che è, o è stata, in lui”.
Nel periodo delle vacanze ci si risveglia come in un acquario, come dice Cardarelli, ancorché non sia estate. el
periodo delle vacanze ci si risveglia come in un acquario, come dice Cardarelli, ancorché non sia estate. Non
c'è l’ansia del “dovere fare qualcosa”, del “dovere essere là alla tal ora”. Il tempo sembra, all’improvviso,
vuotarsi. Ed ecco che Ramon provava lo “straniamento”, quel malinconico disagio dell'essere in un mondo
sospeso, dai processi interrotti, nella ricerca di un “senso”. A parte il poltrire, che cosa si potrebbe fare oggi?
102
Dare un'occhiata a qualche libro, per esempio. Ramon si mise a leggere, senza verve, ma sedotto da quella
vacuità del dovere e dalla pigrizia del tempo senza scansioni, un libro che aveva sul tavolo, regalo di Natale.
“La nonna di Pitagora” un po' lo incuriosiva; ma entro quella situazione mentale ovattata, in cui i rumori del
mondo esterno risultano attenuati, quasi un sottofondo lontano, entro la quale non si vuole fare lo sforzo di
uscire dall'ottundimento della coscienza e dalla sospensione della battaglia dell'essere. Così leggeva, ma
quasi senza “capire”, cioè non preoccupandosi di ogni sottesa semantica.
L’idea di ricorrere all'arcivernice, tuttavia, non lo abbandonava mai. E così, Ramon cercò di “sverniciare” la zia
di Euclide. Spalmò lentamente, con cura. Era pronto con tante domande: l’età ellenistica, quel clima, la
biblioteca, il museo, quel periodo spesso degradato a semplice sistemazione e rielaborazione, che viceversa
doveva essere stato, culturalmente, così grande e così immenso...
Ramon attese un po': non succedeva niente! Il personaggio non si animava, non prendeva forma, non
compariva. Qual era l’inghippo? L’arcivernice aveva perso i suoi poteri? Ma no, non poteva essere questo il
problema.
Ramon ci pensò un po' su, e la soluzione non tardò a venire: Euclide non aveva zie. Semplicemente e
banalmente, la zia di Euclide non era mai esistita, e pertanto non poteva essere richiamata a un'esistenza che
non le apparteneva.
Ma allora, che senso aveva tutto il libro che stava leggendo: zie, nonne e monaci inesistenti? E qui si soffermò
sulle ricchissime variazioni linguistiche: in-esistenti; prima spiegazione, in privativo: che non esistono; inesistenti; seconda spiegazione: che esistono dentro, che sono “in”.
Qui gli venne in mente un argomento che tante volte aveva sentito dal suo prof, e che verosimilmente
discendeva da Melandri. Supponiamo che si scopra che, storicamente, Aristotele non credesse nel principio di
causalità come principio di ragione, o nella teoria della potenza e dell'atto. Che significa, cosa ne dobbiamo
dedurre? Semplicemente, che quello stagirita non aveva capito Aristotele!
Supponiamo che si dimostri che Cristo, come figura storica, non credesse all’immortalità dell'anima, cosa ne
dovremmo concludere? Che Cristo non aveva capito Cristo. C’è un Aristotele che ha scandito l’ordine del
pensiero dell’umanità. Che importa se il signor Aristotele, di Stagira, non abbia proprio detto, scritto, o
pensato così? Fosse anche, sarebbe un pre-aristotelico!
Così pensò Ramon, e gli vennero i brividi. Sono più reali le categorie del pensiero o gli uomini, con le loro
miserie? Il sein o il dasein, l’essere o l’esserci? L’hic et nunc del singolo, o il pensiero su cui si è ragionato,
discusso, sofferto e concluso per migliaia di anni? Diciamoci la verità, che ne sapeva Aristotele
dell’aristotelismo?
Tutto ciò diede a Ramon una profonda sofferenza intellettuale. Siamo parte della vita, di un essere
impersonale che si dispiega e prescinde dalle nostre private, spesso anguste, trascurabili passioni private; o
siamo individualità pura, egoità, esser-io ora e qui? E quale tra esse ha il diritto d’aspirare all'immortalità,
l’essere come componente della “vita” o l'essere come individualità personale?
I fiori, le api, i rami, le piante secolari, le grandi idee guida, da una parte; il “particulare” guicciardiniano
dall’altra. E, nel mezzo, tanta ansia metafisica per lo scollamento tra il sein e il dasein...
Ma ora il punto che sorse nella mente di Ramon era un altro.
La zia di Euclide, Tomas di Kùndera e i sei personaggi di Pirandello, era giusto e legittimo che non
esistessero? Ex-sistere, stare fuori dall’essere... Ma l’essere cos'è, se non le infinite possibilità che sono in
noi? Pirandello dice che l’uomo è tanti, uno per ciascuna possibilità di essere che è, o è stata, in lui. E
Kùndera aggiunge che il personaggio non nasce dal grembo materno, ma dalla divinazione delle possibilità di
essere non percorse in vita dall’autore. In questo senso ogni personaggio letterario è una biografia in un
mondo possibile nel senso di Kripke.
