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Uomo e animale
Mito, filosofia e scienza nella tradizione occidentale *
di Vincenzo Di Marco
Uomo e animale: dai primordi al bio-potere
La progressiva affermazione di una “scienza del vivente”, la zoologia (zôion, animale, lógos, discorso), nel corso della lunga formazione della civiltà umana, almeno da Aristotele fino ai moderni studi di etologia, denota il potere assunto dai linguaggi artificiali delle scienze nella classificazione dei viventi. La prima classificazione normativizzante è quella che differenzia i viventi
tra esseri ragionevoli ed irragionevoli.
In apparenza scontata, la relazione uomo-animale è un prodotto culturale, un frutto della mente
umana. I miti antropomorfici e le religioni umanistiche hanno innalzato il ruolo dell’uomo ad ente sacralizzato, affermandone la centralità nel creato. Per circa cinquemila anni la storia
dell’uomo è stata un tentativo mal riuscito di nascondere e di ricacciare nell’oblio la sua preistoria animale. E’ difficile contestare l’importanza “decisiva” che l’uomo ha riconosciuto da sempre, sulla strada della propria affermazione auto-cosciente, al distacco ontologico-metafisico con
l’animale. Ogni fallimento in quanto “essere dotato di ragione” lo ripiomba nell’incubo della vita
animale, nella condizione della creatura vivente priva di mondo, avviluppata nella miseria esistenziale.
Il forte impulso dato dalla scienza e dalla tecnica alla modernizzazione della società umana è indubitabilmente la condizione di maggiore rilevanza assunta dal progresso negli ultimi secoli.
Martin Heidegger considera il mondo della tecnica il “destino” verso il quale l’uomo si incammina e dentro il quale “naviga” e “vive”. L’affermazione della scienza e della tecnica testimonia
dell’avvenuta trasformazione dell’uomo in un essere “artificiale”, che ha il potere di operare differenziazioni e separazioni all’interno di una natura-physis (in origine, armonia dei contrari e ordine discreto nel caos primigenio) sempre più occultata e per così dire “nascosta”. Un successo
umano che non possiamo considerare neutrale e tanto meno naturale.
Alla base dello sviluppo delle scienze – e nel nostro caso, biologia, etologia, ecologia -, vi è
l’elemento della concettualizzazione del mondo naturale. Ciò che per sua natura sfugge ad ogni
tentativo di ingabbiamento (il vivente), dopo Linneo Lamarck Darwin entra a far parte dei rigidi
schemi classificatori e ordinatori delle scienze. Questo processo rischiaratore non è senza effetti.
Il linguaggio della scienza contiene in sé, fin dall’inizio, una forma di dominio (1).
La storia evolutiva dell’uomo è il risultato di una inarrestabile emancipazione dalla più generale
storia dei viventi. Solo nel mondo umano lo scambio con l’ambiente interno ed esterno si caratterizza a livello simbolico-culturale, raggiungendo in molti casi livelli sofisticati di eccellenza. Tutto questo è impossibile rintracciare nelle altre specie viventi.
A partire da Aristotele (IV sec. a.C.), prende avvio la scienza psicologica, che permette di scandagliare il mondo animale come un tutto unitario. Se la psicologia si applica, tra i viventi, solo
agli animali, è pur vero che l’anima posseduta dalle specie inferiori, a differenza dell’uomo, non
consente il distacco dal flusso ininterrotto del mondo esterno con un Sé identitario.
L’animale dispone di un mondo senza concetto, di un puro Umwelt (ambiente), determinato
dall’esteriorità. Esso non può contare, altresì, su idee che gli consentono di trascendere il determinismo biologico, spaziale e sensoriale. Sottoposto a forti condizionamenti, la sua apertura al
mondo è - come afferma Giorgio Agamben – una sorta di “stordimento”(2). Il tutto indistinto in
cui vive è come una nebbia oscura, rischiarata momentaneamente da squarci istantanei della fantasia istintuale. Ma è soprattutto Aristotele che dice: “E’ poi manifesto cha la sensazione e
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l’intelligenza non sono la stessa cosa, giacchè di quella partecipano tutti gli animali, e di questa
pochi” (De anima, III, 427 b).
L’animale è lungi dalla capacità di arrestare il proprio destino con la conoscenza. Non potendo
divenire “soggetto”, la sua condizione è da accostare al celebre esempio del pendolo della vita
proposto da Schopenhauer, quasi fosse una simulazione dell’eterna oscillazione tra gli stati psicologici del dolore e della noia. “Già nella natura incosciente, costatammo che la sua essenza è una
costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza; una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a
mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza,
le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore
e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della
noia”(3).
La storia della civiltà parla della liberazione dell’uomo dall’orda primitiva nella quale viveva.
“La terra intera testimonia la gloria dell’uomo” (Horkheimer-Adorno, Dialettica
dell’illuminismo). Una terra concepita a immagine e somiglianza dell’essere umano, una redenzione ottenuta con il massimo degli sforzi e dei sacrifici.
Il rapporto uomo-animale è una dialettica tra due polarità: una mobile e l’altra statica. Chiameremo progresso, sviluppo, evoluzione, civilizzazione, cultura, le tappe che hanno portato l’uomo
a staccarsi dal suo ceppo originario. Anzi, più aumenta la forza identitaria del regnum hominis,
del dominio sulla natura, del distacco dalle radici oscure ed irrazionali del passato, ancora di più
si accentuano le differenze inesorabili con le altre specie animali. L’uomo ha avuto vergogna del
proprio passato, di ciò che è stato un tempo e per troppo a lungo. Egli è spaventato dalle ricadute
nella follia irrazionale dei comportamenti non programmati; teme la forza dell’istinto e la cieca
dannazione dell’animale.
In passato, la condizione animale era mostruosa e peccaminosa. Ad ogni vizio capitale corrispondeva una figurazione bestiale. Le religioni che accolsero nel proprio credo la metempsicosi descrivono le seconde vite in termini di pena e castigo, simbolicamente contrassegnate dalla reincarnazione nelle forme animali inferiori. Come una progressiva degradazione dell’essere.
Le metamorfosi della natura – secondo la celebre interpretazione poetica di Ovidio – scandiscono
il passaggio dalla condizione umana a quella animale e viceversa. Ma mentre nel mondo pagano
le trasformazioni inumane potevano essere tollerate come una delle tante modalità della convertibilità della materia, nel tempo presente solo il passaggio-ritorno alla condizione umana rappresenta una vera redenzione. Pinocchio diventa un vero bambino solo quando abbandona le orecchie d’asino con tutti i vizi connessi. Così come nella tradizione ottocentesca, Pierino Porcospino
era poco amato a causa del sudiciume dei suoi vestimenti e dei comportamenti tutt’altro che ortodossi, e che il suo nomignolo fa comprendere per intero. Il principe della favola potrà avere una
vita felice quando torna ad essere l’uomo che era, dopo l’interregno della forma animale.
