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Alain Gérard
( giurista, economista, filosofo, presidente del GREP Midi Pyrénées)
L'Ateismo
Conferenza di Tolosa del 15 gennaio 1997
Traduzione dal francese di Franco Virzo (2006)
L’Ateismo
Il termine “ateismo” è composto dal radicale greco theos, “dio”, preceduto da un alfa privativo che esprime
la negazione. E’ quindi un vocabolo negativo. E lo stesso succede per i termini affini come incredulità o
agnosticismo. Il che indurrebbe facilmente a pensare che la nozione designata si definirebbe in sé solo in
rapporto ad un'altra, come se non avesse valore proprio, o come se il ricorso a quest’altra nozione, quella
di Dio, le fosse inevitabile. Una sorta di nozione vuota, parrebbe quindi, che trova senso solo per astensione
e non per se stessa, una posizione nulla che non ha niente da presentare se non un rifiuto. L’ateismo
sarebbe un concetto marginale in rapporto a quello che sarebbe il suo punto di riferimento, la credenza in
Dio, che avrebbe soltanto un contenuto positivo, ovvero un’evidenza immediata di cui l’ateismo sarebbe
sprovvisto. Nei confronti della religione, l’ateismo sarebbe in situazione d’inferiorità, non avendo alcun
diritto se non in rapporto ad essa o proveniente da essa. Il più delle volte, in effetti, e in molti luoghi,
ancora oggi, quando l’ateismo prende la parola di fronte alla religione, si trova in una situazione
d’inferiorità di fatto. Il delitto di blasfemia gli vieta di criticare la religione, ma nulla vieta alla religione di
criticare l’ateismo. Quando tenta di presentare il proprio punto di vista agli adepti delle religioni, gli si
chiede di non urtare le opinioni dei credenti, mentre quando i credenti presentano il loro punto di vista agli
adepti dell’ateismo non chiedono mai se non potrebbero urtare le opinioni di quest’ultimi. Sembrerebbe
che la credenza in Dio abbia diritto al proselitismo e l’ateismo no. L’ateismo così sarebbe forse rispettabile,
ma in realtà trascurabile, essendo la credenza in Dio l’opinione ultima alla quale comunque ciascuno
aderirebbe, quando le cose diventano serie, con la morte o le difficoltà - in poche parole, un’evidenza che
non ci sarebbe neppure bisogno di ricordare e che non avrebbe da giustificarsi, solo l’ateismo essendo
costretto a spiegarsi. E’ così che ai giorni nostri mentre si parla molto di ritorno delle religioni, noterete che
in realtà non si parla mai che delle loro manifestazioni sociali, della loro morale, dei loro divieti, del modo di
vita che implicano, ma mai di Dio stesso- come se la credenza in Dio andasse da sé e non fosse in fondo mai
messa in dubbio. Occorre notare bene che se l’ateismo non può che porsi in rapporto ad una nozione altra
da sé, questa non è oggi posta in quanto tale. Quando il papa Giovanni Paolo II pubblica Splendore della
Verità, che dà la rappresentazione cristiana del mondo, non parla da nessuna parte di Dio e non spiega mai
perché o come si può credere in Dio. Ora però, se Dio non esiste o se non ci si crede, la sua dimostrazione
cade. Fuoriusciti dalla morsa sovietica, gli ungheresi, i rumeni, i polacchi, reintroducono subito
l’insegnamento del catechismo nelle scuole pubbliche come se non vi fosse nessun altro modo d’insegnare
ai giovani a riflettere sulla vita e sul destino. Più importante ancora, forse, su scala mondiale nel suo
insieme, l’islam, unica religione a progredire attualmente, non parla mai nell’azione di proselitismo di prove
dell’esistenza di Dio, come se non fosse possibile dubitarne e come se solo le modalità della fede fossero da
spiegare. Quello che è curioso è che lo stesso silenzio regna dalla parte dei non-credenti. Nessun pensatore,
nessun filosofo contemporaneo ateo, di fatto, parla mai di Dio né spiega perché non ci crede. Né Husserl,
Né Heidegger, né Sartre, né Deleuze, né Foucault hanno mai detto perché non credevano in Dio. Derrida ha
partecipato poco tempo fa ad un colloquio sulla religione (fatto eccezionale) e l’intervento che ha fatto è
stato pubblicato: egli riesce per l’occasione, con un tour de force di 80 pagine, a trattare della religione
senza pronunciare una sola volta la parola “Dio” e senza dire niente della possibilità o dell’impossibilità
della sua esistenza. In poche parole, tutti parlano di religione, ma nessuno parla di Dio. Non sarebbe più
possibile parlare di Dio, o della sua assenza? La fede come lo scetticismo sarebbero propriamente indicibili?
Ma questo sarebbe allora un fatto sul quale bisognerebbe almeno riflettere. Se quelli che accettano Dio
tanto quanto quelli che lo rifiutano ritengono che si tratta lì ogni volta di un’evidenza, il solo fatto che
questo atteggiamento sia evocato da parte e d’altra in senso strettamente opposto esigerebbe almeno un
esame o una conferma. Vero è che l’ateismo fu effettivamente a lungo marginale in rapporto alla religione.
Gli uomini non hanno disposto a lungo di alcun altro sistema di rappresentazione e di spiegazione del
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mondo diverso da quello che partiva dall’esistenza di Dio. Non occuparsi di Dio, una volta, era sia
ignoranza, sia indifferenza, sia frivolezza, sia sfida (Don Giovanni, Sade), che sono altrettante maniere
d’affermare l’esistenza di Dio. Al massimo vi erano degli scettici, quelli che Pascal chiamava “i pirronisti”,
ma non proponevano un sistema sostitutivo significativo. Lo scopo della mia proposizione di questa sera è
di mostrare che non è più così oggi. La modernità ha completamente cambiato il problema di Dio e
dell’ateismo, ed è essere cieco non rendersene conto. Che l’ateismo abbia occupato un posto secondario
rispetto alla religione è esatto secondo la scala della storia, ma non lo è più secondo quella della realtà del
mondo contemporaneo. Numerosi tra i più grandi spiriti del nostro tempo non credono più in Dio, che sia
nel campo della scienza, dell’arte, della letteratura, della filosofia, o anche della politica. E’ noto il
sondaggio d’opinione fatto da un giornale cattolico francese una decina d’anni fa che indicava che 12%
solamente della popolazione francese praticava ancora regolarmente una religione. Il resto comprendeva
una percentuale quasi equivalente d’atei proclamati (12 o 13%) ed una marea d’indifferenti, di poco zelanti
o indecisi. Qualche settimana fa ho visto menzionare in un giornale un sondaggio simile che dava questa
volta 35% di non credenti dichiarati. Uno storico delle religioni, Odon Vallet, professore alla Sorbona, diceva
poco tempo fa in un’intervista, ma senza citare le sue fonti, che un uomo su cinque nel mondo si dice ormai
ateo o agnostico. E aggiungeva che la religione che ha più progredito nel XX° secolo era… l’ateismo. Il papa
Giovanni Paolo II percorre il mondo e riunisce folle come nessuno dei suoi predecessori lo aveva mai fatto.
Ma sono folle di cattolici. Non ci sono indicazioni che ai viaggi di Giovanni Paolo II seguono ondate di
conversioni di non credenti al cattolicesimo. In ogni maniera, c’è un fatto incontestabile: è che i due sistemi
di pensiero che dominano di gran lunga il mondo d’oggi, la scienza e l’economia, sono completamente
sprovvisti di riferimenti ad un qualche elemento divino. Di fatto, il mondo contemporaneo è dominato
dall’ateismo. Non voglio dire con ciò che la scienza e l’economia siano rappresentazioni complete e
sufficienti dell’uomo e del mondo. Ma ignorano Dio e qualsiasi trascendenza e, di conseguenza, pongono il
problema dell’ateismo. Nei loro confronti, bisogna almeno ridefinire quello che gli si potrebbe obbiettare a
questo proposito. E’ indiscutibile che ci sono ormai nel mondo popolazioni molto importanti (importanti
per numero ma anche per il livello intellettuale) che vivono completamente lontani da qualsiasi religione e
talvolta, com’è il caso in Francia, da parecchie generazioni. E’ indispensabile vedere quale può essere il loro
sistema di pensiero. E’ un ambito difficilissimo da valutare. Non ci sono dati precisi o statistiche. L’ateismo
non ha Chiesa, papa, registro di battesimo che permettano rilievi precisi. Non c’è dottrina, istituzione
rappresentativa dell’ateismo nel suo insieme. Spesso un ateo che si converte ad una religione l’annuncia e
ne fa un gran caso, ma un credente che perde la fede non lo proclama. C’è tuttavia un insieme di fatti che si
può esaminare, ci sono condotte, fasci di comportamenti e di rappresentazioni di cui si può fare l’inventario
e l’analisi. Nella stessa maniera in cui l’integralismo deve incitare a vedere se la religione non è anche altra
cosa, allo stesso modo, il posto che occupa ormai l’ateismo deve incitare almeno a vedere se non è anche
altra cosa del materialismo della scienza ed il profitto dell’economia – o della semplice indifferenza. Per
evidenziare bene questo approccio del problema, mi propongo qui d’invertire l’ordine senza dubbio atteso
del mio esposto: invece di posizionare l’ateismo in rapporto alla religione, come viene fatto in genere,
vorrei posizionare la religione in rapporto all’ateismo. In altri termini, invece di cominciare dalla religione,
vorrei cominciare dall’ateismo, per ben mostrare che può offrire attualmente un discorso completo e
coerente, positivo e affermativo (e non più solamente negativo) e completamente indipendente da
qualsiasi discorso religioso e da qualsiasi riferimento alla religione. Ed in un secondo momento solamente,
vedremo come l’ateismo, forte del proprio discorso, vede e giudica la religione, ed eventualmente la
rigetta. Ci chiederemo quindi quello che, nel mondo contemporaneo, può apparire dell’idea di Dio per colui
o colei che si è sempre trovato posto distante da qualsiasi religione e da qualsiasi fede religiosa. In altri
termini ancora, il mio proposito non sarà di rispondere all’abituale domanda posta all’ateo: “Perché e come
potete non credere in Dio?” ma d’interpellare al contrario il credente chiedendogli: “Perché e come potete
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credere in Dio”.
La modernità ed il problema di Dio.
Ma prima, ci sono parecchi punti che vorrei precisare. La modernità ha modificato il problema di Dio e
dell’ateismo.
1 - In primo luogo, ha posto tutte le religioni le une in faccia alle altre in una stretta situazione
d’uguaglianza. Questo permette a ciascuno di scegliere eventualmente una religione come meglio gli
conviene. E’ così che si vedono ormai Europei convertirsi all’islam o al buddismo. Tutto ciò era impensabile
fino a non molto tempo fa ed è senza dubbio interessante. Ma questo relativizza anche considerevolmente
le religioni. Ci sono atteggiamenti ai quali esse non possono più pretendere: più nessuna può ormai
ignorare le altre né proclamarsene superiore (né a fortori pretendere d’essere “la sola vera” come il
cattolicesimo d’una volta). Da cui questa precisazione: parleremo di Dio, ma quale Dio? Davanti ad un
problema così vasto, bisogna limitarsi, o si rischia di perdersi. Ci limiteremo quindi e parleremo
esclusivamente del Dio del monoteismo, vale a dire del Dio delle tre grandi religioni dette “del libro”: il
giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Questa scelta è arbitraria, ma il monoteismo è il sistema religioso più
diffuso nel mondo, quello più studiato, più argomentato. E’ anche il più aggressivo: da una parte non cessa
di darsi dappertutto al proselitismo attivo e dall’altra è nel suo seno che appare e s’organizza l’integralismo
che perturba un po’ dappertutto il mondo contemporaneo. Il Dio vivente e personale del monoteismo, mi
sembra, risponde essenzialmente a quattro caratteristiche: è creatore del mondo, è buono, è dappertutto,
e parla all’uomo nel suo linguaggio. Bisogna notare, e vi ritorneremo, che queste qualità potrebbero non
essere riunite. Si potrebbe perfettamente concepire un Dio che sarebbe onnipotente ma non buono, o
buono o non onnipotente, o buono e onnipotente ma che non cerca di parlare all’uomo, o che non ne é
capace. La riunione di queste qualità è essa stessa arbitraria, ma è al loro insieme che si urta principalmente
l’ateismo e ci limiteremo qui a ciò. Per mancanza di tempo, non parleremo di politeismo, né dell’animismo.
C’è in materia di religione un curioso fenomeno di “tutto o niente”: generalmente, quelli che acquisiscono
l’opinione che Dio esiste, ipso facto, adottano nello stesso tempo tutto quello che accompagna questa
opinione in tal o tal altra religione particolare. Prendono il tutto con la parte, “l’acqua sporca ed il
bambino”. Eppure, dall’una all’altro, con ogni logica, non c’è passaggio obbligato. La credenza in Dio non
implica necessariamente la credenza nell’insieme della religione cristiana, ebrea o mussulmana. Oppure
allora ciò vorrebbe dire che non si può credere in Dio se non con l’ausilio di tutta una serie d’accessori e di
messe in scena. “Mettiti in ginocchio e crederai” diceva Pascal. Ma questo allora indebolisce l’idea di Dio.
Questo vorrebbe dire che non può essere ammessa per sé sola ed in sé sola, ma solamente con l’aiuto di
tutto un insieme di mezzi esteriori che in qualche sorta procurerebbero illusione. Se si scopre che così è, ci
saranno conclusioni da trarne in quanto alla stessa esistenza di Dio.
2 – Un altro punto da precisare è che la modernità ha introdotto e diffuso nel mondo una nuova concezione
della verità che interpella le religioni in maniera particolarmente forte. Tale concezione della verità è uscita
da quella della scienza: è considerato vero soltanto ciò che può essere considerato tale attraverso
l’esperienza e può essere provato. La modernità dota la propria concezione della verità di una tecnica della
prova. E’ vero, non più ciò che è affermato autoritariamente, o ciò che è antecedente, o ciò che è sempre
stato ritenuto tale, ma ciò che è provato, sperimentato, verificato e verificabile da tutti, secondo le regole
della logica e della ragione. Paradossalmente, tale concezione comporta una situazione d’incertezza
fondamentale. Prima perché a partire dal momento in cui ogni verità è sottoposta ad esperienza e prova,
può sempre essere rimessa in causa da un’esperienza ulteriore fondata su fatti o mezzi nuovi. E’ l’assioma
ben conosciuto di Karl Popper: quello che costituisce la verità scientifica è il fatto che essa possa sempre
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essere rimessa in causa. Situazione d’incertezza poi perché appena si lascia il campo dell’immediato
direttamente palpabile e osservabile, e quanto più ce ne si allontana, non si hanno più a propria
disposizione che deduzioni e intermediari sempre di più numerosi e sempre di più approssimativi, e quindi
sempre di più soggetti a rimessa in causa. Certo, la vita quotidiana non è il mondo della scienza. Le verità
che vi sono sperimentate non hanno questo distacco e questa imprecisione. La vita quotidiana della
modernità non è agitata da una tale incertezza. Ma tutto ciò che supera la vita quotidiana della modernità
ne è completamente afflitto. La tecnica della prova utilizzata dalla modernità fornisce verità parziali più
certe ma verità globali meno certe. L’energia atomica è sicuramente vera, poiché investe la nostra vita
quotidiana in maniera profonda, nel bene come nel male. Ma l’immagine e l’interpretazione del mondo
nell’insieme che sono fornite dalla stessa scienza fisica che ha scoperto e dominato quest’energia sono
infinitamente meno certe. Big Bang, fuga delle galassie, buchi neri, materia invisibile (per la macrofisica), e
le generazioni successive di particelle (per la microfisica) sono teorie per nulla definitive né completamente
certe. Quindi una serie di certezze locali in una certezza generale, delle certezze ma non la certezza: ecco
quello che la concezione moderna della verità ha apportato. All’opposto, la concezione tradizionale della
verità non si preoccupava né di prove né d’esperienza. Era vero ciò che era affermato come tale dagli
antichi o dai saggi, o semplicemente da quelli che avevano il potere. La verità della religione è tutt’intera di
quest’ultimo tipo. Al processo, non erano controprove alle sue teorie ad opporsi a Galileo, era l’autorità di
Aristotele e dei padri della Chiesa. Quella verità lì è assoluta. La rappresentazione del mondo della religione
non fa oggetto né di dubbio né di revisione. Paradosso: l’imperativo della prova provoca l’incertezza e
l’assenza d’imperativo di prove provoca la certezza. Ma il fatto è che il meccanismo mentale non è lo
stesso: l’uno è passivo, l’altro attivo, l’uno accettazione, l’altro sollecitazione, l’uno si rimette ad
un’autorità, l’altro si rimette solo a se stesso, o se si rimette ad un’autorità che ha prima dato prova, vi
resta sottomessa (gli scientifici). Non è dunque una certezza che ne sostituisce un’altra, né una certezza che
sostituisce un’incertezza (o viceversa secondo il punto di vista proibito): è una certezza d’incertezza che
sostituisce un’incertezza di certezza. Ed è in ogni cosa il meccanismo del dubbio, della verifica e della prova
che la modernità impone. Le verità autoritarie non tengono più. La modernità diffida delle certezze. E’ con
questa mutazione che l’ateismo è nato. Ciò non significa che non vi sia più posto per il mistero, ma il
mistero non ha più la stessa libertà di immischiarsi nelle certezze della vita quotidiana. Il passaggio del
possibile al sicuro non si fa senza formalità. Il mistero non può diventare certezza in qualsiasi modo. E ciò
non funziona senza ambiguità. Quando Giovanni Paolo II parla di “splendore della verità, utilizza la parola
nel senso antico e tradizionale, come se non ci fossero differenze, come se ogni verità fosse una certezza.
La religione per intero è costretta a piegarsi a questa moderna concezione della verità. Essa è oggetto di
verifica su tutti i piani: storico, archeologico, giuridico, morale, psicologico… La concezione della verità della
modernità non esclude la religione e la credenza in Dio, poiché non esclude il mistero, ma le rimette
severamente a posto. Le interpella senza concessioni. Una certa argomentazione tradizionale non ha più
valore ai giorni nostri per discutere di religione e di Dio.
Parte prima
Il discorso dell’ateismo.
Ed arriviamo così all’esposto propriamente detto del sistema dell’ateismo, all’esame di ciò che l’ateismo
può quindi proporre come rappresentazione del mondo senza ricorrere all’esistenza del Dio dei
monoteismi. Per non perdersi, mi limiterò, un po’ schematicamente, a tre grandi ambiti che dovrebbero
racchiudere il problema: Sé, Gli Altri, ed il Mondo.
