La rivoluzione dei servizi

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La rivoluzione dei servizi
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INTERAZIONE E COOPERAZIONE TRA FIGURE PROFESSIONALI: RESPONSABILITÀ E PROFESSIONALITÀ
Lezione 2: ANSIE E DIFESE DEL PERSONALE DI SERVIZIO (ore 2)
Docente: GIULIANO MAZZOLENI
La rivoluzione dei servizi
2. Dai prodotti alle relazioni
• Come accennato nella prima lezione (punto 1.12) il modello giapponese è caratterizzato dalla
incorporazione nella cultura di tutta l’azienda dei valori-guida della sua strategia, mentre la
tendenza occidentale è a ricorrere a funzioni specialistiche, separate le une dalle altre, per
presidiare la realizzazione di ciascuno di questi valori. È per questo motivo che la filosofia del
servizio, fondata sulla soddisfazione del cliente, partendo dalla invenzione americana della
misurazione della “customer satisfaction”, si è sviluppata fortemente in Giappone dove le aziende (non quelle di servizio) da tempo mettevano a punto le tecniche della Qualità Totale.
Esse hanno saputo darsi un deciso orientamento al cliente di tutti gli operatori, delle strutture
dei meccanismi operativi, dei dirigenti, senza limitarsi al personale di contatto.
Il nucleo della erogazione del servizio e delle comunicazioni che lo strutturano può essere
riassunto nello schema seguente.
risorse e possibilità reali
modulazione delle attese
azioni del SERVIZIO
organizzazione
fornitore
cliente
ambiente
espressione delle attese
feed-back di soddisfazione
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Sia che il cliente sia un privato oppure l’utente di un servizio pubblico, lo schema vale e
chiarisce che il processo decisivo è quello della comunicazione fra fornitore e cliente o fra
operatore e utente.
Una comunicazione ricca e franca consente al fornitore di capire le attese del cliente intervenendo preventivamente per modellarle senza deluderle; consente al cliente di tarare realisticamente le sue aspettative dopo averle espresse con chiarezza. L’informazione più preziosa per il fornitore è il feed-back chiaro del cliente. Solo questa comunicazione garantisce la
“personalizzazione” del servizio.
La cultura del servizio si è accresciuta sviluppando tutte le conseguenze organizzative e
comportamentali di questo schema.
• Mentre l’ottica industriale era tutta rivolta all’interno, al prodotto, l’ottica del servizio è rivolta
all’esterno, al cliente.
“I pionieri che per la prima volta hanno osato guardare al di là delle mura ci hanno rivelato
un nuovo orizzonte. Perché ci hanno fatto capire con chiarezza che sono gli abitanti del territorio a decidere quando serviamo qualità e quando non la serviamo. Ci hanno dimostrato che,
in quest’ambito, solo il giudizio del cliente conta. Così abbiamo imparato a rispondere alle
domande che riguardano la qualità prendendo le mosse dal cliente, non dall’azienda. È il cliente - e nessun altro - a determinare il successo o l’insuccesso della nostra attività di imprenditori” (Zeithaml et al.. 1990 pag. XIII).
In materia di servizi, l’autore principale di riferimento è Richerd Normann, presidente di
una società internazionale di consulenza sui servizi, che con il suo “La gestione strategica
dei servizi” (1984) ha orientato studi, sperimentazioni e sviluppi organizzativi in tutto il mondo. Normann insiste sul fatto che il suo è un approccio “olistico” (riguardante la globalità di un
sistema complesso) contro quello “meccanicistico” e “tecnico” predominante fino agli anni ’80.
“All’altro estremo, il controllo di qualità è una filosofia generale e un modo di pensare incorporato nell’intera organizzazione. Essa diviene un modo di vita, il cui effetto si diffonde su
ogni attività quotidiana. La qualità e l’eccellenza si riferiscono non solo al prodotto ma anche
al prezzo, alla sicurezza, alla strategia di pianificazione, al management, alle relazioni umane
e all’intero sistema di produzione ed erogazione. Queste distinzioni servono a sottolineare
due logiche di base circa la qualità. Possiamo definirle la filosofia meccanicistica e la filosofia
dei sistemi di servizio basati sull’innovazione sociale” (Normann, cit, pag. 178).
• Vengono enunciati i principi-base della cultura del servizio.
Innanzitutto “la qualità è fondamentale per la gestione”: la sola logica dei volumi è del tutto
inadeguata. Inoltre la “qualità dei servizi è anche ‘qualità della vita’”. La cultura della qualità è
utile sia per chi offre i servizi sia per chi li utilizza. Infatti “l’utente contribuisce, con il suo comportamento e il suo atteggiamento, a determinare il livello di servizio che gli viene fornito; egli
può dunque partecipare a migliorare il risultato che ottiene”.
Importantissimo è il fatto che, “nei servizi, qualità è gestire il “disservizio”, il ché avviene
nei molti modi con cui vengono superate le principali difficoltà.
La prima difficoltà consiste nel fatto che produzione e consumo sono contestuali: gestione
e controllo vanno eseguiti in presa diretta col cliente. La seconda è che ogni servizio fornito al
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cliente tende ad essere diverso dagli altri: non tutte le componenti del servizio possono essere assoggettate a standard e a norme precodificate. La terza difficoltà sta nel fatto che non è
possibile conoscere il livello di qualità fornita, a meno che lo si chieda al cliente stesso. La
quarta difficoltà deriva dal fatto che succede frequentemente che ci sia “qualcosa che non
va”. Questo rende necessario saper gestire i disservizi non solo cercando di prevenirli, ma
anche recuperando il rapporto con il cliente dopo che il disservizio si è verificato (Raimondi in:
GRAMMA, 1987).