Un destino altrettanto crudele ha colpito nel corso dei secoli soprattutto la parte debole
dell’umanità: la donna. La debolezza della donna è diventata un grande tema culturale e, al tempo
stesso, uno dei filoni prediletti della demonologia.
L’inferiorità biologica della donna è il peccato che non le si perdona. I ruoli secondari e subalterni ereditati dalla grande età matriarcale sono stati interpretati come un segno evidente della sottomissione culturale della donna, cui non sono mancati gli accostamenti più brutali con la sfera
animale. La limitazione dei compiti femminili alla riproduzione e alle cure domestiche segna la
sottomissione all’attivismo creatore dell’uomo “che fa e agisce” nella società e nel mondo. Ogni
interferenza alle regole costituite viene punita con la condanna e l’esecrazione sociale. La donna
è appartenuta frequentemente – assieme agli altri esseri “minori” – al “territorio di caccia”
dell’uomo. I personaggi-simbolo residuati dalle antiche società matriarcali (Iside, Astarte, Cibele,
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Maria) denotano con la loro presenza paradossale il successo trionfale ottenuto nel frattempo dalla società maschile.
Il caso della strega (strix, letteralmente la strige o uccello notturno) è la tragica vicenda
dell’individuo anomalo ed eslege, che finisce per essere sottomesso alle leggi
dell’addomesticamento sociale. Diana, Ecate, Megera, Medea, Circe, Erodiade sono alcune delle
figure emblematiche dell’antico cielo femminile. Fino a Giovanna d’Arco e al caso di Salem,
come altrettante vicende che hanno visto protagoniste delle donne-mostro nel corso della storia.
L’ossessione puntuale che si scatena nel mondo della normalità cristiano-borghese all’incontro
con queste vite irregolari viene fatta scontare con una particolare forma di martirio, ossia con lo
scadimento alla condizione animale e il lugubre commercio con i suoi ambienti.
La donna divenuta strega è segnata dallo stigma dell’anomalia sociale. E’ tutto fuorché un essere
razionale: brutta, irata, vendicatrice, passionale, pazza, irruenta, fedifraga, ammaliatrice. Simbolo
della sofferenza cieca ed irrazionale, la donna ha rinunciato alla propria storia di creatura “differente” piegandosi al potere livellatore della società maschile. Due esempi possono far comprendere bene questo passaggio: la puritana e la donna-oggetto dei nostri tempi. In entrambi i casi si
tratta di storie di spossessamento: la rinuncia alla libera sessualità della prima e la vendita del
corpo come insegna pubblicitaria della seconda.
Il mondo umano pianificato fin nei minimi aspetti diventa inabitabile per chi pretenda di conservarvi la propria differenza originaria. Si può stare al mondo al prezzo dell’inclusione senza residui. E’ vietata ogni forma di esitazione e di negazione. La storia dell’uomo e dell’animale è la
storia del loro progressivo – e comune – addomesticamento.
Il saggio di Walter Benjamin, dal titolo “Per la critica della violenza” (Gewalt) (4), può essere
preso in considerazione come un primo tentativo di definizione, in un altro campo oggi frequentatissimo, dei moderni procedimenti escogitati dalla politica per controllare la “nuda vita”.
L’uomo che si era illuso di poter abbandonare definitivamente la propria umanità animale con un
soprassalto di apertura verso il cosmo metafisico, verso le conquiste ideali dello spirito, o per
meglio dire in direzione della “umanizzazione della natura” – questo almeno fino al predominio
in campo filosofico dell’idealismo e dell’ontologismo esistenzialistico (con Fichte, Hegel, Heidegger) -, si riscopre imprigionato nella morsa del potere della tecnica e della strumentalizzazione della vita, che ha preso l’avvio dal sogno prometeico, e tracotante (hybris), della pianificazione razionale del mondo.
In particolare, il Novecento è stato il secolo di esperimenti tragici ben riusciti; per cui si dà il caso
che il progetto di dar vita ad un homunculus prodotto in laboratorio (come nella trasposizione letteraria del “Faust” di Goethe, ad opera del duo Wagner-Mefistofele) ha prodotto l’epoca dei totalitarismi e delle società sottoposte al controllo delle forze speciali. I Freikorps, gli squadristi, la
Ceka, le SS non hanno dovuto limitare i loro interventi repressivi alle misure disciplinari che, fin
dai tempi del Codice di Hammurabi e delle XII Tavole, sanzionavano la violazione del diritto di
proprietà. La polizia moderna interviene a reprimere “per ragioni di sicurezza” anche quando non
sussiste una chiara situazione giuridica, e la pena finisce per rientrare in un quadro più ampio che
richiama paradossalmente la violenza mitica esercitata sulla “nuda vita” dell’animale sacrificale.
Michel Foucault ha chiamato “sistema panottico” la società post-illuministica che applica
sull’uomo le tecniche perfezionate di controllo già sperimentate sul mondo vegetale ed animale.
Dice Giorgio Agamben a questo proposito: “Oggi, a quasi settant’anni di distanza (si riferisce ad
uno scritto di Heidegger del 1935, N.d.A.), è chiaro per chiunque non sia in assoluta malafede,
che non vi sono più per gli uomini compiti storici assumibili o anche soltanto assegnabili. Che gli
Stati-nazione europei non fossero più in grado di assumere compiti storici e che i popoli stessi
fossero votati a scomparire era, in qualche modo, evidente già a partire dalla fine della prima
guerra mondiale. Si fraintende completamente la natura dei grandi esperimenti totalitari del Novecento, se li si vede soltanto come una prosecuzione degli ultimi grandi compiti degli Statinazione ottocenteschi: il nazionalismo e l’imperialismo. La posta in gioco è, ora, tutt’altra e più
estrema, poiché si tratta di assumere come compito la stessa esistenza fattizia dei popoli, cioè, in
ultima analisi, la loro nuda vita. Sotto questo aspetto, i totalitarismi del XX secolo costituiscono
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veramente l’altra faccia dell’idea hegelo-kojeviana della fine della storia: l’uomo ha ormai raggiunto il suo télos storico e non resta altro, per un’umanità ridiventata animale, che la depoliticizzazione delle società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato della oikonomía, oppure
l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto impolitico) supremo”
(5).
