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Corriere della Sera » Il Club de La Lettura » Articolo » Benvenuti nella città condivisa
Visioni Parla un guru dei nuovi media. Mentre Chipperfield annuncia: superiamo confini e stili
Benvenuti nella città condivisa
Carlo Ratti racconta la sua smart city: facile e felice «L’architettura eccessiva e stravagante è finita»
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico. Non c’è però bisogno di scomodare i versi di Giovanni Pascoli per scoprire quanto sia attuale e al tempo stesso quanto sia classico quel tema delle smart cities che
ha fatto di Carlo Ratti un guru dei nuovi media, di volta in volta definito «tra le 25 persone che cambieranno il mondo del design», «uno dei nomi che è necessario conoscere», «tra i 50 designer più influenti degli
Usa». D’altra parte è lo stesso Ratti (nato a Torino nel 1971 ma da tempo trasferito a Boston dove dirige il Senseable City Lab del Mit) a intrecciare volutamente nelle sue teorie il presente e il passato. Tanto che
parlando di città intelligenti in cui convivono tecnologie digitali e reti sociali, abitate da smart citizens (cittadini altrettanto intelligenti e soprattutto consapevoli che cooperano per migliorare gli stessi stili di vita) si finisce
per pensare, invece che ai Pronipoti di Hanna & Barbera (con le loro astronavi sempre a prova di ingorgo e con le loro case automatizzate), a quella città rinascimentale attualmente messa in mostra (fino all’8 luglio)
alla Galleria Nazionale di Urbino, una città ideale che fa da sfondo alla Flagellazione di Piero della Francesca come all’Annunciazione del Perugino.
Insomma, per Ratti, «quando Michelangelo scagliò il martello contro il ginocchio del suo Mosè non aveva fatto altro che anticipare l’idea di un’arte (e di un’architettura) interconnessa, capace insomma di dare
risposte in tempo reale». Proprio come dovrebbero fare, in concreto, le «sue» smart cities, città in grado di superare (con la loro tecnologia «condivisibile e praticabile») persino «la frustrazione di un Barocco e di un
Liberty sempre condannati a inseguire modelli irraggiungibili, perché troppo fantastici». Ed ecco che passato e futuro si intrecciano ancora nelle parole di questo architetto­ingegnere (nato a Torino nel 1941) che
attualmente dirige una quarantina di ricercatori, tanti ne conta il suo laboratorio diviso tra la sede di Boston e la filiale di Singapore («il posto migliore dove sperimentare le smart cities»). Tutti impegnati nel ripensare
le nostre metropoli per viverle meglio.
In queste smart cities tutto è permesso (almeno in materia di tecnologia): nel 2008 Ratti (titolare con Walter Nicolino dello studio Carlorattiassociati di Torino) ha così creato il Digital Water Pavillon per l’Expo di
Saragozza utilizzando le pareti di acqua digitale per creare spazi d’abitazione. Mentre per la prossima Olimpiade di Londra aveva pensato The Cloud, una nuvola artificiale sospesa sullo skyline della città: un
universo di gigantesche bolle di plastica (tra i simboli della manifestazione) da cui sarà possibile ammirare lo skyline della città ma su cui sarà possibile creare giochi di luce o far scorrere informazioni in tempo reale
(dal meteo ai risultati delle gare). Una scultura spettacolare, «una celebrazione della tecnologica» come l’aveva a suo tempo definita Paola Antonelli del Moma di New Yorkma che, per i soliti intoppi burocratici «non
potrà essere realizzato in tempo per l’inaugurazione». In alternativa si può cambiare il futuro delle città trasformando più semplicemente le biciclette in veicoli intelligenti capaci di fornire informazioni (come è avvenuto
a Copenaghen). Oppure cominciando dalla cucina (come ha fatto Ratti per Indesit Group, progetto che sarà presentato al prossimo Salone del Mobile di Milano) definita «lo spazio più importante della casa, quello
da cui bisogna iniziare la mutazione».