Qualcuno ha dato vita alla zia di Euclide, altri all’ippogrifo. Pur non essendo occorsi in questo mondo, non
sono tuttavia qualcosa, dove il qualcosa è diverso dal nulla? L’uomo con l’epitelioma, nome di fiore e di
morte, non è un archetipo plausibile? La questione, filosoficamente, si sposta dalla modalità de dicto alla
modalità de re. C'è un’intrinseca “possibilità” di essere? Perché se sì, questi personaggi, non più in cerca
d’autore, ma che l’autore l’hanno trovato, come fai a metterli alla porta, magari per un semplice incidente
storico?
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L'arcivernice: L’uomo a una dimensione (settantatreesima puntata)
di Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-uomo-una-dimensionesettantatreesima-puntata-4093376738.shtml
“Quale migliore occasione per sfruttare una volta di più il suo miracoloso
strumento, per far rivivere forse il più noto, il più influente pensatore,
nell’ambito del sociale, del secolo scorso, l’icona dei movimenti studenteschi:
Herbert Marcuse?”
La servetta tracia, che ride della dabbenaggine di Talete, così distratto da non sapere neanche passeggiare. E,
all'opposto, il Talete che sfrutta la sua conoscenza per fare incetta di olive, e si arricchisce. Due tradizioni
opposte. Chissà qual era quella vera. Ma, pensò Ramon, in fondo non era importante; nel senso che erano
vere entrambe, non tanto per Talete individuo, ma per il sapiente in generale. C'è il pensatore distaccato, che
vive in un mondo tutto suo, nella famosa “torre d'avorio”, che vive cioè nell’atarassia, nell’imperturbabilità
rispetto alle cose del mondo. E per converso c'è il pragmatista, o lo scienziato, che agisce sul mondo per
dominarlo, per incidere il più possibile su di esso. Ecco, Ramon si sentì, così, inadempiente rispetto alla
formazione della sua cultura: aveva sempre avuto a modello il primo caso, aveva privilegiato il conoscere,
filosoficamente il problema gnoseologico, mettendo in parentesi la dimensione sociale dell’esserci in questo
mondo. E se è vero che tale mondo sta nel pensiero, è altrettanto vero che ogni pensiero effettivamente
pensato è un accadimento del mondo; il pensiero sta a sua volta nel mondo. Formalmente, sono dunque due
insiemi infiniti, gli suggeriva una reminiscenza cantoriana. Era comunque il caso di allargare l’indagine, di
collocare qualche conoscenza della dimensione pratica, politica e sociale entro la propria preparazione. Quale
migliore occasione per sfruttare una volta di più il suo miracoloso strumento, per far rivivere forse il più noto,
il più influente pensatore, nell’ambito del sociale, del secolo scorso, l’icona dei movimenti studenteschi:
Herbert Marcuse?
“Ecco il punto da cui partire, da Freud: la civiltà sostituisce il ‘principio del piacere’, connaturato all'uomo, con
il ‘principio di realtà’, teso a controllarlo e infine a inibirlo; e l'uomo impara a reprimere le proprie pulsioni, o
quanto meno a differirle, sublimandole in attività socialmente omologate, in prima istanza il lavoro, che
diviene condizione di accettazione sociale”.
“Dunque Freud aveva già capito tutto, Maestro...”.
“No Ramon; ho detto che questo è il punto da cui partire, non il punto d’arrivo. Freud sbaglia nell’accettare
questa sostituzione come inevitabile, e connaturata con il concetto stesso di ‘società’; ma non è così: tutto
ciò avviene non di necessità, o per scarsità dei beni materiali. Avviene piuttosto a causa di un’organizzazione
del tutto irrazionale, e di una divisione dei beni drammaticamente iniqua. Questo tipo di convivenza non è
assolutamente una necessità sociale, non è l'unico possibile, né tanto meno il migliore. È il frutto
dell'industrializzazione capitalistica; e ha come conseguenza che le stesse categorie svantaggiate, come la
classe operaia, si riconoscono negli stessi valori borghesi, che altri amministrano a loro danno. E così l’uomo,
spogliato dei suoi istinti, non è più tale, ma diventa semplice ‘consumatore’, vale in quanto elemento di
mercato, e in proporzione a quanto può ‘comperare’. Potremmo dire che l'uomo, quest’uomo
monodimensionale, è ciò che compra. Ad esso la società, così come è organizzata, in cambio
dell’accettazione d’appartenenza, chiede ‘prestazioni’, in modo crescente, creando conformismi e inducendo
bisogni virtuali o psicologici, che non avrebbero ragione di essere”.
104
“Ma la via d’uscita è allora il capovolgimento del sistema, per intenderci, una qualche forma di ‘comunismo
reale’?”
“Purtroppo no, Ramon; perché il meccanismo è il medesimo: anche i regimi che si definiscono ‘democratici’
creano bisogni artificiali, avendo accettato il modello che ho spiegato sopra. E l’esito diventa dunque di
nuovo quello della repressione delle pulsioni, e infine dell’inibizione di qualsiasi reale opposizione; e diviene
così fatale la trasformazione in totalitarismo”.