Lo svilimento dei destini umani nella cosiddetta età post-storica, o post-moderna, che sconta
l’incapacità delle forze culturali e civilizzatrici di definire il quadro di un rinnovato progressodestino dell’uomo (humanitas), è il risultato del trionfo di un’idea di società pianificata dalla
scienza, dalla tecnica e dal potere inarrestabile dell’economia capitalistica. Di fronte all’avanzata
di questa particolare forma di economia e alla contemporanea depoliticizzazione della società, il
compito della politica si riduce alla amministrazione della “nuda vita”, riscoprendo l’esistenza di
fatto come valore irrinunciabile e come nuova meta (télos) da raggiungere.
Questo discorso può valere anche per il più crudele degli esperimenti politici mai tentati
dall’uomo nella storia: Auschwitz. Racconta Elie Wiesel (ne L’ebreo errante), che la morte del
padre in un campo di concentramento nazista ha avuto per lui il potere di annullare persino l’idea
morale e religiosa cui l’uomo ha maggiormente dedicato i suoi sforzi: l’esistenza di Dio. A Buchenwald e ad Auschwitz la “morte di Dio“ ha reso inconcepibile il senso stesso della vita umana
e dei motivi che hanno spinto dei crudeli aguzzini a compiere azioni così efferate. Gli internati
dei lager sono stati sottoposti alle più crudeli vessazioni che mai l’uomo prima di quel tempo poteva immaginare. Lo sguardo dell’ebreo implorante pietà che si accosta docilmente al reticolato
dei campi è simile a quello dell’animale abbandonato al suo destino. E’ l’affioramento di una inconsapevolezza, di coscienze private della loro ragion d’essere, dell’annullamento della personalità, del mutismo inquietante proveniente da spettri umani, di non-più-uomini ridotti al livello
delle vittime agonizzanti destinate all’olocausto.
La vita passa dalle mani di Dio a quelle del carnefice. La sventura consiste nel ribaltamento
dell’ordine naturale, per cui un padre non è più sicuro che il figlio gli sopravviverà.
Non a caso, uno dei maggiori pensatori contemporanei di tradizione ebraica, Emmanuel Lévinas,
ha fondato il suo sistema di etica metafisica tematizzando il problema del volto dell’Altro, proprio in relazione alla tragedia della Shoah. La nudità dello sguardo dell’altro uomo deve essere la
base della riformulazione dei nuovi principi dell’etica, attraverso una processualità critica che
metta in discussione la sicurezza dell’Io di fronte all’apparire della differenza altrui. Ogni volto,
ogni alterità devono metterci in discussione. L’Altro deve diventare un nostro compito (6).
Dal rapporto-confronto con l’Altro, che sia esso un uomo o una forma del vivente, deve scaturire
una in-quietudine, una instabilità, una perdita della tranquillità rassicurante dell’Io. Dice Lévinas:
“…ciò che caratterizza l’azione violenta, ciò che caratterizza la tirannia, è il fatto di non guardare
in faccia ciò su cui l’azione si applica. Lo diremo in maniera più precisa: il fatto di non trovarlo
di faccia, di vedere la libertà come forza, come selvaggia, di identificare l’assoluto dell’altro con
la sua forza. La faccia, il volto, è il fatto che una realtà mi è opposta; opposta non nelle sue manifestazioni, ma nella sua maniera d’essere; se si può dire, ontologicamente opposta. E’ ciò che mi
resiste con la sua opposizione, e non ciò che si oppone a me con la sua resistenza. Voglio dire che
questa opposizione non si rivela contrastando la mia libertà, è un’opposizione che è anteriore alla
mia libertà e che la mette in moto. Non è ciò a cui io mi oppongo, ma ciò che si oppone a me. E’
una opposizione inscritta nella sua presenza a me. Essa non segue affatto il mio intervento; mi si
oppone nella misura in cui si rivolge verso di me. L’opposizione del volto, che non è
l’opposizione di una forza, non è una ostilità. E’ una opposizione pacifica, ma dove la pace non è
affatto una guerra sospesa, una violenza semplicemente trattenuta. La violenza consiste, al contrario, nell’ignorare questa opposizione, nell’ignorare il volto dell’essere, nell’evitare lo sguardo,
e nel trovare il verso per il quale il no inscritto sulla faccia, ma inscritto sulla faccia per il fatto
stesso che essa è una faccia, diviene una forza ostile e sottomessa” (7).
E qui viene da domandarsi che cosa l’uomo contemporaneo non abbia perdonato alla parte sconfitta dell’umanità. Una possibile risposta potrebbe essere l’esitazione riscontrata nel volto della
vittima sottomessa, l’incertezza, la non-scelta, l’in-determinatezza. Gli antisemiti non hanno mai
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negato di odiare negli ebrei quei difetti fisici che richiamano in particolare la natura degradata
dell’animale. L’animale e le vittime del potere politico hanno in comune moltissimi aspetti: lo
stigma dell’anomalia, la debolezza fisica e mentale, la rassegnazione pietosa. E, in ultimo, ma
non ultimo, la somiglianza mostruosa, la parentela teromorfica.
Il cammino della redenzione: miti, simboli, religioni
Favole, miti e religioni hanno ampiamente utilizzato il repertorio retorico-letterario per parlare
all’uomo da un punto di vista “straniante” com’è quello dell’animale. Di “animali parlanti” è ricca la tradizione, a cominciare da Esopo, per arrivare ai moderni La Fontaine, Grimm, Perrault. Le
narrazioni che hanno per protagonisti gli animali si prestano alle attribuzioni più disparate: qualità, difetti, virtù umane, il cui elenco sarebbe lunghissimo riepilogare in questa sede.
Si racconta che Socrate, nei giorni difficili della prigionia, conseguente alla condanna a morte,
avesse musicato in carcere le favole di Esopo. Quel piccolo spazio di libertà cercato in punto di
morte deve avergli richiamato alla memoria la vicenda del frigio deforme, dello schiavo ideatore
di un mondo quotidiano, fantastico e umile, costruito sull’imitazione della vita animale. Con Esopo comincia la lunga storia del rispecchiamento della condizione umana in quella animale, che
si giustifica ancor di più in quanto utilizza la sotto-dimensione dello status animale per parlare
della opposizione del tempo quotidiano (di uno schiavo sconfitto) al tempo degli eroi (8).
Lucilio, Orazio, Fedro, La Fontaine, Trilussa continueranno su questa strada. Lo sparviero e
l’usignolo (Esiodo), rane e topi (Omero), le vespe, uccelli e rane (Aristofane), le cicale e le formiche (Platone), il cane (Diogene di Sinope), il maiale (Pirrone di Elide), il cigno (Callimaco), il
topo di campagna e il topo di città (Orazio), la nottola di Minerva (Hegel), sono alcune delle figurazioni poetico-filosofiche che accompagnano la vita dell’uomo in un dialogo incessante con il
proprio simile (altro da sé), sul quale andrà a proiettare progressivamente le contraddizioni del
suo animo e della società in cui vive.
