antonio delfini - Casa editrice Le Lettere

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antonio delfini - Casa editrice Le Lettere
DARIO TOMASELLO
ANTONIO DELFINI
Tra seduzione e sberleffo
Le Lettere
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.
I.
9
«Je veux me perdre et voilà mon portrait».
I Diari ovvero il paradiso dei perduti . . . . . . . . »
21
II. L’ambiguità di «un surrealismo saporoso».
Il Fanalino della Battimonda . . . . . . . . . . . . . . . »
37
III. «Mentre scrivo, continua questa brutta storia».
La Prefazione del Ricordo della Basca come
romanzo inconsapevole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
53
IV. Una città senza Ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
65
V.
Ritratto politico di un «artista insoddisfatto» . »
77
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
91
II
L’AMBIGUITÀ DI «UN SURREALISMO SAPOROSO».
IL FANALINO DELLA BATTIMONDA
Tra tutte le questioni delfiniane, quella della sua presunta adesione al surrealismo risulta essere la più controversa:
Nel 1932, in aprile e maggio, ero stato a Parigi e mi ero formato superficialmente (per grazia di Dio!) una cultura (o vuoi, coscienza o subcoscienza) surrealista […]. Una sera, ormai esaurito da una vita così sconclusionata e stupida (provinciale, in
effetti), sedutomi al tavolo, dopo aver strimpellato il pianoforte (secondo la pratica lautreamontiana), presa in mano la penna, riempii ventidue pagine con virgole, punti, periodi, nel tempo di circa tre ore. Era nata la prima parte del fanalino della
Battimonda, e anche il disagio e la vergogna di averlo scritto. Il
mio surrealismo allora si quietò1.
Naturalmente, di là dall’usata strategia delfiniana di dissimulazione delle proprie reali intenzioni (di una ricerca continua
di compromesso con queste ultime2), la controversia in oggetto s’inscrive nella più complessa problematica di una fantasmatica presenza del movimento surrealista in Italia3.
Nella Nota al testo de Il Fanalino della Battimonda, lo
scrittore aveva dichiarato subito le proprie credenziali surrealiste insieme al carattere, contestualmente, tempestivo e
differito della redazione della propria “operetta”: «La prima
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parte di questo racconto, presumibilmente automatico, è stata scritta in una sera del gennaio 1933; la seconda, la sera del
14 novembre 1934. Luogo: il salotto rosso, al I piano di casa
Delfini sul corso Canalgrande n. 21, di fronte alla chiesa di S.
Vincenzo in Modena»4.
La conoscenza diretta del surrealismo originario non fa,
né farà mai, di Delfini un artista organico del movimento, non
attecchisce se non in maniera naif sulla sua visione del mondo che resta sanamente provinciale, almeno secondo quanto
riferisce Garboli: «Il surrealismo di Delfini sa di farina e di
campagna, sprigiona odori forti. È un surrealismo saporoso.
Non è letterario, non nasce da nessuna strategia»5.
Il problema è che il sentimento delfiniano nei confronti
della provincia d’appartenenza, è quantomeno ambiguo.
Un’ambiguità manovrata, come si è precedentemente visto,
da balzane ipotesi di fuga, all’insegna di accessi di un odio
atavico e di slanci di un altrettanto irresistibile amore che però non salva la vita, non la rende più accettabile o piacevole.
Ecco, allora, che il surrealismo diventa una strategia letteraria (e cos’altro potrebbe essere dal momento che Delfini,
pur disprezzando la letteratura, non conosce altre strategie?)
efficace per alienarsi la provincia, per alienare se stesso:
Vivevo a Modena, e mi divertii in quel tempo, sia al Caffè Nazionale che in qualche circolo o ballo, a scandalizzare i borghesi
(gli intellettuali e i professionisti del luogo) con scherzi che chiamavo surrealisti, ma che in realtà non erano che realismi o naturalismi dei più schietti e volgari6.