Per chi si occupa della gestione strategica di una organizzazione che eroga servizi, valgono soprattutto i 3 criteri generali:
1- Dare massimo rilievo ai “punti di contatto” con i clienti. Dirigenti, strutture operative, laboratori e stabilimenti devono essere concepiti come “strutture di supporto agli incaricati di prima linea, perché possano soddisfare in modo perfetto i clienti”
2- Misurazione regolare, quantitativa, completa del grado di soddisfazione dei clienti. Analizzare tutti gli elementi in rapporto con la soddisfazione, ad intervalli regolari e in
modo organizzato; affidabilità statistica delle misurazioni.
3- Leadership dei dirigenti e dei manager che rivolgono la loro attenzione principale ai
rapporti sulle customer satisfaction, verificando con fermezza i cambiamenti per migliorare i servizi (Japan Management Association, 1991).
Jan Carlzon. presidente della Scandinavian Airlines, raccomanda di adottare strategie basate sulla formazione su larga scala di tutti i dipendenti e la creazione di task force per il miglioramento del servizio e del rapporto con i clienti (Carlzon, 1985).
Norman ferma l’attenzione sul “pacchetto dei servizi”, cioè sul fatto che non ci si può limitare ad intendere il servizio in senso stretto, ignorando gli accessori che sono componenti
essenziali della soddisfazione del cliente.
Per esempio (Normann, cit, pag. 57) per una compagnia aerea è essenziale …
atteggiamento del
personale verso i cliente
check in
volo da A a B
trattamento
bagagli
informazioni
confort
servizio durante
il volo
pulizia
…tenere presente la mappa dei servizi periferici. Così in ogni altro tipo di servizio.
Il concetto di servizio insiste molto su questa natura composita (Normann, cit., pag. 68-9)
della customer satisfaction e pertanto del servizio stesso, del quale non è possibile ignorare
gli elementi fondamentali.
Franca Olivetti Manoukian (1998, pagg. 54 e segg.) insiste da parte sua sulla adeguatezza
delle rappresentazioni mentali che il personale si forma dell’ “oggetto di servizio”, all’interno di
una visione che sottolinea la specificità del servizio come lavoro “con oggetti immateriali”.
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Gli autori che hanno maggiormente approfondito il tema del “Servire la qualità”, Zeithaml,
Parasuraman e Berry (1990) distinguono con chiarezza le dieci dimensioni della qualità del
servizio (pagg. 28-9):
1. Aspetti tangibili
2. Affidabilità
3. Capacità di risposta
4. Competenza
5. Cortesia
6. Credibilità
7. Sicurezza
8. Accesso
9. Comunicazione
10. Comprensione del cliente
personale, attrezzature, strumenti di comunicazione
fornire il servizio promesso in modo preciso
volontà di aiutare i clienti e di fornire prontamente il servizio
abilità e conoscenze necessarie
gentilezza, rispetto, considerazione, cordialità
onestà, attendibilità dell’immagine
assenza di pericoli, rischi, dubbi
facilità di contatto
informazione, linguaggio comprensibile, ascolto
sforzo di conoscenza delle persone e delle loro esigenze
Una riflessione sulle dimensioni della qualità del servizio evidenzia immediatamente sia
l’articolazione degli aspetti della prestazione di servizio e dei punti di attenzione necessari (il
servizio non è cosa semplice e automatica), sia il fatto centrale e cioè che il focus della prestazione è precisamente la “buona relazione” personale con il cliente. Si tratta dunque, soprattutto, di qualità relazionali che vengono richieste e sfidate.
Gli stessi autori, articolando le loro analisi, evidenziano l’importanza della capacità di rassicurazione del cliente e della capacità “empatica” del personale di servizio (pag. 34), fornendo
i risultati di indagini che pesano l’importanza delle diverse capacità. Nell’ordine, su 100 punti:
34 vanno alla “affidabilità”, 22 alla “capacità di risposta”, 19 alla “capacità di rassicurazione”,
16 alla “empatia” mentre solo 11 vengono riscossi dagli “aspetti tangibili”, ossia dalle strutture
fisiche, attrezzature, dagli strumenti di comunicazione.
Gli aspetti “intangibili” (gli “oggetti immateriali” di F. Olivetti Manoukian) sono quelli che
contano di più, con una prevalenza fortissima su quelli “tangibili”, nell’apprezzamento del servizio (Zeithaml et al., cit., pag. 33-37).
• Il maggiore contributo di questi autori è però nella chiara distinzione dell’origine delle
disfunzioni organizzative, definite “scostamenti” (schema di sintesi a pag. 56):
1°- non sapere che cosa vuole il cliente
2°- standard errati di qualità del servizio
3°- divario fra le specifiche (standard) e le prestazioni effettive
4°- promesse che non corrispondono ai risultati
5°- divario fra il servizio atteso e quello percepito dal cliente
Per quest’ultimo scostamento occorre tenere conto che le attese del cliente si formano attraverso le comunicazioni verbali (i passa-parola), le esigenze personali, l’esperienza passata e
le comunicazioni esterne da parte del fornitore (pag. 45), mentre il servizio percepito dal cliente è il risultato di una serie di passaggi, riconducibili alle variabili che concorrono a formare gli
scostamenti 2°. 3° e 4°. Il 1° scostamento è il più rovinoso e riassume tutti gli altri (pag.
56).
Questa ricerca “organizzativa” del disservizio è molto importante nella pratica, se si vuole
venire a capo dei problemi delle organizzazioni di servizio di una certa complessità.
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• L’intera materia viene coinvolta da due tematiche cruciali: l’esercizio della leadership e le
resistenze al cambiamento.
