Smarrimenti e ricomposizioni di Vinzia Fiorino Introduzione In un

Transcript

Smarrimenti e ricomposizioni di Vinzia Fiorino Introduzione In un
Smarrimenti e ricomposizioni
di Vinzia Fiorino
Introduzione
«Ahi ragazzi, ragazzi, il dopoguerra…»
Il male la corruzione il caos dilagano, dilagano. Sorgono nuovi profeti e banditori di dottrine: noi non
abbiamo da temere, noi fortunati, abbiamo l’Istituto con i padri. Che importa vincere o perdere una guerra?
Importa il dopoguerra: vincere e vinceremo il male e il dopoguerra. Il segreto è la purezza.
VINCENZO CONSOLO, La ferita dell’aprile
In un appunto del 1944, lo storico della letteratura Carlo Dionisotti, torinese e vicino
al Partito d’Azione, rifletteva sulla sua esperienza di guerra e annotava come essa avesse
causato un distacco tra gli individui e lo Stato così preoccupante da far riemergere la
dimensione ferina e spietata dell’uomo. La guerra rappresenta un ritorno alle origini,
ossia, con le sue parole:
un richiamo alle forze prime, una responsabilità amplissima e una disponibilità altrettanta di
iniziative e di fatti, come di necessità accade quando si allentino o dissolvano addirittura i legami inibitori e
assicurativi delle leggi, e dei patti. S’aggiunga che forse mai come in questa guerra […] l’individuo è stato
sommesso a un maggior cumulo di sacrifici, di privazioni, di dolori, è stato per così dire, frugato e straziato
nell’intimo, giorno per giorno, fisicamente e moralmente, senza che nell’autorità costituita potesse scorgere
una difesa, anzi prospettandoglisi essa o strumento o tramite o coefficiente della violenza e dell’iniquità1.
Il tema della devastazione morale e psicologica ricorre e attraversa prepotentemente
molta della memorialistica sulle guerre, così come molta della migliore letteratura italiana
che ha incrociato l’esperienza del secondo conflitto mondiale: da Italo Calvino a Carlo
Levi, da Beppe Fenoglio a Luigi Meneghello2.
Carlo Dionisotti, Prospettive e concetti della guerra. L’individuo, in Id., Scritti sul fascismo e sulla
Resistenza, a cura di Giorgio Panizza, Torino, Einaudi, 2008, pp. 87-88.
2 In riferimento al primo conflitto mondiale, rimando a due classici sul tema: Paul Fussel, La grande
guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 2000 e Eric J. Leed, Terra di nessuno: Esperienza bellica e identità
personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979. Cfr. anche: Giovanna Procacci, Soldati e
prigionieri italiani nella grande guerra, con una raccolta di lettere inedite, Roma, Ed. Riuniti, 1993; Antonio Gibelli,
La grande guerra degli italiani: 1915-1918, Milano, Sansoni, 2001; Id., L’officina della guerra: la grande guerra e le
trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991; Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di
guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Roma, Bulzoni, 2001. Sul secondo dopoguerra,
ancora Paul Fussell è autore di uno dei testi più importanti sul tema: Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e
1
5
Il nesso tra esperienze di devastazione (umana, psicologica, materiale) e voglia di
ricomposizione (morale, politica, sociale) è al centro delle pagine che seguiranno; tale nodo
mi è sembrato, infatti, il principale campo di interesse nell’analisi del biennio 1946-47, sia
pur affrontato in un’area territoriale molto delimitata. Accanto ad una enorme povertà
materiale, la perdita dei beni immateriali è quella che colpisce ancor di più. Per la prima, il
cinema e i romanzi ci hanno restituito gli interni domestici spogli e fatiscenti, come pure le
macerie e i casamenti squarciati dalle piogge di bombe. Analogamente, fonti visuali e
archivistiche, oltre che le ricchissime testimonianze orali, si soffermano a lungo su questi
aspetti. Per i secondi, il discorso è più sottile e sfumato e sono ancora una volta soprattutto
il cinema e la letteratura a restituirci il clima generale di una società allo sbando3: le perdite
morali, in termini di affetti perduti, di sistema di valori stravolti, se per un verso fa
muovere verso grandi spinte ideali e verso l’utopia di una costruzione di un mondo
migliore, per un altro costituisce il terreno di fondo per un surplus emotivo che può
generare un certo rilassamento morale e tanta voglia di dimenticare presto la guerra, di
non elaborare il lutto per le perdite subite. All’indomani del secondo conflitto mondiale, i
delitti contro la persona aumentano ed aumentano in modo sensibile; questo è sempre
accaduto dopo un’esperienza bellica ed accade in proporzioni maggiori, ovviamente, nel
secondo dopoguerra dopo un conflitto che ha inciso pesantemente, più degli altri conflitti
precedenti, sulla vita quotidiana dell’intera popolazione. Si uccide facilmente, come si
vedrà, e le notizie di omicidi avranno un’eco contenuta e susciteranno una emozione
altrettanto modesta, proprio perché di routine. Ci muoviamo, quindi, in grande continuità
con la folle ebbrezza che l’esercizio della violenza è stato capace di innescare durante il
conflitto mondiale; in continuità, quindi, con la grande confidenza maturata verso le armi,
che restano comunque sempre facilmente reperibili4.