La scrittura automatica assume, di conseguenza, la funzione
di uno «sbocco naturale e reattivo, o se si vuole, naturalmente reattiva, alle cautele soffocanti (e ideologicamente troppo
concilianti) dei suoi amici contenutisti, cui egli era legato da
vincoli di affetto/repulsione, nonché suo malgrado, da vincoli finanziari essendo condirettore (in quanto cofinanziatore) della rivista “Oggi”»7.
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Il titolo del Fanalino era destinato a entrare nel novero
delle leggendarie trouvailles delfiniane. A cosa alludeva? Cosa sottintendeva?
Il titolo del Fanalino è assolutamente arbitrario e non dovrebbe avere, se non l’acquisterà, alcun significato. Così, in definitiva, anche il testo, del quale ero interamente distaccato, come
autore, nelle ore in cui lo scrivevo. Se un giorno mai gli scrittori italiani si porteranno con maggiore franchezza verso quella
che è la storia del Teatro italiano del Varietà, e acquisteranno
pertanto il senso puro dell’emozione, può darsi che «Il Fanalino della Battimonda» entri a far parte di una serie di testi che
saranno indicati da quel movimento letterario che avrà nome di
Emotivismo8.
Ricompare, di nuovo, la più consueta vena delfiniana, incerta se mantenere l’aplomb algido del viveur o inaugurare
un’ideologia puramente emozionale (l’«Emotivismo», appunto).
Nel Fanalino della battimonda, si offusca il segno essenzialmente lirico ed entrano in circolazione un organismo di
fatti più richiesti dalle esigenze stesse dell’idea informante dei
racconti e un catalogo di gesti e movenze che sono una già
sintesi, l’approdo di quel lungo lavorìo di preparazione psicologica in cui lo scrittore si era cimentato in precedenza, con
gli studi analitici, stemperati del Ritorno in città. Ed è appunto tale sigillo proprio delle nuove invenzioni a dare l’impressione di un’intensa operosità che diversifica l’universale
(il messaggio estratto dall’inerte) dal particolare, la vicenda
che presume di essere legge dal quadretto minimo che l’ha
provocata: riemerge l’assenza di partecipazione alla vita contemporanea guardata attraverso la legge dell’intimismo.
È la presenza-assenza, l’allentarsi e ricongiungersi, continuo, di lontananze e di vuoti, che funge da filo conduttore
del labirintico viaggio nella casa e nell’oscuro universo esistenziale9 dei due personaggi principali: Ludovis10 e Al, due
«supermarionette» impegnate a smentire continuamente la
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ragionevolezza del loro profilo, inceppando la trama, rendendola superflua.
E mentre i volti sfumano e i profili un po’ si confondono
per il sovrapporsi di impronte note11, alcune spezzature e inversioni strutturali interrompono il rito unificante del testo,
vale a dire quella fantasia visionaria – nell’adunare i colori di
un mondo di esiliati – che di quando in quando riesce a superare la tessitura polemica in cui si ripete, come in una malinconica campitura, un autobiografico rosario di desolato
abbandono:
Solo nel grande centro di una città desolata terminava i suoi
pensieri più assurdi, Ludovis, il mercante ebreo rinnegato, figlio
di uomini che avevano guadagnato molto denaro. Come sarebbe andata a finire? Sarebbe partito? Forse un giorno o l’altro,
quando il cerchio dei meschini gli fosse sciolto d’attorno. Senza speranza, pieno di astio avrebbe continuato12.
Nella innaturalezza della continuità del tempo, i due personaggi mandano avanti la schermaglia consueta, entrano e si
adagiano nel vuoto di un vano indugiare, si calano in una parte che conoscono benissimo e che per bisogno di altra verità,
reinventano senza però alterare una prigionia di gesti, di comportamenti, di battute. Ritornano i rumori della città, della
giornata spenta e insieme salgono onde antiche, speranze e
innocenze definitivamente sepolte. E i dissidi permangono e
l’oscurità del destino s’alza ad abbattere la lucidità delle proposte umane, la disperata volontà di creature che vogliono
imprimere un corso diverso alla storia, alle sue indefettibili
regole, nell’illusione di piccole glorie effimere che celano la
sconfitta:
– Ecco, vedi mio caro, noi potremmo benissimo impadronirci
di questa piazza – disse Ludovis seduto al suo tavolo di lavoro,
indicando col dito una piccola località segnata su una grande
carta della Brettagna13.