1 – Sé
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L’uomo si trova lanciato nel mondo, provvisto di un corpo, di una ragione, di affetti, come pure di una
coscienza che gli permette di prendere la misura e la padronanza di questi differenti elementi. Evolve nel
tempo e nello spazio. Conserva la memoria delle cose. Il mondo che l’attornia è da affrontare. V’incontra
ostacoli. Di questi avvenimenti prova gioia o dolore. Niente altro gli è dato. La sola certezza è d’essere. Ogni
altra spiegazione non viene che da se stesso. Dalla sua situazione, dallo stato di fatto, le sue capacità gli
permettono di trarre deduzioni, paragoni, previsioni. Può arrivare ad organizzare le cose per evitare il
dolore e regolare la gioia. A questa prima apprensione tutta vegetativa delle cose, se ne sovrappone ben
presto un’altra, mentale, intellettuale, spirituale: gioia della gioia (il desiderio), dolore del dolore (la paura),
etc. Non ha null’altro che questo mondo di fronte a lui, senza intermediario, senza arbitro, senza istanza
d’appello, senza mediazione. Questo mondo non gli offre niente altro che se stesso da decifrare. E subito
istruito dalla modernità (siamo nel mondo d’oggi), è, nelle letture e nelle sue interpretazioni, molto
prudente e molto riservato. Non ci sono in questo mondo né segnali, né modelli, né referenze. Né
mediatore, né specchio, né riflesso. Questo mondo è aperto, disponibile, ma anche inevitabile: l’uomo ne è
inseparabile. Non ci sono divieti ma pericoli, non intenzioni ma meccanismi, non perfezioni ma possibilità
infinite. Tutto per lui è da rifare ad ogni istante, tutto è da costruire. Tutto cambia incessantemente. Niente
è eterno, niente è immutabile. In mezzo a questo magma, l’uomo è solo responsabile di se stesso, senza
ricorsi esterni di nessuna sorta. Non trova né direttive né divieti. La sua libertà è totale. Ma questo non vuol
dire che possa fare qualsiasi cosa autonomamente. Le sanzioni sono di un’altra natura. Sono immediate:
sono le conseguenze dei suoi atti. Libero delle sue decisioni, libero del suo comportamento, è tuttavia
sottomesso a quello che è. E’ quello che è: corpo, budella, nervi. Libero del proprio possesso, l’uomo può
nondimeno perfettamente andare fino a distruggere se stesso. In un certo senso, questa sanzione è
peggiore di quella delle minacce divine: è senza scadenza e senza remissione, non conosce né perdono né
rimedi. Le conseguenze dei suoi atti sono irreversibili per l’uomo dell’ateismo. Ciò implica per lui di
conoscersi bene. Quest’uomo non conosce alcuna colpevolezza anteriore ai suoi propri atti. Non discerne la
nozione di peccato. Avrà quindi senza vergogna e senza secondo fine la preoccupazione di ricercare la sua
migliore realizzazione e la migliore soddisfazione dei propri desideri. Si aggiudicherà un diritto alla felicità
senza restrizioni. Lo fermeranno solo le conseguenze dei suoi atti. “ Quando non ci sono frutti vietati non ci
sono più che frutti marci” diceva Gustave Thibon. L’ateismo ha piuttosto tendenza a pensare, dopo
l’elaborazione da parte della psicoanalisi delle nozioni d’inibizione e frustrazione, che è quando ci sono
frutti proibiti che compaiono frutti marci. Alcuni diranno qui che c’è nell’uomo qualcosa che è stata
chiamata a lungo “anima” e che aveva precisamente per caratteristica d’essere incorporea e sprovvista di
ogni considerazione del tipo di “ciò che si è”. Pascal poneva l’anima in cima alle caratteristiche dell’uomo e
non ne metteva mai in dubbio la realtà. Non prendeva neppure in considerazione che se ne potesse
discutere (mentre prendeva in considerazione la discussione di tante cose). Ma giustamente, questa
“anima” non è per nulla evidente per il nostro uomo buttato nel mondo senza interlocutore e senz’altra
referenza se non se stesso. Ben al contrario, c’è un’evidenza che gli s’impone, e sempre di più con la
modernità: è che pensiero e coscienza sono inseparabili dal corpo. Non c’è pensiero senza il corpo. Ogni
distruzione del corpo è allo stesso tempo distruzione del pensiero e della coscienza. Parte del mondo nel
mondo, l’uomo non è separabile da questo mondo e dalle sue leggi. Tra lui ed il mondo, c’è un sentimento
d’unità, di complessità totale. Ciò comporta per lui di conoscere il mondo tal qual è altrettanto di
conoscere se stesso.
2 - Gli altri.
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Ma l’uomo non è mai solo. Da un capo all’altro del proprio sviluppo è attorniato dai suoi simili e
confrontato con loro. Ogni uomo è nato da una donna. Salvo eccezione drammatica, conosce dalla nascita il
contatto con gli altri, il piacere e la soddisfazione di questo scambio. Più tardi, qualsiasi cosa ne dica e ne
pensi, assimila immancabilmente gli altri ad un alter ego. “Il corpo estraneo entra nel campo della
percezione accoppiato al mio e quest’accoppiamento permette un transfert di significato grazie al quale
vedo davanti a me un altro da me stesso”, diceva un filosofo vietnamita di formazione francese, Tran-DucThao. Anche se arriva a giudicare gli altri come nemici, l’uomo non può non farne un alter ego. I “bambini
selvaggi”, allevati dagli animali dalla nascita senza conoscere altri uomini, non diventano mai uomini.
L’uomo nasce, cresce, si struttura, si conosce attraverso e con gli altri, anche se ciò avviene eventualmente
“contro” gli altri. E’ anche solamente ed esclusivamente attraverso gli altri che l’uomo arriva a conoscere la
fine inevitabile della propria vita: la morte. La morte è conosciuta sola attraverso quella degli altri. Nessuno
ha mai potuto fare l’esperienza finale della propria morte in questo mondo. Da questo rapporto essenziale
può quindi facilmente nascere un sentimento tuttavia spesso imputato all’intervento divino: la
compassione. La compassione nasce perfettamente dallo scambio e dall’esperienza senza che nessun
comandamento o nessun insegnamento esterno vi sia necessario. Certo, essa non esiste nel mondo né nel
regno animale, ma l’uomo è il solo nel mondo ad essere dotato di coscienza di sé. Anche qui l’assenza di
giudice e di referente e la libertà totale del mondo dell’ateismo non significano per nulla che l’uomo possa
fare qualsiasi cosa. “Se Dio non esiste, tutto è permesso”, diceva Dostoïevsky nei Fratelli Karamazov. No, e
per le stesse ragioni di ciò che riguarda “sé”. Le sanzioni esterne scompaiono, ma restano le conseguenze
degli atti. Colui che tira a caso tra la folla è immancabilmente abbattuto sul posto o finisce la propria vita in
asilo. “Prendiamo il più grande dei crimini, l’omicidio. Ritirate l’anima, non è più un omicidio” diceva Victor
Hugo. Invece sì: perché quest’uomo davanti a me è comunque il mio simile, che abbia un’anima o no.
L’ateismo non implica l’assenza di morale, ma la sua morale è una morale d’esperienza invece d’essere una
morale d’autorità. Beninteso, in quest’esperienza, possono venire a collocarsi vecchie regole emananti
dalle religioni, se si avverano di valido impiego. La compassione che vi appare è forse influenzata dalla
compassione del cristianesimo, ma non per questo non può anche giustificarsi e spiegarsi razionalmente al
di fuori e del tutto indipendentemente da quell’influenza. Sono degli atei che hanno creato le grandi
istituzioni e organizzato le grandi azioni umanitarie della modernità: La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo,
l’abolizione della schiavitù, Amnesty international, Medici senza frontiere, etc. La cosa va anche oltre.
Come messa in applicazione della compassione, i monoteismi impongono la carità. Ma la carità non è che la
peggiore: essa si attacca solo agli effetti della disgrazia. La compassione dell’ateismo vuole attaccarsi alle
cause. L’ateismo non si rassegna: non c’è nessuno per prendersi cura di quello che non farà esso stesso. La
carità del credente può soddisfarsi della persistenza del malanno: Dio se ne occuperà, più tardi, o
altrimenti. Anche nei rapporti con gli altri l’uomo dell’ateismo non può che affidarsi a se steso. L’ateismo è
indiscutibilmente fattore d’individualismo. Come tale è accusato di non assicurare coesione sociale. La
religione sola assicura alla società la coesione che le è indispensabile per funzionare bene. La religione è
effettivamente un fenomeno complesso che ha ricadute sociali importanti che l’ateismo non ha. Come tale,
è indiscutibilmente un fattore di coesione sociale potente. Nondimeno l’ateismo interviene ed è
intervenuto nel campo sociale alla sua maniera. L’individualismo non è né l’edonismo, né l’egoismo, né
l’indifferenza. E’ al contrario una migliore presa in considerazione di sé che permette di prendere meglio
parte ai problemi comuni. In effetti, le istituzioni politiche del mondo moderno sono conquiste
dell’ateismo, ottenute il più delle volte contro le istituzioni uscite dalla religione: lo Stato di diritto, la
democrazia, La Repubblica si sono instaurate dappertutto contro le vecchie teocrazie di diritto divino.
Cristianesimo e Ebraismo vi si sono allineati soltanto in un secondo momento e talvolta controvoglia.
L’Islam è lontano d’averlo fatto.
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3- Il mondo.
La lettura e l’interpretazione del mondo da parte dell’ateismo sono evidentemente influenzate dalla
scienza. Non che l’ateismo sia ossessionato dalla scienza o in qualche maniera legato ad essa, ma non può
che accettare quello che è provato e dimostrato dal metodo sperimentale. Tutto gli è buono per
interpretare il mondo. La scienza si posiziona, nei confronti del mondo, nella situazione che è quella
dell’ateismo: senza esclusiva e senza intermediazione. “Il mondo senza aggiungervi nulla”, diceva Engels.
Ma anche senza nulla toglierne: la visione dell’ateismo non esclude quindi per nulla il mistero. L’ateismo
non deve essere assimilato al materialismo meccanicista di un certo stadio superato dello sviluppo della
scienza. Il mondo non può ridursi al visto ed al percepito. Una bellissima e notevolissima descrizione del
materialismo meccanicista è stata fatta da Lèvi-Strauss nelle ultime righe dell’ultimo volume delle sue
monumentali Mitologiche. “ …incombe all’uomo di vivere e lottare, pensare e credere, conservare
soprattutto coraggio, senza che mai lo abbandoni la certezza avversa che non era presente una volta sulla
terra e che non lo sarà sempre, e che con la sua scomparsa ineluttabile dalla faccia da un pianeta anch’esso
destinato alla morte, le sue fatiche, le sue pene, le sue gioie, le sue speranze svaniranno, nessuna coscienza
essendo più là per preservare foss’anche il ricordo di quei movimenti effimeri salvo, con qualche tratto
presto cancellato da un mondo dal viso oramai impassibile, la constatazione abrogata che furono vale a
dire niente” (L’Uomo nudo, pag.621). Ma questa descrizione, contrariamente a quanto può sembrare, non è
strettamente scientifica. Tralascia molti misteri e la conclusione non può esserne considerata così sicura
come suggerisce. L’ateismo, per essere logico con sé stesso, non può dimenticare i propri principi
d’incertezza. La posizione di Lévi-Strauss è un ateismo, certo, ma non esprime la sola posizione possibile
dell’ateismo. Un mondo senza Dio non esclude per nulla il mistero dell’accettazione di una realtà situata al
di là dell’esperienza. La scienza stessa, senza rinnegare nulla dei suoi principi, si è fatta più modesta. Le
scienze dell’uomo, seguendo strettamente i principi scientifici, hanno mostrato quanto l’uomo stesso fosse
complesso e difficile da catturare in tutta la sua dimensione. Non è più necessario fare appello al
soprannaturale della credenza in Dio per approntare all’uomo aperture verso quello che non sa ancora. E’
vero che la coscienza ha difficoltà a prendersi essa stessa in considerazione. La coscienza di sé di cui l’uomo
è (apparentemente) l’unico ad essere dotato al mondo, e che permette questa ragione, è tuttavia il primo e
più gran mistero di questo mondo. Essa non implica per nulla in sé sola l’esistenza di un Dio esterno a se
stessa, ma è nondimeno difficilmente analizzabile secondo i principi attualmente disponibili della ragione e
della scienza sperimentale. L’uomo rispetto al mondo non è nella posizione dell’orologiaio rispetto
all’orologio da riparare: è egli stesso anche questo mondo che esamina. E’ il problema dell’affetto, che
sfugge sempre un po’ alla ragione. Il fatto d’essere ha come risultato che sono posto nei confronti del
mondo allo stesso tempo nella posizione esterna che è quella della ragione e della scienza, e nella posizione
interna che è quella dell’affetto, del sentimento e della sensazione. L’affetto è un mezzo d’investigazione
che, ordinariamente, la scienza rifiuta. E’ certo difficile da manovrare, poiché difficile da codificare, da
canalizzare. Ma è pertanto anche un mezzo d’investigazione. E permette un approccio ed una visione del
mondo particolari. Pascal opponeva così il “cuore” alla “ragione”, “lo spirito di finezza” allo “spirito di
geometria”. All’inizio del secolo [XX°, ndt.], Max Planck, in un testo che trattava dei rapporti della scienza e
della religione, spazzava con un rovescio della mano ciò che li opponeva dicendo che “la scienza aveva per
scopo la conoscenza e la religione la pace interiore dell’uomo”. Come se l’uno potesse andare senza l’altro.
Il pensiero di fine XX° secolo ha superato questa dicotomia. L’esame scientifico dell’uomo non si limita più
ad un esame clinico di laboratorio, come faceva ancora Janet con il suo “isterico”: esso utilizza la poesia, la
letteratura, il sogno. La ragione ha saputo incorporarsi il mistero e l’affetto, e quest’ultimi hanno saputo
utilizzare la ragione. Ma i vecchi riflessi non sono sempre scomparsi. La coscienza permette all’uomo di
prendere coscienza di se stesso. Essendo egli il mondo stesso, questa stessa facoltà dovrebbe permettergli
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di prendere coscienza alla stessa maniera del stesso mondo ch’egli è in se stesso. L’uomo è il luogo di
un’apertura del mondo su se stesso. In ogni modo tutto è possibile per l’ateismo. Pur rifiutando il Dio del
monoteismo, niente fondamentalmente spinge veramente a terminare ogni cosa col “nulla” di Lévi-Strauss.
Non c’è nulla al di fuori del mondo, il mondo è uno, ma può includere molte cose, resta aperto a molte
ipotesi. L’uomo dell’ateismo prova un grande attaccamento per il mondo nel quale vive. Si sente
inseparabile dal suo ambiente e dal mondo. Da cui la grande sensibilità contemporanea all’ecologia
(parallelamente ai guasti dell’industria), mentre per il monoteismo, il mondo è sempre più o meno sospetto
e trascurabile. Questo problema è importante. L’atteggiamento dell’uomo nei riguardi del proprio
ambiente si è molto evoluto nella storia. L’uomo primitivo vive completamente integrato nel suo ambiente
e nella natura che lo circonda. Più tardi, con gli inizi della civilizzazione, notoriamente nel Medio Evo e nel
periodo classico, la natura diventa al contrario simbolo di barbarie e di non-civilizzazione. Essa è da vincere
e da addomesticare. E’ forse sfruttata senza ritegno. In seguito, con il romanticismo e la filosofia naturale,
diventerà luogo d’evasione e di sogno. Con la modernità c’è allo stesso tempo sovra-sfruttamento della
natura fino al saccheggio e ritorno alla natura come ambiente di vita insostituibile per l’uomo. Appena ne
ha la possibilità, l’uomo moderno fugge dal cemento delle sue città per riversarsi in ciò che resta della
natura. Ed il saccheggio di questa natura gli diventa sempre di più insopportabile. Ogni azione dell’uomo sul
mondo è un’azione dell’uomo su se stesso, e ogni azione dell’uomo su se stesso è un’azione dell’uomo sul
mondo. Il monoteismo ha sempre tendenza à separare l’uomo dal mondo, fonte di tentazione e di peccato,
e a farlo concentrare sullo spirituale. Dio nega così quello che ha creato egli stesso. Torah e Corano sono
terribili a questo proposito. I divieti che intercalano tra l’uomo ed il mondo sono innumerevoli. Il
cristianesimo è meno draconiano.
Caratteri del mondo dell’ateismo.
Il mondo dell’ateismo così definito per grandi linee presenta delle caratteristiche sulle quali bisogna
soffermarsi.
1− Il “senso del mondo”
Il mondo dell’ateismo ha un senso? Tutto dipende evidentemente da quello che s’intende per “senso”.
Vorrei rimandare qui ad un autore poco conosciuto dal grande pubblico, ma che è forse uno dei più
importanti filosofi d’oggi, Jean-Luc Nancy e più particolarmente a due dei suoi ultimi libri: Le Sens du
Monde (Il Senso del Mondo) e Être singulier pluriel (Essere singolare plurale ) (ed. Galilée, Parigi). Sono, a
mia conoscenza, gli unici testi di un filosofo ateo (come lo sono comunque quasi tutti oggi) che
oltrepassano l’ontologia e l’epistemologia alle quali si limita troppo la filosofia universitaria attuale, per
abbordare il tema della rappresentazione del mondo per l’uomo contemporaneo. Consentitemi d’estrarne
queste citazioni: “Si ripete oggi che abbiamo perduto il senso, che siamo in difetto, e di conseguenza nel
bisogno ed in attesa di senso. Il “me” che parla così trascura solamente di pensare che crea ancora senso
propagando questo discorso. Il rimpianto di un senso assente costituisce ancora senso. Ma non lo fa
soltanto sul mondo negativo, negando la presenza del senso, affermando quindi che si sa quello che
sarebbe il senso, se ci fosse, e conservando su questo mondo la padronanza e la verità del senso (…) Il
discorso contemporaneo sul senso fa di più. Che lo sappia o no, fa molto di più e fa tutt’altra cosa: mette in
chiaro questo che “il senso”, utilizzato così in assoluto, è diventato il nome denudato del nostro essere-glicon-gli-altri. Non abbiamo più senso perché siamo noi stessi il senso, interamente, senza riserva,
infinitamente, senza altro senso che noi” (Être singulier pluriel, pag.19). E questo ancora: “Appena
l’apparenza di un di fuori del mondo è dissipato, il fuori-luogo del senso si apre “nel” mondo- per quanto
abbia ancora senso parlare di un “di dentro” -, appartiene alla sua struttura, vi scava quello che bisognerà
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saper nominare meglio della “trascendenza” della sua “immanenza”- la sua “tras-immanenza”, o più
semplicemente e più fortemente, la sua esistenza e la sua esposizione. Il fuori-luogo del senso si determina
così, non come una proprietà rapportata al mondo da un altrove, non come un predicato supplementare (e
problematico, o ipotetico), e nemmeno come un carattere evanescente, “fluttuante da qualche parte”, ma
come la costruzione di “significanza” del mondo stesso. Vale a dire come la costituzione di “senso” perché
c’è mondo. C’è qualcosa, c’è del c’è- e questo stesso crea senso, e niente crea senso d’altro canto”. (Le Sens
du Monde, pag. 91). Pensiamo ugualmente ad un altro libro straordinario, più vecchio questo: il famoso
Logica del Senso di Gilles Deleuze, per il quale il senso non è un dato da leggere e da ricevere passivamente
dall’eternità, ma un’elaborazione che resta sempre da avviare. Colui che attende senza agitarsi non
distinguerà mai senso. Cosa vuol dire tutto ciò? Semplicemente che il “senso” di un mondo che non
ammette alcun esterno a se stesso del genere del Dio del monoteismo non è affatto sprovvisto di senso, o
piuttosto che del senso può comparirvi come in qualsiasi altro sistema- ma che si tratta di un senso tale che
appartiene all’uomo, a ciascuno di noi, farne il resoconto e disquisirne. Il mondo, anche senza Dio, ha un
senso, poiché esiste. E’ il suo proprio senso, e siamo noi stessi il nostro proprio senso. E questo senso non è
percettibile immediatamente. Esige prima un’esistenza. Il mondo della religione è dall’inizio altrettanto
opaco dell’ateismo. La differenza è che al mondo della religione vi è aggiunto un essere esterno, una
mediazione, che non rivela niente (“i disegni di Dio sono impenetrabili”) ma che dice: “Non preoccupatevi,
il senso del mondo io lo conosco e voi lo conoscerete a suo tempo”. Il senso del mondo, con il monoteismo,
è un senso per procura. Un’ultima osservazione su tal argomento: quando si parla di perdita di senso, oggi,
non è tanto del senso del mondo che si tratta, ma del senso della società. Il mondo d’oggi attraversa una
crisi, ma è probabilmente una crisi sociale, economica e politica molto più che filosofica e metafisica- e se
alcuni si voltano verso la religione è per trovare un sostituto alla perdita di senso della società, non alla
perdita del mondo stesso. Il mondo dell’ateismo non è in definitiva più duro di quello della religione. Ma è
senza intermediario.
