1 Armando Minuz Il comico e la parola. Appunti sul primo Malerba. 1

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1 Armando Minuz Il comico e la parola. Appunti sul primo Malerba. 1
Armando Minuz
Il comico e la parola. Appunti sul primo Malerba.
RIMBAUD (sollevandosi a stento): Io…io che mi
sono creduto mago o angelo, dispensato da ogni
morale… io sono ributtato al suolo, con un
dovere… da ricercare e la rugosa… realtà da
stringere…Ma… non c’è una mano amica e
dove… trovare soccorso?
GUIDO CERONETTI, Viaggia viaggia,
Rimbaud!
1. Diversi anni fa, Luigi Malerba parlò della propria narrativa in questi termini:
Elemento di unificazione di questi vari registri che ho adottato nei miei libri è l’importanza paradossale
delle contraddizioni nello sforzo constante di dare un senso alla realtà, o quanto meno di dare un senso a
questa ricerca. Per semplificare potrei dire che l’uso degli artifici letterari che ho adottato in tutte le mie
scritture cammina sulla strada dell’interpretazione. Forse tutta la narrativa che non sia soggetta alla truffa
del realismo è interpretazione1.
L’identificazione di tale comune denominatore, all’interno di un’opera tanto sfaccettata
e variegata, risulta utile, facilita la comprensione di uno scrittore che, attraverso
quarant’anni di narrativa, ha dimostrato una vasta gamma di interessi abbracciando, tra
l’altro, diversi “generi letterari”.
Ma se per il Proteo-Malerba si può parlare dell’interpretazione come dell’elemento
unificante, in grado di raggruppare tutta un’opera volta (anche) alla diversificazione e
stratificazione stilistica, è anche vero che una singola definizione non può bastarci.
Infatti se l’uomo, l’individuo Luigi Bonardi (per la letteratura Luigi Malerba), è almeno
superficialmente riconducibile a pochi dati anagrafici, lo scrittore assume, nel luogo
degli incantesimi e cioè sulla pagina, innumerevoli travestimenti, davvero maschere,
come significativamente s’intitola un suo romanzo2.
Già nella definizione dianzi citata, “nell’importanza paradossale delle contraddizioni”,
sta buona parte del senso di questa narrativa, che si muove in un costante sforzo di non
convenzionale investigazione. Da una parte sta la realtà, percepita come massa informe,
caos ingovernabile, dall’altra lo scrittore, l’aspirante esegeta, il codificatore. Questa è
una biforcazione accettabile per moltissimi autori e che anche nel caso di Malerba
lascia cadere dietro sé tracce e detriti, indizi, tentativi, tutta una scia arabescata e mai
retta che tenta la duplicazione di ciò che non è di fatto duplicabile: movimenti che si
cristallizzano, creando il testo.
All’inizio della sua carriera letteraria, intrapresa nel 1963 con il libro di racconti La
scoperta dell’alfabeto, Malerba rispose spontaneamente non soltanto a quel noto
“invito” di Adorno (“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine”3) ma a
tutta una temperie sociale e culturale che auspicava, più o meno in “buona fede”,
rinnovamenti. Qualche anno fa uscì una Antologia del Gruppo 63, approntata da
1
Cfr. PAOLO MAURI, Luigi Malerba, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 69, corsivo mio.
LUIGI MALERBA, Le maschere, Milano, Mondadori, 1995.
3
THEODOR W. ADORNO, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1954.
2
1
Balestrini e Giuliani, che suscitò qualche legittima contestazione4. Nella sezione
Narrativa dell’antologia troviamo, in effetti, anche un lacerto del Serpente malerbiano,
ma lo stesso Malerba dichiarerà, a proposito del Gruppo 63:
Per quanto mi riguarda posso dire che da quella ormai lontana esperienza ho imparato a crearmi un
“contesto” anche negli anni della peggiore stagnazione e del più nero conformismo. Il contesto non è
soltanto storia e geografia letteraria, ma un particolare stato d’animo, un atteggiamento aperto, un
interesse verso la sperimentazione continua...5.