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La struttura stessa cerca di mimare l’andamento ondulatorio
del fenomeno patologico, con la sua alternanza di momenti di
stasi (e quindi di lucidità e di capacità di coordinamento e di
giudizio) e altri, di costante pressione, dei fantasmi ossessivi.
Talora, nelle pause, la scrittura si organizza su cadenze
più omogenee, tracciando avvenimenti, colmando i vuoti che
stanno dietro alle crisi, riorganizzando il discorso, riordinando gli stessi scatti delle manifestazioni nervose in un quadro
preciso.
Preme una dispersione vistosa dei piccoli fatti, corollari,
appendici e mentre il reale è incalzato, colto e subito dissolto, manca lo sfumato, il trapasso morbido da una situazione
all’altra: la rappresentazione della vita si riduce a brandelli
che accampano diritti di totalità e assolutezza.
Il periodare, infatti, intrecciando sapientemente inversioni e giochi prolettici, apostrofi, esclamazioni e interiezioni
per adattarle a un materiale tematico di desolato fallimento
esistenziale, rivela la propria intenzione dissacratoria, fortemente polemica, disvelata spesso dalle contraddizioni stridenti, contraddittorie che segnano il ritmo delle lunghe elencazioni concettuali o da certe improvvise code siglanti che
smitizzano le prospettive di aulica sonorità così pazientemente innalzate.
L’accanimento intorno alle figure e ai fatti non porta alla
macerata scarnificazione della materia poiché l’autore non
mostra quasi mai di voler distinguere decisamente tra esattezza e arbitrarietà, tra ordine e disordine, sebbene proprio
nella coesistenza magmatica di grumi diversi, nella nitida immersione dentro il groviglio famigliare, segue il suo vero disegno mentre si estenua al gelo dell’esistenza. Non v’è distinzione tra sfere distanti delle apparenze e l’adesione a un personaggio non comporta di necessità l’uso di mezzi a lui consentanei, né l’impiego di forme nelle quali si trasmette verosimilmente quella vita. La rappresentazione non si accontenta di seguire in modo meccanico le regole del credibile, collega piuttosto funzioni estranee, riunisce in un legame la sto– 41 –
ria esterna degli atti e il sovrapporsi delle impressioni, tenta
di collegare le esteriorità inanimate alla luce vivificante di una
qualche reazione umana, all’impulso magnetico che manda
avanti un lavoro di spoglio e di contraffazione nei confronti
del reale traducentesi in un movimento assiduo dei rapporti
tra personaggio e cose di fuori. Il tono ironico, che pur permane tra le righe di immagini capovolte, si poggia sull’adozione di materiali circondati da aloni di verità messi a servizio di minime trasfigurazioni fiabesche o di inopinati rovesciamenti d’orizzonte:
Era stanco, la fame lo divorava. Lupi e canarini invadevano a
migliaia la città, i tempi cambiavano [...]. Lui appoggiato al parapetto del Ponte Vecchio sognava gli ultimi ricordi di Dio. Sovente, quand’era ragazzo, si avvolgeva nel suo lungo mantello
nero e passeggiava per casa come a rimembranza del mondo. Le
case gli volavano intorno. Nell’altra stanza una signora col vitino stretto parlava di lui con la madre e col padre14.
La fantasia lascia scorrere grafici sollecitati in modo esponenziale e l’esecuzione accanita del ragguaglio esplora meraviglie e disordine al fine di trascrivere un itinerario iperreale. Viziato di illusionismo, lo stile ha però una sua forza
calamitante che persegue e comprende l’inquietudine, che si
districa bene nel labirinto proprio per la sua confidenza nel
sortilegio.
Questa orchestrazione di elementi smaglianti, folgoranti
e momentaneamente dotati di conforto, di riscatto in una superiore verità segreta (che per la prima volta si precisa siglata da una caratura autenticamente trascendente), se in apparenza mette in crisi l’essenza circolare e amalgamante dell’esterno, esaltando il disperso e il transeunte, in definitiva si
aggrappa, disperata, a tutto ciò che, ricomposto, può ricostruire una storia dell’uomo e del suo fatale destino.