Nel Fisiologo in lingua greca, diffusosi nei primi secoli d.C., e che ha tra le sue fonti probabilmente l’Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, viene presentata una enciclopedia caotica di animali veri e immaginari che costituirà la base dei futuri bestiari medievali. Dell’antilope si dice
che “ha lunghe corna con cui può tagliare alberi anche alti e grandi”, e che l’uomo cacciatore si
lascia impigliare dalle corna dell’animale come se fosse invischiato nei vizi; l’aquila, il cui “becco aguzzo è simbolo di orgoglio”, esprime un sentimento contrario all’amore; della balena, che ci
ricorda l’inganno degli eretici, si dice: “con la seduzione e l’inganno, adescano i piccoli e coloro
che non hanno il senno adulto”, spargendo un soave profumo aprendo la bocca come fa il cetaceo
quando deve nutrirsi; il cane, che, siccome rimangia il proprio vomito, dovrebbe consigliare ai
poeti di “rimangiarsi le affermazioni avventate” ecc..
Nella fantasia mitologica troviamo ad esempio la chimera, il mostro triforme (testa di leone, coda
di drago, corpo di capra) ucciso da Bellerofonte; le arpie, che hanno ispirato molti poeti per il loro aspetto deforme e terrificante, da cui può venire solo malvagità: “Erano sette in una schera, e
tutte/ Volto di donne avean pallide e smorte,/ Per lunga fame attenuate e asciutte/ orribili a veder
più che la morte:/ L’alaccie grandi avean deformi e brutte,/ le man rapaci, e l’ugne incurve e torte;/ Grande e fetido il ventre, e lunga coda/ Come di serpe che s’aggira e snoda..” (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIII, 120).
Il basilisco nasce ad opera di un parto contro natura, dall’uovo deposto da un gallo e covato nel
letame da un serpente. Per Plinio, questo animale viveva nella Cirenaica (Libia) ed aveva un soffio velenoso e lo sguardo mortale. Ugo di San Vittore lo definisce “re dei serpenti”.
Il Bestiaire d’amours di Richart de Fornival racconta le difficoltà amorose di un amante non corrisposto. I sentimenti delusi dell’amante vengono paragonati di volta in volta alle storie tipiche di
animali, riconoscibili dal tratto morale che una certa tradizione consolidata gli attribuisce.
Racconti mitologici, favole e bestiari non hanno ancora la forza, però, di indicarci il “cammino
della redenzione”. Perché si dia un percorso capace di prospettare all’uomo la salvezza dalle sue
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manchevolezze, dalle paure e dal peccato, è necessaria la comparsa delle religioni dello spirito.
Lucrezio si interrogava ancora sull’origine degli esseri viventi e, alla richiesta di quali siano le
ragioni della loro comparsa sulla terra, rispondeva che “la natura non è stata creata per noi da una
volontà divina”. Per cui non possiamo abusarne, essendone noi stessi una parte in qualche caso
trascurabile. Noi dobbiamo con-vivere con la natura, rispettarla, studiarla e capirla.
Fedele al credo del divo Epicuro, Lucrezio è convinto della immutabilità, se non della ineluttabilità del corso della natura. Il mondo è destinato a perire, dal momento che anche gli dèi sono estranei alla creazione. In natura vige il criterio dell’isonomia, in quanto tutto è distribuito uniformemente e solo l’uomo è responsabile dei suoi delicati equilibri. Gli dèi non possono intraprendere nulla in nostro favore; essi non dispongono del potere di restaurare uno stato precedente del
mondo.
Nella parte dedicata alle “origini della terra”(9), Lucrezio illustra il destino e le leggi implacabili
della natura, sostenendo la mortalità della terra e, nel contempo, la sua doppia realtà di madre e
sepolcro di tutte le cose. La terra ha prodotto le specie vegetali, animali e l’uomo, secondo la credenza che i processi della nascita e della crescita siano sottoposti allo “spontaneismo” interno
(un’ipotesi ritenuta valida fino alle scoperte di Francesco Redi, Lorenzo Spallanzani e Louis Pasteur). La terra ha provveduto affinché alcune specie si propagassero, mentre per alcune altre ne
ha impedito la riproduzione fino all’estinzione.
Nel celebrare la doppia vocazione della natura, benigna e al tempo stesso ostile (poiché essa distrugge con la stessa cieca determinazione con la quale genera spontaneamente), Lucrezio intende rivolgersi all’uomo per allontanarlo dalle sue paure ancestrali, arrivando perfino a negare
l’esistenza di quei mostri (Centauri, Scilla e Cariddi, Chimera) che da sempre ossessionano la
fantasia dei più deboli.
Giacomo Leopardi si ricorderà di questa lezione, in uno splendido passaggio dello “Zibaldone”
(4130), insistendo sul doppio legame della “conservazione e distruzione” delle cose della natura.
Il secondo elemento chiama alla mente umana la presunta “malignità” del mondo esterno
all’uomo, ma tutto questo deve essere considerato come perfettamente aderente alle sue leggi,
senza apparente contraddizione: “Poiché dato ancora, che è falsissimo, che la propria conservazione sia l’oggetto immediato e necessario della natura dell’animale, certo essa non lo è della natura universale, né di quella degli altri animali rispetto a ciascuno di loro. Anzi il fine della natura
universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in produzione, conservazione e
distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta
natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in
quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale
che non quelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmente nella vita
dell’animale occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione ossia invecchiamento (il
quale incomincia nell’uomo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (vedi il Dialogo della natura e di un Islandese, e il Cantico del gallo Silvestre, N.d.A.), e ciò anche in esso
animale medesimo indipendentemente dall’azione delle cose di fuori; in quanto finalmente lo
spazio della conservazione cioè durata di un animale è un nulla rispetto all’eternità del suo non
essere, cioè della conseguenza e quasi durata della sua distruzione. Similmente mille cose e mille
animali che non hanno in niun modo per fine la conservazione di un tale animale, hanno bensì
una tendenza assoluta a distruggerlo, o per la conservazione propria o per altro. E ciò s’intenda di
individui e di specie. E il numero di tali individui o specie animali o no, tendenti naturalmente
alla distruzione di una qualsiasi specie o individuo di animale (siccome di quelle tendenti al suo
dispiacere) è maggiore di quello tendente alla sua conservazione (siccome al suo piacere)”.
Ma il cambiamento di rotta si verifica quando l’umanità incomincia a rivedere la propria collocazione nel mondo, mettendo in discussione la relazione di co-appartenenza paritetica con le altre
creature. Nella storia del pensiero occidentale, l’inversione di tendenza comincia a prendere forma con la comparsa e diffusione del Cristianesimo. La linea di demarcazione tra le specie viventi
non è più di tipo orizzontale, ma include la convinzione di una gerarchia di tipo verticale, che ha
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in Dio il suo vertice, nell’uomo il suo massimo rappresentante sulla terra, e nelle altre creature
del cosmo dei protagonisti subordinati alla volontà dei primi due.