2 – Un approccio che include “trascendenza” e “spiritualità”
Qui bisogna aprire una parentesi e precisare quello che si può intendere per “trascendenza”. In latino, il
verbo trascendere [sic] vuol dire “passare, andare oltre (da confrontare: ascendere [sic], salire, e
descendere [sic] scendere). A partire da questo preciso senso, il termine “trascendenza” ha preso differenti
significati, tutti circoscritti al campo della filosofia e della religione: “trascendenza” designa ciò che si eleva
e si situa al di sopra (Dio nella religione), ma in filosofia ciò designa quello che è anteriore a ogni esperienza
(L’Estetica trascendentale di Kant), o quello che è generale e comune ad un insieme, o di natura diversa da
ogni esperienza (la filosofia trascendentale). Heiddeger dice che il mondo è trascendentale perché è
“sempre già lì” nell’esperienza umana. In breve, la trascendenza è sempre, con qualche sfumatura, ciò che
è al di là dell’immediato, ma un al di là che può essere parimenti sconosciuto o conosciuto. L’esame di
questo al di là, per le questioni che pone, per gli abissi che rivela, eleva sempre alquanto l’uomo al di sopra
della sua condizione quotidiana perché lo rimette per qualche verso al suo posto e gliene rivela allo stesso
tempo i limiti e le possibilità. La trascendenza può designare Dio, ma anche semplicemente l’incognito o
quello che supera (provvisoriamente o definitivamente) la percezione e la conoscenza umana. Ci può quindi
essere una trascendenza per l’ateo senza che sia per lui una qualsiasi riconoscenza implicita di Dio: sarà il
mistero del mondo e l’accettazione del fatto che non sa affatto. Ci sarebbe un’altra parola che
bisognerebbe precisare, è la “spiritualità”. Tutti l’utilizzano, i credenti come i non-credenti, e occorre
osservare bene quello che vi mettono gli uni e gli altri. “Spiritualità” deriva da “spirito”. Nel senso proprio,
lo spirito è la sede del pensiero, senz’altro. Ma per i credenti, “spirito” vuol dire “anima”, “verbo” (nel senso
del vangelo di San Giovanni), è ciò che porta a Dio o è Dio stesso. Quando i credenti sentono i non-credenti
parlare di “spiritualità” ne deducono facilmente che questi riconoscono l’esistenza di Dio. Ma quando i non10
credenti parlano di “spiritualità” in generale non vogliono dire nulla di simile. Essi prendono semplicemente
la parola nel suo senso primo di “pensiero”. Vogliono semplicemente parlare della necessità per l’uomo
(anche l’uomo ateo) di non limitarsi alla materialità, allo stretto quotidiano. Diciamo dunque che quando si
parla di “bisogno di spiritualità”, non si vuole parlare di “bisogno di Dio”, ma di bisogno per l’uomo di non
trascurare niente di se stesso, di prendersi in considerazione nella totalità, senza tralasciare nulla, in tutta
l’autenticità, con i suoi misteri e le sue interrogazioni, senza fermarsi ad apparenze fallaci. La spiritualità è
contraria all’alienazione. E’ ciò che è più profondamente personale dell’individuo. E’ ciò che lo mantiene
sveglio ed in piena coscienza di se stesso. E’ un termine che non è molto buono. Si presta ad ambiguità. Ma
tutto ciò ch’esprime correntemente può essere il fatto dell’ateo quanto del credente. E’ ciò che bisognava
far notare. “Questo cullarsi nell’ignoranza è una cosa mostruosa”, diceva Pascal di quelli che non si
preoccupano dei misteri del destino. Ma prima di decidere dell’esistenza di Dio come egli fa, bisogna prima
rifletterci. E per riflettervi, bisogna opportunamente intendersi sulle parole di cui si dispone.
3 – Un approccio conforme all’idea moderna della verità.
Questa rappresentazione del mondo costituisce in rapporto a quella del monoteismo una vera rivoluzione
copernicana, un’inversione fondamentale dell’ordine dei ragionamenti e dei meccanismi. In ogni istante
della vita, il credente va verso il mondo avendo l’idea di Dio in lui e portando quindi già ogni valore e
criterio di valutazione della realtà che abborda. L’ateo al contrario va verso il mondo solo, senza bagaglio,
senza valore antecedente e senza criterio preciso. Per il credente, i valori ed i criteri seguono l’esperienza e
si trovano solo all’arrivo. E ciò altrettante volte che si affronta la realtà. Come abbiamo visto, la
rappresentazione del mondo dell’ateismo, come quella della scienza, è sempre provvisoria e rivedibile e
non comporta nessun segno d’eternità o d’immutabilità. Il mondo dell’ateismo non conosce leggi eterne.
Tutto, per lui, è sempre suscettibile di essere rimesso in questione. Le stelle, apparentemente, sono nel
cielo in un ordine eterno. E’ ciò che gli antichi percepivano. Ma quest’ordine eterno è solo apparente: le
galassie e le stelle nascono, crescono, invecchiano e muoiono. La materia stessa si è evoluta nel tempo
cosmico e non possiamo ricostruire il modo in cui gli elementi fisici si sono costituiti progressivamente per
combinazione delle particelle. Le specie animali, apparentemente, si riproducono e perdurano uguali a se
stesse, e gli antichi pensavano ch’erano nate tutte allo stesso momento in una sola volta. Il mito della
Creazione non fa altro che riprendere quest’illusione primaria. Ma l’evoluzione delle specie è oramai
un’evidenza (anche se tutti i suoi meccanismi non sono ancora chiariti) e la Chiesa cattolica lo ha appena
riconosciuto. Non c’è in ogni modo qualche grande legge della natura che é eterna e che regge i movimenti
e l’evoluzione? La gravitazione universale? Lo spazio-tempo? Queste leggi sono concomitanti col mondo
stesso. Ne sono il tessuto, le condizioni d’esistenza come Kant diceva che lo spazio ed il tempo erano le
forme pure dell’intuizione sensibile ed i principi a priori della conoscenza. E l’uomo vi è sottomesso in
quanto parte dell’universo. Ma in questo tessuto del mondo, a partire da queste grandi leggi, sorgono
avvenimenti di ogni sorta, reazioni, mutazioni, trasformazioni, shock, assalti, contraddizioni, e questi
avvenimenti non sono più retti da leggi eterne semplicemente perché sono singolari. Costituiscono
altrettanti problemi da risolvere in se stessi. Questa rappresentazione del mondo dell’ateismo non è
teorica. E’ proprio la rappresentazione del mondo che è dominante nelle nostre società industriali avanzate
e tende a diventarlo nelle altre. Importa dunque veramente studiare l’ateismo. Guardiamo intorno a noi il
modo di reagire, di comportarsi, anche di vestirsi, della gioventù e dell’insieme delle persone. Guardiamo il
mondo in cui quasi tutti unanimemente vivono la sessualità, disciplinano la propria condotta. Guardiamo
l’atteggiamento della gente di fronte alla natura e l’ambiente in confronto a ciò che ne era appena un
secolo fa. Il discorso dell’ateismo è talmente un discorso della modernità che è fatto in pratica solo nelle
società in cui la modernità si è instaurata. Altrove non è ancora operante. Ma siccome la modernità
impregna il mondo contemporaneo in maniera senza dubbio irreversibile di fatto, foss’anche all’insaputa di
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quelli ch’essa non lambisce ancora veramente, il discorso dell’ateismo è chiamato a divenirvi senza dubbio
tanto inevitabile quanto la stessa modernità. E’ per esso una motivazione per esprimersi e difendersi.
4- Né “fede” né impregnamento religioso
Questa rappresentazione del mondo e dell’uomo non è una “fede”. L’incertezza non è la fede. Ne è
addirittura strettamente il contrario. I credenti affermano spesso che l’ateismo non sarebbe che una “fede”
simile a quella della religione ma orientata in senso contrario. Quest’argomento è comunque assurdo e si
rivolta contro quegli stessi che l’utilizzano: o lo si utilizza per indebolire l’ateismo ( e si prende la nozione di
“fede” in senso peggiorativo) e s’indebolisce allora allo stesso tempo la religione che si pretende
evidentemente rafforzare, o invece lo si utilizza per rafforzare la religione (e si prende la nozione di “fede”
in senso positivo) e si rafforza allora allo steso tempo l’ateismo che si pretende evidentemente indebolire.
Ma in ogni modo quest’obbiezione è falsa. L’ateismo non è una fede, è al contrario il rifiuto di qualsiasi
fede. Un certo ateismo scientista dell’inizio del secolo [XX°, ndt.] è stato in una certa misura una “fede”
simile. C’era lì una posizione che sorvolava su molte imprecisioni nella stessa maniera in cui la fede religiosa
sorvola su molte contraddizioni. La posizione di Lévi-Strauss come lui l’esprime è un po’ di quest’ordine.
Ma non è quello l’unico ateismo possibile. La logica della modernità, con nello stesso tempo la tecnica della
prova ed il principio d’incertezza che gli appartengono, esprime un rifiuto categorico di ogni “salto” simile.
Infine, questa rappresentazione del mondo e dell’uomo non comporta più segno di monoteismo. Alcuni
non-credenti come alcuni credenti esprimono ancora spesso l’opinione che, anche se è giudicato
discutibile, il cristianesimo ha nonostante tutto impregnato la nostra società occidentale e che quindi
bisogna allora come tale prenderlo in considerazione. Questo è stato vero per parecchio tempo. L’intera
morale laica della terza Repubblica fu ancora una semplice scopiazzatura della morale cristiana. Non è più
così oggi. A loro volta la rappresentazione del mondo della modernità e le sue implicazioni morali sono in
totale opposizione con quelle del monoteismo. Solo la compassione gli resta in comune, ma abbiamo visto
che la compassione dell’ateismo corrispondeva ad un meccanismo diverso da quello della religione. Il
cristianesimo ha rivelato la compassione al mondo mediterraneo, poi europeo, ma il buddismo l’aveva già
rivelato al mondo orientale. D’altronde, il mondo è talmente cambiato durante il XX° secolo, che in molti
punti, i monoteismi non hanno molto semplicemente niente da dire né a proporre in rimedio al numero dei
problemi nuovi che sorgono. Il cristianesimo non ha nulla da dire sull’informatica o sulla conquista dello
spazio. Quello che dice sull’AIDS o sul problema demografico è nettamente insufficiente. Di fronte
all’economismo contemporaneo si limita a proclamare che è male, ma non ha alcuna soluzione alternativa
da proporre. Anche lì sono richieste prove: semplici ingiunzioni d’autorità sono senza effetto davanti alla
potenza dei fatti contemporanei. L’uomo moderno ha visto tante regole morali dette divine deviate
dall’interesse privato o dal potere politico, che intende giudicare dietro prova. Il monoteismo per lo più non
è molto semplicemente attrezzato per agire nel modo moderno.
5- Una rappresentazione che ha del meraviglioso di proprio.
L’immagine del mondo che fornisce la modernità, in conformità con la propria logica, comporta delle
certezze ma non la certezza: non è né certa né definitiva nella globalità, ma comporta tuttavia dei pezzi di
certezze considerevoli. Nello stesso tempo, però, e sempre in conformità con la propria logica, la
rappresentazione moderna del mondo comporta immense ignoranze. Le nuove dimensioni che percepisce
del mondo non le permettono di risolvere il vecchio problema del finito e l’infinito. La sua conoscenza delle
particelle elementari della materia la allontana sempre più dalle concezioni empiriche della materia e la
conduce ad un flou da cui non è prossima dal venir fuori. Per quel che riguarda l’uomo, conosce molto
meglio i meccanismi che lo governano, ma essa è sempre completamente incapace di rendere conto del
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fenomeno della coscienza. La rappresentazione moderna del mondo sconvolge quindi le vecchie
rappresentazioni, ma non esclude affatto per questo il mistero. La fisica moderna mostra con delle
abbastanza forti presunzioni che il punto di partenza del mondo attuale, il Big Bang, si sarebbe prodotto
quindici miliardi di anni or sono, e che i limiti di questo mondo, se ce ne sono, si situano almeno al di là
delle decine d’anni luce che sono ormai il campo di percezione dell’astrofisica. Pascal aveva presentito
questa dimensione del mondo (il silenzio eterno di questo spazio infinito…”), anche se non sapeva che
l’uomo sarebbe andato a camminare nello spazio. La modernità rende l’universo nello steso tempo più
spaventoso (perché infinitamente più grande) e più familiare (perché ci si va a spasso). E quindi in ogni
modo differente. Sulla base dai dati della Bibbia (considerate come storiche), gli antichi avevano calcolato
che tra la creazione del mondo e la nascita del Cristo erano passati circa 5000 anni. Il mondo che ne
deducevano si stendeva da Gibilterrra all’Assiria e da Gerusalenmme alla Libia, con il paradiso da qualche
parte in Armenia, e l’inferno alla verticale di Gerusalemme che era il centro del mondo. Esiste nella
biblioteca della cattedrale d’El Burgo de Osma in Spagna (provincia di Soria) una carta del mondo datata
1086 che è conforme a questa descrizione. Aneddoti, certo, ed in sé per niente significativi del punto di
vista filosofico, ma che mostrano nondimeno alcune cose. La trascendenza del monoteismo, per i simboli, la
mitologia, lo stesso linguaggio, è restata in qualche sorta una trascendenza di prossimità. Cosa che tende a
ridurre Dio stesso ad un Dio di prossimità. Ed un Dio di prossimità è difficilmente compatibile con il mondo
dell’astrofisica. In questo quadro, la modernità offre una rappresentazione del mondo che rende sempre di
più insostenibili molte vecchie formulazioni delle religioni. Il Dio del monoteismo, che ha “creato l’uomo a
sua immagine” (testo della messa sempre in vigore) e gli è continuamente attento, fino al più incredibile
dettaglio della sua vita quotidiana, è al limite concepibile ed ammissibile nella vecchia rappresentazione del
mondo. Ma non lo è più nella nuova. Che il creatore e signore di un universo di venti miliardi d’anni luce si
preoccupa contemporaneamente di un astro di qualche migliaio di chilometri di raggio è nettamente
sproporzionato, non tanto fisicamente, ma intellettualmente ed in qualche sorta psicologicamente. O
allora, non è il creatore e signore di tutto l’universo, ecc. Il mondo rivelato dalla modernità, essendo
assolutamente lontano da qualsiasi proporzione umana, è infinitamente più meraviglioso (nel senso di
stupefacente) di tutto quello che nessuna religione ha mai promesso e rivelato all’uomo. Ci fu un tempo in
cui la religione poteva vantarsi di rivelare all’uomo infinitamente più cose meravigliose della scienza e fare a
questa il rimprovero d’essere povera ed insufficiente. Possiamo dire che la scienza rivela ormai all’uomo
infinitamente più di cose meravigliose della religione e che è questa a mostrarsi povera ed insufficiente per
più di un aspetto. Nessuna religione ha mai parlato all’uomo di andare sulla luna. La fantascienza e l’odissea
dello spazio hanno sostituito le mitologie ed i miti nell’immaginazione umana – o piuttosto sono diventati i
miti della modernità. E non c’è Dio che intervenga. Il mondo della modernità si rivela molto più
sorprendente ancora del mondo delle Rivelazioni monoteiste, ma in una maniera differente e poco
compatibile con esso. Il suo meraviglioso è un altro meraviglioso, ma è un meraviglioso comunque, vale a
dire che lascia all’uomo ogni capacità di sbigottimento ed ogni facoltà di manifestare il proprio
immaginario.
Parte seconda
L’ateismo dinanzi alla credenza in Dio
Siamo quindi arrivati ad una rappresentazione del mondo che fa a meno dell’idea di Dio e che nondimeno è
coerente. Contiene molto mistero, offre possibilità di variazioni e d’interpretazione ma regge. Bisogna ora
vedere quello che la religione apporta d’altro o di meglio. Partendo da questa rappresentazione del mondo,
in che modo l’ateismo vede e giudica la credenza in Dio? E’ la seconda parte della nostra indagine.
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L’uomo dell’ateismo non ha fin qui visto Dio da nessuna parte, ma incontra intorno a sé una quantità di
gente che ne parla e afferma che esiste. Osserva altresì che in passato, nella storia, gli uomini hanno
sempre creduto nell’esistenza di Dio o almeno in una nozione simile. Questa perennità non costituisce in sé
per niente un argomento, perché gli uomini hanno anche creduto dappertutto e molto a lungo che il sole
girava intorno alla terra. Nessuno nasce con la conoscenza e l’idea immediata di Dio in sé. Non se ne trova
nessuna evidenza nemmeno nell’approccio diretto del mondo. L’idea di Dio esiste nell’uomo solo con una
lunga e profonda riflessione o per trasmissione ed insegnamento. La credenza in Dio non ha quindi mai
l’evidenza delle grandi leggi della natura. E’ sempre un apporto e deve spiegarsi e giustificarsi. Le sue
giustificazioni sono numerose. Esaminiamone alcune. Questo permetterà di dire come l’ateismo vede e
giudica la religione.