La stessa concezione enumerativa delle cose, inventariale, nonostante le scosse e scorribande filtrate sia nei momen-
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ti solari sia in quelli notturni, è sottoposta a un processo ludico che infonde divertita sapienza anche alle evenienze più
distraenti, all’universo d’ombre ed echi, con un coinvolgimento critico e umoroso che non azzera le ambiguità della
scrittura:
Anche in Russia quest’inverno si avrà un freddo eccezionale.
Quel che conta è non perdere tempo. Tutto si può fare, andando adagio adagio, ma è difficile fare lasciandovi in mezzo
una bolla di spazio sia pur minima e breve15.
In alcuni casi la calibratura psicologica e quella stilistica non
sembrano combaciare perfettamente: certa estenuazione cresce oltre la lucida esattezza del segno che appunto, per la limpida manipolazione, se ne sta come sacrificato. Ritratti e scene possono prendere impronte di distrazioni narrative e accerchiare la contenuta dizione del dettato frenata sulla riga
che demarca il capriccio. L’ironizzazione coinvolge l’eccesso
di minuzie nella funzione decorativa o risonante, per gelare
infine le frondosità e impedire che dalla cornice esse si muovano verso l’essenza: che, cioè, smettano di costituire scenario e divengano pericolosamente nodi, grumi della struttura
del racconto. Il linguaggio, insomma, ha limiti di fusione, sicché sovrappongono giunture logiche, raccordi mobili, sfrenatezze fantastiche: meccanismi restituiti in forme più o meno compromesse dal sorriso. Certo, iniezioni di stupore, eloquenza, lirismo, sentenza non si cementano puntualmente
con talune scarne prese dei fatti, ma se ne stanno lì a ingrossare episodi, a rappresentare un discrimine, una cesura dell’altro che incide la trama: a conferma di ciò anche le spezzature interpuntive – interrogazioni, esclamazioni – con le quali queste tracce incidentalmente si isolano, si autoconcludono quasi in una pausa delucidativa. Stilisticamente, Delfini
ne circoscrive la portata, la spinta, mentre è pur vero che la
loro intenzione resta quella di puntare su tali scorci, di non
considerarli mezzi transitori (accordando qualcosa in più del-
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la semplice suggestione melodica, della loro acquisizione come insegna araldica di una scrittura a più timbri). Preso dalla sicurezza del suo modo di condurre la pagina, egli abbandona pure le scoperte sofisticazioni dei suoi dubbi di artefice e giunge direttamente a interlineature di malizioso criticismo, di un pastiche che rivela l’onnipresenza dell’innamoramento leopardiano:
[…] Non avrete niente, lo giuro nel nome del Signore, e farò il
possibile perché Ciro Vino e Gino vi superino, coûte que coûte, in tutti i passi della vostra esistenza!». Noi eravamo, così,
piccole foglie frali trasportate dal vento, dal piano alla montagna, comme dit ce grande poéte de M. Jacques Leopardi. A Recanati non siamo mai andati16.
Affiora la perplessità che il testo stenti talvolta a trovare equilibrio tra patetico e caricaturale, allegoria e bizzarria, tendenza a sfumare tutto nel simbolo e volontà di serrare il cuore dei fatti nel battito di una, pur allusa, cronaca. Risonanze
crescono tra storia e profezia, modo coloristico di intendere
il reale e aspirazione a trame interiori: il momentaneo e il transeunte prendono così la frequenza di una modulazione psicologica proseguita e ricantata nella riflessione.
La reiterazione di temi e motivi non frena alcune regressioni sentimentali al mondo dell’infanzia, al più camuffato
globo della visione etica, alla rappresentazione di condizioni
esemplari di un’ideologia della realtà e si avvale sempre di un
contrappunto umoristico che protende in prismi luccicanti e
devianti l’ansia e la pena del vivere, tanto sofferte da istradare nell’opera punte d’incombente determinismo. Gli accadimenti e le passioni sono sempre centrati in modo abnorme, in
una scala di esposizioni estese fino al grottesco, al paradosso
di una piccola umanità dibattuta nel contrasto di sempre più
ridimensionate speranze, sempre più allarmati presagi.