“Ma cosa rimane allora al filosofo? Per citare Lenin: ‘che fare?’”
“La filosofia si rifugia nella divinizzazione del linguaggio, o nella constatazione empirica del dato; pensa in
primis alla così detta ‘filosofia analitica’, Ramon; non v’è niente in tutto ciò che possa incidere sul mondo
reale, tutto quel che si può fare è aspirare ad averne una replica fedele nelle nostre teste. E diviene chiara,
allora, la vera lacuna. Ciò che manca è ‘l’immaginazione’. Ecco il punto, si dovrebbe avere ‘l’immaginazione al
potere’. Ma questo stimolo non può essere ritrovato nelle organizzazioni politiche tradizionali, come ho già
detto l’uomo a una dimensione è comunque pre-omologato. E allora le idealità costruttive vanno ricercate in
coloro che non sono ancora stati fagocitati, in quelli che, proprio in quanto ‘emarginati’, sfuggono alla morsa
del conformismo: i perseguitati, i disoccupati, i disperati”.
“Maestro, ma le forze in campo sono impari. Come sperare che siano i più deboli, i reietti, a sconvolgere il
mondo, a razionalizzare la società?”
“Certo, essi da soli non possono farlo; ma forse da essi può essere attinta quella consapevolezza che sposti
gli equilibri sociali interni, e non esterni, e tale consapevolezza può far presa, prima o poi, su strati
socialmente importanti o politicamente organizzati, come ad esempio i sindacati”.
Ramon capiva bene come Marcuse fosse diventato l’icona del sessantotto; e coglieva nelle sue parole in modo
molto netto l’influenza del socialismo utopistico ottocentesco, ma anche certi stilemi heideggeriani; si ricordò
che Marcuse aveva studiato anche sotto la guida di Heidegger. Strano connubio, marxismo, socialismo
utopistico, esistenzialismo, ma anche, per esplicita dichiarazione dello stesso pensatore, hegelismo. Si risolse
a chiedere lumi su quest’astrusa convivenza di visioni del mondo tradizionalmente incompatibili. E cominciò:
“Ma come far convivere, Maestro, entro questa visione di un ‘eros’ che non è solo freudiano, ma è amore del
bello, e della vita, come far convivere...”
Ma si accorse che la ieratica figura era ormai un fantasmatico drappeggio di luci e di ombre.
L'arcivernice: Gli occhi di Euclide (settantaquattresima puntata) di
Maurizio Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-occhi-euclide-settantaquattresimapuntata-4094639201.shtml
“Fu così che gli venne naturale pensare a Euclide, e al suo libro immortale.
Euclide, di cui non si sa quasi nulla. Euclide, colui che ha scritto il libro più
edito, e più diffuso, dopo la Bibbia. Esempio di perfezione, scultoreo paradigma
delle scienze esatte da duemilaetrecento anni. Euclide... qualche icona pure si
trovava, non si sa quanto autentica, eppure l’arcivernice, una volta di più,
funzionò”.
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Ramon stava leggendo un articolo di “Le scienze”, e ne stava traendo una forte impressione: “La ricostruzione
di 4000 anni d’incroci fra i popoli basata sulle tracce genetiche che hanno lasciato permette di osservare le
conseguenze di grandi eventi storici, ma anche di trovare tracce di avvenimenti per i quali non esistono
documenti: dal ‘lascito’ dell’esercito di Alessandro Magno agli abitanti dell’Hindu Kush a quello dell’Orda
d’oro in Bulgaria” [1]
Da un lato pensava a quanto le scoperte sul genoma umano, e sulla genetica, gettassero nel ridicolo ogni
forma di razzismo; e gli venne anche da sorridere a pensare che il DNA di un uomo e quello di un orango
coincidono per il 99%... Chissà di quanto differisce il DNA di un razzista, si ritrovò a pensare, rispetto
all’orango.
Ma un’altra cosa lo colpiva. La spedizione di Alessandro. Segmenti di genoma europeo ritrovati in popolazioni
montane, relativamente isolate, come il Kalash, incastonato nelle alte montagne del lontano Pakistan. Quanto
incredibile fu quel capitolo della storia! Là, in quel posto remoto, probabilmente qualche centinaio di uomini,
che avevano seguito Alessandro per migliaia di chilometri, a piedi, dopo infinite battaglie, dopo interminabili
assedi, dopo centinaia di saccheggi e di scontri, stremati, distrutti, decisero di dire un addio alla patria, a
tutto il loro mondo, al passato, e di fermarsi una volta per tutte, per sempre. Quale enorme sconvolgimento
di tradizioni, di contatti, di culture diverse si irradiò nello spazio di pochi anni in tutto il mondo! E da qui
quante altre cose conseguirono. L’ellenismo, la scoperta della logica di altre lingue, la scoperta della
grammatica stessa, la nascita di una grande, seconda civiltà egiziana. Già, Alessandria, la città di Alessandro,
con il suo Museo e la sua gigantesca biblioteca.
Fu così che gli venne naturale pensare a Euclide, e al suo libro immortale. Euclide, di cui non si sa quasi nulla.