Infatti Malerba troverà, paradossalmente ma a ben vedere neppure poi tanto, la sua
“mano” proprio nella varietà di scrittura, il suo stile proprio appoggiandosi ad una
“sperimentazione continua” che lo porterà a comporre romanzi molto diversi fra loro
(dal punto di vista tematico e stilistico), racconti, fiabe. Ma nonostante questo esiste,
come abbiamo visto, un denominatore comune ed esiste, nel leggere la narrativa
malerbiana, la possibilità di isolare alcune tematiche, alcuni caratteri di fondo, stilemi
che vengono, più o meno consciamente, riproposti.
Al di là della passione malerbiana per tutto ciò che è medievale e per la storia in genere
(da qui nasceranno opere quali Storie dell’anno mille, oppure Il pataffio, o ancora Il
fuoco greco o Le maschere) è possibile rintracciare un “polo contemporaneo” narrativo,
nel mezzo del quale spicca un personaggio che da una parte pare ispirarsi alla
tragicomicità delle caratterizzazioni del comico Buster Keaton o ad alcuni personaggi
di Samuel Beckett, dall’altra al romanzo sperimentale e alla letteratura che, per
necessità di sintesi, potremmo definire di critica al “neocapitalismo”. Questo
personaggio è stato codificato per la prima volta da Maria Corti, che l’ha (ben)
imbrigliato nella figura emblematica del “nevrotico-visionario”6 e da allora la
definizione è stata variamente sfruttata. Si tratta di una figura tragicomica e
radicalmente “novecentesca”, nascostamente dolente: il “nevrotico-visionario” è il
personaggio di un dramma, di una rappresentazione (magari di un film), comunque di
un’opera creata per gli occhi del lettore, per il suo divertimento, per attirare la sua
attenzione, anche per suscitare un certo “scandalo”, che come si sa rappresenta spesso
un’utile arma (utile e pericolosa, come tutte le armi) per rendere il racconto pedagogico,
morale. Resta poi da decidere se la fragilità del personaggio nevrotico-visionario
corrisponda ad una debolezza effettiva o non corrisponda, ancora una volta, ad una
maschera, a un travestimento, insomma a un purificatorio carnevale fuori stagione.
L’attore protagonista del dramma ama raccontare storie, ama (anche se non lo
ammetterebbe mai) il pubblico ed ama, soprattutto, i camuffamenti. Anche per questo
motivo il “nevrotico-visionario”, come ogni buon comico, potrebbe offrire nuove
sorprese, insospettate rigenerazioni. Ne L’esausto, Deleuze pone in evidenza un tratto
4
Gruppo 63. L’antologia, a cura di Nanni Balestrini – Alfredo Giuliani, Torino, Testo & Immagine,
2002. (Su cui cfr. le argomentate riserve di Andrea Cortellessa, in Alias-Il Manifesto, 27 aprile 2002, p.
22).
5
AA.VV. (Gruppo Laboratorio), Luigi Malerba, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 1994, p.
61.
6
«Nelle quattro opere citate di Volponi, Malerba e Villa [le opere sono rispettivamente La macchina
mondiale, Il serpente e Salto mortale, Deposito celeste] l’intento di superare le forme tradizionali della
narrativa porta a una innovazione più consistente sul piano delle forme del contenuto che su quello delle
forme dell’espressione: cioè a livello di organizzazione tematica il nuovo si manifesta soprattutto in
quanto la realtà è vista dalla specola di un personaggio nevrotico-visionario; i protagonisti dei libri citati,
solitari che per lo più monologano, si presentano come le varianti di un solo personaggio che ha per
caratterizzazione o costante segno di unità la forza visionaria. Dalla specola di questa nevrosi visionaria
la realtà esce deformata; il personaggio è il portatore vivente della deformazione, il congegno
deformante, è dunque il principio costruttivo dei romanzi stessi; in altre parole esso è una prospettiva in
cui vedere diversamente il reale, è il mezzo scelto dallo scrittore per attuare il processo artistico dello
straniamento»; MARIA CORTI, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, pp. 135-36.
2
fondamentale di alcuni personaggi beckettiani, tratto applicabile in pieno ai personaggi
malerbiani:
Sdraiarsi non è mai la fine, l’ultima parola; è la penultima, e si rischia di essere abbastanza riposati, se
non per alzarsi, almeno per girarsi o strisciare. Per fermare lo strisciante, bisogna ficcarlo in un buco,
piantarlo in un orcio dentro al quale, non riuscendo più a muovere le membra, smuoverà ancora qualche
ricordo7.
