Non so cucire, quindi non posso cucire al piccolo Arturo

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Non so cucire, quindi non posso cucire al piccolo Arturo
Non so cucire, quindi non posso
cucire al piccolo Arturo un costume
da super eroe. Ma posso regalargli
la metà di questa storia.
L’altra metà è per te, Super Boy.
Nonostante tutto,
continuo a credere
nell’intima bontà dell’uomo.
Anna Frank
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Da Earl.
Ossi giganti e molto felici.
La bambina dai capelli rossi leggeva stupidi fumetti nella
sua cameretta da stupida bambolina. In salotto, sua madre
cuciva una scarpa dorata sul bavero destro del suo unico
blazer. Suo padre cercava di guardare la televisione attraverso un paio di occhiali senza lenti. E il cane, be’, no, quel
povero cane annoiato dormiva, dormiva e sognava di fare
il giro del mondo in groppa a un osso gigante dal sorriso
molto felice. Quello stupido cane non poteva immaginare.
Se avesse immaginato, forse se la sarebbe data a gambe e
si sarebbe messo in proprio: Da Earl. Ossi giganti e molto
felici. Ma non lo avrebbe fatto. Sarebbe rimasto in quella
casa e avrebbe cambiato la porzione di mondo che iniziava
nel loro salotto giallognolo. Nei secoli dei secoli. Bau.
«Mamma?» disse la bambina dai capelli rossi.
«Che cosa c’è, tesoro?» rispose lei pensando: «La scarpa dorata, devo cucire quella scarpa, scarpa… arpa».
L’ago sembrava non volersi fermare mai. Ris-ras, sopra
e sotto. «Tesoro?»
«Posso portare Munk?»
«Munk?» la madre lanciò un’occhiata al fumetto che
la bambina teneva in mano, senza perdere il ritmo: risras-ris. «Chi è Munk, tesoro?»
Earl sollevò le sopracciglia.
«Il cane» disse il padre.
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«Oh, è vero, il cane.»
Earl sprofondò tra le minuscole zampe anteriori.
«E dov’è che vorresti portare portare Gus, tesoro?»
ris-ras-ris-ras.
«Non si chiama Gus, mamma, si chiama Munk.»
«Oh, sì, certo, tesoro.»
«E questo che cos’è?» chiese il padre allungando la
mano verso il fumetto.
«Un concorso per Munk» spiegò la bambina.
«Un concorso?» ris-ras-ris.
Il padre piegò a metà la rivista a fumetti e lesse: «Campionato mondiale di bellezza canina 1989. Per la prima
volta in Spagna». Poi sbirciò le vignette.
«Che razza di fumetto è questo?» chiese, togliendosi
gli occhiali. Poi, rivolto alla madre, sussurrando aggiunse: «Marion, ci sono delle ragazze nude».
«Santo cielo, Ron, riuscirò mai a finire di cucire questa
scarpa?» Il padre si strinse nelle spalle e le passò la rivista. «Vediamo un po’. Santo Dio, perché ho sposato un
idiota?» Ma questo lo disse in tedesco. O in quella lingua
che per lei e sua figlia era tedesco. La bambina rise.
«Perché ridi, piccolina?» domandò il padre inforcando di nuovo gli occhiali.
«E le lenti, Ron?» chiese la madre. Aveva conficcato
l’ago nel tacco della scarpa dorata, che in realtà era giallo limone, e ora sfogliava il fumetto.
«Le hai comprato tu questo fumetto?» chiese il padre.
«Certo che gliel’ho comprato io! Vuoi forse che da
grande Wen assomigli a te, Ron? Dai un’occhiata alla
copertina, vecchio sdentato, è un fumetto di Super Chica, sai chi è Super Chica? Toc, toc, Ron, c’è qualcuno in
casa? Hai mai sentito parlare di Superman? Quel tizio
con il mantello rosso? stupido!» gridò Marion in tedesco.
La bambina sorrise.
«Va bene. Non ti arrabbiare, Marion. Non ho detto
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nulla.» Il padre sprofondò nella poltrona e si lisciò la ruga
di stoffa che si era formata all’altezza del ginocchio. Poi
alzò il volume del televisore e finse di divertirsi con un
documentario sui formichieri, di cui riusciva a distinguere solo qualche ombra.