Sul primo tema la letteratura delle organizzazioni di servizio si prodiga in principi, raccomandazioni e avvertimenti fondati sulla constatazione (documentata) che non ci si possono
attendere buone relazioni fra il personale di contatto ed i clienti se non esistono buone relazioni a monte, fra il management e il personale di contatto. Queste ultime sono decisive nelle
aziende di servizio. Per questo motivo si è concettualizzato il circolo virtuoso del “servizio interno”, coerente con quelle esterno (Normann, cit., pag. 206; Morelli 1988).
J. Carlzon nel suo “La piramide rovesciata”, (1985) ha introdotto l’immagine paradossale di
una gerarchia (v. qui, 1° lezione, punto 1.9) che si capovolge in quanto gli operatori più esecutivi (il personale di contatto) non sono in basso, agli ordini di chi sta sopra, ma sono in alto,
a contatto col cliente, sostenuti dal management che li deve supportare.
Infatti, è il personale di contatto che gestisce “il momento della verità” in cui il servizio viene
praticamente ed effettivamente erogato, da cui dipende la soddisfazione del cliente e, in definitiva, il successo di tutta l’azienda (Carlzon, cit.,cap. 1°).
Per questi motivi “… la capacità di capire e dirigere il cambiamento è un elemento
fondamentale per una reale leadership. Il capo azienda oggi non deve gestire solo la finanza, la produzione, la tecnologia … ma anche le risorse umane. Definendo chiaramente obiettivi e strategie e comunicandoli ai suoi dipendenti il leader li abitua ad assumersi responsabilità per raggiungere gli obiettivi e può così creare un buon clima di
lavoro che incoraggia la flessibilità e l’innovazione. In questo modo il vero leader è un
buon ascoltatore, un comunicatore, un educatore, dal punto di vista emotivo è una
persona espressiva e ispiratrice, sa creare la giusta atmosfera anziché prendere egli
stesso tutte le decisioni (Carlzon, cit., pag. 52).
Nella 1° lezione (a punto 1.9) si è discussa la questione della gerarchia, che qui si ripropone. Come ho anticipato il dibattito che si è svolto conclude che non è possibile privarsi del tutto della gerarchia perché la funzione di coordinamento dev’essere comunque svolta. Tuttavia
il contributo di Carlzon è determinante per chiarire la qualità di questi “coordinatori”. La
leadership esercitata dal management delle organizzazioni di servizio serve soprattutto a
mantenere nelle migliori condizioni, sotto ogni aspetto, il personale esecutivo che sostiene il
“momento della verità”. Il leader dei servizi ha soprattutto il compito di sostenere e guidare i
processi di apprendimento del personale che vive sul fronte dell’erogazione dei servizi.
Per Normann lo “stile di leadership” è la variabile decisiva nel cambiamento. Si tratta
delle capacità dei dirigenti di sostenere il disagio dei mutamenti culturali necessari per realizzare una effettiva organizzazione di servizio vincendo resistenze anche dure (Normann, cit.,
cap. 14°).
• È importante tenere presente una resistenza culturale di fondo, diffusa in tutto il personale,
basata sul sentimento ostile all’atto del “servizio”, perché il verbo servire evoca antiche servitù
e sottomissioni. È necessario che la soddisfazione del cliente sia vissuta, anche profondamente, come una affermazione professionale accompagnata da soddisfazione da parte del
personale, il quale non dovrebbe vivere il cliente come un antagonista o come un padrone.
Sergio Capranico ha analizzato molto bene questa resistenza che va tenuta in massimo conto nella formazione del personale (Capranico, 1992).
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1. 2.2 Ansie e difese del personale
La socioanalisi (introdotta nella 1° lezione al punto 1.6) a lungo elaborata da E. Jaques
nell’industria (1951) ha trovato un’applicazione che ha fatto scuola nell’ambito di un ospedale.
Isabel Menzies con la sua ricerca e il suo studio “I sistemi sociali come difesa dall’ansia. Studio sul sistema infermieristico di un ospedale” (1970) ha penetrato a fondo i vissuti del
personale infermieristico (in senso lato: tutto il personale addetto alla cura dei pazienti in un
ospedale, indipendentemente dalla qualifica) nella relazione con i pazienti, da un lato, e con i
superiori e l’organizzazione ospedaliera dall’altro.
Per questo motivo lo studio della Menzies può essere ritenuto un classico non solo
nell’ambito della socioanalisi, ma più in generale della letteratura sui servizi alla persona, di
cui anticipa alcuni temi cruciali, fornendo un metodo per comprendere e affrontare i disagi e
le disfunzioni ricorrenti. Il metodo di ricerca e intervento socioanalitico è tuttora applicato e riguarda da vicino un po’ tutte le organizzazioni che erogano servizi alla persona, nonostante le
loro diversità.
• Nell’ospedale inglese che aveva richiesto l’intervento del Tavistock Institute di Londra, per
conto del quale la Menzies intervenne coordinando una equipe di ricercatori, si verificavano
alcune manifestazioni di crisi, all’origine della chiamata.
Le allieve infermiere davano luogo a un turn-over molto elevato con frequenti assenze per
malattia e con abbandoni estesi (circa un terzo) prima della conclusione del corso di tirocinio
di quattro anni.
Le allieve risultavano sotto-occupate: i loro compiti erano scarsi ed era scarsa la loro qualità.
Il coordinamento delle allieve infermiere veniva denunciato dai superiori e dalle infermiere
anziane come irto di difficoltà, rischiando continuamente di fallire come sistema di assegnazione dei lavori pratici.
Era evidente una mancanza di soddisfazione personale nelle allieve infermiere, cui corrispondeva una ricerca di isolamento oppure di compensazioni all’interno e all’esterno
dell’ospedale.
L’intervento comportò lo svolgimento di 70 colloqui clinici alle infermiere, più quelli al personale direttivo, sanitario e non oltre a osservazioni del lavoro operativo e contatti informali.
Molti colloqui rilevarono livelli di tensione, disagio e ansia elevati collegati alle esperienze
delle allieve infermiere.