Nel libro della Genesi (1, 26), l’uomo è “creato a immagine e somiglianza di Dio”, perla della
creazione, specchio del Creatore. Pertanto le altre creature diventano cibo degli uomini, che non
solo possono appropriarsi della loro vita per il sostentamento materiale, ma ne possono disporre a
piacimento secondo il proprio desiderio. Il destino delle creature inferiori è sostanzialmente indifferente, poiché ciò che conta è il destino umano, storico e metafisico. Scrive Tommaso d’Aquino:
“Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella
gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti. Così le piante, son fatte
ordinariamente per gli animali e gli animali son fatti per l’uomo. […] Dunque è lecito sopprimere
le piante per uso degli animali, e gli animali per uso dell’uomo” (Summa Theologiae, II-II, q.64,
a.1).
La stessa prospettiva era stata presentata, con argomenti similari, dai Padri della Chiesa e da
Sant’Agostino. La glorificazione dell’uomo crea un dislivello all’interno della creazione, con esiti a volte distruttivi per le specie animali, a volte patetici, in altri casi contraddittori. Nel Deuteronomio, sono emblematici i riferimenti alle norme riguardanti gli animali predestinati ai riti sacrificali, così come i riferimenti alla purezza-impurità dei cibi animali; nell’Ecclesiaste, la condizione animale e quella umana si congiungono pateticamente nella descrizione delle sofferenze
dei morenti che si approssimano al nulla; mentre la vasta tradizione agiografica ha utilizzato largamente il binomio uomo-animale in funzione polivalente.
I simboli degli evangelisti sono animali assurti alla funzione escatologica: Angelo alato (Matteo),
Leone (Marco), Toro (Luca), Aquila (Giovanni); Santa Margherita, martire del III secolo, è vittoriosa sul drago (a cui ricondurre anche San Giorgio), da sempre incarnazione degli istinti che devono essere schiacciati per il riscatto spirituale dell’uomo; S. Agnese è raffigurata con l’agnello,
agnus-Agnes, sposa di Cristo; S. Gerolamo estrae la spina dalla zampa del leone, ammansito dalla
sua santità; Santa Genoveffa, protettrice di Parigi dall’assalto degli Unni, è attorniata dal greggepopolo che ha direttamente in custodia; sant’Antonio Abate è associato al maiale per la relazione
con la cultura contadina e per la centralità dell’animale nella vita domestica e nelle abitudini alimentari delle regioni del Sud; il culto di San Romedio (che tiene al guinzaglio un orso) è diffuso
nelle regioni del Nord Italia, come nel Trentino; per non parlare di San Francesco (Cantico delle
Creature e il lupo di Gubbio), San Rocco (il cane e la peste) e Santa Rita (il miracolo delle api).
Questa carrellata di esempi dimostra quanto sia indissolubile il rapporto uomo-animale dal punto
di vista mitologico e religioso, soprattutto per l’uomo. Egli ha usato il suo “rivale” animale come
principale sostituto dei rituali sacrificali della civiltà. René Girard conclude in questo modo il
libro dedicato al tema del capro espiatorio. “E’ venuta l’ora di perdonarci l’un l’altro. Se aspettiamo ancora, non ne avremo più il tempo”. La semi-profezia del grande pensatore francese è una
presa d’atto dei sintomi nevrotici che attraversano l’esistenza umana quando è sottoposta alla crisi materiale e psicologica delle circostanze avverse.
L’uomo è stato capace di elaborare il più vasto repertorio di argomentazioni delittuose sugli animali e sugli esseri umani che scontano la pena – al pari di “capri espiatori (come le vittime malcapitate dei sacrifici rituali richiedenti il ben-volere della divinità) - delle contraddizioni sociali.
Ed ecco nascere gli stereotipi della persecuzione: stupro, incesto, profanazione di ostie, avvelenamento dei fiumi, infanticidio rituale, bestialità sessuale, stregoneria, sabba, follia, deformità
genetiche, mutilazioni, paura del diverso e dello straniero (xenofobia).
Da qui comprendiamo la logica delle Inquisizioni. Infatti si tratta della prosecuzione sul piano
storico-sociale della violenza originaria scatenata dall’uomo sulla natura che a sua volta – per essere cancellata – ha bisogno di altra violenza riparatrice (do ut des) (10).
E Giorgio Agamben, alludendo al regno messianico descritto nel libro di Isaia, che contiene una
profezia sul tempo a venire della riconciliazione tra l’uomo e l’animale, dopo millenni di persecuzioni e di incomprensioni, conclude: “D’altra parte, nel Talmud, il passo del trattato in cui il
Leviatano è menzionato come cibo del banchetto messianico dei giusti si trova dopo una serie di
haggadoth che sembrano alludere a una diversa economia dei rapporti fra l’animale e l’umano.
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Che, del resto, nel regno messianico, anche la natura animale sarà trasfigurata, era implicito nella
profezia messianica di Isaia 11, 6 (che piaceva tanto a Ivan Karamazov), dove si legge che “il lupo dimorerà insieme all’agnello/e la pantera si sdraierà accanto al capretto;/il vitello e il leoncello
pascoleranno insieme/e un fanciullo li guiderà”(11).
Queste parole si possono interpretare come un annuncio del vangelo, eu-anghelion, cioè del
“perdono” tra le creature. Il cammino della redenzione allora non va visto in termini di sopraelevazione dell’uomo a despota di una terra che gli è stata assegnata da una suprema istanza, ma
come riconciliazione con il tutto da cui si è volontariamente separato.
Verso un’etica ambientale (animale)
A questo punto, la nostra domanda conclusiva potrebbe essere questa: abbiamo delle responsabilità nei confronti del vivente? Il problema uomo-animale diventa un interrogativo inerente la
“questione ambientale” e chiama in causa la riflessione teorica, ma anche l’azione politica e sociale.
Fino ad oggi abbiamo imparato a riconoscere “le magnifiche sorti e progressive”
dell’autocoscienza umana nel rapporto privilegiato servo-padrone. Da una parte la società umana,
che si espande nel tempo e che ingloba ogni elemento naturale nel proprio “spazio vitale”,
dall’altra l’animale, rintuzzato nella prigione della natura preparata dall’uomo. La “nuda vita”
dell’animale sta diventando il contenuto esclusivo del potere della bio-politica, ma una vita ridotta in questi termini non può essere considerata “degna di essere vissuta”.