1 – Le rivelazioni
Il dio del monoteismo ha quindi come caratteristica quella di parlare direttamente all’uomo nel suo
linguaggio e i monoteismi sono usciti da una rivelazione fatta da Dio all’uomo: L’Esodo e la Torah per
l’ebraismo, Il Vangelo per il cristianesimo, il Corano per l’Islam. Apparentemente nulla è così indiscutibile:
se Dio stesso ha detto quel che voleva non c’è che da inclinarsi. E le rivelazioni furono per moltissimo
tempo considerate come verità storiche e come aventi lo stesso valore oggettivo dei fatti ordinari del
mondo e della storia umana. Era ancora la posizione di Pascal. Sfortunatamente, le rivelazioni non sono
così sicure e possono fare l’oggetto di molte azioni di messa in dubbio. 1- In primo luogo ce ne sono
parecchie e dicono spesso cose completamente differenti. La Torah ed il Vangelo dicono “Non uccidere” ma
il Corano ordina al contrario in più punti la messa a morte. Quale rivelazione scegliere? Perché l’una più che
le altre? In quale di esse Dio dice veramente quello che vuole? C’è veramente qualche ragione che
permetta di dispareggiarle ? Occorrerebbe poi dimostrarlo chiaramente. Ma c’è cosa più grave. Con la loro
sola esistenza, le differenti rivelazioni si mettono in qualche sorta in causa reciprocamente, senza
nemmeno che sia necessario per giudicarne di studiarle e conoscerle. Poiché ogni credente di uno dei tre
monoteismi accettando una delle rivelazioni rigetta con il fatto stesso le altre ed ammette con ciò che il
fatto di proclamarsi proveniente da Dio non basta automaticamente ad un discorso per essere accettato
come tale: se giudica le rivelazioni diverse dalla propria erronee o fantastiche significa implicitamente con
ciò che qualsiasi proclamo di Dio può esserlo. Perché allora non proprio la sua? C’è qui un problema tipico
della modernità. Perché mai nel passato scambi e comunicazione interculturale sono stati tali da
permettere una conoscenza di tutte le religioni simultaneamente come oggi. Pascal non poteva ancora
conoscere che il solo cristianesimo.
2- In secondo luogo, nessuna rivelazione è stata fatta all’umanità intera in un solo colpo, ma ogni volta ad
un solo uomo che è poi andato a renderne conto agli altri. Anche prima di vedere se possono veramente
provenire da Dio, bisogna vedere se quest’uomo non si è sbagliato in un modo o nell’altro, o se il suo
messaggio non è stato deformato da quelli che l’hanno ricevuto in questa seconda trasmissione che non è
più allora specificamente che una trasmissione da uomo ad uomo. Non c’è mai stata rivelazione collettiva.
Ed essa è sempre fondata su un’operazione che si è svolta fuori dallo sguardo e dalla presenza degli altri
uomini: Mosè nel Sinai, Maometto nel deserto. Gesù pretende d’essere lui stesso Dio, ma
quest’affermazione non è essa stessa fondata che su testimonianze molto tardive cosa che le rende
altrettanto incerte. Tutte le rivelazioni furono totalmente non verificabili al di fuori della sola parola di
quelli che le ricevettero e le riportarono. Sapendo che avvennero in epoche e in ambienti in cui regnava il
meraviglioso che era considerato come normale ed ordinario, senza alcun mezzo di verifica serio, la cosa
autorizza molti dubbi. Non è possibile riportare l’insieme del fenomeno religioso alla visione illusoria ed al
delirio (nel senso medicale del termine), ma le rivelazioni sì. Se si accetta una delle rivelazioni, si rigetta
automaticamente le altre, il che vuol dire che si ritiene che le altre sono attribuibili soltanto alla visione
illusoria ed al delirio. Con ciò si ammette ipso facto che visione illusoria e delirio sono possibili in questa
materia. Conviene allora dire perché non lo è per la rivelazione scelta, perché non si applicano le ragioni del
proprio rifiuto alla rivelazione accettata.
3 – Provenendo dal creatore del mondo, le rivelazioni non dovrebbero contenere che disposizioni
applicabili a tutti i popoli in ogni tempo. Ora, esse sono tutte totalmente contingenti e in gran parte
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inapplicabili fuori del loro luogo d’origine. La Torah è strettamente applicabile solo ad un popolo di pastori
ed il Corano ad un popolo di guerrieri nomadi. Nessuna ha previsto i problemi futuri dell’umanità. Dio non
ha previsto l’espansione della sua propria opera. Le rivelazioni non interrompono e non trascendono la
storia, vi si inseriscono semplicemente.
4- Ma ci sono anche critiche interne da fare alle rivelazioni. Esse contengono tutte contraddizioni,
inesattezze e contro-verità manifeste. Nel Deuteronomio è detto“non uccidere”, ma è anche detto che i
falsi profeti devono essere puniti con la morte (Deu., 18-20) e vi è indicato la maniera di trattare i cadaveri
dei condannati a morte che sono stati impiccati (Deu., 21-22 e 23). Il Corano dice da un lato che l’uomo non
ha nessun potere d’obbligazione in materia di fede e di verità (Sura L, versetto 44, e Sura LXXII, versetto 21)
ma ordina dall’altro la guerra e la morte contro gli infedeli. Il Corano parla continuamente del carattere
eminentemente debole dell’uomo, ma ordina allo stesso tempo di tagliare le mani dei ladri (Sura V,
versetto 42). Come potrebbe una creatura fallibile applicare senza guasti una pena così grave? In ogni
modo, gli specialisti di diritto penale sanno da molto tempo che l’estrema severità delle pene non è per
nulla dissuasiva. E’ inutile e semplicemente barbara. Dio conosce meno bene lo psichismo umano di
Beccaria e dei penalisti moderni. Tutti i monoteismi condannano l’omosessualità come un peccato. Ma
l’omosessualità è una pulsione che non dipende dalla volontà e non può quindi essere considerato come un
peccato. Dio non conosce la medicina. Il Corano ordina alla donna di velarsi per non eccitare la
concupiscenza degli uomini (Sura XXXIII, versetto 57). Ma il fatto che la donna porti il velo non impedisce il
desiderio dell’uomo: questo si riporta sul velo stesso. Ed il velo è diventato nel mondo dell’Islam un oggetto
erotico. Non è la donna che fa il desiderio, è il desiderio che fa la donna, hanno detto gli psicanalisti. Il
Pentateuco ed il Corano ammettono implicitamente la schiavitù: ne parlano a più riprese incidentalmente
senza mai condannarla. Tanto il Corano (Sura IV, versetto 38) che San Paolo (I Corinzi, 11.3- preciso tutte
questi riferimenti perché mi chiedo talvolta se i credenti leggono il testo delle loro rivelazioni: mi è successo
di sentire affermare che tale o tal altra delle disposizioni di cui parlo qui non vi figurino) affermano che la
donna è inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Ma la donna non è inferiore all’uomo, né intellettualmente,
né psicologicamente, né socialmente. Ha solo una minor forza fisica, ma non può essere una ragione
sufficiente per Dio. In compenso, ancora una volta, ne poteva essere una per le popolazioni guerriere ed
ancora seminomadi dell’epoca delle rivelazioni. E’ l’uomo molto più di Dio che ritroviamo nelle Rivelazioni.
Tutto ciò non significa necessariamente che Dio, se d’altra parte esiste, non sia per niente assolutamente
nelle rivelazioni. Ma tutte queste obbiezioni impediscono sicuramente che si possa prenderle alla lettera.
Una sola crepa nell’edificio basta a metterlo in dubbio per intero. Le rivelazioni non sono accettabili che se
le si considera come parole da uomo ad uomo, e come tali soggette ad tutte le critiche, interpretazioni e
rigetto che una parola d’uomo deve sopportare. Questo sopprime radicalmente ogni interpretazione per
via autoritaria e ogni imposizione delle regole delle rivelazioni per costrizione.
2 – L’argomento filosofico attraverso l’ontologia
Qualche filosofo contemporaneo (sono numerosi) ha voluto spiegare l’idea di Dio in maniera nuova, diversa
da quella della teologia e della scolastica, utilizzando la nozione dell’essere che occupa il centro della
filosofia del XX° secolo. Ma sfortunatamente denaturando e contraddicendo questa nozione tale qual è
comunemente definita. L’essere, nella filosofia moderna, non è un essere. L’essere non ha nulla d’essere.
L’essere non è. Solo gli essenti hanno dell’essere. Solo gli essenti sono. L’essere è il fatto d’essere di tutto
ciò che è. E’ così vero che per indicarlo bene, Heidegger scriveva talvolta la parola cancellandola con una
croce. E tutti questi filosofi, giustamente, finiscono col fare dell’essere (e per la stessa occasione del nonessere) un essere, o un’altra sorte d’essere, dunque un essente, ciò che è un controsenso. O un gioco di
parole. Claude Bruaire scrive in un libro intitolato: L’Essere e lo Spirito: “ La più semplice certezza dei
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genitori davanti al neonato, è precisamente di non essere causa del loro effetto. E’ proprio per questo che si
dicono procreatori, come se, all'occasione, venisse al mondo tutt'altra cosa che il loro effetto naturale
comune”. E ancora: “Accedere a sé, lungi dall’essere iniziativa ontogenica, è (…) la prova della mia origine
estranea, mentre nessuna causa del mio essere è assegnabile nel mondo umano e naturale. Quello che
manca all’uomo, il suo bisogno inguaribile, è il suo Altro, assolutamente”. “Se lo spirito non ha essere (…)
tutti i livelli, le dimensioni della nostra esistenza sono colpiti da nonsenso per causa di nulla, per
constatazione d’assenza”. E costruisce tutta una teoria alla quale dà il nome d’onto-do-logia (dal radicale
greco do, “dare” ), ossia ontologia del dono, secondo la quale lo spirito, o l’essere, o la coscienza (la
distinzione non è chiara), non possono essere che un dono di Dio. In poche parole, l’essere è tale da poter
essere dato in sé, come si dà un oggetto. Jean-Luc Marion, in un libro intitolato Dio senza l’essere, onde
evitare all’idea di Dio la deriva dell’idolatria, afferma che Dio non ha essere, e lo conferma scrivendo la
parola Dio barrandola con una croce, come Heidegger faceva con la stessa parola essere. Emmanuel Lévinas
farà una proposta simile reclamando per Dio uno statuto di “altro da essere”. Ma cosa altra da essere, o
essere senza essere, sono dei controsensi assoluti. Essere senza essere o altro da essere non può essere
che non essere. Dire che Dio non ha essere è dire che Dio non esiste. Ciò che è evidentemente il contrario
di quello che si cerca di significare. All’epoca della scolastica, Sant’Anselmo diceva che Dio è qualcosa di
tale che niente può essere pensato di più grande” , ora, “quello che è tale che niente può essere pensato di
più grande non può essere solamente nell’intelletto e non nella realtà” poiché “quello che è anche nella
realtà” è più grande di “ciò che è solamente nell’intelletto”, dunque, se Dio è qualcosa di tale, è anche nella
realtà. Ciò che Kant confuterà constatando semplicemente che l’esistenza non è un predicato ma ciò che
permette i predicati, e non può dunque essere dedotta come un predicato. Bruaire fa un errore dello stesso
genere, con la circostanza aggravante che da Sant’Anselmo la nozione di essere si è considerevolmente
approfondita. Il fatto d’essere è un mistero, ma a questo mistero attribuisce dell’essere. Ma al di fuori
dell’essere, per definizione stessa, non c’è nulla e non ci può essere nulla, senza di che l’essere non è più
l’essere e la nozione non ha più interesse. Non c’è qui nient'altro che una nuova forma di teologia negativa,
vale a dire la più debole e la più inutile concettualmente: quella che consiste nel dire che Dio non è né
questo, né quello, né nulla di quello che si può dire, ma tutt’altra cosa di tutto quello che si può dire- vale
dire qualsiasi cosa. Tale deriva non è d’altronde nuova. In fondo risale alla Bibbia: quando Dio non
conosceva Heidegger. Kant aveva ragione: non c’è in filosofia prova possibile dell’esistenza di Dio.
3 – L’affetto o la fede
Ma c’è un ultimo argomento che senza dubbio è il più importante. La credenza in Dio procura a quelli che
l’accettano una gioia che cancella qualsiasi obiezione, che trascende colui che la prova e che lo eleva ad una
esaltazione eccezionale, in un coinvolgimento di tutto l’essere , corpo, senso, spirito, sentimento. Si tratta
di un affetto che s’immerge molto profondamente nella psicologia ed il corporale. Al suo punto estremo, è
la gioia mistica, l’amore divino. Più semplicemente, senza dubbio, è la fede. In poche parole, la fede in Dio è
un’esperienza. E’ finalmente l’elemento determinante. Soppianta tutti gli altri. E’ più forte di tutte le
contraddizioni: Credo quia absurdum. E’ forse l’asse centrale, il perno del fenomeno religioso.
Fondamentalmente, si tratta di un fenomeno abbastanza semplice. Se si è persuasi che un Dio buono e
onnipotente esiste, come non amarlo e non provarne gioia? Qualsiasi altro atteggiamento può essere solo
indifferenza o ignoranza. Ma anche in questo senso, la gioia considerata non è che una conseguenza, non
una prova della credenza in Dio. Essa non la precede, la segue. E’ un effetto, non una causa. Ed essa non
apporta granché al nostro problema. Ma alcuni racconti suggeriscono altro, ed il fenomeno è più
complicato. Il sentimento potrebbe diventare talmente forte che annichilirebbe a posteriori qualsiasi
obiezione alla credenza in Dio. Riempirebbe colui nel quale si manifesta d’una evidenza infinitamente più
potente di qualsiasi altra, foss’anche sostenuta da logica e ragione. La credenza in Dio sarebbe una
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manifestazione dell’essere stesso dell’uomo, una dimensione della propria vita e del suo ego, ed
indiscutibile come essi. In alcuni casi addirittura, un affetto simile precederebbe e provocherebbe la
credenza in Dio negli individui che non vi aderiscono. In alcuni che ignorano qualsiasi religione, o che
praticano solo una religione di routine, scoppierebbe improvvisamente una sensazione sorprendente, un
sentimento violento, che li lascerebbe trafelati, persi, beati, fuori di se, colmi di felicità, e che in un secondo
momento identificherebbero con un’intrusione in loro della presenza divina. Si tratterebbe proprio in
questo caso d’una prova dell’esistenza di Dio. La gioia, l’esaltazione esisterebbero nell’uomo
indipendentemente da qualsiasi conoscenza, da qualsiasi ragionamento, da qualsiasi convinzione. Un
“posto” esisterebbe in ciascuno di noi che non potrebbe essere riempito se non con la credenza in Dio. E
quando questa occupa questo posto, la sua forza è tale che non può essere evacuata. Le Rivelazioni
interverrebbero solo dopo a spiegare, in maniera più o meno destra e più o meno adeguata, la realtà del
fenomeno. Bisognerebbe provare a penetrare un poco di più in questo campo folto e poco esplorato. Ma è
difficile perché si muove per intero in ciò che, per definizione, non è trasmissibile. Certo, ci possono essere
evocazioni, corrispondenze, analogie, suggestioni, che possono far afferrare quello di cui si tratta. Ci sono
poesie di San Giovanni della Croce, Di Hildegarde de Bigen o di Hadewijch, ci sono scritti di Teresa d’Avila,
d’Ibn Arabi, di Sorawardi, c’è il Zohar, ci sono i detti di Ramakrishna riportati dai suoi discepoli e testimoni,
c’è il Bhagavad Gita, il Gita Govinda. Ma tutto questo non costituisce mai un esame diretto. Come sapere
mai se ciò che un tale chiama “gioia”, “illuminazione”, “visione”, “estasi” rassomiglia proprio a quello che
un tal altro chiama con gli stessi nomi- o a ciò che io stesso potrei provare? Apriamo qui una parentesi.
Deleuze e Guattari chiedono, nel loro Anti-Edipo, che la psicoanalisi si occupi della schizofrenia e non
soltanto della sessualità. Bisognerebbe chiedere (ad essa o qualsiasi tecnica analoga) d’occuparsi della
mistica. Manca sempre una teoria clinica della gioia mistica considerata in se stessa e non come derivato o
sostitutivo d'altre pulsioni. Perché sarebbe più difficile da far venire al livello di discorso del godimento del
fallo o del seno materno? Se Dio è un’esperienza, perché non studiare quest’esperienza come qualsiasi
altra. Illustrerò quest’ultimo punto con un solo esempio. E’ apparso poco tempo fa un piccolo libro scritto
congiuntamente da Catherine Clément, filosofa e giornalista, ed un psicanalista indiano di Delhi, Sudhir
Kakar. Il libro era intitolato La folle ed il santo e paragonava due casi di “anormalità” psichica della fine del
secolo scorso [XIX, ntd: da un lato un donna studiata da Pierre Janet e da lui catalogata come “isterica”, e
dall’altro il grande mistico bengalese Ramakrishna di cui Romain Rolland ha scritto una biografia restata
celebre. Questi due personaggi erano strettamente contemporanei e mostravano di fatto sintomi clinici
identici: estasi, deliri, assenze, catalessi, ecc. Ma la prima, nella Francia razionalista e scientista dell’epoca,
fu dichiarata “folle” e rinchiusa, mentre il secondo, in un’India profondamente religiosa e solamente
sfiorata dalla modernità, diventò “santo”, profeta e maître à penser di parecchie generazioni d’intellettuali,
fino in Europa ed in America attraverso l’intermediazione del suo discepolo Vivekanada. Gli autori facevano
il paragone semplicemente per mostrare l’importanza dell’ambiente e della cultura nella valutazione ed il
trattamento delle devianze dello psichismo. Ma ci sono conclusioni da trarne per il problema della
credenza e dell’ateismo. E ciò nei due sensi. Voglio dire con ciò che non pretendo per niente che bisogna
concluderne che i mistici ed i credenti siano pazzi- e neppure che gli isterici siano dei veggenti o dei mistici.
La conoscenza dell’uomo che la modernità ha acquisito ha qualcosa da rivelare tanto per l’apprezzamento
della “santità” che per quello della “follia”. Tanto non bisogna astenersi dal cercare nei comportamenti dei
mistici la presenza di fattori puramente nervosi e materiali, altrettanto non bisogna astenersi dal cercare
nei comportamenti di certi malati mentali la presenza di fattori spirituali nel senso nel quale lo abbiamo
definito. Freud ha considerato che la sessualità svolgeva nel comportamento umano un ruolo primordiale.