«Posso?» insistette la bambina.
«Certo che puoi, Wen» disse la madre. In tedesco.
E fu così che il piccolo Earl cambiò per sempre la storia della sua famiglia adottiva, conosciuta da tutti come
la famiglia Kramer, per espresso desiderio della matrona:
Marion Kramer.
E che cosa successe a Da Earl. Ossi giganti e molto felici? Da Earl. Ossi giganti e molto felici rimase un sogno.
Diciamo piuttosto che fu un’occasione mancata. Se così
non fosse stato, Francis Dómino sarebbe ancora vivo. E
la piccola Wen non avrebbe mai conosciuto Pesci Affranta.
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La Pesci Affranta
La lettera arrivò in una busta gialla. La trovò suo padre
e la diede a Marion.
«Credo che dovresti dare un’occhiata a questa, tesoro»
le disse.
E Marion gridò: «ma ron, non sai leggere?».
«Certo che so leggere, tesoro.»
«e dove hai letto “marion”?»
«Da nessuna parte, Marion. Credo che sia per la bambina, tesoro.»
«la bambina? wendolin ha quasi trent’anni, rooon!»
«Non ti arrabbiare, tesoro. Non ho detto niente.»
E così, Ron lasciò la lettera sulla scrivania della figlia
e tornò alla sua poltrona.
Ron Kramer era un brav’uomo. E, ovviamente, Ron
non era il suo vero nome, né Kramer il cognome. In
realtà, Ron Kramer si chiamava Julio Durán, ma nessuno era autorizzato a pronunciare quel nome in presenza di sua moglie. Marion aveva creato il personaggio di
Ron Kramer così come aveva creato se stessa. E la piccola Wen.
La piccola Wen, che sarebbe rimasta per sempre piccola, lentigginosa e con i capelli rossi. Wen, che stava per
compiere ventotto anni e che continuava a credere ai
super eroi e ai super cattivi, così come sua nonna aveva
creduto in Dio (aveva persino incorniciato la parte supe13
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riore di un calendario da parete del 1976 in cui compariva il volto di un Cristo sudato e frignante) e sua madre
in Lindsey Buckingham, Clark Kent e Raphael, il cantante. In realtà, sua madre non avrebbe mai ammesso di
credere in Raphael perché non lo conosceva nessuno in
Germania, dove Marion Kramer era nata, ma certamente non cresciuta come invece faceva credere a tutti, Wen
compresa.
Nel preciso istante in cui Ron appoggiava la lettera
sulla scrivania di Wen, lei stava canticchiando il ritornello di Eighties Fan, la sua canzone preferita. L’aveva composta un’annoiata ragazzina scozzese con una dipendenza dai gelati alla fragola.
Wen stava aspettando che il proprietario del Daily
Bugle tornasse dal magazzino.
Il Daily Bugle era un negozio di fumetti del centro,
angusto e male illuminato, e il magazzino era una piccola stanza dietro a una montagna di fumetti. E ciò che
il proprietario stava cercando nel magazzino era l’ultimo
numero di Super Chica.
«Hai visto, Munk?» Wen parlava con il piccolo Earl
che non voleva crescere e misurava ancora trentotto centimetri. «Superman ha permesso di nuovo che Lex sequestrasse Lois.»
«È un numero vecchio, stupida» rispose il piccolo Earl,
ma in realtà quello che si sentì fu: «Bababababauuu».
«Già. E non capisco neanche mamma» disse Wen. In
tedesco.
«Eccolo qui» la informò da lontano il proprietario del
negozio con la sua irritante voce di carta vetrata. «Non
l’ho ancora esposto. Mi è appena arrivato.»
Wen, agitata, aprì il suo ridicolo portamonete giallo
e preparò la moneta da due euro. Il tizio spense la luce
e tornò al bancone. Oltre all’ultimo numero di Super
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Chica, aveva con sé un vecchio «What if…?» di Spiderman.
A Wen, Spiderman non era mai piaciuto un granché.