Proprio come “l’esausto” beckettiano anche il “nevrotico-visionario”, che per certi versi
è un figlioletto di questa grande invenzione novecentesca di Beckett, mantiene una
condotta simile: sfinito, sembra continuamente accasciarsi al suolo, privo d’energia.
Puntualmente, però, sorprende il lettore con un colpo di coda, un ultimo movimento,
un’inaspettata parola sussurrata. Nel caso di Malerba, quasi sempre, è un gesto
(tragi)comico, una mattata disperata, una follia volta a celare una disperazione
soverchiante e solo malamente tenuta a bada dal personaggio.
2. La storia del personaggio malerbiano inizia da un inganno, elemento sostanziale
radicatosi già con il primo romanzo:
La “storia” è azzerata: è molto probabile infatti che tutto sia frutto di fantasia patologica e che l’unico
dato “vero”, deducibile dalle ultime pagine, sia il ricovero in manicomio del soggetto enunciato. “Vero”
tra virgolette, perché sarebbe sempre una verità interna alla “finzione” del romanzo. Proprio in questo
risvolto si annida la carica demistificatoria di Malerba nei confronti della letteratura: mostrare che il
tenere-in-conto-di-vero che la finzione letteraria tradizionalmente esige può essere veicolo del falso, vale
a incrinare la cieca accettazione – e quindi l’immedesimazione, la partecipazione – alla finzione in
quanto tale. Si direbbe quasi che l’autore si schieri dalla parte del lettore e lo metta in guardia dall’effetto
di verosimiglianza messo in atto dal narratore8.
Il romanzo è infatti presentato inizialmente come un racconto in prima persona del
chimerico “uomo comune”, che nel corso della narrazione (all’incirca fino alla prima
metà del libro) scopriamo sposato e adultero. Soltanto procedendo con la lettura emerge
l’inganno che toglie di colpo la base a tutto il romanzo: l’uomo non è sposato, l’amante
non esiste, l’opera è in verità una sorta di resoconto che il personaggio stesso sta
scrivendo per un commissario di polizia, nel tentativo di farsi incriminare per
l’omicidio (ovviamente mai avvenuto) dell’amante.
Il gioco che Malerba compie nel Serpente9, pare a prima vista autodistruttivo: attraverso
questi procedimenti egli lavora ad un processo di smitizzazione del narratore che tocca,
per riflesso, lo scrittore stesso (o meglio lo Scrittore, quello “tradizionale” con la S
maiuscola, tanto inviso a molta letteratura degli anni Sessanta). Da questo primo
omicidio letterario sembra uscire parzialmente integro soltanto l’assassino, ovvero
Luigi Malerba. Il fatto che i romanzi e i racconti malerbiani che più sviluppano questo
7
GILLES DELEUZE, L’esausto, Napoli, Cronopio, 1999, p. 15 (1a ed.: L’épuisé, Les Éditions de Minuit,
1992).
8
FRANCESCO MUZZIOLI, Ritratti critici di contemporanei: Luigi Malerba, in Belfagor, n. 5, 1989, p. 522.
Ancora il Muzzioli, nell’Introduzione all’edizione ’89 Mondadori del romanzo: “La menzogna di un
personaggio può creare delle sorprese, ma quella di un personaggio narratore produce un vero e proprio
cataclisma nell’universo cartaceo poiché mette in crisi le fondamenta della finzione narrativa [...] Le
smentite successive che costellano Il serpente si accumulano in crescendo fino a quel colpo che sottrae
addirittura un personaggio centrale come Miriam, la donna amata e vittima. L’evanescenza di Miriam
non sta tanto a significare la fantasmicità di qualsiasi oggetto del desiderio, e neppure la vaghezza
dell’eterno femminino, quanto piuttosto funge da carico da novanta per affossare la credibilità della voce
narrante” (p. 9).
9
Milano, Bompiani 1966.
