La città e la conchiglia. Suggestioni a partire dalla morfologia di

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La città e la conchiglia. Suggestioni a partire dalla morfologia di
La città e la conchiglia.
Suggestioni a partire dalla morfologia di Calvino
Maddalena Mazzocut-Mis
«Tanto lo so già che dall’umano non scappo di sicuro»,
da Due interviste su scienza e letteratura, in Una pietra sopra.
Una domanda
Comincio con una domanda: perché in Valdrada, le due città speculari possono
coesistere solo a condizione di «non amarsi» 1 ? Spilucco. . . ne ricavo un dettaglio.
Valdrada mi incuriosisce più di altre città. . . È una delle città doppie, dove gli
opposti non si amano. Non può essere un caso.
Provo ad indagare.
La tartaruga
Vado allora a rileggere il dialogo tra Palomar e la tartaruga, il dialogo filosofico.
La tartaruga, così pensa Palomar, non ha sviluppato il principio di identità e
non sa di essere distinta dal proprio guscio, di essere distinta dal mondo. Fin qui,
tutto scontato, o quasi. La consapevolezza della propria identità in rapporto al
mondo dovrebbe essere una conquista dell’uomo.
Ma ecco il colpo di scena da parte della tartaruga: «lo stesso vale per te, uomo.
Arrivederci»2 . E si chiude il racconto.
1
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e racconti, 3 voll., a cura di M. Barenghi e B.
Falcetto, Mondadori, Milano 19982 , vol. II, p. 400 [d’ora in poi CI].
2
I. Calvino, “Dialogo con una tartaruga”, Dialoghi, Rifacimenti, Traduzioni, in Id., Romanzi e
racconti, cit., vol. III, p. 1158.
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Lapidario, soprattutto se rivolto a chi, sulla propria identità, ha costruito secoli
di storia.
Cosa vuole dire Calvino?
Prima di tutto una banalità, ma come ogni banalità, vera e difficile da ignorare:
l’uomo è natura naturata, è mondo, è animale, è pianta, è sasso, è terra, è pulviscolo, è atomo, ecc. È natura e ne segue le leggi, i ritmi, le costrizioni, la volontà, le
forme.
Anche le azioni dell’uomo, di per sé forme formanti, si inseriscono in tale
contesto rispondendo alla natura.
Si domanda Valéry – e non si può dimenticare l’influenza di Valéry su Calvino
– «che cosa siamo se non un equilibrio istantaneo di una massa di azioni nascoste
e non propriamente umane? La nostra vita è intessuta di questi atti parziali in cui
la scelta non interviene e che, incomprensibilmente, si fanno da sé» 3 .
Ma allora, cosa fa di un uomo un uomo? La domanda è scontata. La risposa
direi di no. . . secoli di filosofia non l’hanno esaurita.
Calvino ci fornisce la sua versione.
L’uomo è una forma tra forme, una forma che, come un segno nero, si staglia
sopra la tela bianca del mondo di cui continua a essere parte e a condividerne il
tessuto.
Calvino insegna che nel nulla mancano le cose da pensare e i segni «per pensarle»4 . Ma dal momento che si crea un segno, è fatta: il mondo diventa il mondo,
la mente dell’uomo la mente dell’uomo. Una volta dato un segno «ne veniva la
possibilità – così si esprime – che chi pensasse, pensasse un segno, e quindi quello
lì, nel senso che il segno era la cosa che si poteva pensare e anche il segno della
cosa pensata cioè di se stesso. Dunque la situazione era questa: il segno serviva a
segnare un punto, ma nello stesso tempo segnava che lì c’era un segno, cosa ancora
più importante perché di punti ce n’erano tanti mentre di segni c’era solo quello,
e nello stesso tempo il segno era il mio segno, il segno di me, perché era l’unico
segno che io avessi mai fatto e io ero l’unico che avesse mai fatto segni» 5 .
Attraverso il primo segno, che è forma, e quindi scelta e scarto, il mondo inizia
a dare una immagine di sé.
Tema settecentesco, ma ritradotto, all’interno di una gnoseologia novecentesca.