Nell’età contemporanea è maturato il convincimento della necessità di una rinnovata “ragione
pratica” per l’uomo e per la società. I nuovi ideali morali, sorti dopo l’esperienza tragica di due
guerre mondiali, di vari genocidi e lo sfruttamento generalizzato del pianeta, parlano di una nuova forma di solidarietà, di una cura rinnovata del mondo e di “responsabilità” etica, che dovrebbe
accompagnare una vita saggia e degna di questo nome.
E’ arrivato il momento del trasferimento dell’etica della responsabilità(12) a tutto il vivente.
Questa nuova impresa ricade sull’uomo, su di lui esclusivamente, se è vero che l’uomo ha saputo
staccarsi, lui solo, dalla condizione animale, oltrepassando il determinismo ambientale.
I nuovi valori etici dovranno essere pensati in termini di “obblighi morali”, poiché è ineludibile
ridefinire il “prossimo” dell’uomo. Il nostro prossimo è la condizione animale. L’uomo sarà costretto ad un “ritorno alla natura” (13).
Francesco Bacone è il filosofo dell’industrializzazione, della tecnica e del sapere scientifico inteso come “dominio sulla natura”. Dal 1500 in poi, l’uomo comincia a considerare la natura una
riserva di caccia da utilizzare a piacimento, costringendo gli altri esseri viventi a rimanere soggiogati al volere della società. Egli realizza sulla terra ciò che Dio ha compiuto nell’universo: entrambi sono Creatori e Signori di un qualcosa che, per il fatto stesso di derivare da altro, gli è sottomesso. Il potere imperscrutabile che ha il Signore di creare gli elementi della natura, nell’uomo
si chiama scienza e tecnica, con le quali opera la trasformazione di tutte le cose. La Nuova Atlantide è il sogno realizzato della modernità: si costruisce l’impossibile, si formano prodigi avveniristici. La società è in mano ai novelli Prometeo, Dedalo, Faust. Il regnum hominis di Bacone inaugura l’età del totale dispiegamento dell’homo faber. Perfino Marx vedrà nello sviluppo delle
“forze produttive” il trampolino di lancio della futura società comunista.
L’idea di progresso è in marcia verso un destino inarrestabile. Il motore del progresso scientifico
dà l’impressione di una volontà di potenza illimitata, ma ben presto l’età della sicurezza e del benessere ha cominciato a presentare i primi segni di cedimento: “La certezza della Catastrofe ha
sostituito la fiduciosa attesa della Redenzione” (P. Rossi, cit.). Tra sogni d’Arcadia e paure apocalittiche, l’età moderna è come ripiegata su se stessa, mentre ha il piede puntato sia
sull’acceleratore che sul pedale d’arresto. L’uomo ripiomba nel timore originario – come dice
Hobbes – della “morte violenta”, costretto ad una vita brutta e solitaria. Come ripete Giacomo
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Leopardi, l’uomo e gli altri animali non nascono “per godere la vita, ma solo per perpetuare la
vita” (Zibaldone, 4169).
Il pericolo di una catastrofe naturale non è poi così remoto; inquinamento, carenze di risorse, ritorno di epidemie, terremoti distruttivi, globalizzazione economica, guerre fratricide sono sempre
in agguato. Come affermano i teorici della Scuola di Francoforte, l’uomo è l’ultima vittima in ordine di tempo dell’aggressione alla natura. La superbia prometeica (prima rivolta al mondo esterno) ora minaccia l’uomo stesso. Egli è diventato l’oggetto inerme della volontà autodistruttiva
della modernizzazione. Si affaccia all’orizzonte un processo dissolutivo, un decadimento complessivo del “ricambio organico con la natura”, poiché la trasformazione forzata della natura ad
opera del lavoro industrializzato rappresenta un limite dell’umanità presente. La storia
dell’umanità è lo specchio fedele della storia del lavoro e dei sistemi di produzione che, prima
ancora di riguardare lo sfruttamento umano, hanno avuto una preistoria basata
sull’addomesticamento dell’animale. Secondo Karl Marx: “Quando inizia la storia dell’umanità il
più importante tra i mezzi di lavoro, accanto a pietre, legna, ossa e conchiglie, è l’animale addomesticato, perciò cambiato anche esso tramite il lavoro, allevato. L’impiego e la creazione di
mezzi di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali, caratterizzano lo specifico
processo lavorativo umano, e per questo Franklin definisce l’uomo, “a toolmaking animal”, un
animale che fabbrica strumenti. I resti dei mezzi di lavoro hanno, al fine di giudicare formazioni
sociali scomparse, la medesima importanza che ha la struttura dei resti ossei per conoscere
l’organismo di specie animali estinte. Le epoche economiche si distinguono non per quello che
viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto” (Karl Marx, Il Capitale,
I) (14).
Non si tratta di riproporre un “ritorno alla natura” o di rinvigorire il mito del “buon selvaggio” di
roussoviana memoria, ma di ripartire dal punto di vista critico dell’etica filosofica contemporanea
e dai moderni risultati della teoria ecologica, biologica e ontologica.
Immanuel Kant può essere considerato il punto di arrivo della riflessione filosofica che vede
nell’uomo la perfezione delle creature, soprattutto per la vita morale che persegue. Per Kant, la
radice della libertà umana risiede nel conoscersi come un “soggetto morale” dotato di ragione,
capace di autocoscienza critica, di dettare a se stesso le norme della condotta etica e di vivere in
società secondo regole di coscienza.
Se l’uomo non ci fosse, regnerebbe il deserto e la natura sarebbe senza scopo. “Ora, non abbiamo
che un’unica specie di enti nel mondo la cui causalità è teleologica, cioè rivolta ai fini, ma anche
cosiffatta che la legge secondo la quale essi devono determinare i loro fini venga rappresentata da
loro stessi come incondizionata e indipendente da condizioni naturali e in sé, però, necessaria.
L’ente di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; l’unico ente naturale nel quale
possiamo tuttavia riconoscere, dalla parte della sua propria costituzione, una facoltà soprasensibile (la libertà) e perfino la legge della causalità, insieme all’oggetto di essa, che quest’ente può
proporsi come fine sommo (il sommo bene del mondo).
Ora, dell’uomo (e così di ogni ente razionale nel mondo), in quanto ente morale, non si può chiedere ulteriormente per che cosa (quem in finem) esista. La sua esistenza ha in sé il fine sommo
stesso, al quale egli, per quanto ne è capace, può assoggettare tutta la sua natura, o almeno contro
al quale egli non deve ritenersi soggetto ad alcuna influenza della natura. Se ora le cose del mondo, come enti dipendenti quanto alla loro esistenza, hanno bisogno di una causa suprema agente
secondo fini, allora l’uomo è il fine definitivo della creazione; perché senza di lui la catena dei
fini subordinati l’uno all’altro non sarebbe fondata completamente; e solo nell’uomo, ma anche
solo nell’uomo come soggetto della moralità, si può rinvenire la legislazione incondizionata riguardo ai fini, la quale soltanto, dunque, lo rende capace di essere un fine definitivo al quale tutta
la natura è teleologicamente subordinata” (15).