3
smontaggio siano tutti in prima persona (Il serpente, Salto mortale, Il protagonista,
molti racconti di Dopo il pescecane e Testa d’argento, il romanzo Il pianeta azzurro)
dà ragione di un procedimento basilare: lo scrittore si sforza di rendere il narratore il
più “reale” possibile, tenta di rendere la finzione assolutamente verosimile, ma soltanto
per svelarne con maggior clamore il crollo, quando questo avverrà (Il serpente in
particolar modo si muove su queste coordinate). Lo scrittore si salva soltanto
condannando a morte il suo personaggio, un golem appositamente eretto per una
missione suicida. Potremmo dire, sintetizzando, che il procedimento tenta lo sbaraglio
d’ogni ambizione mimetica naturalistica. (Il solito Muzzioli: «Per ottenere il
ribaltamento a sorpresa che scopre la finzione dentro la finzione, a Malerba torna buona
l’adozione dell’io narrante: niente di meglio – lo ha scritto anche Todorov – di un
narratore-personaggio, poiché “in quanto narratore, il suo discorso non ha da essere
sottoposto alla prova della verità, ma in quanto personaggio egli può mentire”. La
smentita può essere data dal narratore stesso in forma di ammissione, come avviene ne
Il serpente (introdotta da un “ho mentito quando ho detto”...)».10
3. Lo studio di questa specie di congegno bipolare narratore/autore ha sempre
interessato Malerba. All’inizio del libro di racconti Testa d’argento, del 1988, troviamo
un’indicazione preziosa:
L’autore ha creduto che l’uso della “prima persona” potesse aiutare il lettore a entrare nei panni e
nell’anima dei suoi personaggi. Si rende conto ora che forse l’identificazione può risultare meno facile di
quanto credesse, data la varietà dei personaggi da racconto a racconto e la difformità delle opere nelle
quali si muovono. In caso di difficoltà ha dunque un suggerimento per il lettore: se non riesce a
identificarsi con i personaggi può provare a identificarsi con l’autore. È un suggerimento interessato al
quale aggiunge qualche parola di raccomandazione e di garanzia: l’autore è una persona di indole
tranquilla, ben disposta verso il suo prossimo e soprattutto estraneo a quei disturbi e a quelle bizzarrie
che talvolta fanno agire i suoi personaggi.
Malerba da un lato invita il lettore, attraverso la prima persona, all’identificazione con i
personaggi dei racconti. Per altro verso, lo scrittore sembra rendersi subito conto di
come l’identificazione possa risultare “meno facile” del previsto, data “la varietà dei
personaggi” e “la difformità delle opere nelle quali si muovono”. Un elogio, insomma,
non alla tradizione che vede nell’opera letteraria (nel concetto stesso d’arte) uno
strumento consolatorio, minimizzante, ma all’esatto suo contrario: l’opera letteraria,
l’arte stessa intesa come caos, come stanza degli specchi, casa infestata, selva nel quale
l’autore si addentra, tentando la più grande delle avventure. In chiusura, ambiguo,
l’invito a considerare l’autore “una persona di indole tranquilla”, che niente ha a che
vedere con i “disturbi” e le “bizzarrie” dei personaggi da lui creati11. Uno sfuggente
elogio della normalità che spiazza ulteriormente il lettore.
Laddove già anni prima, nella raccolta Dopo il pescecane (1979), si leggeva questa
introduzione:
I racconti che compaiono in questa raccolta sono in prima persona. Si tratta di un lieve espediente
retorico che, avendo facilitato il compito dell’autore, si presume possa aiutare anche il lettore a farsi
partecipe di situazioni e storie e personaggi che spesso esulano dalla comune esperienza.
10
MUZZIOLI, Malerba. La materialità dell’immaginazione, Roma, Bagatto Libri, 1988, p. 94.
«Ho qualche disturbo dalla definizione dei miei personaggi come nevrotici-visionari […] Visionari
senz’altro, ma quel “nevrotici” li confina in un’area di malattia che sminuisce il loro rapporto con la
realtà […] Con questo ti prego di non pensare allora che nevrotico è l’autore, anch’io reclamo una mia
credibilità come ho spiegato nel risvolto di Testa d’argento»; LUIGI MALERBA, lettera personale
all’autore (18 agosto 2002).
11
4
Subito dopo la pagina prende una piega decisamente inquietante:
In un solo caso l’autore non è riuscito a immedesimarsi con il protagonista per una particolare,
invincibile ripugnanza “politica”. Così l’ultimo racconto è scritto in terza persona e proiettato in un
futuro tanto lontano da non turbare il lettore che vorrà leggerlo in trasparenza. Va ricordato per inciso che
tale racconto è già costato la vita a una rivista letteraria, poco male, ma non si vorrebbe che ora dovesse
fare anche qualche vittima umana.12
(Sul finale la tensione s’innalza ulteriormente):
L’autore tiene al sicuro le carte che gli garantiscono l’incolumità, ma al lettore inerme raccomanda
prudenza e silenzio.