Lungi dall’adottare solo le movenze smaglianti dell’ironia corrosiva, al riparo che può dare la desolata e critica par-
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tecipazione, Delfini, sotto le disinvolte schermaglie dello
scherzo, dà sostanza incessantemente a una vita disancorata,
resa più precaria dalle pose dei personaggi, da quel loro soffrire il dolore come ostentazione del dolore stesso, da quel
loro straniante pensare come atto di una recita. Ogni personaggio difende posizioni paradossali, eccentriche, esaurendo
fino in fondo tutto il cammino dell’argomentazione, del processo razionale, sicché l’interesse dell’invenzione non è tanto
volto alla libera gioia delle singole sequenze, alla dinamica di
fatti apportatori di chiarificazione, quanto all’implacabile e
fermo divertimento della mente che va coprendo i fatti con
veli di comicità, di farsa, di divagazione arguta, di polemica
aspra e di indulgente sorriso, inserendo nel tutto l’ingrediente retorico dell’assurdo esibito come fatale accadimento.
La scrittura prende ora andamenti distesi, abili nel trovare rispondenze musicali e gli incanti di un raffinato porgersi della parola scelta; ora è uncinata dal trasalire di accorate intimità o dal folgorante sostare intorno a episodi effimeri, cercati per quel che di istantaneo e pure contrappuntistico possa avere e non per il loro improbabile accordo con
un disegno superiore; altre volte, questa attitudine ha il ritmo
della registrazione di dolori oscuri, una sonda che si lascia
dietro il silenzio e qualche infiammata rassegna di memoria e
desideri, di fatti comuni, trasformati con tutti i loro residui,
supposizioni, verità, in situazioni ambigue, dove un’immagine può essere anche perduta di vista ma presto ritrovata più
satura di occasioni meno prevedibili:
La strada è una striscia di riforme laiche che pagano tasse. E i
preti s’insveltiscono quando riprendono il sonno dei tragici
martiri: hanno sapore di un cero che grondi del miele con spongate torte varie e noccioline17.
In questo senso, l’incedere incerto verso il silenzio conclusivo ha il timbro di un guardingo stupore, una cadenza d’inganno in cui si persiste ad attendere se non altro per la cu-
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riosità di aspettarsi il peggio. La massima distanza, raggiunta
dai personaggi nelle opere precedenti, trova un insperato motivo di solidarietà.
In Delfini, la fantasia si preoccupa di creare spazio inventivo (con un’accensione coloristica forse più carica che nel
vero) alle sollecitazioni profonde, alle tesi (si veda, in tal senso, la funzione ricoperta dai manifesti) senza registrare grandi cedimenti al compito – che avrebbe potuto apparire fatale – di esemplificazione e di pezza d’appoggio. Poco o nulla
resta di gratuito e di eccessivamente costruito, e ogni slancio
dello scrittore sembra assottigliato, contratto dall’ombra di
quel suo convincimento dell’ineluttabilità del dolore, da quel
suo pessimismo che a intervalli gli nega la totalità del reale, la
gioiosa energia di affrontare tutte le esperienze. Ne deriva un
condizionamento pesante degli avvenimenti: l’uomo è destinato a subirli. Ma si concede fughe illusorie che sono poi tremiti e finzioni, blasfemi calembours:
La nostra fede è nell’aria. Nessuno la possiede nelle sue mani.
Duemila, tremila, quattromila anni e passa han lasciato che la
fede rimanga nell’aria. Il mio amico Daniele usava una cerbottana, sulla cui precisione di tiro, chiunque avrebbe messo la mano nel fuoco. Ma il giorno della fede il suo colpo fallì. Siamo
dunque venuti nella determinazione che la fede scusatemi la
volgare spiritosaggine – è una cosa assai campata in aria18.