Colpisce, inoltre, lo scarso interesse che circondano i racconti e le memorie di guerra.
Si ha una gran voglia di voltar pagina, e di farlo velocemente, anche perché il modello
americano, che, nonostante l’autarchia e l’esasperato patriottismo fascista, era ampiamente
circolato nel corso del ventennio, nel periodo della guerra era penetrato ancora più
profondamente, alimentando nuove aspettative: una sempre maggiore centralità e
rilevanza dei beni materiali, una perversa attrazione per le molteplici fonti di
arricchimento, un’aspettativa di vita incentrata sulla leggerezza, il divertimento, i
consumi.
Il sentimento di freddezza quando non di fastidio che circonda i reduci, il
disinteresse per i racconti di guerra dei testimoni, la volgare euforia (naturalmente ben
comprensibile) per i facili guadagni (legali o illegali che siano) sono elementi importanti
che formano il complesso mosaico esistenziale del dopoguerra.
cultura nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1991; per una prospettiva di più lungo periodo:
Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989.
3 Per il cinema, cfr. Gian Pietro Brunetta, Il cinema legge la società italiana, in «Storia dell’Italia
repubblicana», vol. II: La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 781-844.
4 Cfr. Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Roma, Carocci, 2001 (ed.
orig. 1999). Cfr. anche Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide: le guerre civili in età contemporanea,
Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Marcello Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano, Feltrinelli 2005 e Susan
Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2003.
6
Eppure questo mondo non è il solo, ma convive con altri che, viceversa, restano
fortemente connotati da istanze morali, voglia di ricostruzione e di ricomposizione.
Quest’ultimo è anche il mondo dei nostri intervistati; tutti protesi ad edificare un futuro
migliore, spinti da una radicata moralità5, mossi da un entusiasmo senza pari per la
democrazia, la partecipazione politica, la libertà; un entusiasmo che si intreccia
indissolubilmente con una grande attenzione ai bisogni del prossimo e, talvolta, anche alle
ragioni degli altri.
Disarmonie per l’appunto; smarrimenti, sui quali vale la pena soffermarci ancora un
attimo.
Insofferenza per i racconti di guerra, indifferenza per i reduci, euforia per i beni
materiali, ma anche voglia di ricostruzione sulla base di ferrei valori (la famiglia innanzi
tutto) sono al centro di un’opera che a mio avviso meglio di altre ci ha restituito il clima
del secondo dopoguerra: è Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo, scritta nel 1945 e
subito messa in scena per la prima volta al San Carlo di Napoli. Un’opera che è diventata,
nel tempo, un po’ una presenza consolidata nel panorama storiografico sul dopoguerra6. Il
protagonista, Gennaro Jovine, è un tranviere disoccupato, che, al suo rientro, preoccupato
per la grave malattia della figlioletta, rivolgendosi alla moglie Amalia, dice:
Ama’, nun saccio pecché, ma chella creatura ca sta llà dinto me fa penza’ ‘o paese nuosto. Io so’
turnato e me credevo ‘e truva’ ‘a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente.
Ed invece trova la moglie dedita al contrabbando, il figlio che ruba i pneumatici delle
automobili, la figlia che si prostituisce e resta incinta di un soldato americano; lei spera che
lui la sposi, ma immancabilmente il soldato ritornerà al suo paese. Aggiunge Gennaro:
“Chesta, Ama’, nun è guerra, è n’ata cosa […] ccà nisciuno ne vo’ sèntere parla’. Quann’io turnaie ‘a
ll’ata guerra, chi me chiamava ‘a ccà, chi me chiamava ‘à llà. Pe’ sape’, pe’ sèntere ‘fattarielle, gli atti eroici
[…] Ma mo pecchè nun ne vonno sèntere parla’? […] pecché ‘e carte ‘e mille lire fanno perdere ‘a capa… Tu
ll’he’ accumininciate a vede’ a poco ‘a vota, po’ cchiù assaie, po’ centomila, po’ nu milione…E nun he’ capito
niente cchiù…Guarda ccà. A te t’hanno fatto impressione pecché ll’he’ viste a ppoco ‘a vota e nun he’ avuto
‘o tempo ‘e capì chello ca capisco io ca so’ turnato e ll’aggio viste tutte nzieme”7.