A partire dal segno tracciato, il mondo si dà una forma che può essere interpretata dalla mente dell’uomo. Il problema quindi non è quello di comprendere come
l’uomo possa, attraverso il linguaggio, leggere il mondo, ma come il mondo possa leggere, interpretare e quindi trasformare l’uomo. Il vuoto non è la base per
ricostruire attraverso la prima forma, la forma del mondo, così come l’uomo la
percepisce ma, data l’insofferenza di Calvino per la coppia oppositiva soggettooggetto (tutto è soggetto o forse tutto è oggetto. . . ), il vuoto è la base “non base”
3
P. Valéry, “L’homme et la coquille”, Nouvelle Revue Française, 281, 1 febbraio 1937 (tr. it. in
Id., All’inizio era la favola, a cura di E. Franzini, Guerini, Milano 1988, p. 66).
4
I. Calvino, “Un segno nello spazio”, Le Cosmicomiche, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. II,
p. 110.
5
Ibid.
2
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per ricostruire l’influenza delle forme non solo sulle cose, ma sulla mente dell’uomo, sul suo modo di apprendere. Il dominio delle forme è assoluto. La vita delle
forme, come vuole Focillon, è autonoma, prevaricante. La forma è il destino del
mondo.
Forme e forme
«Volevo fare qualcosa che marcasse la mia presenza in modo inequivocabile, che
la difendesse, questa mia presenza individuale, dalla labilità indifferenziata di tutto
il resto. [. . . ] Così incominciai a fare la prima cosa che mi venne, ed era una
conchiglia»6 .
La forma a spirale della conchiglia indica una direzione di crescita, ma non
ogni forma indica necessariamente una direzione. Vi sono forme che indicano e
forme che si espandono. La forma è sempre il segno visibile di un cammino che
si sta percorrendo o che si è percorso. L’informe, invece, non indica. Il mollusco,
prima di costruire la conchiglia, non può dirsi propriamente né deforme né informe.
Tuttavia non ha una forma caratterizzante. Perciò, prima di possedere una conchiglia, la condizione del mollusco è del tutto «ricca e libera e soddisfatta». Non ha
dubbi. «Se si paragona con le limitazioni venute dopo, se si pensa a quello che
l’avere una forma fa escludere di altre forme, al tran-tran senza imprevisti in cui a
un certo punto ci si finisce per sentire imbottigliato, ebbene, posso dire che allora
era un bel vivere»7 .
Ma c’è di più. Se il non avere una forma definita indica una situazione di
completa libertà, di arbitrio assoluto (situazione divina più che umana o animale),
ciò significa che la forma è sì costrizione ma anche direzione, scelta condizionata,
fine, necessità.
Il mondo è quindi costretto a obbedire alla necessità formale, perché il mondo
delle forme, che abita ogni cosa, impone scelte morfologiche imperative. Si pensi
solo alla disperazione di Kublai Kan di fronte al suo impero che se in un primo
istante gli era sembrato un insieme «somma di tutte le meraviglie» ora «è uno sfacelo senza fine né forma». E proprio nella dispersione disgregata della mancanza di
forma, Kublai Kan cerca di ricostruire quella forma parziale, sensibile, qualitativa,
delle città che Marco Polo gli descrive.
È fin troppo noto che, riflettendo sull’esattezza, Calvino afferma di avere una
predilezione per «le forme geometriche, per le simmetrie, per le serie, per la combinatoria, per le proporzioni numeriche» 8 .
Per l’uomo, e da ciò secondo Calvino non si scappa, si tratta quindi da un lato
di scorgere nel finito quell’infinito che dà la regola e dall’altro, e questo è propriamente il compito dell’artista, di reintrodurre nel finito quantitativo di una forma
6
I. Calvino, “La spirale”, Le Cosmicomiche, cit., p. 212.
Ibid., p. 208.
8
I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi, 2 voll., a cura di M. Barenghi, A. Mondadori,
Milano 19952 , vol. I, p. 686.
7
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geometrica un infinito qualitativo che di nuovo dilata la prospettiva e ributta nel
caos delle mille forme metamorfiche. Una volta trovata la regola, essa va rigettata
nel caos delle qualità, della concretezza tangibile. Una concretezza che Calvino sa
rendere attraverso un meccanismo aptico di descrizione del particolare, che consente una vera palpazione del modellato, del formato, fino ai minimi dettagli. Quindi,
per usare le sue parole, da una parte «la riduzione degli avvenimenti contingenti
a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e
dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione
possibile dell’aspetto sensibile delle cose» 9 . Un ideale, questo, che da un ambito
epistemologico assai noto e dibattuto 10 si riversa in quello estetico, dando origine
al mondo magico di Calvino (o almeno ad una parte di esso).