“Peter Parker è una femminuccia” pensava.
Parlava spesso di questo con sua madre.
«È una femminuccia perché tutti i super eroi hanno i
loro problemi ma nessuno si lamenta» diceva Wen. «Tutti sopportano in silenzio tranne lui. Parker è un frignone.»
Marion Kramer era pienamente d’accordo con sua
figlia.
«Uno e novantacinque?» chiese Wen. Un ricciolo rosso le rimbalzava sulla fronte.
L’uomo, un personaggio bizzarro con uno spazio tra
i denti davanti e un odore nauseabondo, annuì.
Non osava guardarla. Si fissava le mani. Aveva le unghie nere.
«Questo lo conosci?» chiese Marvin.
Si stava riferendo al «What if…?».
Il «What if…?» di Spiderman.
Comunque, quel tale si chiamava Marvin. Marvin
Rodríguez. Un nome strano. Glielo aveva dato sua madre, che impazziva per Marvin Gaye e a casa aveva persino costruito un Marvin-altare. Marvin lo odiava. Odiava Marvin Gaye e sua madre. Marvin odiava tutti. Tutti,
tranne Wen.
Marvin aveva trentacinque anni, delle sopracciglia
minuscole e una bambola gonfiabile con i capelli rossi
che si chiamava Mary Jane.
Mary Jane.
«oh sì, mary jane, mi piace, mmm… ancora, oh… così,
ancora sììì.»
Questo era il genere di cose che Marvin diceva alla
sua bambola gonfiabile.
Marvin si colorava i capelli bianchi con un pennarello e viveva come se fosse Peter Parker.
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Si fotografava vestito da Spiderman. Non lo faceva
per strada, solo in camera sua.
«Spiderman? No grazie» disse Wen indicando il «What
if…?» che l’uomo le stava porgendo. «Spiderman è una
femminuccia.»
Quel tale, Marvin Rodríguez, balbettò: «Una-una
cosa?».
«Una femminuccia.» Wen poteva risultare molto irritante. Soprattutto quando le capitava di parlare nello
pseudo tedesco inventato da lei e sua madre. «Mia madre
dice che è un pappamolle.»
«Tu-tu…?»
«Mi rifiuto di avere un “What if…?” di Spiderman»
proseguì la ragazza. Appoggiò la moneta sul bancone e
aggiunse: «Non capisco come Super Chica si sia prestata a questo».
Wen si stava riferendo al numero che Marvin Rodríguez le aveva portato: E se Spiderman si sposasse con
un’altra? Certamente era uno dei suoi preferiti. Lo aveva usato in numerose occasioni per, ehm, mi avete capito.
Sì, la bambola gonfiabile aveva i capelli rossi.
Come Mary Jane Watson. Come Super Chica.
E come Wen.
«Di sicuro non è stata colpa sua» rispose lui, incurvando le spalle fino a piegarsi sopra la moneta che Wen
aveva lasciato sul bancone. Si vergognava da morire. I
capelli unti, come vinile bagnato, sapevano di formaggio
marcio.
«Certo che no.» Wen prese il suo numero di Super
Chica e tirò il guinzaglio di Munk, o piccolo Earl, il vero
nome del cagnolino, una strana razza di chihuahua senza pelo chiamata rusty, di cui il piccolo Earl era un raro
esemplare rosa. «Andiamo via, Munk.»
«Bel nome» disse Marvin appoggiando una mano
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sudaticcia su quel prezioso «What if…?». «È un bravo
cane?»
«È il migliore» disse orgogliosa Wen, schiudendo le
labbra in un sorriso esagerato, come se avesse sessantaquattro denti.
E il buon Marvin ricambiò il sorriso, anche se in gola
aveva un groppo grande come un melograno. Wen se ne
andò.
Non aveva la minima idea di quello che l’aspettava a
casa. Ma nemmeno ciò che l’aspettava sapeva che avrebbe dovuto aspettare un bel pezzo.