La commedia va al centro di tutte le problematiche più interessanti del dopoguerra:
si ha voglia di cambiar pagina, Gennaro non ha interlocutori nei suoi racconti di guerra,
quell’esperienza che comunque - in osservanza ad un radicato stereotipo - l’ha fatto sentire
Uso il termine moralità nella concettualizzazione data da Claudio Pavone: la reazione avuta da
coloro che hanno voluto rispondere e reagire agli avvenimenti del loro tempo con giudizi e scelte personali
(viceversa il termine morale rinvia ad un più personale ed individuale dato di coscienza): si veda Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Cfr. anche Mario Mirri,
Moralità e Resistenza: contenuto ed esito politico di «una guerra civile», in «Società e Storia», a. XVI, n. 60, 1993,
pp. 368-425.
6 Ne parlano: Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal
dopoguerra agli anni ’90, Venezia, Marsilio, 1992, in particolare pp. 11-43; Nicola Gallerano (a cura di), L’altro
dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, Milano, Franco Angeli, 1985; Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I
reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
7 Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!, Torino, Einaudi, 1979, p. 69 e p. 98.
5
7
più compiutamente uomo8. E perché accade tutto ciò? Intanto perché prevalgono interessi
nuovi, l’euforia per il denaro, ad esempio, dice Gennaro alquanto estraniato. Lui trova un
mondo del tutto diverso, dove il bisogno materiale si mescola ad una esplosione di vitalità
e a nuovi stili di vita che comportano continue deroghe a una rettitudine morale, che
viceversa aveva impregnato il suo mondo.
A differenza dell’altra guerra, della seconda nessuno vuole sentire parlare. Perché è
stata la guerra voluta dal fascismo, perché si è persa, perché prevale la voglia di cambiare
pagina. I reduci, come Gennaro, non hanno pace. La dissolvenza della figura del reduce è,
infatti, quanto mai significativa: essa è percepita come una figura in contiguità con la
società civile e dal momento che la seconda guerra mondiale ha acquisito un carattere
totale, tanto che è stata superata qualsiasi distinzione tra civili e militari, il reduce è una
figura in dissolvenza9. La seconda guerra mondiale è stata combattuta da tutti: di ciò si ha
piena consapevolezza e dunque la specificità dell’esperienza di chi è stato arruolato negli
eserciti risulta del tutto sfocata10. Di incomunicabilità e di risentimento, quasi mai di spinta
alla fraternizzazione e alla solidarietà, parla infatti Silvio Lanaro proprio perchè tutti, a
vario titolo, sono stati costretti a diventare combattenti11. Sulle spinte associative dei
reduci, poi, era così fresca la memoria del primo dopoguerra che tempestivamente fu
vietata la creazione di organizzazioni di ex combattenti, dispositivo poi confermato da
opportune normative.
L’aspetto che vorrei sottolineare è comunque un altro; si delinea una sorta di
biforcazione importante: per un verso, i reduci e comunque una parte della società italiana
non riesce a non fare i conti con la guerra e rielabora l’elemento luttuoso e catastrofico che
essa ha rappresentato. Nuto Revelli coglie perfettamente questo tratto:
“La guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che riprende a sanguinare non appena la
tocchi. E’ lì che tutti i reduci vorrebbero arrivare subito, sono sempre i ricordi di guerra quelli che più
urgono, che tendono ad esplodere”12.
Per un altro verso, il desiderio di rimozione del tragico, che, come ho già detto, è
quello che più diffusamente attraversa il corpo sociale, sarà “facilitato dal mito americano
che non fu solo una moda passeggera”13.
E già, sarà proprio così. Non credo, infatti, sia possibile riflettere sul secondo
dopoguerra senza pensare a quell’accelerazione che la diffusione del mito americano ebbe
da quando gli Alleati si presentarono a liberare il paese con le bombe e la cioccolata, con
Cfr. George Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi,
1997 (ed. orig. 1996).