Perciò, ed è ancora Calvino come è noto a ricordarcelo, «nelle Città invisibili ogni concetto e ogni valore si rivela duplice: anche l’esattezza. Kublai Kan a
un certo momento impersona la tendenza razionalizzatrice, geometrizzante o algebrizzante dell’intelletto e riduce la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei
pezzi di scacchi d’una scacchiera». Marco Polo scende nei particolari delle varie
città e Kublai Kan ne tenta la rappresentazione cambiando e ricambiando all’infinto
la disposizione dei pezzi. Il risultato? Tutti lo sanno. L’infinito delle combinazioni
possibili si dissolve nel nulla. E qui ecco ritornare il qualitativo. Quella scacchiera,
simbolo del nulla, si riempie di mondi infiniti possibili sì, ma questa volta qualitativamente distinti. E l’ebano e l’acero, con cui è costruita la scacchiera, iniziano
a parlare, raccontando la loro storia attraverso gli occhi di Marco Polo. Il nulla si
riempie di vita, o meglio di vite infinite, una nell’altra, una accanto all’altra, una
diversa dall’altra, grazie ad una combinatoria non calcolabile. «La quantità di cose
che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che
discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre. . . » 11 .
La metafora dell’ordine-disordine o della perfezione, quella della conchiglia
che Zwida sta disegnando e «che il mondo può e deve raggiungere», e della perfezione che invece «non si produce che accessoriamente e per caso», poiché il mondo
in effetti si rivela solo «nello sfacelo» 12 , si riscopre anche in Eudossia, la città del
tappeto. A ogni luogo del tappeto corrisponde «un luogo della città». Sembra che
tutto sia una gran confusione eppure «il tappeto prova che c’è un punto dal quale
la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo
minimo dettaglio»13 .
Il tappeto sembra essere una mappa della città, una mappa ideale, osservando
la quale è tuttavia difficile riconoscere la città reale. Il tappeto è il modello univer9
Ibid., p. 691.
Basta ricordare i nomi di D’Arcy Thompson, Theodore Andrea Cook, Etienne Souriau, Roger
Caillois.
11
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 691; CI, p. 469.
12
I. Calvino, “Sporgendosi dalla costa scoscesa”, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Id.,
Romanzi e racconti, cit., vol. II. p. 665.
13
CI, p. 440.
10
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sale, l’idea stessa di derivazione divina di cui la città reale è solo la riproduzione
approssimativa, quella messa in atto dagli uomini, quella contaminata dal qualitativo, quella incrinata dal caos. Ma sorge un dubbio. E se invece la città reale
fosse il vero modello? Se il disegno divino non fosse affatto una mappa precisa,
teleologicamente intesa, ma un caos senza forma? Se fosse umano e non divino il
desiderio di ridurre il sensibile all’intelligibile della geometria 14 ?
Sì, un desiderio profondamente umano. Un desiderio che si fa realtà nella geometrizzazione e matematizzazione della morfologia che da Leonardo approda agli
studi novecenteschi di D’Arcy Thompson, e viene perseguita, proseguita e poi tradita in Francia dagli esiti della teoria delle catastrofi. Conoscere, secondo l’ideale
che sta alla base della matematizzazione della morfologia, significa “riconoscere”
l’opera delle leggi della natura e ricercare le applicazioni possibili della matematica. Ma questo non può bastare a Calvino, che assorbe e fa propria la crisi delle
scienze esatte.
Se fosse allora l’uomo a influenzare il modello, il fondamento geometrico –
sempre che vi sia – dell’universo? Se fosse l’uomo, come in Andria, a influire sul
cielo dal momento che l’uomo appartiene all’universo stesso 15 ?
Così Tecla, che si ispira direttamente al cielo stellato, sarà una città in eterna
costruzione, una città che non chiuderà mai il suo ciclo, che non raggiungerà mai
la forma conchiusa e definitiva, proprio perché il suo modello è la stessa metamorfosi16 . E l’ordine, o meglio il caos, del cielo è quello che «si rispecchia nella città
dei mostri». Tale è Perizia17 . O Eusapia, dove i morti copiano i vivi o meglio i vivi
copiano i morti, fino all’indistinzione.