Non diversamente tocca pure il rapimento della tranquillità,
ma ne ottiene un beneficio poco consistente, di parziale contentezza. Il racconto è la traduzione di quel malessere psicologico, di quella pena del vivere, affrontati da Delfini senza
l’ambizione della testimonianza assoluta, dell’exemplum. Lo
scrittore riesce a indicare i caratteri di un’atmosfera giocando sulle capillari sensazioni dei personaggi che scoprono via
via la sua inconsistenza.
Nell’assumere coscienza dei singoli eventi, nel volerli un
po’ esonerare dalla loro funzione di semplici prove in vista di
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uno sviluppo poetico, lo scrittore ha il suo tormento: esso traluce venefico nella constatata impossibilità di distinguere tra
bene e male, nel tremore del nulla, nell’alternanza (motivo di
fondo di molti racconti) di fugacità invincibile e di ostinato
attaccamento alle cose, ai valori terreni. La drammatica lacerazione è attutita nella pagina da interlineature preziose di
stile, da bravure contrappuntistiche capaci di coprire tutto lo
spartito delle risonanze psicologiche dei personaggi e i vari
tempi del fantasticare dello scrittore conteso dalle leggi dell’impianto concreto. Incombe l’oscillare semantico tra linee
ferme di obiettività e smottamenti di adesione sentimentale,
tendente a creare una cornice esterna e, al contempo, tutta
innervata nella condizione spirituale e morale, quasi commento e scansione metafisica, emblematica identificazione del
destino:
Non credi Al che noi potremmo diventare avventurieri? La nostra favola è ormai conosciuta da tutti in città. Le nostre membra sono stanche. Le donne non ci vogliono a mano per quel sacro terrore che hanno di stare con degli eterni ragazzi19.
Questa contrastata condizione emotiva fa parte di un espediente che si ripropone in tutto il testo, condensandosi nella
metafora naturalistica di atmosfere caliginose o di luminosi
spiragli di riscatto.
Per raccogliere i lunghi tempi dei turbamenti interiori, la
lingua, ne Il Fanalino della Battimonda, è destinata a possedere più esibite sinuosità e a favorire l’aggiunta di elementi
sempre nuovi nel periodo: perciò essa urta spesso contro le rigidità imposte dalle metalliche, precostituite omogeneità
esterne che devono essere descritte, contro gli schemi condizionatamente connessi per tradizione letteraria a un certo tipo di figurazione naturalistica e di ritratto (in qualche foglio
di album, in qualche volto minore standardizzato) o agli espedienti di racconto guidato.
Ma subentra la speditezza del ritmo, si fa avanti l’incal-
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zare delle immagini che sospinge all’effetto tutte le coordinate del racconto (e dentro v’è l’urgenza dell’ansia morale
che vuole rinnovare l’incontro rivelatore con i fatti), creando
però nel loro orizzontale spiegarsi qualche moto aritmico,
brevi effetti circolari non meno incisivi ed efficaci, ché pure
le linee tracciate disorganicamente lasciano frantumi potenti, contorni sbozzati a piena luce, scompensi che fanno sgorgare bruscamente un’interna, prolungata lucidità, che con
equilibrio interrompono l’accumulo, la concitazione, il crescendo e, di rimando, rilanciano l’inespresso, la pausa, l’esitazione. Va da sé che la cura stilistica, identificandosi con il
ritmo naturale delle vicende, plasma e rende agevoli anche
certe durezze espressive, integra e adopera i vuoti narrativi,
attutisce i conati di saggezza delusa dell’autore, che teme di
far pesare la sua conduzione, e li allontana da edonistici allettamenti:
Senza scopo la sua vita scorreva tranquilla. Traversie di vario
genere lo incombevano nel frastuono delle orecchie assonnate.
Sterco la sua giacca con le chiavi impolverate di reminescenze
retoriche. Avrebbe goduto combinare in un’eternità monotona
i fattispecie della sua categoria che puzzava di cavallo. Ogni
membro della famiglia usava guanti speciali acquistati da A. che
li vendeva a quattro soldi il paio col sole di mezzanotte20.