L’ esperienza più pesante con la quale erano continuamente a contatto era quella della
morte e della sofferenza.
Molti compiti risultavano sgradevoli e alcuni disgustosi.
Vennero rilevati impulsi erotici verso alcuni pazienti.
Tutti i sentimenti sperimentati erano forti e spesso contrastanti: c’erano la pietà e l’amore
ma anche l’odio e l’invidia verso pazienti privilegiati. I sensi di colpa erano molto diffusi e intensi, attribuiti alla propria negligenza. Spesso essa veniva fantasticata come una sorta di distruttività onnipotente. Emergevano sia sentimenti di dedizione sia espressioni di abilità messe in atto, però queste erano per lo più giudicate insufficienti a restituire la salute ai pazienti,
rinforzando così i sensi di colpa.
• Di fronte a questi vissuti, con ansietà molto forti, le infermiere mettevano in atto, inconsciamente, una serie di “meccanismi di difesa”.
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Qui occorre tener presente la natura inconsapevole e automatica di questi meccanismi,
scoperti da Sigmund Freud, classificati e descritti dalla figlia Anna Freud (1961), a cui Melania
Klein ha dato un contributo fondamentale (1948 e 1952). I meccanismi di difesa inconsci sono
tuttora oggetto di studi, di elaborazioni teoriche, di valutazioni empiriche e di ricerca clinica
(Lingiardi e Madeddu, 2002). E’ appena il caso qui di ricordare che il meccanismo di difesa
più comune e primitivo consiste nella scissione (drastica separazione dentro di sé di parti
sentite come buone e di parti “cattive”) con la negazione (dentro di sé di alcuni sentimenti
scomodi, parti negative inaccettabili) e la proiezione (fuori di sé, attribuendo ad altri questi
sentimenti “cattivi”). I tre aspetti appartengono ad un meccanismo unico definito dalla Klein
“schizo-paranoide”.
Esistono però parecchi altri tipi di automatismi con cui ci alleggeriamo dalle nostre ansie.
Alcuni fanno ricorso al controllo ossessivo esercitato sulle cose e sulle persone che ci
stanno intorno e su noi stessi, sui nostri sentimenti: rivolto a sottomettere tutto alla nostra volontà, ci illude di riuscirci (controllo onnipotente) consentendoci -illusoriamente- di ridurre
l’incertezza che è fonte di ansia.
Altro tipo di difesa è la idealizzazione con la quale immaginiamo che qualcuno o qualche
cosa, privo di difetti, di ombre, di criticità, che brilli solo di luce eccelsa, realizzi il miracolo della perfezione, della capacità di risolvere ogni problema: un leader, una formula filosofica o
un’immagine religiosa oppure una persona amata.
La descrizione dei meccanismi di difesa potrebbe essere molto più ampia, ma quanto ho
descritto è sufficiente per capire le scoperte di Isabel Menzies nell’ospedale. Si può osservare, peraltro, che la situazione attuale in Italia del servizio infermieristico stretto fra ideali di
“vocazione” e una pratica da “catena di montaggio” non è molto diversa (Pipan, 1996, pag.
95).
Le infermiere della Menzies, normalmente, scindono drasticamente il proprio sé dal
paziente col risultato frequente della “spersonalizzazione”, cioè della negazione del
paziente come individuo-persona, riducendolo al numero di un letto e ad una cartella
clinica.
L’infermiera giunge a negare i sentimenti provati nei confronti del paziente (amore, pena,
odio, colpa,ecc.) con distacco e indifferenza “difensivi”.
Con questa distanza emotiva, necessaria per non sentirsi sentimentalmente coinvolte -e
travolte- le infermiere si rifugiavano spesso in un ritualismo esecutivo, nel compiere con regolarità sempre le stesse operazioni. Questa difesa un po’ ossessiva aveva l’effetto di alleggerire il peso della responsabilità nei confronti del singolo paziente: negazione della responsabilità, che veniva così ridotta e dispersa in una serie di piccoli adempimenti su cui ci si concentrava.
In generale la responsabilità del ruolo infermieristico veniva negata, lasciando prevalere
un desiderio di evasione nell’ambiente dell’ospedale o fuori.
D’altro canto il ruolo dell’infermiera veniva idealizzato: “infermiere si nasce, non si diventa”
e “il lavoro dell’infermiera è una vocazione” erano i motti prevalenti, col risultato di frustrare gli
sforzi del lavoro e della formazione rendendo irraggiungibile l’ideale dell’infermiera perfetta.
Contestualmente l’aggrappamento alla routine e le ripetizioni ossessive consentivano di
evitare le decisioni (comportanti responsabilità) ricorrendo continuamente alla delega decisionale ai superiori (che la accoglievano sempre, collusivamente, salvo poi svalutare le allieve).
• Le difese messe in atto dalle allieve erano collocate all’interno di una serie di regole, organizzative o culturali, che consentivano e rinforzavano gli usi difensivi. La Menzies ne descrive parecchi:
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la regola fondamentale: pochi compiti su molti pazienti per ogni infermiera;
tutti i pazienti sono uguali;
evitare coinvolgimento e dolore;
iper-prescrittività: compiti molto dettagliati, con la eliminazione anche di piccole decisioni individuali;
verifiche e contro-verifiche, rinvii e consultazioni;
delega collusiva verso i superiori;
collusione nella distribuzione sociale di responsabilità e irresponsabilità;
indeterminatezza del contenuto dei ruoli;
reclutamento eccedente con spreco e abbandoni;
rigidità dei regolamenti ed elusione del cambiamento.