In questo caso, il racconto potenzialmente “mortale” parte dalla vicenda di un
“clamoroso crack finanziario” che “ha messo a terra la famigerata dinastia degli
Andersen che da più di un secolo domina la Svizzera delle banche e da qui si ramifica
in ogni parte della crosta terrestre con le sue filiali, consociate e parallele. La Andersen
& C. controlla (controllava) il mercato dell’oro e della lana, della alghe alimentari e
dell’eroina, le corse dei cavalli e dei cani, le reti telefoniche e televisive, le centrali
atomiche e infine aveva il monopolio della costruzione e della manutenzione dei rifugi
antiatomici in Europa”13.
Il racconto è interessante perché ci porta nella stessa direzione verso cui si muoverà,
sette anni dopo, Il pianeta azzurro, il romanzo più scopertamente politico di Malerba,
forse il suo capolavoro. Proprio nel Pianeta azzurro, come nel racconto Il favoloso
Andersen, Malerba estremizza il meccanismo bipolare dialettico autore/narratore,
puntandolo maggiormente contro la verosimiglianza ma apparentemente a favore,
creando un effetto di straniamento, di sfiducia che mima non più il realismo letterario
ma alza il tiro, mira a colpire la realtà politica italiana, con le sue trame criptiche,
distanti dal cittadino, politica al servizio di un potere totalizzante e inumano14. Lo
“pseudo-Malerba”, il Malerba cartaceo della prefazione dianzi citata e del Pianeta
azzurro, sarebbe poi a ben vedere un’ottima proiezione della figura del politico
corrotto, almeno come la maggior parte delle persone assume quest’idea nel proprio
immaginario: non un “nevrotico visionario” bensì un uomo posato, discreto, educato,
che invita alla prudenza ed al silenzio. In fin dei conti, Malerba costruisce nel suo
romanzo più politico una lotta a due, un testa a testa manicheo fra due caratteri, due
nature diametralmente opposte, un confronto sconcertante che dimostra, banalmente,
quanto le apparenze possano mentire, soprattutto nell’epoca dei media, delle televisioni
in ogni casa (anzi, in ogni stanza), delle lotte politiche che si svolgono oggi nei salottini
televisivi in seconda serata. Ecco uno dei sensi possibili del Pianeta azzurro: il politico
è benvestito, posato, razionale, mentre il “nevrotico-visionario” agisce come un folle, si
dimena, soffre e perde la razionalità, giungendo ad un sottolivello più profondo, intimo,
a contatto con la reale natura dell’uomo, quasi ascrivendosi a quella tradizione del
“pazzo di Dio”, che vede nella perdita del raziocinio l’unico strumento per giungere a
una verità nascosta e sepolta dalle fioriture e dalle trame contorte del “progresso”
12
ID., Dopo il pescecane, Milano, Bompiani, 1979, p. 5.
Ibidem, p. 121.
14
«Le identità del diarista e del commentatore del diario del Pianeta Azzurro continuano ad eluderci, fino
a coinvolgere un terzo compilatore, lo scrittore stesso, il quale mente come gli altri e complica vieppiù la
rete delle menzogne. Lo scrittore non vuole essere degno bensì indegno di fiducia. Le dichiarazioni di
Malerba sono un invito al lettore a non credergli e a partecipare alle operazioni di montaggio e
smontaggio della sua storia (invocando la sua collaborazione o addirittura la sua complicità – forse per
poterlo meglio imbrogliare)»; GUIDO ALMANSI, La ragion comica, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 84.
13
5
umano. Ancora una volta, sottolineando un suo tratto caratteristico, Malerba pone al
servizio della pedagogia un elemento con il segno “meno”, cioè la pazzia, la nevrosi,
trasformandolo in positivo15.