E ancora Eutropia nella quale il viaggiatore non scopre una città «ma molte, di
eguale grandezza e non dissimili tra loro, sparse per un vasto e ondulato altipiano».
A turno le città vengono riempite e svuotate in modo tale che tutta la città ripeta
«la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla sua scacchiera vuota» 18 .
Di nuovo il tema della scacchiera. Di nuovo lo schema geometrico della ripetizione. Di nuovo l’identico privo di identità che si ripete all’infinito, all’interno di
una parvenza, che è solo menzogna, di volubilità.
La soluzione? La conquista del qualitativo, di quel cosmo che «può essere
cercato all’interno di ognuno di noi, come caos indifferenziato, come molteplicità
potenziale»19 . Quella molteplicità potenziale che sola potrebbe, ma non ci è concesso se non attraverso il volo leggero dell’intelligenza, rompere il ciclo ripetitivo
e ossessivo delle metamorfosi (di per sé cambiamento dell’identico).
Allora l’uomo può tentare di imitare la forma del cristallo, trovando una formula o un modello che riproduce i caratteri di regolarità e simmetria, ma solo per
scoprire che la semplicità delle forme della natura è tale solo nei principi, o me14
15
16
17
18
19
Cfr. CI, p. 441.
Cfr. CI, pp. 485-486.
Cfr. CI, p. 466.
CI, p. 480.
CI, p. 410.
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 740.
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glio nei principi matematizzabili e riproducibili. Perciò anche il geometra, che è
riuscito agevolmente a spiegare e a rendere intelligibile la forma della conchiglia
e della ragnatela riducendole all’interno di poche leggi matematico-geometriche, è
sconcertato quando l’ultima parte della conchiglia «si svasa bruscamente, si squarcia, si risolleva e deborda in labbra disuguali, spesso di nuovo orlate, ondulate o
striate, che si discostano come fossero di carne, scoprendo nelle pieghe della più
dolce madreperla l’inizio di una rampa liscia, di una vite interna, che si nasconde
e guadagna l’ombra». E poi, si chiede Valéry, «perché non un giro di più?» 20 .
La natura si ferma nella concretezza del finito e si slabbra nella imprecisione
del contingente.
Per questo le Città invisibili non possono essere altro, pena l’esclusione dall’umano, che un altalenare tra il quantitativo della forma geometrica e il qualitativo
del sensibile, di quell’individuale che caratterizza la città, le sue strade, le sue case,
i suoi abitanti, i suoi animali, i suoi rifiuti, i suoi granelli di polvere, il suo infinito
microcosmo.
E tuttavia un modello esiste almeno nella mente di Marco Polo: Venezia. «Per
distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita»21 . Ma i modelli, si sa, non sono la realtà. E infatti Venezia si sfalda all’interno
dei racconti delle città di Marco Polo, come una montagna di sabbia che serve a
costruire infinite altre forme.
La mancanza di forma
La forma può essere quella geometrizzante o geometrizzabile e quella che rompe
ogni contesto regolistico del qualitativo sensibile. Entrambe le forme contribuiscono, insieme alla natura-sostrato, a fare dell’uomo ciò che è.
Ma cos’è, invece, la mancanza di forma?
Un esempio.
Non tutte le città di Calvino hanno una forma. Trude è la città senza forma,
senza vissuto, senza qualità. È la città che ogni città porta in sé, come mancanza. È
una forma che non marca, è un ricordo che non ricorda, è un nulla indifferenziato.
Racconta Marco Polo: «Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo
già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi
con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.
Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. – Puoi riprendere il
volo quando vuoi, – mi dissero – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per
punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce,
cambia solo il nome all’aeroporto» 22 .
20
21
22
P. Valéry, op. cit., pp. 59-60 e p. 61.
CI, p. 432.
CI, p. 467.
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E che dire di Cecilia, città «illustre» la cui forma si confonde con il resto del
mondo e il mondo con la sua forma? Cecilia è ogni individuo prima che sappia
di essere tale, prima che la sua forma lo differenzi come segno (segno che sempre
partecipa però dell’insieme).
E ancora Pentesilea, città senza il centro, «periferia di se stessa», nella quale
ci si perde ed entro la quale nasce il dubbio sulla propria esistenza, sulla propria
specificità, sul nostro essere unici e irripetibili: «fuori da Pentesilea esiste un fuori?