L’elenco delle norme culturali e dei dispositivi organizzativi è una descrizione dettagliata
delle logiche di funzionamento che reggono l’intera istituzione. Non è difficile scorgere circoli
viziosi in cui le regole vigenti consentono e attivano alcuni usi difensivi individuali primitivi, e
viceversa,: i meccanismi di difesa dall’ansia, per essere mantenuti, richiedono le regole che li
permettono e li facilitano. Così il sistema sociale, nel suo complesso, viene usato da chi lo abita per difendersi dalle proprie ansie e, quando questo uso difensivo diviene preponderante,
il compito primario istituzionale (il benessere e la salute dei pazienti) può scivolare in secondo
piano (Jaques, 1955).
Il massiccio uso difensivo evita l’ansia degli operatori nel senso che impedisce loro di affrontarla, ma questo evitamento impedisce anche l’esperienza che potrebbe confrontare le
fantasie più ansiogene con la realtà effettiva, evita di “differenziare un’ansia irreale o patologica dall’ansia realistica che scaturisce dai pericoli reali” (Menzies, cit., pag. 150). L’ansia patologica e le difese primitive “inibiscono la formazione del pensiero creativo e simbolico, del
pensiero astratto e della concettualizzazione, come pure un pieno sviluppo delle capacità di
comprensione, di conoscenza e delle abilità che permettono all’individuo di affrontare la realtà
in modo positivo e di controllare l’ansia patologica. Così l’individuo si sente impotente davanti
a problemi e compiti nuovi e insoliti” (Menzies, ibidem). Gli effetti negativi di un simile sistema
sociale di difesa non si limitano a questo. Secondo la Menzies esso “inibisce pure la capacità
di conoscersi e di capirsi e quindi la capacità di valutare realisticamente il proprio operato”
con la conseguenza di errori commessi con facilità. “Ad esempio si riscontrano maggiori errori, senso di colpa e ansia nel seguire le prescrizioni alla lettera che nell’adozione di norme di
buona assistenza”. Il timore di commettere sbagli crea “il timore di non saper affrontare le
proprie responsabilità. Le difese sociali impediscono all’individuo di rendersi pienamente conto delle sue capacità di sollecitudine, compassione, comprensione e azione basata su questi
sentimenti, il che rafforzerebbe la sua fiducia nei validi aspetti della sua personalità e nelle
sue capacità di metterle alla prova… l’introiezione forzata del sistema di difesa impedisce la
maturazione del sistema difensivo personale” (ibidem, pagg. 150-51).
• La lezione della Menzies è ricavata da un’indagine che non ha risparmiato tempo e lavoro né
in profondità né in estensione, consentendo una comprensione mai raggiunta fino ad allora
di fenomeni che, comunque, sono sotto gli occhi di tutti. Il ricorso ad una iper-prescrittività
massiccia rassicura falsamente chi governa le organizzazioni di servizio ma deresponsabilizza il personale generando un’ampia serie di disservizi. Si tratta di una sorta di “burocratizzazione” delle aziende di servizio, la cui critica si era già intravista nella prima lezione (punto
1.6).
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Isabel Menzies concludeva il suo studio con una serie di raccomandazioni, cambiamenti
da introdurre nella formazione delle allieve infermiere e nella struttura organizzativa, rendendola più articolata e flessibile.
Da quelle raccomandazioni e dalle esperienze che le hanno seguite nei sistemi sanitari avanzati, deriva la prassi di riunire frequentemente il personale sottoposto a forti stress
in piccoli gruppi, condotti da un professionista (psicologo o psicoanalista), che hanno la
possibilità di far emergere ed elaborare con l’aiuto reciproco le ansie, le preoccupazioni e i
fantasmi inconsci che rendono particolarmente pesante il lavoro infermieristico. Uno sviluppo
recente di queste tecniche di supporto sono i gruppi di auto-aiuto (D. Francescano con A.
Putton, 1995).
• Ma il maggior contributo dello studio è di tipo teorico –pratico e metodologico poiché consente
ampie generalizzazioni che riguardano tutte le organizzazioni, di servizio in particolare.
Luigi Pagliarani (1973) alla comparsa dello studio ne evidenziò l’importanza fornendo un
suo originale contributo integrativo.
L’ospedale è un sistema sociale in cui si confrontano non solo gli obiettivi da raggiungere
con le risorse disponibili (come fanno gli economisti).
Il confronto non è a due dimensioni ma tridimensionale:
obiettivi
in un sistema sociale agiscono persone, portatrici di capacità (=risorse) ma anche di bisogni. Quando i bisogni
delle persone sono eccessivamente sacrificati (e il bisogno di rassicurazione, di protezione dalle ansie è uno
dei più intensi) le persone finiscono con l’attivare misure
difensive che interferiscono anche pesantemente nel
conseguimento degli obiettivi, cercando la soddisfazione dei propri bisogni con mezzi e modi spesso disfunbisogni
risorse
zionali per l’intero sistema.
Il triangolo Menzies-Pagliarani può essere sbilanciato non solo sacrificando i bisogni, ma in altre direzioni: assumendo obiettivi eccessivamente elevati od onerosi oppure mettendo in campo risorse
inadeguate; a volte premiando eccessivamente i bisogni di chi abita l’organizzazione a scapito degli obiettivi, che non vengono raggiunti.
Inoltre nasce dallo studio della Menzies una constatazione che è facile confermare in molte
organizzazioni -di servizio e non. La scissione collusiva nella distribuzione delle responsabilità era particolarmente evidente nell’ospedale analizzato.
Da un lato le allieve infermiere tendevano a deresponsabilizzarsi delegando ogni decisione
importante alle infermiere anziane; dall’altro queste ultime gestivano volentieri questo carico
supplementare di responsabilità, affermando inconsapevolmente il loro potere e il loro status.
Le allieve fantasticavano le infermiere anziane come arcigne, opprimenti e autoritarie -in parte
a ragione e in parte proiettando su di loro le proprie parti genitoriali più rigide. Le infermiere
anziane vivevano le allieve come giovani irresponsabili e spensierate scansafatiche -in parte
a ragione e in parte proiettando su di loro le proprie parti più infantili.