Euclide, colui che ha scritto il libro più edito, e più diffuso, dopo la Bibbia. Esempio di perfezione, scultoreo
paradigma delle scienze esatte da duemilaetrecento anni. Euclide... qualche icona pure si trovava, non si sa
quanto autentica, eppure l’arcivernice, una volta di più, funzionò.
Non era prestante nella figura, ma una cosa colpiva: gli occhi, mai fermi, vivacissimi, di una mobilità quasi
ferina, che parevano guardare tutto e tutto vedere. Occhi che vedevano figure perfette, che avevano accesso
non a una cosa quadrata, ma al “quadrato in sé”, come aveva detto Platone; occhi che trascendevano le linee
fisiche e imprecise tracciate sulla sabbia, e al di là di esse vedevano quelle che Husserl avrebbe chiamato
essenze, e gli Accademici avevano chiamato “idee”. E i prolungamenti inesistenti delle linee, e i punti
d’incontro di linee immaginarie, lunghezze senza larghezza, quanto dimeno possa esistere in questo mondo.
E superfici senza spessore; e, più ancora e soprattutto, punti senza dimensione: “punto è ciò la cui parte è il
nulla”. L’uomo che ha portato la geo-metria, da tecnica empirica di misurazione della terra, a strumento di
pura razionalità intellettuale. Un monumento alla scienza, una assieme all’introduzione del metodo
galileiano, delle due svolte epocali nella storia della conoscenza scientifica.
“Maestro, gli storici ancora non si spiegano l’unicità, la particolarità, l’eccezionalità degli ‘Elementi’, il libro
dei libri per uno scienziato... Come nacque, come venne l’idea, perché non ci sono manuali alternativi,
malgrado l’intensità e il livello degli studi dei Greci in geometria?”.
“Ramon, un libro come il mio è una liberazione, è il superamento di una sofferenza. Tu non hai idea di quanti
testi di geometria esistessero ai miei tempi. E per quanti anni ho studiato, pensato, sofferto, sui trattati di
tanti sommi autori, prendi Eudosso come esempio. E io volevo mettere tutto, fare il punto, dunque nulla
doveva andare perso, dalla geometria alla teoria dei numeri, a tutta la matematica. Non crederai, come
purtroppo i più, che il mio ‘Tà Stoicheia’ contenga solo la geometria. Guarda il decimo libro, e la trattazione
dei numeri primi, ad esempio. La sofferenza, ma anche la definitiva soddisfazione, sono state enormi. Da un
lato non potere trascurare niente, dovere studiare tutto, dall’altro sistematizzare, recuperare la coerenza
interna, mettere il tutto in forma assiomatica...”.
“Ma alla fine la cosa è riuscita nel migliore dei modi...”.
“Mah, nel modo migliore, mi auguro, per le condizioni date. E poi dovevo fare i conti con due monumenti del
pensiero, Platone e Aristotele, cioè, non solo con la scienza, ma anche con la filosofia della scienza. E allora,
ecco, io ho assunto una visione platonica quanto all’esistenza degli enti matematici, ho cercato di inserirmi,
se vuoi di sublimare, la grande tradizione eleatico-platonica, in specie quanto alla ‘esistenza ideale’ degli enti
matematici; dall’altro, non potevo non fare i conti con la magistrale lezione dei Secondi Analitici nella
organizzazione di una ‘scienza deduttiva’. Ho rovinato la mia vista a studiare, giorno dopo giorno, notte dopo
notte...; e ciò che ne uscito rispecchia fedelmente il dettato del sommo Aristotele, nella suddivisione dei
principi in ‘termini’, o, come si dice oggi, definizioni, ‘postulati’, o ‘aitemata’, ovvero le assunzioni specifiche
della disciplina, e ‘assiomi logici’, o ‘nozioni comuni’, ‘koinai ennòiai’, principi logici comuni a più scienze, il
dettato dei secondi analitici. Esempio del primo tipo: ‘punto è ciò che non ha parti’; e ‘linea è lunghezza
senza larghezza’. Esempi del secondo tipo: ‘per due punti passa una sola retta’; ‘per un punto passano
infinite rette’. Esempi del terzo tipo: ‘somme di parti uguali sono uguali’.
106
Pensa al terzo, Ramon: come ben si capisce, non vale solo in geometria; lo stesso sarebbe se i nostri oggetti
fossero numeri. La nozione, cioè, è ‘comune’ a più scienze, ovvero non si applica solo a quello che noi
chiamavamo ‘genere sottoposto’, e voi ora ‘universo del discorso’, o, se vuoi, ontologia regionale”.
“Maestro, ma per chi ti schieri, gli enti matematici sono ‘dianoetica’, cioè conoscenza razionale, subordinata
alla ‘noesis’, la conoscenza diretta delle idee, come dice Platone, o sono conoscenza noetica, posta al sommo
della piramide della razionalità, cui basta essere presenti, in quanto ‘predicabili secondo verità di più cose’,
quanto basta perché si dia la verità, come dice Aristotele, che con questo ritiene di potere ‘dare un calcio alle
idee’?”.