«L’idea delle interconnessioni è la stessa che aveva fatto dire al grande Le Corbusier, già agli inizi del secolo scorso, che la civiltà delle macchine doveva trovare un suo guscio architettonico. Ora il nostro compito è
quello di creare un guscio per Twitter e dintorni». Per questo, spiega Ratti «paradossalmente le nostre città così antiche, con la loro struttura architettonica così definita possono permettersi di sperimentare il nuovo
più di altre realtà» (a questa idea si rifà ad esempio il progetto di recupero del centro di Guadalajara). Ma il cambiamento proposto dall’equipe del Senseable City Lab è più ampio: «L’architettura fatta di forme
stravaganti e eccessive, quella insomma di Gehry e Zaha Hadid, è tramontata. D’altra parte la ricerca di un effetto speciale molto superficiale è ben più facile da raggiungere di un vero mutamento di costume e
abitudini di vita». Per Ratti «l’architettura è oggi fatta di sensori, ispirati magari ai pit stop della Formula 1, di piattaforme da condividere e trasformare a seconda di quello che succede» (una delle prime
sperimentazioni «l’abbiamo fatta durante imondiali di calcio del 2006, visionando in diretta l’effetto sul traffico cittadino di Roma della testata di Zidane a Materazzi»). Dove, ad esempio, si può seguire il percorso dei
nostri rifiuti con il sistema Trash Track (come a Seattle «dove si è riusciti a trovare una cartuccia di inchiostro a settemila chilometri da dove era stata gettata nell’immondizia»).
La ricerca di nuove connessioni è in fondo la stessa che sembra voler proporre Common Ground, la prossima Biennale d’architettura di Venezia: «Con la mia mostra — spiega al «Corriere» il curatore David
Chipperfield — intendo attivare dialoghi che attraversino i confini generazionali, stilistici, geografici e disciplinari. Anche perché penso che questi potrebbero anche far emergere il ruolo essenziale di altri settori della
cultura architettonica: i media, le istituzioni di ricerca, le scuole, le case editrici, le gallerie, le fondazioni e cosi via. I risultati, spero, si avvarranno di tutti imezzi disponibili per raccontare storie riguardanti i terreni
comuni della professione e della città. Per questo voglio offrire ai partecipanti l’opportunità di illustrare il proprio lavoro all’interno del contesto più ampio della pratica architettonica, non soltanto come dimostrazione di
talento individuale, ma anche per riunirci e definire le nostre ambizioni e responsabilità».
Il motto di Carlo Ratti? Sensing and acting. Sfruttare le nuove macchine per sentire, agire e soprattutto cambiare («anche in politica come ha dimostrato la Primavera araba»). È dunque l’ennesimo addio alle
archistar («Ogni sapere deve essere condiviso, ogni gelosia professionale deve essere messa al bando»), ma anche a certi modelli eccellenti come le città invisibili di Calvino o la Metropolis di Fritz Lang: «Non è più
tempo di un progettista come quello impersonato da Gary Cooper nella Fonte meravigliosa di King Vidor che affermava, nel lontano 1949, che “il primo diritto è quello dell’ ego”». Mentre ogni sapere deve essere
collegato e prevedibile. «Nelle smart cities — conclude Ratti — niente può essere più casuale. E nemmeno la mela può cadere da sola dall’albero sulla testa di Newton».
Stefano Bucci
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tag:arte interconnessa, Carlo Ratti, città intelligenti
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2 Commenti
thor1709
19 aprile 2012 ­ 09:54
Non capisci?
È un ritorno all'architettura semplice. Alle case realizzate con le pareti di acqua digitale e gli interni in bolle di plastica sempre connesse. È un ritorno all'architettura semplice. Alle case realizzate con le pareti di acqua
digitale e gli interni in bolle di plastica sempre connesse.
zuzuru
19 aprile 2012 ­ 09:31
cloud
l'architettura è un'arte che si vede, solida, pragmatica. ciò che crea deve essere utilizzato non solo goduto come per esempio la pittura. non ho capito qual'è la smart city che qui si intende, non capisco che fine
fanno le periferie, si parla genericamente di interconnessioni e si cita la testata di zidane, la primavera araba, sensori. tutto nella cloud... l'architettura è un'arte che si vede, solida, pragmatica. ciò che crea deve
essere utilizzato non solo goduto come per esempio la pittura. non ho capito qual'è la smart city che qui si intende, non capisco che fine fanno le periferie, si parla genericamente di interconnessioni e si cita la
testata di zidane, la primavera araba, sensori. tutto nella cloud...
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