L’uomo in quanto “ente morale”, dotato di libertà, si sottrae ai condizionamenti della natura; la
creazione acquista un senso con la presenza delle creature; la natura da semplice mezzo torna a
riacquistare le caratteristiche di un fine. Questa garanzia dovrebbe fornirla l’uomo.
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Anche se per gli animali non si può parlare di rispetto, ma solo di amore, tutta la natura ha una
dignità intrinseca che noi intravediamo nell’amore di sé delle creature. I diritti ambientali possono essere annoverati come i diritti di quarta generazione. Dopo quelli umani, politici, sociali,
l’età contemporanea chiede l’applicazione dei diritti ambientali che rappresentano una sorta di
nuovi principi-guida per un futuro al riparo dal rischio dell’auto-distruzione.
Hans Jonas ha parlato di responsabilità dell’uomo verso le generazioni future. I non-nati avrebbero dei diritti inalienabili prima ancora di far parte della famiglia umana. L’uomo si deve far carico delle conseguenze delle sue azioni, imparando dagli errori commessi, prima che sia troppo
tardi. Altri autori (ad esempio, Tom Regan) hanno parlato di una nuova frontiera dell’etica, sostenendo la necessità di estendere la comunità morale nello spazio, nel tempo e soprattutto verso
le altre specie viventi. Con l’espressione “comunità di destino” s’intende definire l’appartenenza
dell’uomo ad un concetto allargato di umanità, che non riguarda lui solo, e il proprio egoismo vitale, ma tutti gli altri animali.
La cosiddetta “liberazione degli animali” (che tanta fortuna ha avuto nella letteratura specialistica) rientra nel più vasto discorso dello “sviluppo sostenibile” e della “non violenza” da praticare
nei confronti della natura. L’uomo civilizzato ha perduto la capacità di relazionarsi con il mondo
non umano. Egli ha dis-imparato ad utilizzare i diversi codici della comunicazione con
l’ambiente animale. In termini psicoanalitici è come se avesse “rimosso” la condizione animale
dal proprio essere.
La civiltà contemporanea può essere definita un “paradosso”, dal momento che da una parte esprime delle buone intenzioni ma dall’altra agisce praticando il contrario. “La creatura che la
spunta contro il suo ambiente distrugge se stessa”, afferma Gregory Bateson (16).
I compiti della cultura per il futuro non possono escludere il tema della riconciliazione dell’uomo
con la natura e il nuovo patto uomo-animale, compreso il ripensamento della vita umana secondo
i concetti familiari alla filosofia greca della physis e del “vivi secondo natura” degli Stoici;
l’apporto delle filosofie orientali per ostacolare l’avanzata dell’uomo a una dimensione; delle
forme del pensiero “disinteressato” contro la logica dell’egoismo sociale e dell’utilitarismo economico.
Note
* Il presente saggio è una sintesi del corso intitolato “Uomo e animale”, tenuto dall’autore nel mese di maggio 2003
presso il corso di laurea in Educazione ambientale diretto dal Prof. Massimo Dell’Agata, nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi de L’Aquila. Il corso è stato pensato per integrare la preparazione prevalentemente tecnico-scientifica degli studenti di questo ateneo con argomenti di carattere storico-filosofico.
Il titolo della relazione prende lo spunto da un capitolo del celebre studio che Horkheimer e Adorno hanno dedicato
alla “società amministrata” del tardo capitalismo (Dialettica dell’illuminismo). Negli straordinari capitoli di un libro
uscito al termine della seconda guerra mondiale, dalla penna di due autori di origine ebraica nel loro forzato esilio
americano, matura il convincimento che la società moderna si stia avviando a superare rapidamente una forma brutale di totalitarismo per abbracciarne subito un’altra altrettanto odiosa: ossia dalla fine del nazismo e del fascismo si
passa al capitalismo consumistico e imperialista del dopoguerra. Inoltre, lo stesso tema è sviluppato in un interessante
libretto scritto recentemente da Giorgio Agamben, L’aperto, Edizioni Bollati Boringhieri, Torino 2002, che porta nel
sottotitolo proprio la scritta “L’uomo e l’animale”.
Entrambi i libri preannunciano un futuro nel quale l’uomo, dopo aver messo a punto e sperimentato strumenti di controllo e di coercizione (Auschwitz, i Gulag ecc..) sugli inferiori e sui diversi, si appresta ad adoperarli contro se stesso
come non avrebbe mai immaginato di fare fino a qualche tempo fa.
Secondo una fortunata espressione riconducibile a Walter Benjamin, il potere è una violenza protratta contro la “nuda vita”. Nel suo lungo ciclo evolutivo, ma al termine della parabola discendente, l’uomo riscopre la condizione animale. Un nuovo “destino” lo accomuna a quegli esseri viventi da cui una cultura millenaria lo aveva educato a prendere le distanze. Il progetto della propria liberazione culturale era stato pensato escludendo gli altri esseri viventi dal
consesso umano, per instaurare il “regno dell’uomo”. Ma da qui i dubbi e i problemi. Solo un rinnovato modo di pensare, che sappia consigliare all’uomo una intelligente inversione di rotta, potrà salvarlo da una fine annunciata che si
prefigura nefasta.
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(1) E’ da consultare l’antologia curata da Luisella Battaglia, Filosofia ed Ecologia, Editrice Abelardo, Roma 1994, in
particolare la Parte I, intitolata “Uomo e natura: modalità di un rapporto”. Secondo la celebre definizione di T.W. Adorno e Max Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1976, nella trad. it. Di Lionello Vinci, “Sulla
terra divenuta razionale è venuta meno la necessità del rispecchiamento estetico, la sdemonizzazione si compie foggiando l’uomo direttamente”, a pag. 268.
(2) Op. cit., in particolare i capitoletti “Senza rango” , “Umwelt” e “Povertà di mondo”.
(3) In Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giuseppe Riconda, Edizioni Mursia,
Milano 1991, IV, pag. 57.
(4) Si trova in Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1976, nella trad. di Renato Solmi, alle pagg. 5-28.
(5) Op. cit., pag. 79.
(6) Diverse considerazioni si possono leggere in Emmanuel Lévinas, Dall’altro all’io, Biblioteca Meltemi, a cura di
Augusto Ponzio, Roma 2002 e nel più famoso Saggio sull’esteriorità, dal titolo Totalità e infinito, Jaka Book, Milano
1998, nella trad. di Adriano Dell’Asta.