O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro e non
arrivi ad uscirne?»23 .
D’altra parte, cos’è per Calvino la morte, se non la sottrazione dell’azione di
una forma? Palomar, dal momento che decide di imparare ad essere morto, per
vedere come «va il mondo senza di lui», comprende la sostanziale differenza tra
essere morto e «non esserci». Essere morto significa aver avuto una forma e aver
influito sul mondo modificando la sua forma, quella del mondo. Se ogni nuova
formazione comporta una nuova forma del mondo – «avendo la conchiglia una
forma, anche la forma del mondo era cambiata, nel senso che adesso comprendeva
la forma del mondo com’era senza la conchiglia più la forma della conchiglia» 24
– così anche la mancanza di Palomar non può essere che una sottrazione di forma:
«Prima, per mondo lui intendeva il mondo più lui; adesso si tratta di lui più il
mondo meno lui»25 .
Morire è quindi sottrarre la propria forma al mondo nella consapevolezza che
quella forma ha agito sul mondo. Una forma che ora si fossilizza in ciò che è stato
e che non si può più cambiare, in ciò che per sempre sarà simile a se stesso. «[. . . ]
essere morto per Palomar significa abituarsi alla delusione di ritrovarsi uguale a se
stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare. [. . . ] Certo quelli
che continuano a vivere possono, in base ai cambiamenti vissuti da loro, introdurre
dei cambiamenti anche nella vita dei morti, dando forma a ciò che non l’aveva o
che sembrava avere una forma diversa [. . . ]. Ma sono cambiamenti che contano
soprattutto per i vivi. Loro, i morti, è difficile che ne traggano profitto. Ognuno
è fatto di ciò che ha vissuto e del modo in cui l’ha vissuto, e questo nessuno può
toglierglielo»26 .
Ecco il segreto di Zora, che non si cancella dalla mente, perché è memoria,
forma passata, forma fissata. Zora è una forma morta. Zora è la morte.
Anche la conchiglia ha qualcosa di morto, dentro se stessa, nel senso che la
forma a spirale mantiene il ricordo, il passato, in un presente fossilizzato – sebbene
possa essere nello stesso tempo forma in formazione. Infatti mentre i corpi viventi,
la materia vivente vive nell’istante, la conchiglia vive contemporaneamente nel
passato e nel presente. Nessun “se” o “ma”. Solo l’inesorabile evidenza di una
23
CI, p. 492.
I. Calvino, “La spirale”, cit., p. 217.
25
I. Calvino, “Come imparare a essere morto”, Le meditazioni di Palomar, in Id., Romanzi e
racconti, cit., vol. II, p. 976.
26
Ibid., pp. 977-978.
24
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storia vissuta. Una forma in formazione, quella della conchiglia; uno sviluppo in
atto eppure inesorabilmente statico nella sua presenza.
Zaira, dunque, è una spirale. La sua forma è determinata da un vissuto che
si è fissato una volta per sempre. «La città non dice il suo passato, lo contiene
come le linee di una mano, [come le spire di una conchiglia] scritto negli spigoli
delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei
parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi,
seghettature, intagli, svirgole» 27 .
Zaira contro Zenobia, quindi. La spirale contro la forma, labile, sottile che
si cancella. Zenobia, città sottile, ma anche città del desiderio e della memoria,
sospesa, collocata su palafitte con trampoli, scale e marciapiedi pensili, cresciuta
per sovrapposizioni successive. «D’altra parte le città si dividono tra quelle che
riescono a dare forma ai desideri e quelle la cui forma viene cancellata dai desideri,
se prima, gli stessi desideri non vengono cancellati» 28 . Le prime sono le città a
spirale, le città che mantengono la loro memoria, le seconde le città stratificate,
che cancellano per creare nuove forme.
La memoria
Quando la spirale cornea emanata dal mollusco cessa di crescere, diventa conchiglia, magari proprio una delle tante abbandonate sulla spiaggia. Una, due, infinite
conchiglie che iterano una forma e dilatano il tempo in avanti (sommando una
spirale all’altra) e all’indietro poiché nella forma a spirale possiamo leggere momento dopo momento tutta la sua storia, sempre presente, sempre attuale, narrata
dall’inizio alla fine.