Questa situazione, definita da Pagliarani “collusione paranoide”, è molto comune nelle
organizzazioni ove convivono anziani esperti, in ruoli di autorità, e giovani inesperti privi di autorità. La collusione fa comodo a tutti, per ragioni diverse, ma danneggia l’organizzazione e
impedisce la crescita degli addetti ai ruoli più esecutivi.
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• L’uso difensivo delle istituzioni, soprattutto quando è compattato da collusioni che rendono
tutti partecipi interessati ai giochi difensivi, è difficile da superare. Secondo Pagliarani il cambiamento è reso possibile solo da una situazione di crisi in cui esplode il disagio causato
dall’eccesso delle difese.
Si tratta di un tema molto dibattuto dagli psicosocianalisti italiani (Forti – Varchetta. 2001).
2. 2.3 Conflitti e cooperazione nei team dei servizi
• Nella prima parte di questa lezione abbiamo analizzato l’organizzazione dei servizi, mentre
nella seconda si è approfondito il problema del rapporto con l’utenza con l’aiuto di un caso
classico. Si tratta ora di concludere tenendo fermo il fatto che per avere alta qualità dei
servizi è necessario che sussistano buone relazioni con l’utente e fra gli operatori:
questo è senz’altro il primo valore da presidiare strategicamente in tutte le organizzazioni di servizio. E’ evidente che, dopo aver considerato i sistemi e le culture organizzative
in generale, sia ora necessario focalizzare i comportamenti pratici degli operatori.
Su questo tema i manuali si sprecano nelle indicazioni fornite, con una serie di raccomandazioni e prescrizioni che vengono tanto facilmente condivise quanto poco praticate. Si tratta,
per esempio, di agevolare la comunicazione (con l’utente e con i colleghi), mostrando calma e
attenzione, di mantenere coerenza e reciprocità nel relazionarsi e, soprattutto, di esprimere e
trasmettere una comprensione emotiva attraverso l’accettazione, l’ascolto, l’empatia (Mambriani, 1992).
Il problema vero, nel passare dai principi alle attività pratiche, consiste però nella interiorizzazione dei principi stessi, che non può avvenire senza un confronto serrato fra le regole che
si propongono e le difficoltà, anche profonde, che gli operatori reali incontrano quotidianamente.
Per questo motivo la relazione con l’utenza è stata trattata (nel punto precedente di questa
lezione) con il caso classico di un ospedale, mettendo in primo piano i sentimenti e le angosce del personale a contatto con l’utenza.
Ora si tratta di considerare la relazione -triangolare- dell’operatore con l’utente, da un lato,
ma anche con i propri colleghi, dall’altro.
La qualità del servizio è nella soddisfazione dell’utente, che è il risultato degli sforzi di una
pluralità di figure le quali devono coordinarsi fra di loro: così nella scuola, così nei viaggi in
aereo, così in una casa di cura. In quest’ultimo caso sono parecchi i ruoli medici, paramedici
e assistenziali che convergono sullo stesso utente-paziente.. La capacità di cooperazione nel
team (uso il termine più diffuso, che vale come “gruppo di lavoro” oppure come “equipe”) è
decisiva in tutti i servizi.
Ebbene, proprio nelle relazioni interne al team si incontra un’area di difficoltà che va
considerata critica e che può dipendere da molti fattori, a diversi livelli. La disponibilità
personale dell’operatore a cooperare con i colleghi, la composizione delle diverse personalità e competenze nel team, la difficoltà dei compiti da svolgere, l’assetto organizzativo nel quale il team è collocato e le sue relazioni con i ruoli superiori della gerarchia, la disponibilità per il team di usufruire di risorse quali il tempo per riunioni e
l’aiuto di specialisti per facilitare il coordinamento e migliorare il servizio: le variabili in
gioco sono molte, anche il team che lavora è una complessità.
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• Fonti decisamente prioritarie delle difficoltà del team sono derivate dall’ambiente esterno
come diversità di tipo “sociologico”
Oltre alle diversità di genere e di età, esistono diversità di cultura (orientamenti politici, religiosi, etici); di status, derivanti dalla diversa considerazione sociale legata alla professionalità
e alla posizione (alta o bassa) occupata nella gerarchia organizzativa (Gallino, 1978); di cultura professionale specifica che proviene dall’istruzione e dall’esperienza e che comporta linguaggi particolari (anch’essi fonte di difficoltà); di personalità, che deriva dal carattere consolidato. Molte di queste caratteristiche formano quella “distinzione sociale” (Bourdieu, 1979)
che comporta, consapevolmente o inconsapevolmente, il possesso del senso di sicurezza, di
superiorità o di inferiorità che hanno un peso notevole nei rapporti interni a un team, per ragioni non solo legate alla stretta competenza tecnica, ma anche alla considerazione sociale,
più o meno interiorizzata.
• Da queste diversità di origine esterna e dalle altre fonti di difficoltà a cui ho accennato, derivano spesso impacci, disagi, incomprensioni, sordità, malanimo, antipatie o addirittura contrasti espliciti che si manifestano con battibecchi, silenzi ostili, riluttanza nel prestare collaborazione o informazioni, a volte con atti di aperta ostilità, protesta, sabotaggio.
D’altra parte servirebbe essere pronti a prestare aiuto, ad ascoltare e capire i problemi dell’altro, a fornire tutte le informazioni che servono, a cooperare attivamente,
considerando le diversità esistenti come fonte di complementarietà e di ricchezza,
quindi come una risorsa anziché come un ostacolo. Fra l’ideale e la realtà si interpongono
i molti conflitti possibili.