“Ecco, in questo io vorrei essere un ‘matematico’, pur rispettando la filosofia e soffrendo in essa. Ed è
innegabile che il matematico privilegia il fatto che tutto formalmente torni, che la coerenza sia assicurata. Io
non mi sono voluto schierare, in questa diatriba che ancora oggi in ben pochi colgono. Ho assunto
un’esistenza platonico-parmenidea degli enti di ragione a cui dedicavo i miei sforzi, e pagato il mio tributo a
Platone. Di più, ho concluso la mia fatica con i corpi platonici del Timeo; ma ho pagato altrettanto tributo ad
Aristotele, costruendo un impianto teoretico assolutamente aristotelico. Più di tanto non potevo fare, almeno
con le mie forze. Aggiungo che ho seguito il monito aristotelico di muovermi sempre sull’infinito potenziale,
e mai attuale, secondo le indicazioni della ‘Fisica’ di Aristotele; ho parlato di segmenti prolungabili piuttosto
che di ‘linee infinite’; guarda il teorema sull’infinità dei numeri primi, nel decimo libro degli ‘Elementi’: non
dico mai che 'vi sono infiniti numeri primi', ma piuttosto che, dato un numero primo, se ne può sempre
trovare uno maggiore: infinito in potenza; come vedi: ho sempre un numero finito di cose davanti, anche se
non c'è limite all’aggiunzione. Credo di avere pagato il conto a entrambi. Se poi mi chiedi come la penso io,
be’...”.
“Be’...?”
“Vedi, io credo...”
La voce stessa svaniva, diventava sempre meno percepibile, fioca e alternata a silenzi totali, come parole
cancellate. E Ramon capì che non avrebbe mai saputo la risposta. Della figura, gli ultimi a svanire furono gli
occhi, quegli occhi consumati da una fatica enorme, e tuttavia ancora vividi, traboccanti di un’infinita
curiosità.
Di nuovo solo, nella sua cameretta, gli venne naturale portarsi le mani alle tempie, piegarsi leggermente sul
tavolo, e pensare. La geometria, per oltre 10.000 anni misurazione della terra, attività dunque empirica, fatta
con corde annodate (da cui il ‘nodo’ come misura di lunghezza); e l’accumulo di esperienze, lo scrutare le
regolarità e le invarianze, tesaurizzare l’esperienza. Poi, come dice Aristotele nella chiusa dei ‘secondi
analitici’, ecco che interviene il ‘nous’, ecco che si colgono i primi principi, con un atto di
intellettualizzazione. E allora si verifica il passaggio questo sì epocale, quel che ora chiamiamo
‘euclidizzazione’: il campo del sapere si trasforma da attività di misurazione, da sapere empirico, con
semplice raccolta di dati, a scienza assiomatica. E la domanda che gli si presentò con prepotenza, quasi
inevitabile per chi si ponga in un’ottica epistemologica, non poteva che essere: ma questo è un fenomeno
unico, che riguarda solo le scienze matematiche, o è il percorso naturale del sapere? L’uomo accumula
nozioni per millenni, entro una scienza empirica, e infine ‘coglie i primi principi’, e il corpus di quel sapere si
trasforma in scienza deduttiva. Ci sono esempi all’infuori della matematica? Mah, forse qualcosa del genere si
può dire per la meccanica razionale; ma non certo per la fisica in generale, o per la chimica, o per la biologia.
Ma ecco il punto: quei saperi sono intrinsecamente empirici, e tali saranno per sempre, oppure noi stiamo
percorrendo quelle migliaia, quelle decine di migliaia di anni, di osservazioni, di sforzi razionali, che
consentiranno un giorno di renderli assiomatici? Ramon pensò che bastava aspettare: nella considerazione
del tempo la filosofia superava tranquillamente anche quella dei geologi... Che poi il singolo individuo, allora,
sarà morto, cosa cambia? Bisogna imparare a distinguere il transeunte dall’eterno, se si vuole pensare
davvero.
107
L’arcivernice: Filastroccare (settantacinquesima puntata) di Giulia
Jaculli
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-filastroccare-settantaqcinquesimapuntata-4095112361.shtml
Questo mi fa ricordare... Sì, proprio Virginia Woolf concepiva la letteratura
come ordine, da contrapporre al disordine della vita. Ma io non sono sicura che
sia così, penso mentre percorro la strada che separa la mia casa da quella di
Ramon tanto diversa, avvolgente.
Carnevale a Bologna: vorrei che fosse “leggero”. Carnevale a Bologna: vorrei che fosse “leggero”.
Beckett aveva scritto con le matite colorate gli originali delle sue Mirlitonnades, cioè le poesie “da quattro
soldi” (le mirliton è il piffero, in francese). Con penne e pennarelli di tante sfumature di colori. E aveva scritto
quegli originali su cartoncini e fogli arcobaleno, su un sottobicchiere, un orario dei treni, sull’etichetta di
un’allegra bottiglia... filastroccate. Già, filastroccare... E invece qui, in questi giorni di carnevale, c’è come una
tristezza secca e asciutta, quest’anno, come di chi si consegna ormai indifeso al mondo, e al suo significato.
