programma di sala - Società del Quartetto di Milano

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programma di sala - Società del Quartetto di Milano
STAGIONE
2008-09
Martedì
24 febbraio 2009
ore 20.30
Sala Verdi
del Conservatorio
I Solisti di Pavia
Enrico Dindo direttore e violoncello
13
Consiglieri di turno
Direttore Artistico
Salvatore Carrubba
Alberto Conti
Paolo Arcà
Con il contributo di
Con il contributo di
Con la partecipazione di
Sponsor istituzionali
Con il patrocinio e il contributo di
Con il patrocinio di
È vietato prendere fotografie o fare registrazioni, audio o video, in sala
con qualsiasi apparecchio, anche cellulare.
Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo dopo la fine di ogni composizione,
durante gli applausi.
Per assicurare agli artisti la migliore accoglienza e concentrazione e al pubblico
il clima più favorevole all’ascolto, si invita a:
• spegnere i telefoni cellulari e altri apparecchi con dispositivi acustici;
• limitare qualsiasi rumore, anche involontario (fruscio di programmi, tosse…);
• non lasciare la sala prima del congedo dell’artista.
I Solisti di Pavia
Enrico Dindo direttore e violoncello
Felix Mendelssohn
(Amburgo 1809 – Lipsia 1847)
Sinfonia II per orchestra d’archi in re maggiore (10’)
Franz Joseph Haydn
(Rohrau 1732 – Vienna 1809)
Concerto per violoncello e orchestra in do maggiore
Hob.VIIb.1 (22’)
Intervallo
Pëtr Il’ič Čajkovskij
(Votkinsk 1840 – San Pietroburgo 1893)
Andante cantabile per violoncello e orchestra d’archi
(dal Quartetto op. 11) (6’)
Serenata per orchestra d’archi in do maggiore op. 48 (30’)
Il concerto è registrato da
Felix Mendelssohn
Sinfonia II per orchestra d’archi
in re maggiore
Allegro
Andante
Allegro vivace
Il 28 ottobre 1821 la sorella Fanny scriveva a Mendelssohn: «Com’è la tua attuale Minerva, il Prof. Mentore, soddisfatto di te? Spero (per parlare come un maggiordomo) che tu ti conduca correttamente, e che tu faccia onore all’educazione
della tua Minerva domestica. Quando vai da Goethe, spalanca gli occhi e le
orecchie, te lo consiglio, e se al ritorno non sarai capace di riferirmi ogni parola uscita dalla sua bocca, non saremo più amici.»
Fanny aveva sedici anni e poteva arrogarsi il diritto di trattare il fratello minore ancora come una sua creatura, benché l’accostamento delle due frasi lasci
trapelare l’invidia per l’eccezionale avventura intellettuale dell’incontro con
Goethe. La Minerva che si occupava ora di Felix era Carl Zelter, figura di spicco della vita culturale berlinese ed eminente maestro di composizione. La sua
familiarità con Goethe permise l’incontro del precocissimo allievo, un ragazzino
di appena dodici anni, con il poeta laureato della letteratura tedesca. La sbalorditiva natura musicale di Mendelssohn sbalza fuori con chiarezza da questo
breve passo della lettera, che rivela in quale particolarissimo contesto culturale e spirituale sia avvenuta la sua formazione. Il talento di Felix non era circoscritto alla musica, ma si estendeva a tutte le forme di espressione culturale. A
dieci anni Mendelssohn leggeva Cesare e Ovidio, a undici traduceva l’Ars poetica di Orazio. All’epoca della lettera, si divertiva a comporre un poema epico in
esametri dattili per il fratello Paul, mentre si esercitava a raffigurare all’acquerello la casa di Goethe. A nove si era esibito in pubblico per la prima volta come
pianista e a undici studiava sul violino gli esercizi del Kreutzer. Di quel periodo
intenso e laborioso rimane testimonianza in un gruppo di dodici sinfonie per
orchestra d’archi, scritte tra il 1821 e il 1823. L’intento pedagogico di questi lavori, che abbracciano un po’ tutte le trasformazioni stilistiche avvenute nella musica orchestrale della scuola tedesca del Nord, si legava allo studio del contrappunto, sul quale Zelter non transigeva. Mendelssohn, a soli dodici anni, mostrava di possedere già una coscienza artistica sviluppata, sapendo perfettamente
dove collocare il suo lavoro. In una lettera alla madre, infatti, racconta di aver
scritto “sei Sinfonie alla vecchia maniera, senza strumenti a fiato”. Il vecchio
stile consisteva appunto in un genere di sinfonia da camera in tre movimenti,
che a Berlino si era sviluppato in maniera originale rispetto agli altri centri
dello stile pre-classico, come per esempio Mannheim. Johann Gottlieb Graun
era stato la figura principale di questa tendenza, nella quale si era formato il
gusto sia di Zelter, sia della madre di Mendelssohn, Lea. Il carattere di studio
di questi lavori emerge anche dalla continua oscillazione, a mo’ di pendolo, tra
il linguaggio contrappuntistico e lo stile leggero del classicismo viennese. Nelle
prime sei Sinfonie, Mendelssohn si limitò a una scrittura a quattro parti, mentre
nelle successive arricchì il tessuto polifonico dividendo le viole in due gruppi.