Anche per quanto riguarda l’aspetto della menzogna, del “trucco”, si dovrebbe tener
presente che in Malerba questi elementi non scattano mai per un senso di pura
eversione verso la “forma romanzo”. Quello che abbiamo definito un “gioco” (il gioco
del narratore mendace, dello “pseudo-Malerba”) è un gioco fino ad un certo punto, cioè
fino al momento in cui non svela la pretesa di educare il lettore. L’Almansi, nella sua
Ragion comica, definisce Malerba come “uno scrittore che adopera delle idee, non un
ideologo che adopera la scrittura”, come del resto sempre per l’Almansi la “natura di
favolista” (insieme alla “predilezione per l’assurdo”) del nostro scrittore si
esprimerebbe attraverso l’utilizzazione di “tutti i modi e le stravaganze del favolismo” e
“il gioco che concede maggiore libertà di movimento al favolismo malerbiano è il
letteralismo dove sparisce la linea divisoria fra la parola e la cosa”16. Ma nel parlare di
“favolismi” e di favole non si può dimenticare una caratteristica da noi troppo spesso
accantonata in favore del gioco di prestigio, cioè la tendenza della favola stessa, del
mito, a farsi apologo morale, pedagogia, insomma insegnamento (si leggano in
quest’ottica diversi racconti di Dopo il pescecane e Testa d’argento). La fiaba, se
perdesse la capacità di dimostrare verità concrete travestendole con pelo di lupo, non
sarebbe poi neppure così divertente, così eterna come dimostra d’essere, resistendo a
qualsiasi urto. Il fiabesco malerbiano è soltanto parte dell’armamentario che funge
all’educazione, alla destrutturazione e ricostruzione di concetti, ansie, idee. Tra l’altro,
se questo non fosse vero non si verificherebbe un fatto molto curioso: fiabe
dichiaratamente “per bambini” composte da Malerba (per esempio C’era una volta la
città di Luni17) risultano del tutto pedagogiche e per niente “favolistiche”. Si viene così
a creare una singolare inversione secondo la quale i presunti libri “per adulti” parlano
una lingua spesso “fantastica”, meravigliosa (e trattano temi altrettanto fantastici e
soggetti al meraviglioso), mentre le fiabe per i ragazzi esprimono apertamente il loro
intento educativo e “serio”. Nel caso della favola della città di Luni, Malerba racconta
(il fatto è storico e documentato) di come alcuni Normanni, intorno all’anno Mille, a
causa della loro ignoranza storica e geografica, approdarono e distrussero la piccola
città ligure, credendo di essere arrivati a Roma. Il Serpente, ad esempio, romanzo “per
grandi”, parla di un nevrotico-visionario che s’inventa prima una moglie, poi un’amante
ed infine divora quest’ultima. Credo che i due esempi, messi a confronto, risultino
piuttosto eloquenti (e la comparazione funzionerebbe allo stesso modo – forse megliosostituendo al Serpente, Il protagonista o alcuni racconti delle due raccolte dianzi
citate).
Questo comunque capita perché Malerba non assume la favola come modello integro
ma la smonta, ne preleva gli elementi utili al discorso, li mescola con gli altri elementi
della rappresentazione, che sono il comico, il gusto per il paradosso, per il paralogismo,
il sabotaggio e la parodia di grandi modelli artistici o letterari (come il romanzo di
Cervantes o di Manzoni, addirittura l’Odissea o il mito del crociato18). Malerba si
muove insomma attraverso un’idea di opera intesa come mosaico, composto di tessere
15
A questo punto bisognerebbe introdurre il discorso che lega Malerba alla produzione maggiore di
Pirandello, per quanto ne sappiamo non molto studiato, fatte salve le importanti “incursioni” di WALTER
PEDULLÀ, malerbista principe: del quale cfr. almeno – da ultimo – Le armi del comico, Milano,
Mondadori, 2001.
16
ALMANSI, La ragion comica, op. cit., pp. 74-5.
17
MALERBA, C’era una volta la città di Luni, Teramo, Lisciani & Giunti editore, 1990.
18
Vedi rispettivamente per queste “manomissioni”, la raccolta di racconti Avventure, Bologna, Il Mulino,
1997, il romanzo Itaca per sempre, Milano, Mondadori, 1997 e I cani di Gerusalemme, Roma, Theoria,
1988.
6
accostate e di materiale eterogeneo. Soltanto attraverso questo procedimento sarà
possibile creare un’opera comica, dove il comico è inteso come genere misto per
eccellenza, olla pòdrida, calderone in cui confluiscono i più svariati elementi tematici e
linguistici. In questo senso opere come Salto mortale o Il protagonista risultano
comiche al massimo grado, si aggregano al filone che richiama in causa tutta una
(contro)tradizione, riconducibile almeno al Rabelais inquadrato da Bachtin nel suo
celebre saggio.