Architetture che smottano, come per questi non previsti mutamenti improvvisi, alterazioni che sacrificano
senza pietà la logica, l’unità della forma.
Già, è carnevale anche in questo sprofondo. Però siamo in attesa, come dice Isaia, “di nuovi cieli e nuove
terre”.
Vorrei trovare la chiarezza, un po’ d’ordine.
Questo mi fa ricordare... Sì, proprio Virginia Woolf concepiva la letteratura come ordine, da contrapporre al
disordine della vita. Ma io non sono sicura che sia così, penso mentre percorro la strada che separa la mia
casa da quella di Ramon tanto diversa, avvolgente.
“Opaca, quieta intimità”, così Virginia una volta aveva definito la sua vita di scrittrice. Ma lei avrebbe avuto un
istinto anarchico, tenuto a bada da una devozione formale che però sfarfallava di continuo. Decisioni
normalizzatrici: aveva forse voluto costruire dei fortini intorno all’instabilità mentale che la minacciava fin
dall’infanzia. Quanti giardini, perciò, nella sua vita, quante finestre a riquadri di legno bianco, e poi la vista di
una chiesa contro le colline.
In casa di Ramon lei, Virginia, si presenta di spalle, il gesto congelato mentre ancora guarda fuori dalla
finestra. Così assente-presente, lei, inafferrabile, ma è proprio lì, e guarda dalla finestra quasi che fuori ci
fosse tutto il mondo. Anch’io allora seguo quello che lei vede, e anch’io mi sento per un po’ in quella sua
solitudine di viandante smarrito.
Forse ho formulato i miei pensieri ad alta voce? Perché lei lentamente si volta verso di me.
Virginia ha un viso ascetico: si dice mai, del viso di una donna? Certo ha sempre bandito il superfluo, con uno
stile privo di espressioni esagerate. Ascetismo deriva da ascesi: rigore, morigeratezza, perciò rinuncia,
deprivazione della corporeità. Ma “può” una donna essere priva di qualcosa che da fuori viene spesso sentito
proprio come una provocatoria corporeità?
“Rivoluzionaria solo nella narrativa!” Con una voce armoniosa Virginia Woolf sembra rispondere a queste mie
domande ancora mute. “Per il resto avrei voluto la discrezione, senza l’inutile agitarsi” mi dice, infatti.
“Ma forse” le rispondo sottovoce, dubbiosa “nella scrittura bisogna anche non cadere in eccessi di
discrezione, essere invece generosi, anche quando si è alle prese con terribili trame. Bisogna liberarsi, e che
le forme chiuse si sciolgano e si avverta, fantastica, la vita...”.
“Io ero ossessionata” lei ribatte “da quel sentirmi dentro una vita instabile, e quando tutto trema intorno a
noi...”. Per un momento non parla, come se le si fosse spezzato anche il respiro.
Frammentazione e transitorietà, e ansia di ricomporle e di fermarle, penso.
“Sì”, rispondo poi a quell’immagine pallida, esangue, aristocratica: “Per te, e perfino nel tuo tempo, il sentirsi
era incerto, come adesso per noi. Un panorama sconvolto, sghembo, tutto il crollarti intorno delle cose. E
allora tu, Virginia, provi a fermarti e cerchi di conoscere l’anima. L’interno, quindi, della vita. È questa
l’avventura che t’interessa”.
108
“Come scrittrice rifiuto lo ‘spaventoso metodo’ dei realisti [1]. Un disegno d’insieme mi sfugge, non riesco a
dare unità all’esperienza, mi riaffiorano solo i suoni, le impressioni, le immagini, le sensazioni tattili e visive”.
“Così tu cambi le forme del pensiero, il modo dello scrivere, non credi che il senso della vita sia chiuso da una
trama di eventi, non puoi, non vuoi farlo; così trasformi in modo radicale l’arte del narrare”.
“La forma si ricava dalla libertà, Giulia, non si subisce dai fatti che succedono”.
“Ma per te è una continua battaglia contro le forze estranee. Frammentazioni. Un continuo bisogno di
conquistare la misurata unità. Non è vero, Virginia?”
Alzo lo sguardo, e lei è già di spalle un’altra volta, congelata in quel gesto che la condanna. Sembra che si
allontani sempre giù, verso un fiume, il cappotto pesante, le tasche già piene di pietre. E le sue scarpe
affondano pian piano nella fanghiglia dell’argine.
Meglio filastroccare, è carnevale.
**
Note:
[1] Cfr. Nadia Fusini, “Possiedo la mia anima”, Arnoldo Mondadori, Milano
L’arcivernice: Approva - e sarai sano - Obietta - e subito pericoloso
(settantaseiesima e ultima puntata) di Giulia Jaculli e Maurizio
Matteuzzi
http://www.educationduepuntozero.it/racconti-ed-esperienze/arcivernice-approva--sarai-sano--obietta-subito-pericoloso-settantaseiesima-puntata-4096815907.shtml
Voltaire; che uragano. Che vita intensa, dal tripudio delle corti più importanti
d’Europa alla Bastiglia, di nuovo allo sfarzo, e di nuovo agli arresti, e sempre in
virtù, o a causa, delle proprie idee. La sottile ironia, o il pesante sarcasmo, il
sapiente sberleffo; la derisione di ogni forma di superstizione; lo sfottò verso la
tirannia; l’arguzia dialettica del disincanto. Ramon temette Voltaire.