L’angoscia mistica non vi svolgerebbe un ruolo così importante? C’è là una nuova dimensione che la
modernità apre al problema della religione e della credenza in Dio- tanto quanto l’ateismo. Fino a che
l’analisi non è fatta veramente, l’ateismo stesso non può che riservare le sue conclusioni. E poi bisogna fare
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attenzione con le pulsioni che rifiutano di spiegarsi. Il sadico, il violento, il perverso sessuale a loro volta
rivendicano una pulsione di piacere. Che Dio mi convenga non è un argomento sufficiente. Chiudiamo la
parentesi. Si possono constatare concordanze molto serie tra tutte le testimonianze della gioia mistica, ma
ci sono subito diverse osservazioni di fare. Non c’è veramente certezza che venga prima della conoscenza di
Dio. Tutti gli esercizi spirituali che puntano a provocarla, da Ignazio di Loyola all’Imitazione di Gesù Cristo,
cominciano col concentrare l’attenzione del beneficiario su un soggetto religioso (l’immagine di Gesù, la
città celeste, ecc.). Ciò che implica ad ogni volta la conoscenza preliminare di Dio. L’affetto non è mai
veramente del tutto prima di ogni conoscenza della religione. Quando Claudel ha avuto l’illuminazione a
Notre-Dame di Parigi, conosceva già il cristianesimo, anche se in maniera superficiale. E poi sorpresa: gli
stessi esercizi in maniera assolutamente simile a quelli di questi due autori, si ritrovano identici nel Swami
Sivanada Sarasvati nella sua Pratica della Meditazione, ma invece dell’immagine di Gesù o di un soggetto
del cristianesimo, vi si propone Krishna, la sillaba Om o un soggetto dell’induismo. La gioia mistica nasce
dunque da qualsiasi rappresentazione religiosa. Se mai provasse Dio sarebbe un Dio qualsiasi. E’
Intercambiabile. E quindi per nulla legata al monoteismo. Cosa che rovina le estensioni sociali immediate e
quotidiane della religione. Il meccanismo resta quello del senso primo dell’idea: una gioia che è
conseguenza e non causa della credenza in Dio, anche se presso i grandi mistici essa è infinitamente più
profonda che non presso i credenti ordinari. Chiediamoci allora se questa gioia non potrebbe esistere per
altro che l’idea di Dio?. Ancora una volta, non dimentichiamo lo scopo che ci siamo dati: cerchiamo dove e
come veder apparire Dio, non conferme o spiegazioni a posteriori apportate ad una convinzione già
stabilita d’altronde prima. Anche qui è difficile rispondere. Esistono grandi gioie nella vita che soddisfano
grandi bisogni spirituali e che non fanno appello all’idea di Dio. C’è l’emozione estetica. C’è il sentimento di
pienezza proveniente dalla contemplazione di un paesaggio o del cielo. Quello che J-M-G. Le Clézio chiama
L’Estasi materiale. C’è molto semplicemente la meditazione ed il Nirvana buddista, poiché il buddismo non
include l’idea di un Dio creatore nel suo sistema del mondo. Ma si tratta proprio ad ogni volta della stessa
gioia? Le gioie che Teresa d’Avila risentiva come provenientile da Dio, erano, dice, senza comune misura
con alcuna gioia di questo mondo. Ma nel suo ambiente e alla sua epoca, aveva potuto conoscere
l’emozione estetica e la contemplazione del mondo materiale? Con la credenza in Dio la contemplazione
del mondo è un’opera teatrale con tre attori: Dio, l’uomo ed il mondo, ciascuno opposto ai due altri, i due
primi argomentando a proposito del terzo che è esterno a tutti e due loro. Con l’ateismo non c’è che un
solo attore: il mondo, di cui l’uomo fa parte integrante. La contemplazione del mondo è in questo caso
un’immersione in se stessi, un’estensione di se stessi. Le imperfezioni del mondo non sono più da spiegare.
Nel caso del credente, la gioia proviene dalla configurazione dell’oggetto contemplato e dalla sua
separazione da esso. Nel caso dell’ateo, la gioia proviene dall’immersione nel mondo per conoscerlo e
percepirlo (e combatterlo) ancora meglio. Non bisogna dimenticare che il monoteismo considera sempre il
mondo come fonte di peccato e come opponentesi allo spirito divino. La coscienza dell’uomo è un mistero
ed è anche un mistero unico. Può sembrare spiegabile che la propria contemplazione sia una fonte di gioia.
Fintantoché l’essere (vale a dire tutto ciò che è, ovvero il mondo nel suo insieme) non sa d’essere, non
appare a nulla ed è come se non fosse. Le stelle sono, ma non sanno di essere. Solo l’uomo sa che le stelle
sono. Senza l’uomo, senza una coscienza da qualche parte (nell’uomo o altrove) le stelle ed il mondo non
saprebbero d’essere e sarebbe come se non fossero. L’essere senza la coscienza equivale al nulla, poiché
per quanto sia, nessuno sa che è (è il “nulla” di Lévi-Strauss). Se l’uomo è solo nell’universo ad essere
dotato di coscienza, è solo a poter fare in sorta che il mondo non sia nulla. Il solo fatto d’essere cosciente fa
venire il mondo intero all’esistenza. Ogni istante di coscienza crea il mondo. La contemplazione di questo
fatto immenso ( e che non implica la presenza di Dio) può essere fonte di gioia- non per orgoglio, ma per
stupore. Certe grandi azioni, certe grandi idee, quando nascono o quando vengono scoperte generano una
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grande gioia. Esiste indubitabilmente un atteggiamento di regressione in rapporto alle vicissitudini
dell’esistenza immediata che è fonte di consolazione e di gioia indipendentemente da qualsiasi riferimento
esterno o d’ordine divino. Ci sarebbe quindi nel meccanismo della coscienza uno stato, un punto
d’equilibrio, che provocherebbe l’esaltazione, la serenità; un atto di pensiero, un comportamento, che
sarebbe fattore di gioia; o anche forse una parte di sé intorno alla quale sarebbe piacevole arrotolarsi –
senza che in tutto questo ci sia bisogno di porre l’idea di Dio. A quel punto è concepibile che non siano le
Rivelazioni a causare la gioia, ma la gioia a causare le Rivelazioni. Lo si sospettava un po’. Ma a questo
punto anche le Rivelazioni sono una forma di truffa: non sono più che il fatto d’uomini che conferiscono di
loro solo iniziativa una dimensione non umana a ciò che non è che un’altra parola umana, la loro, tenuta
nel loro proprio ambiente e allo loro epoca. Evidentemente , i credenti diranno: le gioie che fanno a meno
dell’idea di Dio non sono che pallidi sostitutivi della gioia provocata da Dio stesso, ma voi non potete
saperlo perché non lo conoscete. Tale argomento,però, può essere rigirato: come potete sapere che la mia
gioia davanti allo spettacolo del mondo o nella mia introspezione non è così forte come la vostra? A priori
nulla osta a che tutte le gioie siano simili, o almeno siano partecipi dello stesso principio psicosomatico
globale. La gioia mistica stessa non prova l’esistenza del Dio del monoteismo. Ma tutto resta sempre
possibile.
4 - Altri argomenti
Ci sono poi alcuni argomenti meno importanti, o meno solidi, ma bisogna riportarli perché sono rivelatori
di un certo approccio elementare molto diffuso della credenza in Dio.
I miracoli – Paradossalmente, è quello dei monoteismi che si è avvicinato di più al razionalismo, il
cristianesimo, che resta più legato ai miracoli. I miracoli sono considerati espressione della potenza e della
bontà di Dio. La potenza può darsi, anche se è in maniera un po’ infantile, ma la bontà e la carità
certamente no: se Dio può guarire un solo malato, perché no tutti gli altri? Mesi or sono, ve ne ricordate, si
era discusso di un medicinale contro l’aids che richiederebbe molto tempo per essere prodotto in quantità
sufficiente per tutti i malati. E qualcuno aveva parlato di tirare a sorte quelli che ne avrebbero beneficiato.
Fu ben inteso un tumulto. Ma quando Dio fa miracoli, non fa cosa diversa: un pugno di malati guariti a caso
in un oceano di malati del mondo! E’ tanto ingiusto quanto il tiraggio a sorte dei malati di AIDS. La Chiesa
cattolica ha preso le distanze dai miracoli, ma non li ha mai del tutto rinnegati. Il ricorso frequente ai
miracoli come mezzo di persuasione è una delle debolezze del Vangelo. E’ un’indicazione che anche questo
racconto attinge molto dalla mentalità del suo tempo.
La bellezza del mondo . Il mondo ci mostrerebbe tante bellezze, sarebbe tanto armonioso, talmente
ammirevole, che dimostrerebbe la grandezza di Dio. Il testo della messa dice che bisogna ringraziarne Dio. Il
catechismo delle campagne di un tempo affermava che “ai piccoli degli uccelli, dà il mangime Dio”. E’ vero
che il mondo ci rivela molte bellezze, vale a dire che troviamo molti motivi di godimento. La sua
complessità, la sua organizzazione, il perfezionamento e l’incredibile varietà degli esseri viventi, i fiori, i
paesaggi, il cielo, tutto ciò è ammirabile. Ma comporta allo stesso tempo quanti orrori! Dopo aver ricevuto
il mangime, i piccoli degli uccelli sono divorati dal gatto. Dall’alto in basso all’albero della vita tutti gli esseri
viventi si divorano reciprocamente. Quante crudeltà, raffinamenti nella sofferenza, quanti saccheggi,
guazzabugli nella combinazione delle cose e delle sostanze.! Quanti mostri, quanti brulichii, pestilenze,
suppurazioni, veleni, malattie, putridume, cataclismi! Al di là di una certa armonia apparente, il mondo non
è né ben organizzato, né armonioso, né efficace. Procede con sprechi, tentativi, nel più gran disordine.
Milioni di specie scomparse nel corso dell’evoluzione per arrivare all’uomo. Milioni di spermatozoi per una
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sola fecondazione. Nessun finalismo, nessuna direzione, nessuna intenzione riconoscibile. Milioni di feti
morti, neonati uccisi dalla malattia al mondo per arrivare ad un adulto più o meno in buono stato. Dio non
è né razionale, né organizzato, né efficace.
La logica di causalità. Secondo la vecchia logica aristotelica, tutto deve avere una causa. Quindi il mondo
deve avere una causa. Questa causa è Dio. Man il problema non è risolto per questo, poiché si pone allora
per Dio stesso. Qual è la causa di Dio? E’ semplice: Dio è senza causa. Ma se Dio è senza causa , il fatto
d’esistere senza causa è possibile, e a questo punto perché non il mondo stesso nel suo insieme? Ciò evita
almeno la dualità, la divisione, la dicotomia, la mediazione che, nella religione, complica tanto le cose
invece di chiarificarle. L’ateismo pensa che non c’è un al di fuori del mondo. Se una trascendenza vi può
essere scoperta, essa non può essergli esterna- e non può dunque esserne la causa distinta. Vi ricordo
l’espressione di Jean-Luc Nancy: tras-immanenza.
La necessità d’un punto di riferimento assoluto. In Splendore della Verità, il principale rimprovero che
Giovanni-Paolo II fa al mondo moderno, è il suo “relativismo”: l’uomo non potrebbe accontentarsi delle
leggi umane sempre variabili, avrebbe bisogno delle leggi eterne di Dio. E’ il vecchio argomento di Pascal:
“Verità al di là dei Pirenei…” e… “gradevole verità limitata da un fiume”. Pierre Legendre parla anche lui del
“desiderio politico di Dio” ed afferma che non ci può essere morale senza un referente esterno, un ordine
sacro, un assoluto che la sostenga e la giustifichi. Ma questa è un’affermazione che resta da provare.
Abbiamo visto più su come i valori sprovvisti di referente e sempre modificabili dell’ateismo potevano al
contrario essere più efficaci e meno traumatizzanti in un mondo esso stesso essenzialmente mutabile. La
sanzione fattuale immediata dell’ateismo può costruire un’incitazione valida al pari di qualsiasi sanzione
situata nell’aldilà e come tale sempre differita e più o meno aleatoria, negoziabile ed incerta. In ogni modo,
le leggi di Dio dette eterne non lo sono tanto quanto può sembrare a prima vista. Non c’è più oramai una
sola religione disponibile ma parecchie che non sono affatto d’accordo, il che costituisce tante leggi per
quante religioni vi sono. Ma soprattutto, in seno ad ogni religione i valori che le sono propri non hanno
smesso di variare durante la storia. Il cristianesimo delle origini non è il cristianesimo del Rinascimento né
quello del XX° secolo. L'ebraismo biblico non è l’ebraismo dell’Illuminismo né quello dello Stato d’Israele.
Tutte le religioni si sono fatte carico nel corso dei secoli di apporti completamente esterni e talvolta
completamente estranei a loro. Quantità di dogmi esprimenti verità sedicenti eterne si sono innestati ad
epoche precise e per ragioni totalmente contingenti. Non ci sono più leggi eterne nelle religioni che
nell’ateismo. Un’analisi un po’ spinta mostra che l’eternità proclamata non si trova di più nelle religioni che
altrove. Le verità della religione sono altrettanto “limitate da un fiume” che le altre. La sola differenza e che
nelle religioni , le leggi, precisamente perché si pretendono eterne, non cambiano che lentamente, con
difficoltà, dopo molte resistenze, conflitti e danni. L’uomo moderno non accetta più qualsiasi ingiunzione
morale senza discussione. Esige prima di “vedere”. Ad ogni regola morale, vuole una giustificazione e se ne
aspetta effetti tangibili.
Parte terza
Perché non “saltare” lo stesso?
Dunque: né le rivelazioni, né la metafisica o la filosofia, né la gioia mistica provano veramente l’esistenza di
Dio. Resta tuttavia un’ultima domanda alla quale vorrei rispondere questa sera: in tali condizioni,
qualunque siano le obiezioni e le incertezze, perché non abbandonarsi nonostante tutto? Perché non
accettare di ricorrere a questo metodo apparentemente più efficace di lasciar penetrare in sé una gran
gioia ed un gran conforto? In poche parole, perché non capitolare e spiccare il “salto” per raggiungere la
gioia con più sicurezza? La ragione è che, giustamente, la scommessa di Pascal non è esatta: non c’è tutto
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da un lato e niente dall’altro, non ci sono vantaggi ed inconveniente da una parte e dall’altra. Per quel che
riguarda la credenza in Dio, gli inconvenienti sono gravi ed importanti.
Il problema del Male
In primo luogo c’è il male presente dappertutto nel mondo e nella vita, che colpisce gli innocenti a casaccio,
in completa contraddizione con l’annunciata bontà di Dio. La giustificazione del male e della sofferenza
degli innocenti al cospetto della bontà di Dio è certo la difficoltà maggiore di tutto il sistema del
monoteismo. E, di fatto, non è mai veramente risolta. Victor Schcelcher, autore delle leggi per l'abolizione
della schiavitù del 1848 (un ateo la cui compassione fu più agente di quella dei credenti della sua epoca),
aveva una formula molto semplice per giustificare il suo ateismo: “Dio ed il male sono incompatibili. Ora il
male esiste. Dunque Dio non esiste”. I tentativi di giustificazione del male in un universo creato e diretto da
un Dio buono ed onnipotente porterebbero allora a vere acrobazie intellettuali. Sant’Agostino crede di
essersi liberato del male per aver dimostrato che non proviene da una corruzione della materia creata da
Dio, ma che è dovuto solamente allo svolgimento degli eventi del mondo delle cose. Ma il male non risiede
nel meccanismo che lo genera: risiede nella sofferenza che provoca in colui che n’è colpito, qualunque ne
sia il meccanismo. Spiegare il male non evita agli uomini di soffrirne. Ed è che ne soffrano a fare scandalo.
Teilhard de Chardin scrive in un testo intitolato L’ambiente divino (Le Milieu Divin): “Un mondo che non
presentasse più traccia, o minaccia, di Male, sarebbe un mondo già compiuto”, e “la vittoria definitiva del
Bene sul Male può aver compimento solo con l’organizzazione totale del Mondo”. Ma è questo stesso stato
di cose che diventa allora criticabile ed inammissibile, poiché il mondo che deve compiersi attraverso il
male è stato prima creato tale da Dio. Se, essendo onnipotente, Dio ha concepito un mondo che funziona
solo col male, è che non è buono; se il male non proviene da lui ma che pur essendo buono non lo
sopprime, è che non è del tutto potente. Poiché il mondo é precisamente pieno di male, si dice ancora,
occorre che il bene venga da altrove.. E’ quello che dice Bruaire. Ma in che modo il bene assente potrebbe
venire da quello che ha concepito un mondo con il male dentro? In che modo innalzare quale bene assoluto
quello stesso che fa proliferare il male? Dio come ricorso sarebbe accettabile solo se il mondo non venisse
da lui. Ma Dio non sarebbe più Dio in questo caso. Tutte le spiegazioni teologiche del male sono in realtà
sempre spiegazioni di un mondo già là, apparso o costituito prima di Dio, o non dipendente da Dio, o che lo
supera esso stesso. Ma il Dio creatore onnipotente del monoteismo è responsabile del mondo nel suo
insieme, dall’inizio. Non può non essere l’autore del male. Dal punto di vista obiettivo del mondo nel suo
insieme, il male non esiste. Gli animali si divorano l’un l’altro ma è indispensabile alla catena alimentare ed
allo sviluppo delle specie. Il male esiste solo, soggettivamente se ci si ferma ad uno degli anelli della catena
e che si considera questo soggettivamente nella sua sola storia individuale. E l’esistenza di Dio non arriva a
risolvere il problema così posto perché è essa stessa un arresto in questa inesorabile catena. E’ il
monoteismo che crea esso stesso il problema del male. Il solo fatto dell’esistenza di un Dio creatore fa
immancabilmente del male il risultato d’una “intenzione”, ed è qui che il male è inammissibile. Ecco cosa
rappresenta fare della trascendenza un in sé esterno distinto e personalizzato! In altri termini, il mondo è
tale che un esterno distinto da esso crea più problemi che non ne risolve. La presenza del male per l’uomo
che è nel mondo rende impossibile la presenza di un esterno che sarebbe allo stesso tempo buono e
artefice del male. Il bisogno d’una consolazione e d’un esutorio per la persistenza del male può senza
dubbio essere così grande ch'egli si accontenta di una contraddizione di questa grandezza, ma non è una
ragione sufficiente per accontentarsene. Il male è altrettanto insopportabile per l’ateismo, ma almeno
questo non deve spiegarlo in rapporto all'affermazione di non-male preliminare assoluto. L’ateo soffre
altrettanto del male, lo combatte, se ne difende, cerca di rimediarvi e di sopperire ai suoi danni. Ne smonta
i meccanismi per cercare di sviarli. Questo è tutto. Non vi vede alcuna intenzione, nessuna contraddizione.