Uno degli scopi di questi esercizi, animati dal soffio di uno spirito geniale, consisteva nel prendere la mano con la composizione della forma sonata. Zelter
aveva senz’altro in mente questo obiettivo, quando nell’estate del 1821 chiese a
Mendelssohn di scrivere la Sinfonia II in re maggiore. L’“Allegro” iniziale
esplora in forma sintetica la possibilità di combinare il percorso dialettico della
sonata con i mezzi tradizionali del contrappunto, in un impeto di energia che si
rinnova anche nell’animato movimento finale. In mezzo affiora un delicato episodio di carattere dolce e melanconico, rivelando il profondo legame di
Mendelssohn con la musica vocale, alla quale l’autore affidò sempre i pensieri
intimi del cuore.
Franz Joseph Haydn
Concerto per violoncello e orchestra
in do maggiore Hob.VIIb.1
Moderato
Adagio
Finale. Allegro molto
Haydn non fu un virtuoso della tastiera come Mozart o Beethoven. Il suo talento musicale trovò presto la strada per esprimersi tramite l’orchestra e le varie
combinazioni di strumenti richieste dalla musica da camera. La particolare
forma di dialogo richiesta dal concerto solistico risultava in qualche modo estranea al suo carattere, che privilegiava una retorica degli affetti più complessa
rispetto all’antagonismo tra il singolo strumento e l’orchestra. La produzione di
Concerti rappresenta infatti un capitolo tutto sommato minore dell’opera di
Haydn, che tuttavia ha scritto un discreto numero di lavori solistici per i più
svariati strumenti, compreso l’antenato del moderno contrabbasso. I due
Concerti per violoncello costituiscono forse la parte migliore del suo lascito e
sono tuttora presenti nel repertorio dei maggiori solisti. Le origini del Concerto
in do maggiore Hob.VIIb.1 rimangono incerte. Fino al 1961, allorché furono
ritrovate a Praga delle copie settecentesche delle parti, il Concerto si riteneva
perduto. Haydn aveva menzionato il lavoro nel catalogo delle sue opere, compi-
lato nel 1765, fissando così un limite temporale preciso alla composizione. Sulla
base di evidenze stilistiche il Concerto viene attribuito ai primi anni del servizio
di Haydn presso la casa Esterházy, tra il 1762 e il 1765, considerate le numerose analogie formali e linguistiche con le Sinfonie di quel periodo. Probabilmente
Haydn scrisse il lavoro per il violoncellista dell’orchestra, Joseph Weigl, eccellente virtuoso e anche buon amico. Haydn fu il padrino del figlio di Weigl,
Joseph, destinato a diventare a Vienna un famoso autore di Singspiel.
Lo stile concertante di questa musica dev’essere inquadrato nella specifica
situazione strumentale in cui è nata. L’orchestra del principe Esterházy era formata da un numero decisamente esiguo di musicisti, rispetto allo standard
attuale. Nei primi anni Sessanta l’organico poteva contare su sei o sette violini
in tutto, compreso il suonatore di viola. Il basso era formato da un violoncello,
un contrabbasso e un fagotto. In totale l’orchestra arrivava al massimo a una
dozzina di persone. In queste condizioni la scrittura del concerto assumeva
facilmente il carattere articolato e nervoso della musica da camera, con un dialogo serrato tra il solista e il gruppo. Il violoncello inoltre, essendo uno solo, era
costretto a suonare anche nel tutti, per rinforzare il suono dell’orchestra. In
pratica la trama della scrittura si limita alle quattro voci degli archi, con la coppia di oboi a raddoppiare le parti dei violini e la coppia di corni a sostenere l’armonia. Le virtù del solista vengono messe in luce con grande intelligenza nell’arco dei diversi episodi. Nel “Moderato” iniziale il violoncello, sicuro di sé, sviluppa una forma sonata pulita e armoniosa con molta energia. L’“Adagio”, nella
distesa tonalità di fa maggiore, esprime con molta serenità la dolcezza degli
affetti, con una splendida linea cantabile. Il “Finale. Allegro molto”, s’impone
per l’alto grado di difficoltà tecniche sia per la mano sinistra, sia per l’archetto.
