Jonah esitò un attimo di fronte al grande portello bianco che lo
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Jonah esitò un attimo di fronte al grande portello bianco che lo
Jonah esitò un attimo di fronte al grande portello bianco che lo divideva dall’esterno. Lo Space Rex, il sofisticato velivolo spaziale che da anni aveva ormai sostituito lo Shuttle, sembrava l’enorme pancia silenziosa della balena dove il suo ben più famoso omonimo era stato rappresentato nella Bibbia. Realizzò di non averci mai pensato prima. Forse era solo una casualità, forse invece era stato tutto meticolosamente architettato affinché fosse proprio lui, con quel nome prima ancora che con le sue qualità da astronauta, ad essere scelto per la Missione. Distolse la mente da quei pensieri e attivò l’apertura del portello: gli sembrava di essere stato lì fermo a riflettere per ore quando invece erano trascorsi solo pochi minuti. Mentre valutava con un movimento della schiena il peso pressoché minimo della speciale bombola di ossigeno, sentì che già da quando era decollato verso lo spazio, il tempo stava as- sumendo una sembianza più complessa del normale: sulla Terra era spiegato con la notte e il giorno, o inscatolato in orologi composti da meccanismi perfetti, ma lontano dalle convenzioni il tempo assorbiva il silenzio dei suoi stessi pensieri e si dilatava e si restringeva imprevedibilmente. Tornò a concentrarsi sull’incredibile esperienza che stava vivendo: Neil Armstrong sarebbe morto d’invidia nell’osservare un rampante quarantenne, fresco di esperienze aerospaziali, pronto a ricalcare i suoi stessi passi con scarponi sponsorizzati dalla più grande marca di calzature nel mondo. Ma soprattutto, oltre all’ideazione dello Space Rex e delle nuove tecniche di lancio prive di motori a reazione e di combustioni nucleari, sarebbe rimasto sconvolto dalla possibilità di spostare i canali radio all’interno degli auricolari sulla funzione iPod, quella che stava permettendo a Jonah Everman di ascoltare i Fleetwood Mac suonare e cantare Never going back again proprio mentre il portello si stava aprendo. Il flusso del suono della chitarra risalì rapidamente i padiglioni auricolari dell’astronauta tanto da far ballare le sue viscere già agitate ed emozionate. La grande trepidazione derivata dalla lunga attesa per quel momento si consumò banalmente in un balzello che l’astro8 nauta dovette compiere per scendere dalla plancia che lo portava sul cratere, circondato dall’inquietante oscurità illuminata solo dalle luci led provenienti dallo Space Rex. Il salto, perfettamente attutito dalle sue calzature milionarie, fu accompagnato dagli accordi della chitarra di Lindsay Buckingham dei Mac, impegnato a raccontare tramite l’iPod una storia di amori travagliati, ignaro di aver composto la colonna sonora di un momento così importante. E sulla Terra, lontana dalla sua vista e dai suoi pensieri, una imponente macchina organizzativa aveva allestito la diretta mondiale più importante della storia umana: televisioni, schermi dei computer, cellulari e palmari di ogni genere erano sintonizzabili sulle telecamere satellitari che seguivano ogni passo e ogni movimento di Jonah sulla Luna. C’era da scommettere che quasi l’intera totalità degli esseri umani lo stessero guardando, anche se da prospettive diverse, nel tentativo di colmare una lacuna grande quanto diverse decine di anni: l’impresa storica di Neil Armstrong e dei membri dell’Apollo 11 era rimasta più aderente a pagine di libri e a fotografie controverse piuttosto che a filmati in alta qualità e di completezza descrittiva. Lo Space Rex rappresentava invece lo stato dell’arte non solo della tecnologia aerospa9 ziale – necessitava di un solo membro d’equipaggio, grazie ad un cervello elettronico che gli permetteva di gestire qualsiasi operazione in maniera autonoma – ma anche di quella audiovisiva: composto di telecamere ad altissima definizione e di supporti meccanici indipendenti, trasmetteva a grandissime distanze un flusso di immagini e di inquadrature pressoché completo, rendendo la Missione lunare una vera e propria celebrazione della scienza umana, una visione a 360 gradi sgombra da dubbi e illazioni di quell’avventura che dal 1968 non fu mai completamente apprezzata e riconosciuta. Per la prima volta, tutti gli abitanti della Terra avrebbero potuto conoscere ogni angolo e ogni aspetto tecnico della Luna stando comodamente seduti in poltrona. Gli sponsor sostenitori dell’evento avevano spinto sull’acceleratore, fornendo un vitale supporto economico per una missione forse non particolarmente utile ai fini scientifici: un’operazione del genere, però, avrebbe rappresentato un rilancio globale dei network televisivi, oltre all’orgogliosa ed entusiastica ambizione della razza umana di spingersi sempre più oltre i limiti conosciuti. Ma soprattutto, a differenza di quanto accadde con l’Apollo 11 nel 1968, non era più una gara tra America e Russia, né una sfida all’Europa: 10 quel giorno la conquista della Luna doveva appartenere a tutto il genere umano, senza distinzioni. La play-list dell’iPod di Jonah era varia e legata alla musica che aveva segnato la sua vita. Prima della partenza, alcuni responsabili degli sponsor gli fecero notare come favorire determinati brani rispetto ad altri avrebbe potuto accrescere la sua popolarità e anche il conto in banca. Trasmettere una canzone di successo dalla Luna poteva rappresentare una rivoluzione epocale per le logiche promozionali, e di sicuro i ricchi management delle star e delle radio avrebbero tenuto in riconoscente considerazione l’astronauta per il suo contributo. Ma sapendo di dover rimanere da solo e privo dei suoi riferimenti più cari lontano dalla sua terra di origine, trovò assurdo negarsi la possibilità di sottolineare la sua avventura con la colonna sonora che reputava più adatta. Inoltre, c’era veramente poco della musica contemporanea che gli piacesse anche solo quel tanto che sarebbe bastato a giustificare le sue scelte; amava i Fleetwood Mac, conosceva a memoria i testi di quasi tutte le canzoni dei Queen, aveva consumato il vecchio giradischi di suo padre ascoltando i Beatles – in famiglia avevano una predilezione per l’oggettistica vintage – e provava 11 un rispetto quasi maniacale per Mahler. Gusti apparentemente poco omogenei e lontani da quelli della maggioranza dei suoi coetanei, ma per lui la musica era un insieme di ricordi a cui poteva accedere schiacciando il tasto Play: le immagini rimanevano intatte esattamente come i files mp3, quelle erano le sue preziose teche di conservazione dei momenti più importanti. Di nuovo sentì il Giona biblico muoversi dentro la balena: esattamente come lui, sapeva che per ogni nuovo passo nel futuro c’era un estremo bisogno di attingere dal passato, quello migliore. Nel frattempo, tutti i siti di distribuzione digitale di musica erano in tilt per i download simultanei di Never going back again, nuove generazioni di ascoltatori si stavano improvvisamente riscoprendo appassionati di musica d’altri tempi. Non si può prescindere dal passato se si vuole migliorare il futuro: se vale per la Bibbia e per le missioni spaziali, figuriamoci per la musica. 12