E’ così. Il male non è per lui il frutto d’una volontà: è un fatto, senza di più. Non c’è bisogno di andare oltre,
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basta attaccarsi all’effetto: la sofferenza. La sofferenza degli innocenti, e più particolarmente quella dei
bambini, diceva Marcel Conche, è un problema che non è mai da nessuna parte veramente risolto dai
monoteismi. O Dio è buono, ma non è onnipotente, oppure è onnipotente, ma non è buono. E’ impossibile
d’uscire da questo circolo vizioso. E’ totalmente insostenibile che la sofferenza dei piccoli bambini possa
essere motivata da un qualche errore pregiudiziale. La sofferenza dei bambini è il male assoluto perché i
bambini che soffrono non sono mai la causa della loro sofferenza. Altra risposta: sono gli uomini che fanno
il male, non Dio. No: sono certi uomini che fanno il male ed altri che ne soffrono. Che il male colpisca quelli
che fanno il male sarebbe evidentemente giusto, ma qui non è affatto quello che succede. Alcuni uomini
fanno del male ed altri ne patiscono. Sono gli SS che hanno fatto Auschwitz, non gli ebrei, ma sono gli Ebrei
che ne hanno sofferto. In una conferenza intitolata Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il filosofo tedesco
Hans Jonas conduceva ad una sorta d’auto-indebolimento di Dio stesso: “Se non è intervenuto, non è che
non voleva, ma perché non poteva” Non c’è, in effetti, altra soluzione. Se degli uomini fanno il male, che ne
siano castigati, è normale, ma perché Dio non salva gli altri che sono colpiti senza essere colpevoli? Quando
Giovanni Paolo II° abbraccia un malato di aids (una volta era un lebbroso), la cosa mostra forse la bontà di
Giovanni Paolo II°, ma mostra soprattutto l’assenza di bontà di Dio. E’ una situazione completamente
assurda dal punto di vista stretto della credenza in Dio. C’è ancora la spiegazione con il peccato originale,
che confonde in un’identica sorte colpevoli e vittime. L’umanità non é per Dio solo una specie da
proteggere o da punire nel suo insieme indipendentemente dagli individui che la compongono? Si può dire
ancora che Dio sarebbe di una bontà altra, che non sarebbe immediatamente discernibile dagli uomini. Ma
qual è questa bontà che non è percettibile da colui alla quale si rivolge? E come potrei essere sicuro in quel
caso che si tratti veramente di bontà? Non si tratta qui che di una bontà per procura, come per il senso del
mondo. Non evita la sofferenza a colui che soffre. Né alla contrattazione di rimanere per intero. Il concetto
della meditazione che è la base del monoteismo, crea molti più problemi che non ne risolva. Si afferma che
la fede permette d’uscire da questo dilemma. La gioia, l’appagamento, l’esaltazione che procura la
credenza in Dio permetterebbe quindi di non risolvere il problema della sofferenza. Questo la sopprime? O
vi sovrappone una sensazione più forte? O la sofferenza è necessaria per raggiungere una gioia ulteriore più
grande? Tutto questo lascia il circolo vizioso intatto. Non discolpa Dio. Quale differenza v'è tra non avere
bontà, non manifestarla, manifestarla nascosta, o rimandarla a più tardi? Il risultato è in tutti i casi
strettamente lo stesso ed è nel risultato che risiede il male. Come riverire un essere esterno, foss’anche Dio
onnipotente, che non sarebbe buono, o non manifestasse la sua bontà, o non la manifesterebbe in maniera
percettibile ed operante? Possiamo anche accettare le sue “avance” e notare le gioie che procurerebbe
d’altra parte? Non è solo nella logica e la ragione che il male invalida la credenza in Dio, è anche nella gioia
affettiva che può procurare. Anche se può ancora ispirare la paura, un tal essere superiore dovrebbe
piuttosto provocare la collera e la rivolta, e la facoltà di gioia che è nell’uomo dovrebbe distogliersi dalla
contemplazione per rivolgersi verso un oggetto più coerente e più degno di rispetto.
“Un materialismo religioso”
Ma la principale ragione di qualsiasi rifiuto di “saltare” non è ancora quella. C’è nella storia un fatto
drammatico, massiccio ed ineluttabile: la credenza in Dio, invece d’unire gli uomini, li divide e li oppone in
maniera violenta, atroce. Tutti i monoteismi senza eccezione, sebbene parlino continuamente d’amore,
hanno deviato ad un momento o l’altro verso l’oppressione, l’autoritarismo, l’intolleranza e la barbarie che
pretendono tuttavia d’eliminare. Forse non è il monoteismo stesso che lo vuole, ma è così che gli uomini lo
ricevono continuamente. Inquisizione, persecuzioni, condanne, roghi, massacri, assassini tracciano la loro
storia. Anche l’ebraismo, che si poteva credere meno compromesso a questo proposito, adesso che
dispone di una certa potenza temporale, ha i suoi fanatici che vi cadono anche. Di tutti i grandi conflitti che
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imperversano attualmente nel mondo, quasi tutti hanno un’origine religiosa: Iugoslavia, Irlanda, Palestina,
India e Pakistan. Le guerre di religione sono peggiori delle altre: non solamente sono più crudeli ma non si
spengono mai del tutto. Non dico che non c’è che questo nelle religioni. Ma c'è anche questo. E molto
spesso c'è soprattutto questo. Mi direte che l'ateismo non ha alcuna ragione di vedere le cose dall'alto a tal
proposito, poiché lo stalinismo ed il nazismo sono state dottrine atee. A questo vi sono due cose da
rispondere. La prima è che la religione si presenta come un sistema diverso dagli altri nel senso che
pretende basarsi sulla bontà e l'onnipotenza divina. Che non si distingua in nulla dagli altri movimenti
d'idee per la violenza e la brutalità è per lo meno un motivo grave di suspicione in quanto alle sue stesse
pretese. In secondo luogo, poiché le cose sono allora come sono, i movimenti religiosi hanno sugli altri
un'aggravante: il loro appoggio sul divino gli conferisce una perennità fin negli aspetti nefasti che non
hanno gli altri movimenti. Sono quindi tanto più temibili. Stalinismo e nazismo sono entrambi scomparsi
dopo qualche decennio, mentre le derive del monoteismo durano da duemila anni. In ogni modo, non è
perché la religione trova di fronte a sé dottrine nefaste che si può accettare che si mostri essa stessa
nefasta. Qual'è la spiegazione di questa tragica deriva? Perché il monoteismo non é mai riuscito da nessuna
parte a mettere su una società basata sui propri principi di perdono e di non violenza? Gli unici uomini
politici della storia che abbiano realmente praticato la non-violenza non sono monoteisti: sono Gandi, un
induista, ed il Dalaï Lama, un buddista. L'unica religione che non abbia mai in tutta la sua storia generato
inquisizione, violenza, autoritarismo, è una religione atea: è il buddismo. Perché? Quelli che massacrano i
loro simili in nome del Dio d'amore del monoteismo si fanno immancabilmente un'idea aberrante di
quest'ultimo. E la costanza di questa tendenza nella storia del monoteismo deve far concludere con
l'esistenza nel suo stesso meccanismo di un difetto che ve lo spinge. Il difetto deve essere questo: il fatto
d'erigere la trascendenza come un in sé esterno, spinge a farne un puro oggetto, nel senso filosofico di un
“di fronte”. Un oggetto opera tagli nello spazio, divisioni, opposizioni. Mette in evidenza le differenze. Al
contrario, la trascendenza pura, essendo sopra tutto interrogazione, apertura, ricerca, unisce e getta ponti.
Mette in evidenza le similitudini. E' comune a tutti ed a tutto. Ridurre la trascendenza ad un oggetto,
personalizzarlo come fa il monoteismo, gli toglie il fondamento, la despiritualizza, la detrascendentalizza. Si
tratta di un “materialismo “ religioso. Il dramma è che questo va nel senso d'una tendenza psicologica
dell'uomo a semplificare tutto, a schematizzare tutto. Dio, in queste condizioni, diventa presto un agente di
polizia, un padre-fustigatore. Ora, l'amore non si adatta ad un regime di corpo di guardia. E l'amore allora
scompare per diventare calcolo e dialettica di repressione, e l'odio lo sostituisce. Il pensiero si sclerotizza, in
queste condizioni, s'immobilizza, si pietrifica, e non sono più possibili scambi, coabitazione, tolleranza. E
tutto ne deriva. Non c'è più spiritualità né trascendenza reale: non ci sono più che categorie, separate da
muraglie invalicabili che fanno che le contraddizioni non compaiono nemmeno più. Avete riflettuto sul
fatto che gli ambienti che militano contro l'aborto sono gli stessi che militano per la pena di morte? Negli
Stati Uniti, i medici che praticano l'IVC operano indossando giubbotti antiproiettili perché i commando
anti- IVG che proclamano di lottar per “salvare” la “vita” assassinano i medici che fanno gli aborti. E poi
tutto sfocia nel colmo del dramma e dell'assurdo quando questo modo di vedere penetra nella politica.
L'intrusione del monoteismo nella politica è così micidiale perché conferisce la stessa illusione
d'immutabilità e di fissità materiale alla più piccola misura, alla più piccola pratica sociale. Qualsiasi
tolleranza, qualsiasi concessione diventano impossibili. Le procedure più violenti e radicali diventano
l'unico sbocco al minimo conflitto: la repressione, l'oppressione, poi la pena di morte, l'assassinio, la guerra.
Perché i credenti, un a volta persuasi del fondatezza delle regole di condotta emanate da Dio,
s'intestardiscono a volerle colare nel cemento delle leggi civili della repressione poliziesca? Non può essere
per se stessi, perché ne sono già convinti in partenza e non hanno alcun bisogno di questo quadro e di
queste sanzioni per applicarle. Ma non può essere nemmeno per gli altri, poiché è detto che la forza non ha
nulla a che fare in questo campo. Dopo tutto, colui ch'ignora l'Inferno o che vi si rassegna, è affar suo. Se i
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credenti hanno fatto tutto per convincerlo, l'imposizione con la forza di certi gesti, di certi divieti non può
essere che commedia e gesticolazione che non vi cambieranno nulla. La ragione di questa deriva aberrante
è che erigendo ciò che dà un senso al mondo come un essere esterno distinto si finisce quasi
immancabilmente per farne, non più una trascendenza, e neppure un'immanenza, ma molto
semplicemente una cosa, un personaggio, un capo, un sovrano temporale, un agente di polizia, nozioni che
non hanno nulla a che vedere con ciò che può eventualmente essere quello che si chiama Dio. E' come
faceva Bruaire: di un'apertura, si fa un oggetto o un essere. E' opponendo la religione all'ateismo che la si
metterà di fronte al suo problema fondamentale, quello di Dio, e non ignorandola. E' scoprendo che Dio
può non essere, o anche scoprendo che questo Dio può essere e non essere, che si farà (forse) scoprire agli
integralisti ed ai fanatici che le loro idee hanno dell'aberrante. A sé sola, questa tragica perversione basta a
giustificare qualsiasi rifiuto di “saltare”.
Conclusione provvisoria
L'ateismo dell'ultima modernità dice che la totalità dell'uomo (la sua “spiritualità”) e la totalità del mondo
(la sua “trascendenza”) possono perfettamente essere assunte e liberate senza il ricorso a questo fattore
esterno che è il Dio del monoteismo. Quello che s'avvera finalmente più inaccettabile nell'idea di Dio per
l'ateismo è la riunione di tutte le qualità che si conviene di attribuirgli: buono e onnipotente, creatore e
interlocutore. La sofferenza degli innocenti non è comprensibile se non con un Dio infinitamente distante,
ma il dettaglio inverosimile delle prescrizioni delle rivelazioni non è comprensibile se non con un Dio
infinitamente vicino. E' la permanenza stessa del mistero che rende inconcepibile la mania legislativa del
Dio del monoteismo. Ma se si rifiutano la riunione di queste qualità contraddittorie, non si tratta più del Dio
del monoteismo. L'idea di Dio non è dunque né evidente, né universale, né indiscutibile, né l'unica valida,
né esente da ogni aspetto negativo. Conviene quindi d'ammettere ormai che possa destare diffidenza e
suspicione e ch'essa possa essere rifiutata in piena conoscenza di causa. Secondariamente, i credenti non
possono più pretendere né a presenza né a superiorità di fronte all'ateismo, devono ammettere che gli atei
rifiutano che parlino in loro nome. L'ateismo della modernità non dice che nel mondo non vi sarebbe né
mistero né trascendenza. Dice solamente che nel mondo non c'è “interlocutore”. A partire da questo, tutto
è possibile nella misura in cui non è né incoerente, né contraddittorio, né contrario a quello che si può già
considerare come affidabile secondo i criteri di verità che sono quelli della modernità. Poiché non si può
concepire che “la” verità sia contraddittoria con “le” verità acquisite. Vorrei, se permettete terminare con
un aforisma. Conoscete la massima. “Un ateo è un credente che s'ignora”. E' un'affermazione che l'ateismo
non può rigettare assolutamente, se vuole restare fedele ai suoi principi d'incertezza e nella misura in cui
questa massima prende in considerazione la credenza in Dio in senso lato ed aperto. Ma essa non può
essere accettata che se colui che la propone ne accetta a sua volta un'altra che dovrà mettere a fianco, e
tenere sempre presente ai suoi occhi ed alla sua mente. Quest'altra massima è: “Un credente è un ateo che
s'ignora”. Solo questa doppia affermazione, nella sua stessa contraddizione, e con l'incertezza e la
claudicazione che provoca, eviterà i fantasmi, gli integralismi inumani e gli autoritarismi micidiali. Perché il
peggior nemico dell'uomo non è l'incertezza, ma la certezza.
Traduzione Franco Virzo
continua
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Dibattito
Questa conferenza è stata tenuta due volte: a Tolosa e a Saint Gaudens. Il dibattito evidentemente è stato
diverso nelle due occasioni. Sono stati ripresi qui di seguito gli elementi dei due dibattiti. Le domande
comuni sono state per quanto possibile riunite in un solo intervento per evitare ripetizioni.
Un ascoltatore:
L'ateismo ad un dato momento raggiunge una certa idea di panteismo, poiché l'uomo è tutto l'universo. E'
una forma di panteismo. Il che vuol dire che le religioni sono una manifestazione di superstizione. Colui che
aderisce ad una religione è superstizioso. Per ciò che riguarda il male, credo che bisogna distinguere male
fisico e male in rapporto all'etica. E' a questo punto che interviene la nozione di libertà, il male in rapporto
all'etica, se l'uomo non fosse libero. Bisogna che l'uomo sia libero di scegliere. Si può dire che è buono per
natura, ed è la società a corromperlo. Per ciò che riguarda il male fisico, se non esistesse, l'uomo sarebbe
eterno. Di conseguenza deve esistere.
Alain Gérard:
Il panteismo non è l'uomo che è Dio, è Dio che è dappertutto, o è tutto che è Dio. Nel panteismo, Dio è
presente dappertutto, in ogni cosa. E' il contrario dell'ateismo. Quello che Lei vuol dire, penso, è un po' la
concezione moderna del mondo, vale a dire l'idea che l'uomo fa parte del mondo. Può però anche
benissimo esserci un semplice incidente. In ogni modo egli non ha alcun potere. L'idea di panteismo implica
almeno un certo potere sulle cose, ciò che l'uomo non ha. E' preso nei limiti di ciò che è, ma non ha alcun
potere particolare. La sua coscienza gli dà una certa facoltà di comprensione delle cose, ma alcun potere
del tipo di quelli che si suppongono per gli dei. Allora Lei dice: superstizione. Qui Le lascio la responsabilità
di ciò che afferma. Vero è che, non aderendo ad una religione, come nel caso dell'ateo, ci si può
effettivamente porre la domanda: che cos'è la religione? Oppure: come interpretare il fenomeno religioso?
Lei può sostenere che è una superstizione. Per parte mia penso che sia un po' corta come interpretazione.
Non ci si può limitare a questo. C'è in ogni modo qualcosa di più fondamentale nella religione, anche se non
vi si aderisce. Come dicevo: ci sarebbe uno studio sul fenomeno religioso che toccherebbe all'ateismo
portare avanti in maniera obiettiva, in profondità. Infine Lei dice: senza il male fisico l'uomo sarebbe
eterno. Non vedo perché. Perché bisogna che l'uomo subisca il male? Perché gli esseri viventi debbono
assolutamente subire il male? Mi sembra che si possa concepire una vita che sia organizzata di maniera tale
che non vi si trovi sofferenza e che tuttavia non sia una vita eterna. Non vedo il legame tra la sofferenza e
l'eternità. Mi direte: la morte è una sofferenza. Certamente. Ma si può nondimeno essere felici con la
prospettiva della morte davanti a sé. La morte è inevitabile. E' un fatto. Il problema della morte è diverso
dal problema del male...
Un ascoltatore:
Personalmente credo che un ateo esemplare potrebbe essere Mersault, l'eroe di Camus, nello Straniero.
Alain Gérard:
Non sono d'accordo. Mersault non è per niente un ateo esemplare. E' un ateo, forse, ma certamente non
l'unico possibile. Quello che Lei dice è quello che diceva Dostoïevsky: “Se Dio non esiste tutto è permesso”.
Cosa che io contesto completamente. Non è vero. La compassione esiste in maniera quasi automatica
indipendentemente da qualsiasi intervento esterno. Ogni atto ha le sue conseguenze, che Dio esista oppure
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no. Mersault è un ateo finito male. O piuttosto Meursault è finito male agli occhi dell'ateismo tanto quanto
agli occhi della religione. Non è per niente un caso esemplare.
Un ascoltatore:
San Tommaso ha lavorato molto sulle prove dell'esistenza di Dio. Lei non ne parla. Seconda domanda: il
vero ateo, perché non si suicida? (risate in sala).
Alain Gérard:
San Tommaso ha fornito prove dell'esistenza di Dio ma c'è molta gente, molti filosofi che hanno fornito
prove dell'esistenza di Dio. La Teodicea di Leibniz ne fornisce ad ogni pagina. San Tommaso segue la vecchia
logica aristotelica. Sono costruzioni concettuali coerenti, prove razionali, belle elaborazioni astratte, ma che
non sono convincenti da sole. La credenza nell'esistenza di Dio va ben oltre una costruzione concettuale.
Simili prove non convinceranno mai nessuno. Si può sempre trovare un ragionamento inverso che le
distrugge. E' il motivo per il quale mi sono molto attardato su quello che ho chiamato affetto o gioia
mistica. Lo stesso dicasi per la prova ontologica di sant'Anselmo. Sono belle elaborazioni intellettuali, e
questo genere d'argomentazione può essere interessante a titolo di conferma, o di non-impossibilità “a
posteriori” dopo che si è già peraltro acquisito la fede nell'esistenza di Dio, ma non credo che questo possa
mai costituire un primo approccio sufficiente per colui che non n’abbia mai trovato altri. Allora, perché un
ateo non si suicida? Ma perché mai si dovrebbe suicidare? Vive in un modo che gli procura problemi, certo,
ma anche gioie, è libero di organizzarselo come vuole, è lui che dà senso al mondo, ci trova un certo che di
meraviglioso, trova altri che gli danno e a chi può dare compassione. Evidentemente Meursault, l'eroe di
Camus, non è felice. E praticamente il suo comportamento è un suicidio. Ma ancora una volta non è un caso
esemplare. Non vedo perché, con tutte le risonanze e tutto ciò che si può collocare nella rappresentazione
del mondo dell'ateismo vi si possano trovare maggiori argomenti per suicidarsi che non altrimenti. Il
suicidio non è per nulla un problema specifico dell'ateismo.
Un ascoltatore:
E la sofferenza?
Alain Gérard:
Ma una delle ragioni per cui l'ateismo rifiuta la religione è giustamente che ai suoi occhi non risolve il
problema della sofferenza: al contrario, lo complica. Almeno, in un mondo in cui non c'è Dio, il male e la
sofferenza non sono il frutto di un'intenzione ingiustificabile. Giacché se c'è un Dio non può essere estraneo
al male ed alla sofferenza che l'uomo subisce. Se non c'è Dio invece, il male e la sofferenza sono un fatto
come la morte, questo è tutto. Non c'è che da prenderne atto o da organizzarsi per sfuggirvi il meglio
possibile. Per l'ateo, l’esistenza di Dio, di fronte al male, suscita la rivolta contro Dio e non è per nulla una
liberazione.