Assent – and you are sane
Demur – you’re straightway dangerous
(Emily Dickinson)
Risveglio precoce di Ramon, la testa piena di cose, la prova inconfutabile di aver sognato. Riprendere,
nella veglia, quasi un discorso interrotto, riannodare un esile filo. La questione dei diritti inalienabili.
Così si smarca Locke da Hobbes: il pactum subjectionis non può riguardare tutto. C’è qualcosa che deve
rimanere comunque alla persona. E questo è il senso del liberalismo. Strano modo di svegliarsi che,
tuttavia, a volte succede. Ramon si ritrovò a costatare che pensava in italiano, e non in spagnolo; per la
prima volta. Un po’ la cosa gli fece piacere, un po’ lo spaventò. Gettò a Giulia un’occhiata carezzevole
che scivolò su di lei mentre dormiva. L’Io come fascio di percezioni?
109
Che cosa è inalienabile? A cosa, neanche volendo, ho il diritto di rinunciare, per pagare l’obolo
dell’omologazione sociale? Ramon continuava a rimuginare in silenzio. La libertà di opinione, di culto, di
espressione... l’esser io; questo non è negoziabile, non esiste una plausibile contropartita.
Mentre la moka borbottava il primo caffè della giornata, Ramon non riusciva a staccarsi da questo pensiero, il
diritto all’espressione, la facultas dicendi, come costituente essenziale del darsi come essere umano. Quanti
gli esempi in contrario, quanti gli attentati nella storia... E gli divenne chiara una distinzione fondamentale:
c’è un divieto fattuale, fisico, materiale, grezzo in definitiva; e ce n’è un altro ben più pericoloso, subdolo,
inafferrabile da parte della vittima, quello che inibisce a monte l’ideazione stessa dell’opinione, quello che
distorce e altera i presupposti, in modo che le alternative neanche affiorino al livello di coscienza: il “lavaggio
del cervello”. E la tragedia è che non se ne ha contezza, ci si crede immuni, si pensa, ingenuamente, che valga
solo per gli altri, che non ci riguardi.
“Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu potessi esprimerla”; frase divenuta il manifesto della
tolleranza, e della libertà d’espressione. Attribuita comunemente a Voltaire; in realtà dovuta a E. Hall, nella
biografia del filosofo “The friends of Voltaire”.
Voltaire; che uragano. Che vita intensa, dal tripudio delle corti più importanti d’Europa alla Bastiglia, di nuovo
allo sfarzo, e di nuovo agli arresti, e sempre in virtù, o a causa, delle proprie idee. La sottile ironia, o il
pesante sarcasmo, il sapiente sberleffo; la derisione di ogni forma di superstizione; lo sfottò verso la tirannia;
l’arguzia dialettica del disincanto. Ramon temette Voltaire. Quali caustiche battute avrebbe saputo
contrapporre alla sua ingenua curiosità? Indugiava pertanto sull’icona, dubbioso. Mentre non aveva esitato a
evocare i più grandi pensatori, qui la volontà vacillava. Gli venne da raccontare a Giulia i suoi pensieri, i suoi
dubbi, quindi si mise a declamare ad alta voce: “Come avrebbe reagito un Voltaire ai vincoli editoriali? Tante
battute o niente? Meglio la Bastiglia..., e che le battute siano millanta, tutto quello che è in me!”
“La legge che interdice. Il Super-Io...”. Giulia sorride lentamente, svegliandosi “L’esperienza del limite”.
Per seguire Ramon nel suo pensiero Giulia avrebbe voluto accarezzare, con il pennello dell’Arcivernice, la
libertà, l’ansia di vita, l’opposizione negli occhi di Allen Ginsberg: quegli occhi si sarebbero messi a luccicare
in mezzo a tutti i capelli.
Quindi, dato che il suono del mondo è ancora povero, anche lei, Giulia, avrebbe voluto sperimentare altri
suoni. I vecchi suoni, le intensità sonore, possono trasformarsi. Si sa, ad esempio con i chiodi piegati, i tappi,
le viti, pallottole di carta e altri oggetti messi sopra e fra le corde del pianoforte, come faceva John Cage.
Oggetti messi lì, ma con finezza di gesti. E se è povero il suono del mondo, così, nella libertà dell’armonia,
così cambierà il ruolo di ogni nota. E così ogni suono può inarcarsi, può torcersi, spaziare fuori dal limite e
dal segno, e rimanere inciso per sempre nelle strutture uditive, con la sua nuova forza emulsionata. Ma poi
non si dovrà chiedere chi ha sparato al pianista...