9 Sul tema rinvio all’ampio studio di Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze
naziste. Napoli e il fronte meridionale (1940-44), Torino, Bollati Boringhieri, 2005. Cfr. anche Bruna Bianchi (a
cura), La violenza contro la popolazione civile nella Grande Guerra; deportati, profughi, internati, Milano, Unicopli,
2006.
10 Cfr. Agostino Bistarelli, La storia del ritorno, cit.
11 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit. p. 10.
12 Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi, 1977, p. 32.
13 Sofia Giardino, Il cinema e il racconto della società italiana tra dopoguerra e boom, in «Archivi e cultura»,
XXXIV, 2001, pp. 47-81.
8
8
l’occupazione e le sigarette. Il mito americano ha origini più antiche: nelle sue
articolazioni, positive e negative, esso era già diffuso prima della Grande Guerra,
soprattutto nella declinazione di Terra Promessa, e aveva forse alleviato le sofferenze di
tanti migranti. L’America era entrata già nel primo decennio del ‘900 nell’immaginario
femminile anche grazie alla diffusione di opere quali Piccole Donne di Louisa M. Alcott o La
Fanciulla del West di Giacomo Puccini, con la proposizione di figure femminili
anticonformiste14.
Durante il fascismo, la penetrazione dei film, dell’industria cinematografica e dei
modelli culturali provenienti dagli Stati Uniti avvicina, nonostante tutto, l’Italia fascista
agli altri paesi europei. Il regime peraltro non riuscì mai a diffondere una cultura popolare
alternativa al cinema, al ballo e al fumetto americano15. Il secondo conflitto mondiale
accelera questi processi. In questa fase l’America compie in Italia una grandiosa
operazione di marketing; attraverso gli aiuti materiali nella congiuntura di guerra si
veicolano infatti idee di prosperità, di facili ricchezze; si veicola soprattutto un assioma
semplice: la felicità si fonda principalmente sulla maggiore disponibilità di beni16.
Naturalmente non si sfugge alla complessità di questi processi: l’aureola di liberatori
spesso non dura a lungo, anzi talvolta si sgretola del tutto e rinvigorisce atteggiamenti
contrari17. Ma, sul lungo periodo, quell’assioma, nella sua irriducibile povertà, sarà
trionfante.
Qui, però, giungiamo ad una seconda polarizzazione all’interno del corpo sociale,
che vorrei evidenziare. La società dell’immediato secondo dopoguerra da un lato appare
molto affascinata dallo stile di vita americano; i processi di “americanizzazione culturale“
restano forse ancora solo prevalentemente immagini e desideri, sollievo alle difficoltà
quotidiane, ma talvolta diventano aspirazioni concrete, quando non comportamenti
perseguiti. Dall’altro lato, vi è un’altra Italia, fermamente coerente con il sistema culturale
e morale tradizionale: a questa Italia appartengono in parte coloro che hanno scelto la lotta
partigiana, i molti che credono nel mito sovietico, quelli che si impegnano nelle attività
pastorali della Chiesa cattolica, i tanti che militano nei partiti politici. Alcuni di questi
vogliono “redimere” l’altra Italia, si oppongono alla spasmodica attrazione per i consumi e
i beni materiali, si preoccupano di ridefinire i nuovi miti e i nuovi simboli che dovranno
accompagnare la nuova Italia repubblicana. Altri, però, quell’altra Italia non la vedono
neanche. Spesso infatti sembrano due mondi incomunicabili, anzi che si ignorano a
Tra gli studi più interessanti sul tema, rinvio a: ISTITUTO GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA - Nemici per la
pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Milano, Franco
Angeli, 1991.
15 Rinvio sul tema ai fondamentali studi di Victoria De Grazia: Consenso e cultura di massa nell’Italia
fascista, Roma-Bari, Laterza, 1981 e Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993.
16 Cfr. l’ultimo lavoro di Victoria de Grazia, L’Impero irresistibile. La società dei consumi americana alla
conquista del mondo, Torino, Einaudi, 2006 (ed. orig. 2005). Sul tema cfr. anche Emanuela Scarpellini, Comprare
all’americana: origine della rivoluzione commerciale in Italia 1945-1971, Bologna, Il Mulino, 2001; Roberta
Sassatelli, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004; Stefano Cavazza e Emanuela Scarpellini (a cura
di), Il secolo dei consumi: dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, Roma, Carocci, 2006; Paolo Capuzzo,
Culture del consumo, Bologna, Il Mulino, 2006.
17 Per una fine analisi di questi processi, cfr. Pier Paolo D’Attorre, Sogno americano e mito sovietico
nell’Italia contemporanea, in Id., (a cura di), Nemici per la pelle, cit., pp. 15-68.