Del resto, d’eclatanti gesti comici è fatta un po’ tutta la narrativa del primo Malerba.
Anche i processi di distruzione del narratore che abbiamo visto sono, a ben vedere, un
atto comico, eversivo, vitale che si rivolge al lettore per scongiurare la tendenza alla
cristallizzazione dei generi, dei topoi, del cliché. La stessa cosa si può dire per quella
oramai celeberrima (un po’ tutti i critici malerbiani ne hanno parlato) “invenzione della
moglie” contenuta ancora nel Serpente, che spiazza drasticamente il lettore.
Nel Serpente, come ho già accennato, il protagonista racconta, ovviamente in prima
persona, alcune vicende delle sua vita, in un flusso apparentemente autobiografico e
realistico: episodi d’infanzia, un accenno alla guerra, poi tutta una serie di episodi che
culminano in una storia d’amore con una ragazza di nome Miriam, che finirà con
un’atipica tragedia. Il protagonista racconterà anche, nella prima metà del libro, di un
rapporto non proprio idilliaco con la moglie, salvo poi uscirsene fuori, senza nessuna
motivazione apparente, con una candida e spiazzante confessione19. Attraverso questa
confessione, il tradizionale patto con il lettore è frantumato d’un colpo. Chi potrà più
garantire la veridicità del racconto se il narratore stesso, al posto magari
dell’onniscienza, sfodera un gusto perverso per la menzogna, per la bugia20?
Bisogna poi notare che, proprio in seguito ad un litigio con la moglie mai esistita, il
protagonista rivelerà di essersi rivolto a Furio Stella, maestro di canto, e soltanto
entrando nel coro il personaggio conoscerà Miriam. La voragine della bugia s’allarga, il
lettore scopre gradatamente che tutto il libro poggia su fondamenta inesistenti:
Non so come, l’antipatia per mia moglie cresceva e arrivò a un punto che non ne sopportavo la presenza
[...] Mi ero ridotto poco alla volta in cattivo stato e il medico dal quale andai a farmi visitare mi disse
basta che si riposi un po’.
Fu allora che andai a trovare Furio Stella.21
Su questa base, molti critici che si sono occupati del Serpente (ho già riportato
l’opinione di Muzzioli in proposito) hanno creduto di vedere in questo antiromanzo, “la
storia di un mitomane il quale finge di avere un’amante con la quale finge di avere
rapporti stretti, di intimità [...] dalla quale viene abbandonato e forse tradito e la quale
infine uccide per punirla di averlo fatto soffrire, di averlo tradito”,22 secondo le parole
19
«Veramente ho mentito quando ho detto di essere sposato. Non ho mai avuto una moglie o qualcosa
del genere. Per dire quello che ho detto ho preso come esempio una compagna di scuola che se l’avessi
sposata sarebbe diventata così come ho detto» (Il Serpente, Milano, Mondadori, 1989, p. 99). Eppure a p.
42, a puro titolo esemplificativo, si leggono frasi del tipo: «L’ho sempre chiamata vecchia, mia moglie,
perché ha un anno più di me. In quel periodo il nostro matrimonio non andava tanto bene. Mia moglie era
diventata antipatica. Antipatica voleva dire che mi dava fastidio vederla»: et coetera.
20
Del resto, la letteratura italiana coeva era in parte avvezza a certi “meccanismi” o congegni narrativi
abilmente mimetizzati fra le righe per far cadere in trappola il lettore. Si veda, a titolo puramente
esemplificativo, la venticinquesima trama di Centuria di Giorgio Manganelli (l’autore,
significativamente, della Letteratura come menzogna), in cui il protagonista si “ricorda” d’un tratto, nel
delirio di una pesante ubriacatura, “di non avere alcuna moglie”, nonostante avesse poco prima
confessato al lettore di aver ucciso la consorte.
21
Luigi Malerba, Il Serpente, p. 42
22
ANGELO GUGLIELMI, Vero e falso, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 157.
7
di Guglielmi. Anche secondo Maria Corti la Miriam del romanzo sarebbe fittizia,
inventata dallo stesso protagonista23.