Un'ascoltatrice:
Per parte mia penso che non si abbia alcuna voglia di suicidarsi quando si è ateo, ma che per di più, e di ciò
non si è ancora parlato, si può avere il senso del sacro. E' una dimensione dell'essere umano che un ateo
può perfettamente possedere.
Alain Gérard:
Tutto dipende dal senso che si dà alla parola “sacro”. C'è un senso primo che è puramente e
semplicemente: ciò che partecipa della religione. In questo senso l'ateo non può essere coinvolto. Ma la
parola ha acquisito un senso più esteso. Il “sacro” è diventato rapidamente “ciò che non può essere toccato
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senza essere sporcato”. Quindi, ciò che si deve considerare con rispetto e prudenza, eventualmente ciò che
suscita un certo stato di contemplazione. E questo, non è evidentemente del tutto inconciliabile con
l'ateismo, certamente. Questo tocca un punto di cui ho parlato: la posizione dell'uomo moderno nei
confronti del mondo e dell'ambiente, il fatto che l'uomo senta di far parte integrante del mondo. Le
religioni sono sempre molto reticenti nei confronti del mondo. Il mondo è il peccato, è il male, è la
tentazione. Occorre estraniarsi dal mondo per arrivare a Dio. L'ateo si trova nel mondo e prende atto che
ne fa parte integrante. Non può fare a meno del mondo. Troviamo qui tutta una psicologia della modernità
che si manifesta per esempio, tra l'altro, con l'ecologia. C'è qui una forma di rispetto delle cose del mondo.
L'uomo avverte il fatto che con la sua posizione è legato immancabilmente a tutte le cose del mondo.
Ebbene, è un forma di sacro.
Un ascoltatore:
vorrei intervenire proprio in rapporto al sacro. Prima per indicare che è una caratteristica della modernità.
Si ritrovava in Camus ed altri autori l'idea che c'è un sacro separato dalla religione, un sacro d'altro tipo. E
allora, come interpretare la persistenza del sacro in un mondo più o meno separato dal religioso? Ci sono
curiosi spostamenti del sacro. Il sacro alla nostra epoca sembra essersi spostato verso l'uomo, verso la
società e l'insieme delle sue creazioni. L'umanesimo si è costituito storicamente contro la religione, ma
senza distruggere la nozione della sacralità dell'uomo che si ritrova anche al livello delle istituzioni (quando
si parla dei diritti dell'uomo, ecc..) C'è tutta una sacralizzazione, anche d'esseri razionali, tanto che,
personalmente, mi è successo di pensare che c'era forse un sacro razionale che si costituiva in presenza del
sacro della religione. Con le sue perversioni, beninteso, ed in particolare la sacralizzazione dei poteri politici
che è una delle caratteristiche della modernità, che è una stupefacente regressione. Ma Lei ha detto: un
uomo senz'anima è un “alter ego”. E giustamente ci si può chiedere come spiegare la persistenza della
dignità umana in esseri di cui si può pensare almeno che non hanno più l'uso della loro anima: soggetti
autistici, persone in coma, cadaveri. Questa dignità rimane. Come spiegarlo? Persistenza del religioso
nell'inconscio? Caratteristica dello spirito umano?
Alain Gérard:
Direi che è una persistenza della compassione che ogni uomo prova immancabilmente nei confronti del
proprio simile. Essa persiste al di là della morte perché la morte non è l'arresto di ogni pensiero, di ogni
ricordo, di ogni considerazione per colui che è morto. Il rispetto del cadavere, il rispetto dovuto ai morti, i
funerali ne sono l'espressione. Questo tipo di cerimoniale è spesso d'ispirazione religiosa, ma ci sono
persone che non passano per la chiesa per farsi sotterrare. E' una forma di sacro, è vero. Ma tutto dipende
anche da quello che s'intende con la parola sacro. In senso stretto tutto ciò decade, beninteso. Notate,
però, che la frontiera tra il religioso ed il non- religioso non è sempre molto netta. E' netta nella conferenza
che ho tenuto questa sera perché, come ho detto, ho preso in considerazione il Dio dei monoteismi, che è
molto preciso, molto organizzato, che è istituzionalizzato. Scartiamo il buddismo perché il buddismo non è
del tutto una religione. E' un caso a parte. Ma altrimenti, al di fuori del monoteismo, tutto diventa molto
più vago. Riprendiamo Lévi-Strauss. Tremila pagine e venti anni di lavoro che terminano con la parola
“niente” E' una contraddizione fenomenale. Le tremila pagine che precedono la parola “niente” indicano
che al contrario ci sono molte cose. Lévi-Strauss ha studiato i miti, l'immaginario, tutte le interpretazioni
cosmologiche delle popolazioni d'America, ne ha ricavato strutture di pensiero, ne ha stabilito le leggi, e
termina con “niente”. E' contraddittorio: la parola “niente” è solo una constatazione superficiale, una
constatazione esterna delle cose del mondo, mentre tutto il lavoro del libro esprime un'interiorità delle
cose, una dimensione non-esterna del mondo e degli esseri. Ragion per cui quella conclusione può essere
considerata come incompleta. Non rende conto di tutto ciò che quello che la precede rende conto: la
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coscienza dell'uomo ed il suo mistero. Il modo in cui l'uomo moderno considera il mondo è molto diverso
dal modo in cui l'uomo considerava il mondo non molto tempo fa. Vi ho accennato. C'è un americano
chiamato Robert Harrison che ha scritto un libro sulla foresta: “Saggio sull'immaginario occidentale”
pubblicato in francese anni or sono. Durante il Medio Evo, la foresta rappresentava lo stato barbaro, lo
stato selvaggio, non ci si andava, era piena di briganti e di bestie feroci, se n’aveva paura. La foresta era la
non-civilizzazione. Diventare uomo era combattere, distruggere la foresta. E poi oggi è esattamente il
contrario. Poco per volta le cose sono cambiate. Con il romanticismo c'è stato un ritorno verso la foresta. E
adesso, c'è un rispetto profondo della natura, con l'ecologia, con i Parchi Nazionali, con il turismo
d'escursione, con la protezione delle specie, ecc. Ed è paradossale, perché questo sopraggiunge nel
momento in cui l'uomo percepisce anche che sta per raggiungere una soglia irreversibile nel saccheggio e
nella distruzione della natura (e della foresta). Questo spiega senz'altro quello. L'uomo ha preso coscienza
della sua responsabilità nei confronti del mondo perché è colpito dai saccheggi che ha compiuto. Le
popolazioni che Lévi-Strauss ha studiato sono, in quanto a loro, ancora allo stadio primitivo. Hanno nei
confronti del mondo un atteggiamento di rispetto che sacralizza l'insieme del mondo e che è finalmente
similare all'atteggiamento che diventa con più o meno autenticità e sincerità, quella dell'uomo moderno.
Cosa che conferisce spesso a questi miti una gran bellezza. Sapete che si possono leggere i libri di LéviStrauss solo per il piacere di scoprire storie meravigliose che sono talvolta di una gran poesia e di un gran
potere espressivo. E ritorno al mio problema della frontiera del religioso e del non-religioso. Qui ci siamo,
veramente. Con i miti e le storie si tratta ancora di religioso o no? E' il limite, è la palude intermedia. Si può
considerare che si tratta di religioso perché queste popolazioni effettivamente ricollocavano i miti in una
cosmologia generale assortita il più delle volte di panteon di molteplici dei. Ma si può anche considerare
che si tratta di poesia e semplicemente un modo d'espressione di tipo estetico. E la questione si pone
esattamente nella stessa maniera per l'uomo moderno. Il suo atteggiamento nei confronti della natura è di
tipo religioso o no? Non lo credo, personalmente. Ma è una forma di sacro, probabilmente, se si prende la
parola sacro in senso lato. Tutte queste considerazioni si collocano nel quadro stretto dell'ateismo, voglio
precisarlo. Dirò addirittura che prendono tutta la loro risonanza solo nell’ambito dell’ateismo, perché il
monoteismo, focalizzando tutto su Dio, indebolisce automaticamente l'interesse che si può avere nel
mondo per tutto ciò che non è Dio. E' vero che c'è San Francesco d'Assisi ed il suo “Cantico del sole”, ma ci
sono anche i divieti di svestirsi, di bagnarsi, soprattutto nell'Islam. La “tenuta islamica” imposta dai mullah
in Iran, tanto per gli uomini che per le donne è una barriera che separa dal mondo.
Un ascoltatore:
Si è potuto dire del buddismo che era una religione senza Dio. Non si può invece dire questo dell'ateismo.
Non si potrà dire che l'ateismo è una religione senza Dio.
Alain Gérard:
Non è una religione, allora per forza non è una religione senza dio!
L'ascoltatore:
Si, ma c'è lo stesso una sfumatura nel senso che non c'è solamente la mancanza di Dio, c'è anche l'assenza
del legame, nel senso in cui per esempio Michel Serres diceva che “religione” deriva da “religare, ciò che
lega” Non è forse precisamente questo che è il più difficile da vivere? Il fatto che non c'è più Dio fa che non
c'è più possibilità di ri-centralizzazione, di ri-focalizzazione delle persone, e che queste si ritrovano come gli
atomi di Democrito che si agitano a caso nel vuoto, senza alcun destino, senza alcuna possibilità d'incontro.
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E ciò genera l'angoscia. Non è dal versante di questa mancanza di legame che genera l'assenza di Dio che
c'è la più gran difficoltà?
Alain Gérard:
Avrei voluto che la mia esposizione di questa sera fosse del tutto neutra ed obiettiva, come un'idea
esteriore in qualche modo clinica dell'ateismo in quanto sistema di pensiero. Ma non è evidentemente
possibile. Si può difficilmente trattare un soggetto come questo senza che emergano convinzioni personali.
Avete capito che non sono credente. Quello che sto per dirvi è quindi forse un'opinione personale. Ma
quello che Lei dice, io non lo sento assolutamente. E' vero che si tratta di un'obbiezione che è spesso
sollevata contro l'ateismo: non garantirebbe quel certo cemento sociale che la religione assicurerebbe. Si
muove la stessa obiezione, ed è forse un modo per spiegarlo, ad un fenomeno tipicamente moderno che è
quello dell'individualismo. Si dice che l'individualismo è la causa di tutti i nostri mali sociali, che è perché la
gente è individualista che non ci si aiuta più a vicenda, che non c'è più senso sociale, più senso politico, ecc.
E' vero che un certo individualismo può generare comportamenti di questo tipo. Ma cos'è l'individualismo?
E' lasciare alla persona umana la piena possibilità di assumere se stessa in funzioni delle proprie capacità e
delle proprie qualità, e non in funzione di un modello prestabilito uniforme per tutti. E' vero che un tale
spazio di libertà può generare alcune perversioni come l'egoismo, l'edonismo, l'egocentrismo. Si può
prendere il pieno possesso delle proprie capacità, essere se stessi, fare in sorta che il proprio essere
corrisponda al proprio essente, o la propria esistenza alla propria essenza, o anche la propria essenza alla
propria esistenza, secondo la filosofia alla quale si fa riferimento, senza per questo trovarsi tagliato fuori del
resto del mondo. Ancora una volta, i grandi movimenti umanitari della modernità sono creazioni d’atei.
Amnesty International è stata creata da Sean MacBryde che era un vecchio comunista e ateo. Médecin sans
Frontières pure. Schcelcher era un ateo. Quello che succede, ed è una delle difficoltà del periodo
contemporaneo, è che siamo in un mondo in cui le cose vanno talmente veloci che tutto cambia prima che
la gente abbia avuto il tempo, non solo di adattarsi, ma addirittura semplicemente di prenderne coscienza.
E credo che quello che disarciona molta gente è uno stato di cose nuovo al quale non è abituata, al quale
non è preparata e al quale risponde con riflessi o atteggiamenti che corrispondono a stati di cose anteriori.
Credo che sia uno dei drammi della nostra società e del nostro mondo contemporaneo. Le cose si sono
sempre evolute. Non c'è eternità nella storia e nelle società. Nonostante quello che dice Giovanni Paolo II
non ci sono mai state leggi eterne. Ma una volta le evoluzioni erano lente. Passavano generazioni prima
che il movimento apparisse. Adesso in un quarto di generazione tutto è sconvolto. Guardate come le cose
sono cambiate se non altro da dieci anni a questa parte. Penso che lo sgomento di molta gente proviene da
questa situazione. Ma l'ateismo, vale a dire l'assenza di riferimenti in un Dio, non è in sé fattore dello
sgomento che Lei descrive. Ancora una volta, l'ateismo permette la compassione, l'integrazione nel mondo
delle cose, e dunque non del tutto necessariamente questo fenomeno d'atomizzazione sociale che si può
constatare oggi.
Un ascoltatore:
Ho una domanda sul metodo. Quando Lei passa dalla presentazione dei fasci di comportamenti dell'ateismo
agli argomenti contro le religioni per quel che riguarda la donna, con ciò che si trova in San Paolo o nel
Corano, penso che vi sia un errore metodologico. Lei scavalca con questa prospettiva gli sforzi di numerosi
credenti, cristiani o mussulmani, che ricusano la disparità dei sessi veicolata dal monoteismo e che
difendono i valori d'uguaglianza dei diritti. L'ateo è per sua struttura di pensiero necessariamente difensore
della parità? Non penso. Vi sono indicazioni che mostrano che in Francia il 10% degli atei non ha tanto
difeso il femminismo. D'altronde, Lei diceva che i sistemi economici e scientifici sono atei. Potrebbe spiegare
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maggiormente questo punto. In che cosa questi sistemi sono generati dall'ateismo? Sarebbe da dimostrare.
Tanto più che occorrerebbe spiegare l'adesione di Stati fondamentalmente religiosi che vi aderiscono, in
particolare l'Arabia Saudita. In fine, che cosa l'ateismo ritiene dell'eredità del patrimonio e delle opere
letterarie d'ispirazione religiosa? Che cosa la “Divina Commedia” di Dante può provocare com’emozione ad
un ateo? E un testo come il “Viaggio notturno di Maometto a Gerusalemme” al quale Dante si è ispirato? O
San Giovanni della Croce?
Alain Gérard:
Il seguito dell'idea, era semplicemente questo: quando l'ateo si scontra con la religione, gli si oppongono le
rivelazioni come parola di Dio, e occorreva quindi vedere quello che si poteva pensare di questo,
indipendentemente da ciò che è stato fatto e pensato delle rivelazioni in seguito. Poiché l'argomento è che
le rivelazioni vengono da Dio, bisogna dunque attenersi al loro testo così come sarebbe uscito dalla bocca di
Dio. E in questo testo d'origine, compaiono contraddizioni ed inesattezze. Quindi il fatto che proverrebbero
da Dio può essere messo in dubbio. Che poi adepti di queste differenti rivelazioni abbiano ritenuto che si
potessero criticare e non seguirle integralmente, è un'altra cosa. Bisogna tuttavia fare un'osservazione a tal
proposito: i credenti che hanno quest’atteggiamento critico nei riguardi delle rivelazioni, da un cero punto
di vista non sono logici con se stessi, perché se ammettono che la rivelazione proviene effettivamente da
Dio, non possono fa altro che d'accettarne tutto quello che vi si trova. Criticare le rivelazioni, prenderne
quello che si considera valido e tralasciare quello che si ritiene criticabile, o è ammettere che variazioni
sono potute intervenire e che quindi esse non sono integralmente la parola di Dio, vale a dire relativizzarle
completamente, oppure è giudicare Dio, ciò che è perlomeno singolare da parte di credenti. Non si può allo
stesso tempo dire che è la parola di Dio e criticarla. E' fare critica storica, ed è interessante, molto utile,
molto positivo, ma ciò relativizza la religione. Ogni volta che una religione ha disposto di un potere politico,
quello che ha fatto non è mai stato critica storica con i testi sacri. Il Suo argomento non corrisponde quindi
all'iniziativa di cui ho voluto rendere conto. Poi l'ateismo dell'economia. Non ho detto che l'ateismo aveva
creato l'economia o l'economismo. Ho detto che nell'economia, o nell'economismo mondiale, che è il
sistema politico e sociale che ci governa, non c'è alcun riferimento a Dio. E questo è una completa novità. I
sistemi politici, economici, sociali della storia facevano tutti riferimento a Dio. Nel Medio Evo la Chiesa
regolamentava l'usura. Il Corano e la Torah sono pieni di disposizioni che riguardano gli scambi e quello che
noi oggi chiamiamo il commercio. La concezione stessa della società era una concezione piramidale che
partiva dalla divinità per arrivare alle applicazioni sul terreno. Tutto questo non esiste più. Ed è lo stesso per
le scienze. Descartes, Galileo, Newton parlavano ancora di Dio nelle loro teorie. Più nessuno scienziato
parla ancora di Dio. D'altra parte la scienza e l'economia sono come tali dei sistemi molto frammentari per il
loro campo d'applicazione (sebbene vorrebbero dettare legge su tutto) e non si può considerale come
costituenti delle applicazioni sufficienti del mondo per permettere all'uomo di vivere. Ma esistono, e
ricoprono un ruolo considerevole nella nostra esistenza, quindi pongono il problema di Dio e dell'ateismo.
Relativizzano la situazione di Dio nella nostra società. Infine il problema delle opere d'arte. Certamente, le
religioni hanno generato manifestazioni artistiche d’ogni tipo che sono di una ricchezza straordinaria. Ma
non è del tutto impossibile per un ateo approfittarne e goderne. L'interpretazione delle opere d'arte del
passato o delle opere d’altre culture pongono sempre un problema d'adattamento delle mentalità o delle
abitudini mentali e psicologiche di coloro che sono portati ad apprezzarle. Il modo in cui noi apprezziamo
un feticcio africano non è del tutto il modo in cui colui che l'ha creato lo apprezza. E tuttavia noi
apprezziamo l'arte africana e l'arte africana ha sconvolto completamente l'arte del XX° secolo. Non molto
tempo fa, un Africano mi ha chiesto: che cosa l'Africa ha apportato al mondo? Il poveretto s'aspettava che
dicessi, come si dice purtroppo oggi: niente! Ebbene assolutamente No. L'Africa ha apportato al mondo
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moderno tutte le sue concezioni artistiche, tanto nella musica che nelle arti plastiche. L'intera musica del
XX° secolo, con il jazz in particolare, e tutta la pittura del XX° secolo, con il cubismo, sono derivati dall'arte
africana. E tuttavia, la maniera in cui gli Africani consideravano la loro arte non era per nulla la stessa di
quella in cui l'hanno considerata per esempio gli Europei. Ciò non toglie che l'arte africana ha
scombussolato l'arte occidentale. “La Divina Commedia” di Dante, effettivamente, è un'opera straordinaria
che ha una ricchezza propria, che è portatrice di senso in molteplici direzioni. E' tra l'altro, ma non
solamente, un'opera religiosa. Dante è una personalità complessa. Ha avuto in particolare concezioni laiche
e d'organizzazione politica. Ma un ateo può perfettamente apprezzarlo e godersi la sua opera. Ed è lo
stesso per opere strettamente religiose come le poesie di San Giovanni della Croce. Non è perché non si
crede in Dio che non si può apprezzarle. Evidentemente non vi si porrà del tutto la stessa cosa di un
credente. Vi si troverà l'espressione d'una grande esaltazione, d'una grande gioia. Vi si troverà una grande
ricchezza d'immagini, une grande ricchezza espressiva. Ma l'uno non esclude l'altro.