A giudicare dalla scrittura di questo Concerto, il piccolo gruppo di musicisti al
servizio del Principe era di prim’ordine e non desta meraviglia che il linguaggio
strumentale di Haydn abbia avuto uno sviluppo così rapido, all’interno di un
simile laboratorio.
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Andante cantabile per violoncello e orchestra d’archi
(dal Quartetto op. 11)
Serenata
per orchestra d’archi
in do maggiore op. 48
Andante non troppo - Allegro moderato
Walzer
Élégie
Finale (Tema russo). Andante
- Allegro con spirito
Fin dal suo apparire, nel 1871, il Quartetto in re maggiore op. 11 venne salutato come un capolavoro, rivelando al pubblico internazionale la nascita in Russia
di un grande autore. Il successo del Quartetto era in gran parte dovuto all’effetto del bellissimo “Andante cantabile”, che elaborava una canzone popolare russa
particolarmente cara a Čajkovskij. L’Andante divenne ben presto un brano di
repertorio, che l’autore ebbe la ventura di ascoltare suonato da un’orchestra
d’archi in una birreria di Berlino, in mezzo al profumo dei crauti e della birra.
A questa pagina è legato anche il ricordo dell’unico incontro tra Čajkovskij e
Tolstoj, che ascoltò l’Andante con le lacrime agli occhi. Com’era costume del
tempo, una musica di successo veniva diffusa anche grazie alle trascrizioni, a
volte di mano dello stesso autore. Čajkovskij rimaneggiò la partitura nel 1886,
trasformando l’Andante in un brano per violoncello solista e orchestra d’archi.
Il timbro morbido e scuro del violoncello si prestava particolarmente bene a
esaltare il carattere melodico del tema, sapientemente trattato nella scrittura
di Čajkovskij.
«Ho scritto per caso una serenata per orchestra d’archi, in quattro tempi – raccontava l’autore nel 1880 alla sua protettrice Nadezna von Meck – Forse perché
è la mia ultima creatura o perché non è affatto male, l’amo moltissimo». “Per
caso” è un’espressione singolare, ma sta a indicare la mancanza di un progetto
preciso dietro la nascita della Serenata in do maggiore, uno dei lavori da sempre più amati di Čajkovskij. Dopo le tensioni emotive e l’intenso lavoro degli
anni precedenti, Čajkovskij aveva deciso di prendere un lungo periodo di riposo, ma cadde immediatamente preda di una delle fasi depressive che scandivano periodicamente la sua vita. Per trovare sollievo al senso di vuoto e di angoscia aveva progettato di scrivere una monografia su Mozart, ma alla fine decise
di lasciar perdere, perché dopo il lavoro critico di Otto Jahn sentiva che non
c’era più niente da aggiungere sul suo idolo. A Čajkovskij restava solo la musi-
ca, come sempre, per occupare il tempo e soddisfare il bisogno interiore di lavorare. All’inizio, come confessava all’amico Taneev, Čajkovskij era incerto se il
lavoro avrebbe preso la forma di una sinfonia o d’un quintetto d’archi. Il risultato fu una via di mezzo, ovvero un “pezzo in forma di sonatina”, come all’autore piacque di definirlo. È da sottolineare inoltre come la musica sia stata scritta in un momento di riflessione attorno alla figura di Mozart, che ha sempre
esercitato una notevole influenza spirituale su Čajkovskij. Nella Serenata convivono infatti gli elementi tipici della musica di Čajkovskij: da una parte la ricerca di una forma chiara e precisa, dall’altra l’espressione di un sentimento della
vita russo, nazionale, radicato nel cuore del popolo. Il pendolo di queste in parte
contraddittorie aspirazioni oscillava di volta in volta verso uno dei due principi,
trovando in qualche caso, come nella Serenata, una sintesi felice. Il primo movimento consiste in una tradizionale forma sonata, incorniciata come un’icona da
due pannelli laterali. Questi episodi sono separati dal corpo centrale da una
pausa di silenzio e costituiscono due solenni affermazioni della tonalità di do
maggiore, con una linea melodica che scende un’ottava per gradi congiunti.
