Fragilità: finitezza e malattia, senso della vita

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Fragilità: finitezza e malattia, senso della vita
ARIS SANITA' - n. 3 Luglio-Ottobre
2006
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DOSSIER
Fragilità:
finitezza e malattia,
senso della vita
di Domenico Galbiati
Chi opera in campo sanitario fa quotidianamente esperienza della sofferenza. Sia che accompagni la malattia in fase acuta, cioè in una contingenza per lo più occasionale e spesso fortunatamente transitoria, che può
essere anche affrontata con efficaci terapie, in vista di un'auspicata "restituito ad integrurn" dello stato di salute. Sia quando nasce da una condizione di limite o disagio che, in qualche modo, appartiene quasi costitutivamente al soggetto, per cui, se pure meno stringente nell'immediato,
impegna più a fondo la sua intera prospettiva esistenziale.
In ogni caso, il medico, e con lui ogni operatore sanitario, giorno per giorno si misura, ad un tempo, con la forza e con la fragilità della vita: non
intesa come categoria generale ed astratta, ma incarnata lì in quel paziente, in quella persona, nell'intera iridescenza del suo inconfondibile vissuto. Da credenti che vivono questa esperienza dentro presidi sanitari che
sono nati da una forte ispirazione di carità cristiana e che tale radice sono
impegnati a rinverdire costantemente, ci è sembrato doveroso accogliere
come un invito, anzi una felice provocazione ad interrogarci sul significato più profondo del nostro lavoro, l'impegno della Chiesa italiana ad
approfondire, in occasione del convegno ecclesiale di Verona, il tema della
fragilità.
Dal nostro punto di vista, emerge anzitutto una domanda: se la fragilità almeno quella che tocchiamo con mano nei pazienti che si affidano alle
nostre cure - sia, sempre e necessariamente, soltanto una "diminutio",
una debolezza o un cedimento, una perdita secca, un arretramento dalla
linea ideale di quella vitalità della persona, che non consiste solo in una
condizione di benessere fisico, bensì implica qualcosa di più intimo e
coinvolgente: una compiuta padronanza e consapevolezza di sé.
A tale domanda, in un contesto socio - culturale qual è oggi il nostro, sembrerebbe ovvio rispondere in modo francamente affermativo.
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Viviamo nel mondo della competizione esasperata e selettiva, della
ricerca tenace, talvolta spasmodica,
del primato e del successo; una
realtà sociale in cui si va sviluppando una cultura della corporeità ispirata al salutismo, misurata con
canoni estetici di alto gradimento e
sull'eccellenza della prestazione.
I criteri di valore prevalenti si rifanno
all'efficienza, agli elevati standards di
produttività quantitativa come sinonimo di ricchezza, alla fruibilità in
tempo reale di ogni gesto, alla validazione di ogni impresa in chiave di
immediata utilità.
Nei confronti della medicina e del
progresso scientifico e biotecnologico che ne sospinge la costante
innovazione, si coltivano attese
miracolistiche.
Attese, per la verità, che andrebbero
più prudentemente commisurate
alle effettive possibilità terapeutiche,
anche per evitare pericolose frustra-
zioni di ritorno quando si deve pur
constatare che, ad ogni modo, il
dolore e la malattia non sono accidenti che si possono, così d'incanto, epungere dalla trama della vita.
Al contrario, il disabile, ad esempio,
soggetto costretto a convivere con
un limite più o meno severo delle
sue autonomie funzionali, ma
comunque impossibilitato a conseguire determinate performances,
merita sicuramente solidarietà,
secondo il perbenismo inappuntabile del "politically correct", ma con
qualche venatura di compassione
perché, in definitiva - secondo la
logica stentorea della fisicità inossidabile - è pur sempre uno che non
tiene il passo e quindi, anche se non
sta bene dirlo, un perdente.
Per non dire del malato psichico. La
sua stessa immagine, la ricorsività
di certi atteggiamenti, la comunicazione frammentata e tronca, il solipsismo artistico e l'esplosività incon-
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trollata di certe reazioni o piuttosto
una lentezza vischiosa, la logica
inaccessibile del delirio fanno a
pugni con la oliata funzionalità di
apparati e processi che devono
essere, per definizione, quanto più
possibile fluidi, scorrevoli, flessibili.
Eppure, se appena ci si sottrae a questa ottica, ci si accorge che non è
così, anzi, la fragilità può persino rappresentare una risorsa, per quanto
sofferta e senza nulla concedere ad
una contorta mistica del dolorismo.
Intanto è un perentorio invito a rientrare nella misura corretta della propria umanità, che non è vitalismo
enfatico, ma esperienza intessuta di
tante dimensioni, e tra queste, quella improntata a dolore e sofferenza
non manca mai. Quindi, la fragilità
come memoria e presa d'atto della
propria condizione di creatura che
non ha forgiato da sé la vita, ma l'ha
ricevuta in dono e ciò dentro un
"cosmo", in ordine di relazioni e di
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reciprocità che, anzitutto, ne segnalano la finitezza, la sua non autosufficienza.
Anzi, se non viene pregiudizialmente rifiutata, se non genera rabbia,
ma piuttosto evoca attitudine
all'ascolto più fine della propria interiorità, la condizione di fragilità agisce come una sonda che rompe
certe cristallizzazioni in superficie e
può svelare l'intensità più viva di
incontri, sentimenti, rapporti che
sembrano soffocati dalla polvere
grigia di un'abitudine inventata.
La stessa malattia, dunque, può
essere vissuta con speranza, per
una ragione più profonda che non
sia il puro e semplice affidarsi alle
nuove risorse della scienza.
Quest'ultima può "sanare" ed è
quanto mai sopravvidenziale che si
sviluppi quanto più possibile questa
sua potenzialità.
Ma non le appartiene la capacità di
"salvare", l'attitudine a riconoscere
che anche un evento traumatizzante
che, talvolta drammaticamente,
interrompe l'ordinato flusso della
vita o addirittura lo travolge, può
essere trattenuto o ricompresso
dentro un orizzonte di senso.
In fondo, il compito di chi accosta
la sofferenza del malato con gli
strumenti più aggiornati della
scienza, ma senza abbandonare
uno sguardo aperto alla dimensione umana del dolore, è anche quello di aiutare - e tutto ciò non è
affatto indifferente anche sul piano
dell'efficacia terapeutica - a comprendere come la malattia non sia
un alieno che da, senza possibile
rivincita, scacco matto alla vita, ma
qualcosa che, per il paziente, sta
comunque dentro quel percorso
essenziale che rappresenta la sua
vera ricchezza e sostanzia la sua
identità personale.