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Il ragazzo più popolare della classe
Quando Wen andava a scuola, il ragazzo più popolare
della classe si chiamava Iván, Iván Rojas, ma per lei era
Dita Lerce. Era molto alto e molto bello e tutte le ragazze facevano a gara per essere le prime a toccare la matita che aveva dimenticato sul banco. Tutte, eccetto Wendolin Kramer. Lei pensava solo a farlo fuori, come
faceva Super Chica con i suoi super cattivi. Fu così che
cominciò a seguirlo e a stilare rapporti. Wen annotava
nel suo Super Quaderno tutto ciò che faceva e poi gli
scriveva lunghe lettere minacciose, che il ragazzo interpretava come emozionanti e audaci missive d’amore.
Quando dormiva le teneva sotto il cuscino e sognava di
fare l’amore con la ragazza dai capelli rossi che gliele
scriveva. Come Iván sapesse che l’autrice delle lettere era
Wen, restava un mistero. Tuttavia, lui lo aveva capito
subito. E non lo aveva detto a nessuno.
«Non lo fare.» Questa era Lisi, la migliore amica di
Wen. La avvertiva che proporre un Appuntamento-Agguato a Dita Lerce era una cattiva idea.
«Devo farlo fuori.» Wen era convinta di poterci riuscire. Avrebbe liberato il mondo da Dita Lerce e niente
e nessuno poteva impedirglielo.
«Ti farà piangere e starai anche peggio.»
«Non mi farà piangere. Super Chica non piange mai.»
«Tu non sei Super Chica.»
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«Ah no?»
Le guanciotte di Lisi impallidirono.
«Dici sul serio?»
«Che cosa?»
«Lo ucciderai?» Lisi deglutì con un rumoroso gulp.
«Lo ucciderò» disse Wen.
«Sss! silenzio!» gridò Velma Ellis, la supplente di inglese. Ovviamente lo urlò in inglese. E diventò rossa come
un peperone.
Le ragazze si zittirono.
In fondo, erano delle alunne obbedienti.
Wen ne approfittò per scrivere una delle sue lettere.
Iván la trovò nell’astuccio quel pomeriggio. Wen l’aveva fatta scivolare tra le sue cose prima di uscire da scuola. La lettera diceva:
Ti liquiderò questa sera. Vediamoci nella via dove lunedì scorso limonavi con Samantha. Sarò lì ad aspettarti. Vieni subito dopo cena.
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Il ragazzo andò in brodo di giuggiole. Oh, sì, finalmente. Un appuntamento con la ragazza dai capelli rossi. Iván non aveva mai baciato una ragazza con i capelli
rossi. Pensò che doveva sapere di fragola. Il ragazzo non
era molto sveglio. Ma non era nemmeno colpa sua se le
bionde che aveva baciato sapevano di pesca perché usavano tutte quello stupido lucidalabbra alla pesca che
vendevano nel negozio di trucchi alla frutta del centro
commerciale.
Iván era un caro ragazzo. Cenò, si lavò i denti e disse:
«Mamma, vado a buttare la spazzatura».
E la madre chiese: «Stai bene, tesoro?».
E il ragazzo non disse nulla, prima di uscire si guardò
allo specchio e si augurò in bocca al lupo da solo.
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Wen lo stava aspettando in una strada poco lontana.
La via in cui si erano dati appuntamento era la parallela a quella dove abitava Dita Lerce, quindi, in un certo senso, lui giocava in casa e questo poteva complicare
le cose. Ma Wen sperava che la scarpa dorata lo disorientasse.
A questo punto Wen interruppe il racconto. Bevve un
sorso di frullato e indicò la copertina di uno dei fumetti
che erano sulla scrivania.
«Il mio costume di allora era così» disse.
«Oh.» La donna all’altro lato della scrivania, una donna con il cappello e una piuma sul cappello, finse interesse. Tra i suoi piedi, il piccolo Earl cercava di fare un
pisolino. «È… carino.»
«Me lo ha cucito mia madre.»
Glielo aveva cucito un milione di anni prima, quindici per l’esattezza. Era un sabato sera. Quella sera lontana,
Marion aveva cucito e cucito, ris-ras-ris-ras-ris, con le
lacrime agli occhi, mentre Ron leggeva uno stupido romanzo intitolato La Bionda Impossibile.