Il conflitto fra persone e gruppi è un tema vecchio come il mondo, su cui hanno riflettuto
molti filosofi e sociologi, alcuni accettandolo come un fatto inevitabile o come parte della vita
stessa (Eraclito, Hobbes, Kant, Simmel), altri aborrendolo come squilibrio e disfunzione di
uno stato armonico considerato ideale o naturale (Comte, Pareto, Durkeim, Parsone, Merton).
La psicoanalisi ritiene che il conflitto sia costitutivo dell’essere umano. Scorge e analizza i
conflitti interni alla singola persona e quelli esterni fra persone, siano essi manifesti o latenti.
Porta in primo piano l’ambivalenza umana, cioè la possibile presenza simultanea, verso lo
stesso oggetto, di sentimenti opposti, soprattutto l’amore e l’odio. Nei comportamenti nel
gruppo, l’ambivalenza delle persone si vede in continuazione.
Dopo Melania Klein la psicoanalisi riconosce l’esistenza di una aggressività originaria
nell’uomo, rivolta inizialmente verso la madre in quanto fonte di gratificazione ma anche di
frustrazioni. L’aggressività non di rado si esprime nel mondo adulto.
Le altre persone, “l’altro”, inizialmente vissuto come estraneo, può essere fonte di crisi. “La
verità è che il bambino si spaventa davanti alla figura dell’estraneo perché è abituato soltanto
alla vista della persona familiare e amata, alla vista, in ultima istanza, della madre. La sua delusione e nostalgia si trasforma in angoscia” (Freud, 1915-17, pagg. 558-59).
L’aggressività originaria e l’angoscia verso l’estraneo ristagnano nell’inconscio ma sono
pronti a emergere, specie con “…la riattivazione dell’inconscia credenza di non essere amati…di essere trascurati [creando] la disposizione alla guerra degli individui normali” (Glover,
1946, citato da Fornari, 1966).
Come ho illustrato nel punto precedente a proposito dei meccanismi di difesa del personale infermieristico, il meccanismo più spontaneo, primitivo e massiccio, comunemente attivato
nei rapporti interpersonali, è la proiezione (anche “identificazione proiettiva” per i kleiniani).
La proiezione delle proprie parti aggressive sul nostro interlocutore, specie se ci sta contrastando, ci delude o ci irrita, attiva la fantasia automatica che sia lui a volerci male, attribuendogli anche intenzioni che non ha, costituendolo come antagonista, un sabotatore o un
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persecutore, insomma un ostacolo alla nostra attività e al nostro benessere. Così il collega,
nelle situazioni di tensione, diventa facilmente un nemico che anziché aiutarci ci danneggia e
ci rende il lavoro più difficile e ingrato. Se poi questo “altro” è connotato da una diversità sociale, professionale e culturale rispetto a me, il pregiudizio faciliterà moltissimo la mia proiezione, creando uno degli stereotipi sociali diffusi, come nel caso delle proiezioni reciproche fra
le allieve infermiere e le infermiere anziane che abbiamo visto.
Naturalmente noi troveremo tutte le buone ragioni che confermano i nostri stereotipi, argomentandole razionalmente. La “razionalizzazione” è appunto uno dei meccanismi di difesa
molto diffusi, che ci consente di vivere come giusti, virtuosi e legittimi i motivi che in realtà agiscono inconsciamente con impulsi e sentimenti di antipatia, rivalità, gelosia, invidia.
Va tenuto presente che le aggressioni che dirigiamo verso il collega, anche solo nella fantasia (es. “la/lo strozzerei”; “se potessi lo butterei giù dalla finestra”, ecc.), generano in noi anche dei sensi di colpa. Questi ultimi, se non ci muovono verso riparazioni realistiche, ci spingono ad assumere altre difese: ci isoliamo, diventiamo “buonisti” (a parole) oppure, attraverso
altre razionalizzazioni, ci proteggiamo con il gruppo a cui apparteniamo (per es. le infermiere)
contro il gruppo a cui appartiene la controparte (per es. i medici): una difesa “corporativa”
molto facile.
Diversità di età, di genere (con il desiderio, le seduzioni ma anche la frustrazione e
l’antagonismo connesso), di status sociale, di professione alimentano la conflittualità rendendo più facili i contrasti e le incomprensioni e fornendo gli alibi delle razionalizzazioni difensive.
La diversità professionale, “di mestiere”, è un terreno critico.
In ogni contrasto le soluzioni soddisfacenti implicano il riconoscimento di un minimo di
complessità: in parte si è diversi (e complementari), in parte si è identici (si hanno gli stessi
obiettivi). Ma la diversità attiva la nostra ambivalenza mettendo a dura prova la relazione.
Le tentazioni difensive possono essere diverse. Da un lato può prevalere la fantasia fusionale di essere del tutto uguali, col risultato di una certa confusione. Dall’altro lato può avere il
sopravvento una fantasia di dominio, di subordinare l’altro (“perché io conosco o so fare meglio”), col risultato di vissuti di soffocamento da parte dell’altro. Oppure può prevalere la fantasia di una assoluta estraneità o incompatibilità, con la negazione degli interessi e delle parti
comuni e con un inevitabile risultato conflittuale. Accettare di vedere insieme le parti comuni e
le parti diverse richiede disponibilità, apertura, pazienza, ascolto, dialogo. A volte questo lavoro si rivela troppo difficile per la sua complessità emozionale.
Nel concludere sulla complessità interna dei team vale la pena di tener presente le due
massime conseguenze derivate dalla teoria dei gruppi di Bion (1961). Il gruppo che lavora,
esposto a molte bufere emozionali, è un luogo di “regressione” psicologica: nel gruppo tendiamo ad essere più primitivi di quanto non siamo normalmente nei nostri rapporti. L’uso di
massicce proiezioni (“identificazioni proiettive”) falsa la realtà, spesso prevalgono fantasmi e
costruzioni difensive. Però il gruppo, in condizioni favorevoli, è anche il luogo di una “progressione” psicologica. Il continuo confronto reale con gli altri ci consente di ritirare le nostre
proiezioni, di far prevalere l’esame di realtà, di rientrare in un possesso consapevole delle nostre diverse parti, con un esito maturativo.