“La preparazione del pianoforte è già storia, anche se ancora adesso sembra a molti un azzardo
imperdonabile, un disturbo, perfino una forma di follia”. Già, Allen Ginsberg avrebbe letto nel pensiero di
Giulia, come hanno sempre fatto tutti i personaggi dell’Arcivernice. E avrebbe poi proseguito: “Beat vuol dire
appunto ‘diverso’, ma per scelta. Storto, rispetto alla ‘dirittura morale’ degli obiettori di coscienza di ogni
tempo. Scelta di estraneità rispetto al mondo. Sì, Giulia, l’operazione è già storica, basta essere capaci di
gestire l’autonomia, prendersi le responsabilità”.
“Beat vuol dire anche ritmo”, avrebbe aggiunto Giulia timidamente, “suonare la vita con una forza forse
incontrollata. Anche per te la libertà di espressione urge alle spalle”.
“Per me sono stati chiamati stuoli di esperti di letteratura! E poi un giudice. Già, le mie parole erano storte,
andavano giù di traverso, difficili da digerire!”
Qui nella stanza di Ramon le finestre oggi sono ben chiuse, e le tende tirate. E Giulia si ritrova a dire
sottovoce, come in una visione tossicomanica: “Spesso anche uno solo, un solo giudice spesso è anche di
troppo...”. Ramon alza la testa dal suo caffè fumante.
“A Giordano Bruno misero un morso” borbotta, come le avesse letto anche lui tutto il pensiero: “perché non
potesse urlare al suo tempo e ai posteri la sua verità; Voltaire invera il contrapposto antitetico, seppure
virtuale, dell’accadimento, non certo del pensatore. E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù, dice il poeta.
Quando a Lord Russell, già novantaduenne, capitò che una candela desse fuoco ai bordi del suo letto, egli,
nel chiamare aiuto, ebbe lo spirito di citare Voltaire: “vedo già le fiamme dell’inferno che mi attende”...
Bel capitolo questo, che accomuna Giulia e Ramon nella richiesta di potersi affidare alla vita uscendo dal
bozzolo verbale dell’obbedienza a certi codici.
110
“Per l’uguaglianza, la tolleranza, la pace, la difesa dei deboli, degli animali, il rifiuto di ogni integralismo
superstizioso, della pena di morte, forse vale davvero la pena di andare all’inferno...” riprende infatti con foga
Ramon.
Forse la libertà ha un sapore di angoscia, Giulia si sta dicendo nella mente. Per tanti è meglio restarsene nella
stessa location. Best-selleracci, come dice Roversi. Tutto succede in un tempo preciso, in un luogo questo e
non altro. Come una quieta scena casalinga, come gli interni borghesi di un fondalino TV qui non si
addensano le nubi della Storia.
È stato uno degli inverni più miti che Giulia si ricordi, metà febbraio sembra l’inizio di primavera.
Maurizio Matteuzzi (1947) insegna Filosofia del linguaggio (Teoria e sistemi dell'Intelligenza Artificiale) e Filosofia
della Scienza presso l’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente
logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse
per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle
categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca.
Tra le sue ultime pubblicazioni: L'occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del
second'ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano
Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata
to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005), La teoria della forma, Roma 2012. Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi
programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha
collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST
(Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche
di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia. È tra i promotori del gruppo dei
«Docenti Preoccupati»
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• L'arcivernice: Ramon incontra il suo professore (cinquantaseiesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L'arcivernice: La linea più breve tra due punti è l'arabesco (cinquantasettesima puntata), di Giulia
Jaculli
• L'arcivernice: Un pianoforte e una matita stretta tra i denti (cinquantottesima puntata), di Giulia Jaculli
e Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: Ramon e le ombre (cinquantanovesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L'arcivernice: Non ci sono più quei bei cretini di una volta (già rimpianti da Sciascia) (sessantesima
puntata), di Giulia Jaculli
• L'arcivernice: Un breve excursus entro lo Spirito Assoluto (sessantunesima puntata), di Maurizio
Matteuzzi
• L'arcivernice: L’innominato (sessantaduesima puntata), di Giulia Jaculli
• L'arcivernice: Ramon difende la filosofia (sessantatreesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L'arcivernice: Infinitologia (sessantaquattresima puntata), di Giulia Jaculli
• L’arcivernice: Guardando fuori dalla finestra (sessantacinquesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L'arcivernice: Proust, ad esempio (sessantaseiesima puntata), di Giulia Jaculli
• L'arcivernice: Ogni cosa a suo tempo... (sessantasettesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L'arcivernice: ... ed è subito sera (sessantottesima puntata), di Giulia Jaculli
• L’arcivernice: Husserl, al di sotto della visione ingenua - parte prima (sessantanovesima puntata), di
Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: Husserl, al di sotto della visione ingenua - parte seconda (settantesima puntata), di
Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: L’eterno ritorno e l’interpretazione dei sogni (settantunesima puntata), di Maurizio
Matteuzzi
• L’arcivernice: I personaggi in-esistenti (settantaduesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: L’uomo a una dimensione (settantatreesima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: Gli occhi di Euclide (settantaquattresima puntata), di Maurizio Matteuzzi
• L’arcivernice: Filastroccare (settantacinquesima puntata), di Giulia Jaculli
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