La storia, la memoria, vivono nella conchiglia. Con un’immagine tratta dalla
rêverie bachelardiana, si può infatti vedere il mondo della natura provare e riprovare la sua forma nelle prime spirali. «I gusci, come i fossili, sono altrettanti tentativi
della Natura per preparare le forme delle differenti parti del corpo umano, sono
pezzi di uomo, pezzi di donne»29 . E in effetti la spirale può essere rintracciata
ovunque (e mille volte anche nel corpo dell’uomo).
Qfwfq se ne rende conto. Dopo aver fallito nell’impresa di costruire una spirale infinita – impresa destinata necessariamente a fallire se Qfwfq appartiene alla
natura e non al regno dell’astrazione – comprende che l’uomo ha imparato dalla
spirale a costruire un’altra forma in formazione che potrebbe tendere all’infinito:
quella della somma delle memorie. «A partire dalle nostre spirali interrotte avete messo insieme una spirale continua che chiamate storia. Non so se avete tanto
da stare allegri, non so giudicare di questa cosa non mia, per me questo è solo
il tempo-impronta, l’orma della nostra impresa fallita, il rovescio del tempo, una
27
28
29
CI, p. 365.
Cfr. CI, p. 384.
G. Bachelard, La poetica dello spazio, tr. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari 19934 , p. 138.
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stratificazione di resti e gusci e necropoli e catasti, di ciò che perdendosi si è salvato, di ciò che essendosi fermato vi ha raggiunto. La vostra storia è il contrario
della nostra, il contrario della storia di ciò che muovendosi non è arrivato, di ciò
che per durare si è perso: la mano che modellò il vaso, gli scaffali che bruciarono ad Alessandria, la pronuncia dello scriba, la polpa del mollusco che secerneva
la conchiglia»30 . Di nuovo la nostra memoria non è altro che una forma fissa e
immobile. La mano, fatta di sangue e carne, che l’ha modellata è sparita. Così il
mollusco. Resta la sua conchiglia nella quale leggere il passato.
Diomira, allora, non è niente altro che l’ennesima conchiglia trovata sulla sabbia. Tutte le sue bellezze sono note al viandante proprio perché le ha viste «anche
in altre città»31 e non solo. La memoria qui diventa l’iterazione di un vissuto che è
forma, un’iterazione che cerca tuttavia, come un rimpianto, la forma bella, quella
della felicità.
Lo stile
Le Cosmicomiche insegnano che le forme che il mondo inizia a darsi non rimangono identiche a se stesse una volta per tutte, ma si trasformano o scompaiono,
mentre altre fanno la loro apparizione.
Potremmo dire che le forme hanno un loro “stile”, nel senso che lo stile è un
modo particolare non solo dell’apparire della forma, ma anche della lettura che di
essa si può fare. Lo stile soggiace alla legge del tempo e vivifica le forme, anche
quelle morte (basta vedere la possibilità interpretativa delle forme nel passare degli
anni o di converso il significato che le forme assumono a seconda del contesto
nel quale sono inserite). Il suo potere è immenso, compreso quello di risuscitare i
morti.
Per usare un’immagine di città pensiamo a Tamara, la città dei segni e dello
stile. Lì «raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per
il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un
pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto
il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono» 32 . A
Tamara non si vedono cose, ma «figure di cose che significano altre cose». Qui,
senza insegne, ogni forma indica una funzione.
E pensiamo a Zirma dove sono i segni, ripetuti nella memoria del viaggiatore,
la possibilità, stessa del suo esistere. Zirma esiste nella memoria. Il segno richiama
alla mente una immagine e, nella sua ripetitività, ricostruisce la città che vive solo
attraverso di esso. «La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci
a esistere»33 .
30
I. Calvino, “Le conchiglie e il tempo”, La memoria del mondo e altre cose, in Id., Romanzi e
racconti, cit., vol. II, pp. 1246-1247.
31
CI, p. 362.
32
CI, p. 367.
33
CI, p. 371.
9
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Ma i segni, come ogni linguaggio, possono ingannare. Così Spazia, che è
l’inganno delle parole, si oppone ad Olivia dove «la menzogna non è nel discorso
ma nelle cose».
Se così è, nessuna convenzione dell’uomo potrà durare, nessun segno potrà
essere eterno, e sarà soggetto allo stile.