La fede, contro ogni logica coerenza, nel flusso dell’esistere
deve misurarsi con l’ossessivo ricorso al gioco: da questa dinamica Delfini trae sintomi di una crisi nel suo stesso abito di
sentire e registrare la vita, più che nella coscienza dei valori
declinanti dell’umanità. La pittura storica è sempre un tempo più remoto di quello soggettivo e le figure passano per il
filtro del giudizio delfiniano prima di circoscriversi e rivelarsi nelle fisionomie del mondo. La realtà si crea come in anticipo nella disposizione dello scrittore che la interpreta e la
colloca poi fuori, in un gioco di incastri. Il pericolo della schematizzazione – o, peggio, della deformazione – è superato dal
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sostrato di passioni che è alla partenza e che distrae l’ordigno
convenzionale nell’avvicinamento diretto dei sentimenti e dei
principi scottanti da un calore ideologico e polemico.
A tal riguardo, il torrentizio frastuono monologante viene interrotto solo da un unico stralcio di dialogo che, in quanto hapax, sottolinea il carattere eccezionale della sua unicità:
– Quanto sono volgari le ragazze a dire «omo».
– «Amo» direi – sopraggiunse Ludovis dai suoi astrali concetti.
– In senso di pesa può andare.
– In quale altro senso mi domando; poiché ci sarebbe, è vero,
un altro significato, se significato può avere quella cosa pietosa alla quale non abbasseremo mai il nostro livello. Or giunga
il mondo!
– Chi ha tempo non aspetti tempo, ma per il mondo credo che
il tempo non ci sia – disse Al21.
Le istanze critiche reggono i codici del movimento psicologico in un sommarsi di avvenimenti giocati più sull’insistenza delle parole che su un reale e organico svolgimento narrativo, spesso oscillante in maniere ambigue tra aspre lineature
di linguaggio e gli echi di una facile cantabilità. Nel passaggio rapido dalla teatralità del gioco a due alle consolatorie voci di un rabberciato idillio domestico, l’intreccio si contrae
nelle fasce dell’epilogo. Qui si conclude in solitudine la parabola umana dei due amici, sul tramite di sapide interlineature ironiche promosse sovente ad accordare i meccanismi
alterni di realtà e sogno. Ma la storia di certi volti, pur ricca
di vividi spunti, finisce per attingere il livello tonale di una
certa drammaticità scenica, dove la carica dolente stempera i
suoi più intensi umori, e acquisendo la generica valenza dell’emblema, si alimenta di una reale forza d’urto:
La vita al mulino continuò così per qualche anno, fra il sonno
di Al e le celestiali maledizioni di Ludovis […] E il sonno di Al
era un’abile scappatoia. Così Ludovis partì un giorno, in pieno
sole, (la grande lueur nous arrache la conscience) con la sua va-
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ligia di tela incerata […] , egli s’imbarcava nel notissimo mondo per la millesima volta, non dimenticando di far piano chiudendo la porta […] Noi non sappiamo se mai il tuo amico si risveglierà […] Il sonno di Al sarà infine la nostra salvezza22.
Da un lato, si ha quindi l’impressione che il surrealismo delfiniano sia uno specchietto per le allodole, un modo come un
altro pour épater les bourgeoises23, dall’altro vi circola il sospetto sottile, instillato dal diretto interessato, che esso possa rappresentare la splendida opportunità di dichiararne il
fallimento.
In linea con la propria poetica più coerente, Delfini, quasi masochisticamente, nell’aderire al movimento sembra voler fare esplodere le sue contraddizioni. In una derisione per
sottomissione, ne corrode dall’interno la struttura, sfrutta
abilmente l’occasione offertagli per esibire il suo eterno, variopinto, malcontento:
Ora si veda in quel mio periodo surrealista (anche se il testo [!]
del Fanalino non vorrà essere considerato come tale dagli specialisti) un documento, una prova, dello stato fallimentare – in
senso umano – dei surrealisti. Io avevo scritto automatico perché in verità non avevo nulla da fare e nulla da dire; nessuna
mia emozione – tolta l’ispirazione ch’è dote dei grandi – da sfogare o da esprimere, nessun ardore ecc. ecc. Ero in un momento di caduta. Non ero niente. Ero quello che i surrealisti
sarebbero (e talvolta sono) tutta la vita se seguissero interamente il loro programma: dei falliti inemotivi che hanno tolto
da sé qualunque sentimento, delle larve talora interessate commercialmente24.