(7) Dall’altro all’io, op. cit., nel capitolo “Libertà e comandamento”, pagg. 74-75.
(8) La leggenda attorno ad Esopo è così riportata da Vico: “Ch’Esopo sia stato un carattere poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi, con uno spirito d’indovino lo ci discuopre il ben costumato Fedro in un prologo delle sue Favole: “Insegnerò ora brevemente perché fu inventato il genere favola. Gli schiavi, poiché non osavano esprimere desideri, trasferirono nelle favole i loro sentimenti. Io ho ampliato la materia del celebre Esopo” -, come la favola della società lionina evidentemente lo ci conferma: perché i plebei erano detti “soci” dell’eroiche città, come nelle Degnità si è avvisato, e venivano a parte delle fatiche e pericoli nelle guerre, ma non delle prede e delle conquiste. Per ciò Esopo fu detto
“servo”, perché i plebei, come appresso sarà dimostro, erano famoli degli eroi. E ci fu narrato brutto, perché la bellezza
civile era stimata dal nascere da’ matrimoni solenni, che contraevano i soli eroi, com’anco appresso si mostrerà: appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana, ed è da
Ulisse battuto con lo scettro di Agamennone; come gli antichi plebei romani a spalle nude erano battuti da’ nobili con
le verghe, “regium in morem”, al narrar di Sallustio appo sant’Agostino nella Città di Dio, finché la legge Porzia allontanò le verghe dalle spalle romane” (La scienza nuova, II “Della logica poetica”, Edizioni BUR, Milano 1988).
(9) Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, Garzanti, Milano 1975, nella trad. di Alessandro Ronconi, V, pagg. 772-782.
(10) Il volume di René Girard, Il capro espiatorio, è uscito nelle edizioni Adelphi, Milano 2002, nella trad. di Christine Leverd e F. Bovoli. Per interrompere il circolo perverso delle vendette incrociate, il nostro autore fornisce un esempio illuminante di come la stessa religione (in particolare quella cristiana, che fa affidamento sulla figura carismatica di
Gesù) possa indicare essa stessa – pur con tutte le contraddizioni insolubili dell’Antico e del Nuovo Testamento – un
rimedio al male umano della violenza protratta sugli oppressi: “Perciò il meccanismo sacrificale – il capro espiatorio –
nel quale la società scarica i conflitti che altrimenti resterebbero insopportabili. Perciò le religioni, destinate, mediante
il meccanismo sacrificale, a rendere vivibili le società, mediando, con il sacro, fra desiderio conflittuale, e violenza.
Una violenza originaria, dunque, non sacra, produce disordine, crisi, conflittualità; un’altra violenza contrapposta, sacra, simbolica, produce ordine e possibilità di convivenza. Donde il ruolo insostituibile delle religioni, e, in esse, del
concetto di sacrificio rituale: altrimenti non si potrebbe dare società. La morte sacrificale di Gesù, per Girard, demistifica, cambia il volto della società e della storia. Con la croce, finisce il bisogno di una religione del sacrificio, finisce il
rapporto fra sacro e violenza” (contenuto in Filippo Gentiloni, La violenza nella religione, Edizioni Grippo Abele, Torino 1991, pag. 70).
(11) Op. cit., ma va ricordato anche il riferimento a San Paolo, Rom. 8, 18-19: “Stimo che le sofferenze del tempo presente non possano essere paragonate alla gloria futura che si rivelerà in noi. Poiché la creazione attende con gran desiderio la manifestazione dei figli di Dio”.
(12) Espressione che è ricavata essenzialmente dal celebre studio di Hans Jonas: Il principio responsabilità. Un’etica
per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993, a cura di Pier Paolo Portinaro.
(13) Dice bene il filosofo della scienza Paolo Rossi: “In molti commentatori medievali troviamo espressa la tesi che i
santi che addomesticavano le belve più feroci riaffermano quella sovranità dell’uomo sull’universo che è stata incrinata
dal peccato. A tutti è nota la tesi, largamente diffusa nel pensiero europeo dall’età dell’Umanesimo fino a Francis
Bacon, per la quale l’uomo, che è il Signore della Terra così come Dio è il Signore dell’Universo, potrà porsi come
davvero simile a Dio, come una vivente immagine di Dio, attraverso il lavoro, la trasformazione della natura e il dominio su di essa” (Filosofia ed Ecologia, op. cit., pag. 19).
(14) Per il momento, ripartiamo da questi dubbi e da queste domande: “Il fatto che la scienza e la tecnologia abbiano
reso possibili cose che sembravano incubi, implica che la conoscenza del mondo e il controllo umano sulla natura siano interpretabili come elementi negativi della storia della presenza umana? O addirittura come il risultato di un patto
con il Demonio che sarebbe alla fonte del nostro sapere e del nostro potere? L’idea della sacralità della natura, di un
uomo ridotto a suo custode e pastore non presuppone l’idea di una natura in sé benefica? In che misura questa idea non
si collega all’idea di una civiltà malefica in quanto antinatura e all’idea che il remoto passato della storia umana sia
popolato dai selvaggi innocenti di Rousseau invece che dai bestioni di Hobbes e Vico? E ancora: la risposta alla necessità, che drammaticamente si impone, di controllare il dominio umano sulla natura, di porre ad esso dei limiti implica
meno scienza o una scienza più adeguata? Non è la conoscenza l’unico possibile fondamento per la costruzione di
strumenti di previsione e di progettazione? Anche di progetti relativi ai rimedi per i nostri errori? E la conoscenza non
si incarna principalmente, anche se non esclusivamente, nella scienza?” (P. Rossi, cit.).
(15) Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di Leonardo Amoroso, BUR Milano 1995, pagg. 755757.
11
(16) Ed infatti, come dice Bateson: “…le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono nella loro forma più virulenta alla rivoluzione industriale. Esse si possono riassumere:
a. Noi contro l’ambiente
b. Noi contro altri uomini
c. E’ il singolo (o la singola compagnia, o la singola nazione) che conta
d. Possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo
e. Viviamo all’interno di una “frontiera” che si espande all’infinito
f. Il determinismo economico è cosa ovvia e sensata
g. La tecnica ci permetterà di attuarlo.
Noi sosteniamo che queste idee si sono semplicemente dimostrate false alla luce delle grandi, ma in definitiva distruttive, conquiste della nostra tecnica negli ultimi centocinquant’anni. Allo stesso modo esse si rivelano false alla luce della
moderna storia ecologica. La creatura che la spunta contro il suo ambiente distrugge se stessa” (Verso un’ecologia
della mente, Adelphi, Milano 2000, trad. di Giuseppe Longo e Giuseppe Trautteur, pagg. 536-537).
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