Čajkovskij, refrattario per natura ai conflitti drammatici della sonata classica,
disegna una forma molto leggera, con uno sviluppo molto limitato e quasi privo
di elaborazione tematica. La definizione di Serenata si accorda con il carattere
immediato del lavoro, espresso con eleganza incantevole nel famoso “Walzer”,
uno dei più belli tra i tanti del suo catalogo. Ombre misteriose invece avvolgono
l’“Élégie” in un clima crepuscolare, che non viene dissipato dalla calda melodia
cantabile della parte centrale. L’armonia si rapprende in grumi scuri e densi,
che si sciolgono a fatica nel re maggiore della coda finale. La tonalità finalmente raggiunta svanisce in una nota acuta, un lieve re impalpabile come un alito di
vento, dal quale prende le mosse il “Finale”. L’introduzione lenta del movimento, in sol maggiore, costituisce un ponte verso il do maggiore dell’“Allegro con
spirito”, basato su un rustico tema di carattere russo, ma in realtà ricavato dal
disegno discendente iniziale della Serenata.
Oreste Bossini
ENRICO DINDO violoncello
Nato a Torino nel 1965 in una famiglia di musicisti, Enrico Dindo ha iniziato lo studio del violoncello all’età di sei anni diplomandosi presso il
Conservatorio G. Verdi della sua città. Si è poi perfezionato con Egidio Roveda
e Antonio Janigro.
Nel 1987 è stato invitato come primo violoncello solista dall’Orchestra del
Teatro alla Scala. Inizia così anche la stretta collaborazione con l’Orchestra
Filarmonica della Scala. Nel 1997 vince il primo premio al Concorso
Rostropovich di Parigi.
Da quel momento inizia la carriera da solista che lo porta ad esibirsi in moltissimi paesi, con le maggiori orchestre europee, americane e giapponesi al
fianco di direttori di primo piano tra i quali Riccardo Chailly, Aldo Ceccato,
Gianandrea Noseda, Myung-Whun Chung, Paavo Järvj, Valery Gergiev,
Riccardo Muti e lo stesso Mstislav Rostropovich.
È stato inoltre ospite di festival e sale da concerto in tutto il mondo: Londra
(Wigmore Hall), Parigi, Evian, Montpellier, Santiago de Compostela, Spring
Festival di Budapest, Settimane Musicali di Stresa, Festival delle Notti
Bianche di San Pietroburgo, Festival di Dubrovnik e Festival di Lockenhaus
su invito di Gidon Kremer.
Nel maggio 2000 ha ricevuto il Premio Abbiati dell’Associazione Nazionale
Italiana Critici Musicali come miglior solista nella stagione 1998/99, nell’agosto 2004 è stato vincitore assoluto della sesta edizione dell’International Web
Concert Hall Competition e nel novembre 2005 gli è stato consegnato dal
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il Premio “Vittorio De
Sica” per la musica.
Si dedica anche al repertorio contemporaneo; tra i compositori che gli hanno
dedicato loro opere ricordiamo Giulio Castagnoli (Concerto per violoncello e
doppia orchestra), Carlo Boccadoro (L’Astrolabio del mare e Asa Nisi Masa),
Carlo Galante (Luna in Acquario) e Roberto Molinelli (Twin Legends e
Crystalligence).
Nel dicembre 2001 ha fondato a Pavia l’Associazione Culturale “I Quattro
Cavalieri” di cui è direttore artistico e della quale fanno parte l’ensemble I
Solisti di Pavia, del quale è direttore musicale e l’Accademia Musicale di
Pavia presso la quale è docente di violoncello. Dal novembre 2005 è presidente
dell’Associazione Musicarticolo9.
Enrico Dindo incide per la Decca e suona un violoncello Pietro Rogeri (ex
Piatti) del 1717 della Fondazione Pro Canale.
È stato ospite della nostra Società nel 2000 e nel 2008 nell’ambito del festival
MiTo con l’orchestra da Camera di Mantova.