Il team può essere sia un luogo di conflitti trascinati e inconcludenti, sia il luogo dove le
persone crescono, come professionisti e come persone, realizzando insieme compiti difficili.
• I teorici dei processi negoziali hanno dato un contributo importante alle tecniche di gestione
dei conflitti sviluppate negli ultimi decenni.
Fisher e Ury (1981), in particolare, raccomandano nella gestione di un conflitto di tenere
distinti i problemi personali e di relazione, trattandoli separatamente e in modo adeguato, dal
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problema concreto da risolvere su cui pure ci possono essere divergenze ma di natura diversa, non personale. Ma ancora più importante per gli autori, divenuti celebri per questo, è il
superamento delle posizioni di partenza, le trincee o gli obiettivi su cui ciascuno si irrigidisce,
attraverso la ricerca comune e la comprensione dei reali interessi (le motivazioni, le paure) di
ciascuna delle controparti. Solo attraverso questa comprensione, che implica per ciascuno un
graduale scoprire le proprie carte, si può arrivare a individuare soluzioni del problema che accontentano un po’ tutti o che scontentano meno di altre. L’arte della “gestione creativa dei
conflitti” (M. Sclavi, 2003) parte da qui ma va molto oltre, facendo leva sulla capacità di ascolto e su altre attitudini relazionali. Attualmente si tende a valorizzare il conflitto (Benasayag,
2007) che va contenuto e gestito e non soffocato perché la sua espressione ha molte valenze
positive.
Chi coordina il team di lavoro è spesso chiamato a facilitare la soluzione di conflitti interpersonali. Per questo, nell’ambito degli studi sulla leadership si insiste oggi su uno stile “integrativo” contrapposto a uno “carismatico” (Bodega, 2002), rivolto soprattutto a creare il gruppo consolidando la sua coesione e assicurando la partecipazione attiva di tutti.
Si parla infatti di una “leadership di servizio” rivolta a motivare le persone, risolvere i
problemi, adattarsi alle condizioni esistenti, gestire conflitti e, alla fine, alla responsabilizzazione di tutti (Bruttini, 2007).
Bisogna riconoscere, tuttavia, che la leadership integrativa è un modello ideale verso cui
tendere ma che spesso si realizza solo in parte, sia per le capacità o l’esperienza limitata del
leader, sia per le difficoltà presenti nel team.
Una soluzione (accennata nella prima lezione, punto 1.9, a proposito dei “sostituti della gerarchia” e ribadita in questa lezione al punto 2) consiste nel riunire periodicamente il team,
per affrontare i problemi di conflitto, di miglioramento, di apprendimento e crescita del personale, con la conduzione di un esperto (psicologo dei gruppi; psicoanalista, ecc.) capace di aiutare i singoli e il gruppo ad elaborare i propri problemi.
Agli albori della socioanalisi Jaques (1951) chiamava questi gruppi riunioni di “working
through”, cioè di rielaborazione dei vissuti, di analisi delle relazioni con gli utenti, interne al
gruppo e con le autorità, rivolte ad una maggiore consapevolezza di sé di ciascuno, del proprio modo di relazionarsi e di operare, allo scopo di conseguire una maggiore efficienza e un
miglior benessere del team, con usi difensivi meno massicci e impropri. Spesso questo tipo di
riunioni viene purtroppo evitato. Infatti oltre alla scarsità delle risorse gioca anche una sottovalutazione dell’importanza di questo lavoro, che è destinato ad aiutare moltissimo sia il team,
sia il leader che ne ha la responsabilità. Il contributo più aggiornato sul “coaching di gruppo” è
di M. Kets de Vries (2012).
• Infine è necessario, in Italia, richiamare un problema su cui registriamo una generale arretratezza ma che segnerà certamente uno sviluppo futuro importante: la valutazione e il riconoscimento dei meriti, cioè degli sforzi compiuti e delle competenze espresse.
Dal nostro ambiente sociale riceviamo norme e messaggi che valorizzano le competenze
tecniche e scientifiche ma trascurano quelle relazionali che, come abbiamo visto, sono quelle
che giocano un ruolo preminente nei servizi alla persona.
Si tratta, per esempio, di “sensibilità interpersonale”, di “orientamento al cliente”, di “persuasività e influenza”, di “lavoro di gruppo e cooperazione”, di “costruzione di relazioni”, di “sviluppo degli altri”, di “attitudine al comando” e di “leadership del gruppo”, ma anche di qualità
personali come lo “autocontrollo”, la “fiducia in sé” e, soprattutto, la “flessibilità” (Spencer e
Spencer, 1993). Si può parlare anche di competenze più specifiche come “l’ascolto”,
“l’osservazione”, “la comprensione”, “il contenimento”, “l’elaborazione” (F. Tartaglia, 1998).
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I criteri per classificare le diverse competenze relazionali e quelli per misurarle possono
essere diversi. Ma solo un loro spazio adeguato, insieme ad una conquistata capacità di valutare del management, può dare ai servizi la possibilità di riconoscere, premiare e promuovere
i soggetti migliori, distinguendo gli aspetti in cui ciascuno è più bravo e meno bravo, rendendolo consapevole della direzione da dare al proprio sviluppo professionale e umano.
Anche nei servizi l’affermazione della professionalità -in tutte le sue componenti e non solo
in quelle tecniche- dipende molto dal suo riconoscimento sociale.
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3. Bibliografia
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Bion W. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando, 1971
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