14
9
vicenda. Silenzi, incertezze, rimozioni sul tema accompagnano infatti significativamente le
interviste qui presentate. Questi silenzi rimandano ad una difficoltà importante: quella dei
partiti e del ceto politico (nell’accezione più ampia possibile, che comprende quindi anche
i militanti più attivi) a cogliere trasformazioni, aspirazioni e bisogni di una società in
grande fermento. Qui nasce una contraddizione che va al cuore della nostra democrazia
repubblicana e le cui origini, talvolta, nelle riflessioni storiografiche, sono state collocate
invece nei decenni successivi: una difficoltà del ceto politico a confrontarsi con le
aspirazioni e le attitudini mosse dai nuovi imperativi della dittatura dei consumi e dai
processi di massificazione e di omologazione18.
Alcuni testimoni del tempo, soprattutto coloro che nella vita hanno poi svolto
un’attività intellettuale, del dopoguerra ricordano l’impegno civile e politico, i progetti, le
tante forme di solidarietà. Altri ricordano la mancanza dei generi alimentari, la povertà, la
distruzione. Italo Bargagna, allora sindaco di Pisa, viceversa, fu tra i pochi esponenti del
ceto politico che già nel 1945 così fotografava il dopoguerra: vi era
un egoismo impressionante: ognuno pensava a sé ed egoisticamente cercava di risolvere il proprio
problema indipendentemente da quello della collettività e anche a danno di essa19.
Disarmonie, per l’appunto.
Questo testo muove da tre tipologie di fonti differenti: in primo luogo le fonti
archivistiche costituite principalmente dal fondo «Gabinetto di prefettura» relative al
biennio 1946-4720; in secondo luogo giornali, fotografie e manifesti politici con i quali il
testo cerca di porsi in costante interlocuzione21; le interviste, infine, raccolte nel dvd
allegato e realizzato da Francesco Andreotti, ampliano ulteriormente il panorama dei temi
affrontati, precisano e talvolta offrono un diverso punto di vista rispetto a quello fornitoci
dalle fonti scritte. In tutti i casi, ho cercato di porre in relazione queste tre differenti
tipologie di testimonianze del passato. Una recente ricerca di Carla Forti, più ampia per
problematiche affrontate, fonti utilizzate e area geografica presa in esame, ha costituito un
costante punto di riferimento22.
L’attenzione ai fatti minuti e agli episodi di microconflittualità mi ha permesso di
offrire un’ampia articolazione ed un ventaglio pieno di sfaccettature diverse dei problemi
che attanagliano il pur breve ma cruciale arco cronologico preso in considerazione. La
Cfr. ISTITUTO GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA - Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, a
cura di Luca Baldissara, Roma, Carocci, 2001.
19 Pisa e la Guerra, num. unico a cura dell’Unione Goliardica Pisana del 2 settembre 1945.
20 La ricerca archivistica è stata, con competenza ed acume, svolta dalla dottoressa Chiara Castaldi, che
qui ringrazio sentitamente.
21 La sezione relativa è curata da Alessandra Peretti, che in questo caso ha contribuito in modo
significativo alla realizzazione di tutto il quaderno, spingendosi con grande generosità ben oltre i compiti di
coordinatrice. La ringrazio con stima ed affetto.
22 Carla Forti, Dopoguerra in provincia. Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Milano, Franco Angeli,
2007.
18
10
prospettiva microanalitica, come sempre, ha fatto emergere aspetti e problemi rimasti ai
margini delle narrative storiche principali, mettendole in questo senso in discussione e
riproponendo una nuova lettura generale dei temi affrontati23. Ho dato spazio, infatti, a
molte storie minori - e forse marginali - che ci restituiscono, però, una visione diversa
rispetto a quella prevalente, fatta, talvolta, di accordi per redigere la Carta Costituzionale,
di relazioni tra le varie segreterie dei partiti, di interventi e sedute parlamentari. Ho quindi
puntato l’obiettivo su come la società sia uscita dalla guerra, dalla mobilitazione bellica e
dalla distruzione; non solo come ne siano uscite le istituzioni24.
Giovanni Levi, A proposito di microstoria, in Peter Burke, La storiografia contemporanea, Roma-Bari,
Laterza, 1993, pp. 111-134.
24 Una prospettiva analoga è stata intrapresa da Marco Mondini e Guri Schwarz, Dalla guerra alla pace.
Retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, Verona, Cierre edizioni, 2007.
23
11