Stile che è anche segno distintivo, possibilità di riconoscimento. Una città
senza stile è come Zoe, che non ha segni che orientano e che di fatto non ha forma.
«[. . . ] appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo
a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti
immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei
grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra». L’uomo possiede un modello
di città che riempie con i “segni” e lo “stile” delle singole città. Ma «non così a Zoe.
In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi,
cucinare, accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli.
[. . . ] Il viaggiatore gira gira e non ha che dubbi: non riuscendo a distinguere i
punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano.
Ne inferisce questo: se l’esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città
di Zoe è il luogo dell’esistenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale linea
separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall’ululo dei lupi?» 34 .
Una risposta
Perché in Valdrada, le due città speculari possono coesistere solo a condizione di
«non amarsi»35 ?
Per Marco Polo, «l’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce
il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà» 36 . La scoperta
del molto che non ha avuto e che non avrà, dell’altro da sé, non solo come vivente
e presente, ma anche come non nato.
La reversibilità è solo dello stile, è solo concettuale, non è delle cose.
Se il morto è forma fissa, data per sempre, modificabile solo attraverso lo stile,
il non nato è il possibile scartato.
L’uomo, poiché è animale, terra e pietra e condivide la propria sostanza, le
proprie leggi, la propria struttura con il naturale, sottostà anche a un principio di
differenziazione che implica di per sé un principio di esclusione.
Nel momento in cui è tracciata la prima forma, altre ne vengono escluse. E
sebbene il mondo si riempia di forme, esse sono, proprio in quanto natura, finite.
L’infinito matematico non è della natura. La loro finitezza implica una esclusione.
Da qui l’interesse di Calvino per le forme scartate, le forme altre, le forme non
nate.
34
35
36
CI, p. 383.
Cfr. CI, p. 400.
CI, p. 379.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Tali forme, per nulla sconcertanti, spesso semplicemente il negativo del positivo, hanno tuttavia una essenziale caratteristica che suona come una maldicenza.
Non possono essere né amate né possedute. Pena il nulla assoluto.
Il nostro mondo deve rimanere, non il migliore dei mondi possibili, non lo
è, ma l’unica possibilità che ci è data, una tantum. Il resto, il non nato, non è
un’ulteriore possibilità, è scarto che non può essere recuperato. Le forme viventi,
mentre si fanno, decretano il definitivo e invalicabile confine tra nato e non nato.
Ciò spiega il motivo per cui la bellezza devastante di Org-Onir-Ornit-Or 37 , che,
non lo si dimentichi, può vantare una meravigliosa conchiglia-uovo, non può essere
posseduta. L’unione di mostro e non mostro, mostro come scarto della natura, non
può funzionare pena l’estinzione. Il mondo parallelo dei non nati deve rimanere
tale. La loro unione è mancanza di forma. È nulla. L’enigma del mondo, che non
può essere svelato, è che l’uno-tutto, non si dà. Il mondo vive perché è forma, cioè
scelta e scarto.
Ecco finalmente perché in Valdrada le due città speculari coesistono: “non
si amano”38 . E per lo stesso effetto Zermude incarna aspetti contrastanti se la
si contempla da sotto in su o con lo sguardo rivolto verso il basso. Fillide, poi,
scompare davanti agli occhi di chi cerca la felicità, dentro se stesso, nel “sepolto”,
nel “cancellato”, nello scartato. E sempre per tale motivo Moriana possiede, come
un foglio, un fronte e un retro che «non possono staccarsi né guardarsi» 39 .
«Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere
e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti» 40 . Non a caso la
forma di Despina è quella del desiderio di chi la guarda – e cos’è il desiderio se
non la ricerca del possesso dell’altro, di ciò che non si ha e non si può possedere?
Despina vista dal deserto sembra una nave, vista dal mare sembra un cammello.
Ma deve rimanere desiderio, aspirazione, non amore o possesso.
Ogni forma, anche desiderativa o immaginativa, prende vita solo perché esiste
il suo opposto, inconciliabile.
Così, se le città de Le città invisibili sono il mondo altro, attenzione a non
innamorarsene troppo!
37
Cfr. I. Calvino, “L’origine degli uccelli”, Ti con zero, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. II,
pp. 245-247.
38
CI, p. 400.
39
CI, p. 449.
40
CI, p. 370.
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