Il sospetto è più che fondato, naturalmente. Dopo “l’invenzione della moglie” tutto è
possibile, anche perché la moglie “scompare”, attraverso la confessione, proprio per dar
modo a Miriam di crearsi. Si può supporre che, se il libro fosse durato venti pagine in
più, il narratore avrebbe potuto confessare qualcosa di simile: “veramente ho mentito
riguardo a Miriam...” e così via, attraverso un sistema tipo “abisso”, una sorta di mise
en abîme portato alle estreme conseguenze, ipoteticamente fino all’azzeramento di ogni
“verità” letteraria24.
Il libro scompare, mangia sé stesso così come il protagonista, sul finale, mangia Miriam
(ma, ancora, è il protagonista che mangia sé stesso o meglio una parte di sé, una sua
creazione mentale). Alla fine resta soltanto ciò che interessa: il gesto, la
rappresentazione che sfata con una parabola comica la “truffa del realismo”, gesto che
invita il lettore a rivalutare parte della letteratura che conosce ed allo stesso tempo lo
diverte (o lo irrita) con un ben congegnato gioco illusionista fatto di lettere e parole.
Per quanto riguarda poi proprio l’uso della parola (e del racconto inteso come
fabulazione), si vedrà come essa avrà un ruolo fondamentale, fin dalla Scoperta
dell’alfabeto. In alcune modalità linguistiche attuate da Malerba si nota una sorta di
“secondo filtro” (il primo è quello, appunto, comico) che si sovrappone attraverso la
pagina all’interpretazione della realtà, insomma una tendenza malerbiana alla retorica,
all’involuzione della lingua (verso l’interno piuttosto che verso l’esterno). Così come il
personaggio malerbiano, nei confronti ad esempio della violenza a cui è continuamente
sottoposto, tenta di difendersi avvolgendosi su sé stesso, così fa il linguaggio.
4. I due “filtri” (la comicità, la retorica) agiranno così in molte scene di violenza o di
sesso all’interno dei romanzi e dei racconti, raffinando, setacciando la brutalità o la
corporeità, mascherando anche i procedimenti che, presentati in una situazione di
maggiore realismo, scandalizzerebbero maggiormente il lettore. Si rivitalizza il discorso
accennato da Renato Barilli giusto a proposito della retorica: Malerba tenta il
sotterramento d’una improbabile “estetica del sentimento”, di un impossibile e ingenuo
rapporto diretto, non mediato, tra soggetto e oggetto. Nelle opere malerbiane troviamo
sempre qualcosa (relativo alla manipolazione della lingua o allo spettacolo comico) che
si sovrappone in questo rapporto diretto, rendendolo mediato, lavorato, artificiale e non
“naturale”25.
La retorica di Malerba sarà insomma da ricercarsi in un’attenzione costante nei
confronti sì dell’arte della persuasione, ma anche propriamente verso “l’arte della
parola”, lo studio della pagina, delle diverse modalità realizzabili durante la scrittura, in
definitiva in un far sì che il soggetto narratore e l’oggetto (cioè il mondo) non si trovino
mai “a tu per tu”. Questo sarà uno dei molti aspetti -per tornare alla tematica inizialeche faranno scaturire tanta varietà e tanta diversità di esiti, tematiche e di stile, da un
romanzo all’altro, nonostante la persistenza di alcuni nuclei centrali.
23
MARIA CORTI, Luigi Malerba: una scommessa con il reale, in “Autografo”, febbraio 1988. (Ora anche
nella prefazione al Serpente, Milano, Mondadori, 1989).
24
Si tratta davvero del cannibalismo letterario individuato dal Guglielmi: «A mano a mano che andiamo
avanti nella lettura del libro realizziamo questa sparizione. Finché, giunti all’ultima pagina l’incanto è
interamente realizzato: il libro non esiste più» (Vero e falso, op. cit., p. 160).
25
Paolo Mauri notò, già negli anni Settanta, qualcosa di significativo in proposito: « [...] l’uso
frequentissimo dei paralogismi, il recupero dell’inventiva, le frasi a doppio significato, l’epidemia
ecolalica che sembra cogliere moltissimi parlanti malerbiani, unitamente all’impiego, ormai rarissimo in
prosa, di ritmi metrici (Salto mortale), preludono alla fondazione d’una neoretorica che si presenta
terreno d’indagine assai promettente»; MAURI, Malerba, op. cit., 64.
8
Questa dedizione alla parola sarà verosimilmente anche il punto di partenza di tutta
l’opera malerbiana, iniziata appunto con quella dichiarazione d’amore che è l’atipico
racconto eponimo della Scoperta dell’alfabeto.
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