«E quello che cos’è?» aveva chiesto il padre dopo aver
terminato il capitolo chiave di tutta la storia. O così credeva lui. La Bionda Impossibile era seduta su una sedia
da parrucchiere, con la testa impiastricciata di tintura,
quindi doveva per forza essere il capitolo chiave. E il capitolo successivo doveva, per forza, essere l’ultimo. Ci
era riuscita, era bionda. “E adesso?” si era chiesto Ron
chiudendo il libro e accorgendosi che non era ancora
arrivato a metà. “Come era riuscita l’autrice a scrivere
seicentoventitré pagine di un assurdo dramma quotidiano?” Allora aveva alzato lo sguardo e aveva visto che sua
moglie stava cucendo.
Era stato in quel preciso momento che aveva chiesto:
«E quello che cos’è?».
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Marion Kramer stava dando l’ultimo punto alla scarpa dorata. Aveva cucito una scarpa dorata sul mantello.
«Un costume per tua figlia.»
«Un costume con mantello?»
«È un costume da Super Chica.»
«Oh, no.»
«che cosa? credi che sia pazza?»
«Chi ha detto che sei pazza?»
«Lo hai appena detto.»
«Io?»
«che cosa hai detto?»
«Niente. Non ho detto niente, Marion.»
«stupido» borbottò Marion, in tedesco.
Il piccolo Earl aveva alzato le sopracciglia credendo
che stesse tuonando e che i tuoni gli avrebbero rovinato
l’acconciatura. E la sua acconciatura non si poteva rovinare. Qualsiasi cane avrebbe ucciso per un’acconciatura
come quella. Da quando Wen aveva avuto la geniale idea
di presentarlo al concorso di bellezza, i conti in rosso
erano spariti tanto a casa Kramer quanto nell’appartamento del piccolo Earl, sempre più accogliente. Appartamento che, manco a dirlo, si trovava sotto la scrivania
di Wen, dove la rossa proprietaria aveva sistemato un
divano in miniatura, un televisore portatile, un paio di
poster con delle cagnette e un osso di gomma mordicchiato. Il divano era ovviamente un divano letto. E il
piccolo Earl si coricava ogni sera facendo molta attenzione, tutta l’attenzione del mondo per non rovinare l’acconciatura. Niente e nessuno poteva rovinargli l’acconciatura. Neppure un latrato di Mamma Kramer.
«Sei contento, Ron? Hai svegliato Gus.»
«Io?»
«È stato il tuono» avrebbe voluto chiarire Earl. «E
smettetela di chiamarmi Gus e Munk. Il mio nome è Earl»
avrebbe voluto aggiungere.
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Ma tutti sanno che i cani non parlano.
I cani abbaiano, come Mamma Kramer.
«È stato molto divertente» aggiunse Wen in quel preciso istante, ricominciando a raccontare la storia principale alla donna esterrefatta con il cappello e con la piuma.
Quella sera, la sera in cui Wen si batté a duello con
Dita Lerce, faceva un caldo infernale e Wen desiderava
solo tornare a casa e giocare con il piccolo Earl. Le piaceva dare la caccia a Dita Lerce e le piaceva scrivere rapporti e, ovviamente, la entusiasmava mandargli lettere
minacciose, ma non desiderava farlo fuori. Perché doveva farlo fuori? Che male le aveva fatto Dita Lerce? Aveva limonato con Samantha e spintonava la sua amica Lisi
quasi ogni volta che si incrociavano, ma Lisi gli aveva
rubato la collezione di figurine di dinosauri galattici,
quindi, che male le aveva fatto Dita Lerce?
«Wen?» Dita Lerce era arrivato.
Wen fu sul punto di morire di vergogna. All’improvviso vide se stessa attraverso gli occhi del piccolo Earl (il
mantello bianco, gli stivali di tela cuciti sopra le scarpe,
il body e la calzamaglia) e tutto le cominciò a bruciare,
dalle guance in giù.
«Ciao» disse, abbattuta.