I SOLISTI DI PAVIA
Il 9 dicembre 2001 Mstislav Rostropovich accettava la presidenza onoraria
della neonata orchestra da camera I Solisti di Pavia, nata dalla passione di
Enrico Dindo e dall’impegno della Fondazione Banca del Monte di
Lombardia, del Comune di Pavia e del Teatro Gaetano Fraschini, ora riuniti
nella nuova Fondazione Teatro Fraschini.
In sei anni di attività I Solisti sono ora una realtà consolidata nel panorama
musicale sia italiano che estero. Nel giugno 2002 hanno realizzato la loro
prima tournée internazionale esibendosi in concerti a Mosca, San
Pietroburgo, Vilnius, alla quale sono seguiti nel 2004 due importanti appuntamenti a Beirut e ad Algeri (concerto in occasione della chiusura del Semestre
di Presidenza Italiana dell’Unione Europea), e nel 2006 una lunga tournée nei
principali teatri del Sud America. Ogni anno sono protagonisti al Teatro
Fraschini, di cui sono orchestra residente, del tradizionale ciclo monografico
autunnale di tre concerti (Concerti Brandeburghesi e le Sei Suites per violoncello solo di Bach, 13 Sinfonie per archi del giovane Mendelssohn, 12 Concerti
grossi di Händel e 12 Concerti grossi op. 6 di Corelli) e del Concerto di Pasqua.
Hanno inoltre tenuto concerti a favore dell’Istituto Missioni Estere, del
CELIM, del FAI, e dell’Associazione Amici di Edoardo Onlus.
In ambito discografico, hanno esordito con un CD dedicato a Čajkovskij e
Bartók, al quale sono seguiti tre CD con musiche di Rota, Respighi, Martucci,
Puccini, Šostakovič , Stravinskij e Françaix. Il quarto è dedicato a tre importanti compositori italiani contemporanei, Carlo Boccadoro, Carlo Galante e
Roberto Molinelli, autori di opere dedicate al gruppo. La rivista Amadeus ha
dedicato ai Solisti il numero del gennaio 2006.
Sono per la prima volta ospiti della nostra Società.
Marco Rogliano**, Roberto Righetti*, Donatella Colombo, Elena Confortini,
Fation Hoxolli, Filippo Maligno, Francesco Lovato, Luca Braga, Luca Torciani,
Lucia Ronchini, Pierantonio Cazzulani, Silvia Colli violini
Filippo Milani*, Matteo Amadasi, Adriana Tataru, Erica Alberti viole
Andrea Agostinelli*, Andrea Favalessa violoncelli
Amerigo Bernardi* contrabbasso
** violino di spalla
* prima parte
Prossimi concerti:
martedì 10 marzo 2009, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Quartetto Emerson
In trent’anni di lavoro ai massimi livelli, il Quartetto Emerson ha vinto ben otto
Grammy Awards, gli Oscar della musica. Basterebbe solo l’elenco di questi
riconoscimenti a collocare i quattro musicisti newyorchesi tra i grandi interpreti
del nostro tempo. Ogni loro concerto è un avvenimento prezioso per la
perfezione tecnica, l’energia, il buon gusto delle loro interpretazioni.
Le fondamenta del gruppo risiedono nel completo affiatamento tra i due violinisti,
Eugene Drucker e Philip Setzer, che si avvicendano nel ruolo principale.
Il ritorno dell’Emerson alla nostra Società è festeggiato da un sontuoso
programma, che presenta una serie di capolavori di epoca differente, mostrando
l’incredibile varietà stilistica del linguaggio quartettistico.
Programma (Discografia minima)
F.J. Haydn
Quartetto in sol minore op. 74 n. 3
“Il Cavaliere” Hob.III.74
(Emerson Quartet, Deutsche
Grammophon 289 471 327-2)
A. Webern
6 Bagatelle op. 9
(Emerson Quartet, Deutsche
Grammophon 445 8282)
M. Ravel
Quartetto per archi
(LaSalle Quartet, Deutsche Grammophon
435 5892)
A. Dvořák
Quartetto n. 14 in la bemolle maggiore
op. 105
(Cleveland Quartet, Telarc TLC 80283)
martedì 17 marzo 2009, ore 19 (2 intervalli)
Sala Verdi del Conservatorio
Quartetto di Tokyo
Haydn – I Quartetti op. 76
Società del Quartetto di Milano
via Durini 24 - 20122 Milano
tel. 02.795.393 – fax 02.7601.4281
www.quartettomilano.it
e-mail: [email protected]