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NOTE
1
A. Delfini, Appendice, in Il Fanalino della Battimonda, Milano, Claudio Lombardi Editore, 1993, pp. 70-72. Lo stesso testo era apparso nell’edizione del 1940, con il titolo Preambolo giustificativo.
2
Così chiosava Delfini, il 3 luglio del 1936 «Manifesto del surrealismo italiano (meglio ancora, padano – o addirittura della Bassa?) Il
nostro surrealismo verso i surrealisti di André Breton. Per adesso si potrebbe fare un manifesto dei Sognatori con assai transigenza e compromessi inseritovi naturalmente un articolo (o comma) dichiarante la
nostra intenzione di rimangiare aggiungere togliere correggere qualora
se ne presenti l’occasione aiutando l’elasticità degli avvenimenti», A.
Delfini, Diari 1927-1961, cit., p. 187.
3
«È esistito un surrealismo italiano?», L. Fontanella, Il surrealismo
italiano, Roma, Bulzoni, 1983, p. 9; S. Cirillo, Nei dintorni del surrealismo. Alvaro, Buzzati, De Chirico, Delfini, Landolfi, Malerba, Savinio, Zavattini, Roma, Lithos, 2000.
4
A. Delfini, Nota d’Autore, in Il Fanalino della Battimonda, cit.,
p. 5.
5
C. Garboli, Introduzione, in A. Delfini, Il fanalino della Battimonda, cit., p. XIV.
6
A. Delfini, Appendice, in Il Fanalino della Battimonda, cit., p. 71.
7
L. Fontanella, Surrealismo lirico ed emotivo in Delfini, in Antonio
Delfini. Testimonianze e saggi, cit., p. 184.
8
A. Delfini, Appendice, in Il Fanalino della Battimonda, cit., p. 70.
9
Cfr. E. Cesaretti, Castelli di carta. Retorica della dimora tra Scapigliatura e Surrealismo, Ravenna, Longo, 2001.
10
«[…] Ludovis, ovvero Forza del Ludo; e anche in questo il suo
battezzatore rispetta pienamente la tradizione surrealista dei jeux de
mots, di cui Duchamp, alias Rrose Sélavy, era stato notoriamente geniale praticante», L. Fontanella, Delfini surrealista: dalla «presenza perduta» di Ritorno in città alla «dictée aautomatique» del Fanalino della
Battimonda, in Id., Il surrealismo italiano, cit., p. 182.
11
«Nel Fanalino della Battimonda i personaggi, privi di qualsiasi
identità anagrafica, si mostrano immediatamente non come attanti, ma
come emblemi di una teoria veritiera sul surrealismo ad usum Delfini»,
A. Agostino, Il piccolo surrealismo di Antonio Delfini: Il Fanalino della
Battimonda, «Critica letteraria», anno XXXVI, fasc. I, n. 142, 2009,
p. 131.
12
A. Delfini, Il Fanalino della Battimonda, cit., p. 7.
13
Ivi, p. 9.
– 51 –
14
Ivi, p. 22.
Ivi, p. 23.
16
Ivi, p. 40.
17
Ivi, p. 36.
18
Ivi, p. 53.
19
Ivi, p. 15.
20
Ivi, p. 33
21
Ivi, p. 46.
22
Ivi, pp. 65-66.
23
«A quell’epoca il mio sogno maggiore di pensatore era quello di
spaventare i borghesi, di trovare una giovane donna che accettasse di accompagnarsi con me a sparare revolverate per le vie di M*** e di rendere emozionabili i cuori della Brava Gente ormai in via di assopimento», A. Delfini, Appendice, in Il Fanalino della Battimonda, cit., p. 69.
24
Ivi, p. 72.
15
– 52 –