«Da che cosa sei vestita?» Il ragazzo si avvicinò. Quando vide il mantello, sorrise. Wen chiuse gli occhi. Pensò:
“Non piango”. E poi: “Non mi farai del male”. Disse:
«Era, ehm, era una sorpresa».
«Una sorpresa?» All’improvviso Dita Lerce era molto
vicino. «Mi piace.»
«Sìsì-sìsì-sì…? Ti-ti, ti-ti, ti-ti piace?»
Oh, sì, gli piaceva. Per questo la baciò. E Wen fu sul
punto di svenire.
«Mmm… sai di…» Dita Lerce si passò la lingua sulle
labbra. «Sai di… ehm, sì, è fragola.»
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«Fragola?»
Dita Lerce la baciò di nuovo. Wen barcollò. Il ragazzo
fece un passo indietro. Stava per cadere in una trappola?
Dita Lerce era un super cattivo? Da quando i super cattivi baciano le Super Ragazze?
«Mi dispiace» disse Dita Lerce.
«No» rispose lei.
«La storia con Samantha è acqua passata.» Perché
stava dando spiegazioni a quella scema del villaggio?
«Be’, non importa. Non lo dire a nessuno, ok? Sarà un
segreto.»
Wen annuì.
«Continuerai a scrivermi?» chiese il ragazzo.
«Tu vuoi che continui a scriverti?»
«Mi piace. Sì. È divertente.»
Dita Lerce sorrise.
Anche Wen sorrise. «Anche a me.»
Calò il silenzio. Il mantello e la scarpa dorata ondeggiavano. Il ragazzo disse: «Va bene, adesso devo
andare».
«Sì.»
«Se vuoi ci possiamo vedere un altro giorno.»
Wen annuì.
Ma le lettere non arrivarono mai. Il ragazzo le aspettò e le aspettò. Per tutto il resto del trimestre evitò di
incontrare Lisi e non passò più le sue dita lerce tra i riccioli di Wen. E Wen diventò triste, molto triste. Per cercare di dimenticare quella sera nella via, iniziò a dare la
caccia ad altri possibili super cattivi. Ricominciò a stilare
rapporti. Ma non scrisse nemmeno una lettera. Aveva
imparato che la collisione tra il suo mondo e il mondo
che tutti conoscevano poteva fare tanto male quanto un
super fulmine spezza-cuori. Quindi, non avrebbe mai
più permesso che si mescolassero. Sarebbe rimasta nel
suo mondo di scarpe dorate.
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«E questa è la storia» disse Wen. E finì il frullato.
«Caspita, è una bella storia» disse la donna con il cappello. Non era un cappello ridicolo. Era un cappello costoso. E la piuma era piccola, così piccola che un moschettiere si sarebbe spezzato in due dal ridere. «Ma vado
un po’ di fretta.»
«Mi piace il suo cappello» disse Wen.
Il cappello era un regalo del marito.
La donna con il cappello si chiamava Carmen, aveva
quarantatré anni e quella mattina prima di uscire di casa
aveva fatto una lavatrice.
«Oh, grazie» disse alzandosi pigramente.
Il piccolo Earl emise un piccolo gemito.
Lo avevano svegliato.
«Dove va?» chiese Wen, in tedesco.
«Come hai detto?»
«E il suo caso?»
«Oh, non ha importanza» disse la donna. «Vado un
po’ di fretta.»
«Ah.» Wen accavallò le gambe sotto la scrivania e
strinse la mano alla donna che, di sicuro, si era preparata un discorso degno del detective con cui era convinta di avere appuntamento. In quel preciso istante lo
stava facendo a pezzi, mentalmente. «Be’, è stato un
piacere.»
«Anche per me» disse Carmen. E i suoi tacchi cigolarono sul pavimento quando si girò per andarsene. Prima
di uscire dalla stanza diede una rapida occhiata al letto.
C’era un cuscino sopra il letto. Un cuscino con un’enorme scarpa dorata al centro.
Carmen chiuse la porta dietro di sé e cercò di ricordare
dove avesse già visto il ragazzo della foto che quella pazza suonata aveva incorniciato e messo sulla scrivania.
Oh, mio Dio, no.
Era Kirk Cameron.
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