Un'ascoltatrice:
Il buddismo non è forse l'unica religione che non pratica il proselitismo. Il Dalaï-Lama l'afferma. Vorrei che
Lei ci parlasse del proselitismo nelle religioni e che ci parlasse di tolleranza.
Un'altra ascoltatrice:
Lei ci ha detto che l'ateismo deve essere tollerante. Sono d'accordo ma la cosa mi pone un piccolo
problema: fin dove bisogna essere tolleranti? Si può tollerare l'intollerabile? Come si deve definire la
tolleranza? Si può tollerare Auschwitz? Si può tollerare che si porti il velo islamico? In fine, l'ateo non è
interamente preso e completamente dipendente dalla forma di religione del mondo al quale appartiene?
Alain Gérard:
Proselitismo e tolleranza, metterò insieme le due questioni perché è un po' lo stesso problema. Che cos'è la
tolleranza? Credo che ci sono parecchie forme, o parecchi livelli, o parecchi stati di tolleranza. C'è
innanzitutto una tolleranza che in realtà è una falsa tolleranza e che non è altro che un rinvio
dell'oppressione. E' quella che consiste semplicemente ad aspettare che il partner ammetta che ha torto
senza che affiori mai minimamente l'idea che si potrebbe avere se stesso torto. Si rispettano certi
argomenti, non si affrettano le cose, si accerchia in qualche sorta l'avversario, lo si lascia tranquillo
aspettando il momento (reputato inevitabile) in cui crollerà. Ma non si tratta certo di considerarlo da pari
né di conferirgli tutti i diritti. Poiché qui parliamo d’ateismo, è una forma di tolleranza che l'ateismo
incontra spesso di fronte a sé e che le religioni gli oppongono ancora regolarmente. C'è un testo cattolico
che così parla della “infinita pazienza” che il credente deve adottare di fronte al non credente per
convincerlo della verità della fede cattolica. L'ateismo non sarebbe che un errore, una deriva di cui è
escluso che si discutano gli argomenti, ma di cui si tratta soltanto d'aspettare che capitoli. E quando
l'ateismo s'esprime, si grida al blasfemo. Si è detto molto che l'islam che occupava la Spagna nel Medio Evo
era tollerante nei confronti dei non mussulmani, ma in realtà la sua tolleranza era semplicemente proprio
quella falsa tolleranza. La vera tolleranza è, in effetti, legata alla concezione moderna della verità di cui ho
parlato prima. Non c'è tolleranza se non in una relativizzazione dell'idea di verità. Ed è il motivo per cui essa
è un comportamento essenzialmente moderno e che praticamente non la si trova nel pensiero tradizionale
e nelle società non moderne. E' una concezione che si colloca in una concezione della verità munita d'una
qualche incertezza. E la tolleranza a quel punto è dire: penso qualcosa, colui che mi sta di fronte non pensa
la stessa cosa, è possibile che sia io ad essere nel vero, ma è possibile pure che sia lui, discutiamone,
troviamo un'intesa. Se si vuole che la tolleranza non sia una semplice dilazione dell'oppressione, bisogna
dotarla d'una relativizzazione dell'idea di verità. L'idea di verità assoluta, l'idea di verità autoritaria, che era
quella delle religioni, quella che per esempio ha generato l'inquisizione, sono incompatibili con la
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tolleranza. Allora ci sono evidentemente casi estremi. Bisogna rimanere tolleranti nei confronti di chi
afferma che la terra non gira intorno al sole? O nei confronti di chi afferma che Auschwitz non c'è mai
stato? O semplicemente che si può uccidere il proprio simile senza problemi? Certamente No. Come ho
detto: c'è “la” verità e ci sono “le” verità. Ci sono verità che sono a tal punto evidenti che è assurdo negarle.
Non si tratta più d'ammettere che l'altro possa avere ragione in questi casi. Al massimo ci si deve
interrogare sulle ragioni che fanno che arrivi a tali assurdità. Ci sono certamente credenti che sono
tolleranti. La religione stessa è molto cambiata con la modernità, almeno nei paesi occidentali, ma l'ateo è
forse più naturalmente tollerante perché è maggiormente abituato alla posizione d'incertezza e d'apertura
del credente che è abituato a ricevere direttive, a seguire imperativi ed ad obbedire a divieti. Anche il
proselitismo si colloca in questo quadro. Il proselitismo è un problema di tolleranza. E' qualcuno che dice:
credo di aver ragione, lui non pensa la stessa cosa di me, proverò a portarlo sulla mia opinione. Se ciò si
colloca in un quadro di tolleranza reale, non c'è alcun problema. Quando si ritiene d'avere un'opinione si
cerca sempre di difenderla. Ma talvolta bisogna accettare che ci si sbaglia. Ci sono persone che sono
incapaci d'intraprendere quest'iniziativa, ma dovrebbero farlo. Credo che tolleranza e proselitismo non
pongano un problema d'apprezzamento talmente diverso.
Un ascoltatore:
Finalmente la questione di Dio, o dell'idea di Dio (ciò che è forse già una distinzione da fare) è la questione
totale. Sono sempre tanto fragile adesso dopo la Sua esposizione quanto prima in rapporto all'idea
fondamentale in me che è che dubito. L'unica mia religione, è quella del dubbio. Deve essere questo a
conferirmi la deambulazione claudicante che Lei ha descritto. Allora quale può essere il comportamento
dell'ateo nei confronti della morte? La questione può apparire un po' riduttiva, ma mi sembra che ingloba in
sé tutto ciò che mi è venuto in mente ascoltandoLa. Giacché mi dico che se si capiscono bene i problemi
della nascita, i problemi che l'uomo incontra volta per volta nella propria vita, e gli ostacoli che possono
dargli una morale o una condotta, può darsi che nel momento della morte, il comportamento dell'ateo
provocherà in lui, proprio perché si tratta di qualcuno che dubita, una nuova interrogazione sulla nozione di
Dio. La mia questione è dunque la seguente: qual'è il comportamento dell'ateo di fronte alla morte?
Alain Gérard:
Ho avuto occasione d'incontrare anni fa un medico che aveva esercitato in una casa di riposo per preti e
che aveva quindi avuto modo di curare in articulo mortis numerosi preti (che per definizione sono dei
credenti convinti). E gli avevo posto questa domanda: questa gente reagisce alla morte più serenamente
degli altri? La sua risposta era stata che reagiscono più serenamente alla morte degli altri, ma non alla
propria morte. Ciò vuol dire che la morte è un fenomeno naturale che si presenta nella stessa maniera ad
un ateo e ad un credente. Essa è in ogni modo da affrontare, da superare in se stessa in una maniera che è
similare per tutti. Essa conferisce addirittura una certa dimensione alla vita umana. Ed a tutta la vita. Non
c'è vita senza la morte. Ed è un bene, perché se non ci fosse la morte non ci sarebbe nemmeno la nascita. Ci
sarebbero molte cose da dirne, in particolare sulla situazione della morte nella nostra società attuale, ma la
cosa rischierebbe di portarci lontano. Ma in realtà, quando si pone questa domanda, non è alla morte
stessa che si pensa in definitiva: è a ciò che avviene (o che non avviene) dopo la morte. E' la questione della
vita dopo la morte e dell'aldilà. Credo che la questione sia indipendente dalla questione di Dio. In piena
logica, si può perfettamente concepire una sopravvivenza dopo la morte, sotto una forma qualsiasi, in
assenza di Dio. E' quello che professa il buddismo, com'è noto. Quindi a ciascuno di decidersi. E' un
problema in sé. Certo, la religione le raggruppa ambedue. Come Lei dice, la questione di Dio è la questione
totale. Si può quindi considerare che essa ingloba questo problema come tutti gli altri. Credere in Dio ed
aderire all'idea di quest'essere superiore è un modo per dare un'altra dimensione alla vita dell'uomo.
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L'eternità di Dio implica quasi automaticamente un'eternità della vita dell'uomo. Ma se vi si riflette
attentamente, non è evidente. La religione è un fenomeno sociale, culturale e storico molto complesso, è
un problema ambivalente, polimorfo. Il fenomeno di Dio è beninteso al centro della religione, ma non è da
solo tutta la religione. E la religione non è soltanto il fenomeno di Dio. Si può perfettamente evocare il
problema di Dio al di fuori di qualsiasi idea di religione. E' un po' quello che ho cercato di fare. Credo che
occorre seriare i problemi di cui la religione fa l'amalgama. Perché la religione sarebbe un problema di tutto
o niente? Non c'è ragione per cui non possa essere analizzata e studiata in ciascuna delle sue componenti
separatamente. E' vero ch'è raro incontrare qualcuno che crede in Dio senza inserire questa credenza nella
specie di magma che costituisce il fenomeno religioso nel suo insieme. Il problema della vita dopo la morte
e spesso legato al problema di Dio in seno alla religione. Ma se si considera il problema di Dio in se stesso,
come abbiamo cercato di fare qui questa sera, la questione di ciò che c'è dopo la morte è un problema
differente che non è necessariamente legato a quello di Dio. Si può perfettamente concepire l'esistenza di
Dio senza che vi sia una vita dopo la morte per l'uomo. Ed inversamente. Un ateo può credere in una vita
dopo la morte. Non ci sarebbe alcuna incoerenza, alcuna assurdità in questo. Alla stessa maniera che si può
concepire un Dio che sia buono ma non onnipotente, o onnipotente ma non buono, etc. La mia risposta è
quindi che, di fatto, le due interrogazioni sono il più delle volte legate, ma che non lo sono necessariamente
nella logica, e che quindi possono essere considerate in maniera del tutto separata. La vita dopo la morte è
un'interrogazione in sé che può essere pensata indipendentemente dal problema dell'esistenza di Dio.
L'aldilà e la sopravvivenza dopo la morte sono da risolvere e decidere per l'ateo come per il credente. Ci
sono molte forme di vita dopo la morte, c'è il Paradiso, l'Inferno, ecc. C'è l'ineffabile conoscenza del Budda
“svegliato”, che non è il nulla ma una liberazione totale. A ciascuno di giudicarne. Ma anche questo ci
condurrebbe lontano, e credo che il problema di Dio da solo sia sufficientemente ricco per la discussione.
Vedete quant'è difficile parlare del problema di Dio. Si scivola subito su aspetti che non sono propriamente
parlando il problema di Dio.
Un ascoltatore:
Due domande. La prima verte sulla morale. Lei ha detto che la nozione di peccato era ingiusta perché
decretava qualcosa di negativo per tutti, mentre gli individui sono tutti differenti, e che questo equivale ad
applicare una regola unica a casi che non hanno necessariamente rapporto gli uni con gli altri. Ma quello
che Lei rimette in causa qui, non è affatto la nozione di peccato in quanto tale, è il carattere di qualsiasi
norma e qualsiasi universale nel campo morale. La critica che muove qui, d'altronde a mio parere
impossibile e insostenibile, è la rimessa in causa dell'idea di divieto universale. Ora la morale esiste solo
attraverso questo. E' difficile delimitare il contenuto dell'universale che farà oggetto di un divieto e per
niente la nozione di peccato che non ha significato religioso se non nel fatto che tale o tal altra mancanza è
dichiarata peccato in quanto dispiace a Dio. Questo mi conduce ad una conclusione sull'omosessualità che
mi appare allora ancora più insostenibile. Voglio pure e perciò accordarLe che l'omosessualità non è una
condotta deliberatamente scelta ed una tendenza vissuta o subita, ma decretare per questo che non può
essere condannata mi sembra...
Alain Gérarad:
Attenzione! Ho semplicemente detto che condannare l'omosessualità come qualcosa che costituisce un
peccato era un'assurdità perché si tratta di una pulsione che non dipende dalla volontà dell'individuo.
L'ascoltatore:
A questo punto, tanto vale rinunciare a far scaturire una condanna morale per un individuo che, perché non
l'ha scelto e perché è innata in lui, ha come tendenza, non l'omosessualità ma per esempio il tagliare
bambini a fettine dopo averli violentati.
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Alain Gérard:
L'omosessualità non ha nulla a che vedere con questo. Sono due problemi completamente differenti.
L'ascoltatore:
Certo. Ma voglio dire che se Lei rifiuta la condanna dell'omosessualità in nome del fatto che non è una
condotta veramente scelta, ciò vuol dire che alcuna condanna morale può riguardare una condotta che non
è scelta deliberatamente, per esempio una tendenza criminale sadica o altro. Non ho alcun desiderio di
condannare l'omosessualità, ma la ragione per la quale Lei la sottrae a qualsiasi condanna mi sembra che
non sia legittima. La mia seconda domanda è per sapere, dopo tutto quello che Lei ha detto, tra le persone
che hanno un'istruzione che va oltre il livello CM2 [scuola media di II grado, ndt], un QI che supera 70 e un
minimo di buona volontà o coscienza morale, come possano esistere ancora credenti. L'insieme delle ragioni
che Lei ha addotto per spiegare l'ateismo, che si possono rispettare ed anche approvare, sembra comunque
talmente semplice che ci si chiede come persone che hanno un'istruzione un po' elevata o un'intelligenza un
po' sviluppata o un senso morale un po' marcato possano non averci pensato. Ci sono comunque persone
che professano una fede religiosa, che hanno affrontato le questioni che Lei ha posto e che hanno riflettuto
al fatto per esempio che i miracoli non erano forse tanto facili da conciliare con la razionalità. La critica dei
miracoli, la critica del male, sono cose che sono molto conosciute, sono problemi che sono stati posti mille e
più volte. Non penso che il semplice fatto di menzionarli di nuovo sia sufficiente a fondare veramente una
coscienza atea nelle circostanze attuali. Non è facile l'ateismo. Ma proprio perché non è facile penso che
bisognerebbe dargli fondamenta più solide del semplice dire che i miracoli è Dio che ne salva uno tirando a
sorte. Credo però che se Dio fa miracoli non c'è alcuna ragione di pensare che tira a sorte. Il paragone non
mi sembra molto legittimo. Non c'è ragione di pensare che non scelga, che non abbia le sue ragioni.
Alain Gérard:
Risponderò prima alla Sua seconda domanda. Non discuterò sul problema dei miracoli: Le ho detto che era
a mio parere un argomento molto debole che menzionavo semplicemente come promemoria. Per ciò che
riguarda le altre ragioni che ho dato, prima di risponderLe credo che occorra risistemare le cose in un
contesto molto più ampio. Parliamo qui di un problema che è forse il più complesso ed il più sensibile di
tutti. Facciamo ben attenzione a non smarrirci. D'altronde, per mancanza di tempo ho abbordato qui solo
molto rapidamente l'aspetto più propriamente filosofico della questione. Faccio notare che se gli altri
argomenti, come quello del male, sono vecchi, non vi è stata ancora data risposta soddisfacente. Ma non è
da qui che Le risponderò. Credo di aver detto che gli argomenti razionali non erano né sufficienti né
determinanti per spiegare il fenomeno religioso, ed ho insistito sull'importanza del fattore affettivo, o
mistico, o irrazionale, come vuole. C'è nella credenza in Dio non soltanto qualche ragione ma un'infinità. E
parimenti nell'ateismo. Ciò vuol dire che il fatto di non trovare risposte a tal o tal altro argomento può
perfettamente non essere sufficiente per decidersi sul problema nel suo insieme. I non credenti devono
ammettere che si può restare credenti pur non trovando risposta soddisfacente al problema del male, per
esempio; ma inversamente, i credenti devono comprendere che, per convincere i non credenti non basta
parlar loro di dogmi e divieti. In altri termini ancora, credo che si possa ricusare sia Theillard de Chardin che
Lévi-Strauss. Non cerco di far aderire nessuno. Il discorso che tengo è semplicemente il seguente: bisogna
prendere atto che c'è, oggigiorno, un numero molto importante di persone che nella società moderna non
credono più in Dio e non praticano più nessuna religione, e a queste persone non è apportata alcuna
risposta né alcuna contestazione che vada sul fondo del problema. Non si tiene conto della loro opinione.
Non sento da nessuna parte oggi una predica o un discorso qualsiasi proveniente da un credente, che sia
pure il papa, un rabbino o un mullah, che venga a dire: figlioli bisogna credere in Dio perché questo o
perché quello. Mai. Anche da parte degli integralisti. Soprattutto dagli integralisti. Là è ancora peggio,
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perché costoro non immaginano neppure che si possa non credere in Dio. Per costoro la cosa non esiste.
Come neppure da noi esisteva nel Medio Evo. E presso certi integralisti, presso i fondamentalisti americani
non esiste nemmeno.
L'ascoltatore:
La stampa dei testimoni di Geova o delle sette fondamentaliste americane è piena d'argomenti e di ragioni
per credere in Dio.
Alain Gérard:
Sono molto elementari, non è serio.
L'ascoltatore:
Le loro argomentazioni riguardanti l'evoluzione ed il darwinismo, per esempio, mi sembrano d'un livello che
non è così elementare. Non sono affatto d'accordo con loro, ma non bisogna sottovalutarli, altrimenti si
rischia di incorrere in qualche disappunto. Non sono sicuro che il primo venuto sia capace di discutere degli
argomenti contro il darwinismo e l'evoluzione.
Alain Gérard:
Ah, ma è proprio per questo che è pericoloso, e proprio per questo che di fronte a queste dottrine occorre
proporre altro, bisogna spiegare che c'è altra cosa possibile, che non è l'unica soluzione. Davanti ai
fondamentalisti, davanti agli integralisti, davanti agli islamici, bisogna dire che non è né evidente, né
necessario, né automatico credere in Dio e che vi sono altre possibilità, altre interpretazioni del mondo,
altre rappresentazioni delle cose, e che si può perfettamente vivere, agire avere una morale, obbiettivi,
entusiasmi, speranze, senza fare riferimento ad un Dio. Non bisogna lasciare quelli che vengono a dire che
non c'è altra spiegazione alle cose della vita e del mondo senza contraddittorio. Quello che è drammatico è
la certezza. Non bisogna strappare gli integralisti dalle loro convinzioni e dalla loro credenza, ma dalla loro
certezza. E' dalla certezza che nascono le oppressioni. E ci può perfettamente essere una religione
nell'incertezza. Questo le conferisce addirittura maggior grandezza. E' vero che c'è uno sgomento nella
società moderna, per una moltitudine di ragioni. C'è una richiesta, e ci sono alcune risposte che sono
fornite. Ma ce ne sono altre che non lo sono. Non cerco per nulla d'impedire alle persone di credere in Dio.
Non cerco di strappare nessuno dalla propria fede. L'unica cosa che auguro è che ciascuno sappia che esiste
un'altra forma di pensiero della credenza in Dio, una forma di pensiero che regge, che è coerente, che ha
profondità, significato, senso, e più d'un vantaggio sulla religione- e che non c'è ragione per non lasciarla
esprimersi, di non comunicarla. In certi ambienti quando si afferma d'esser ateo e che si vuole spiegarlo, si
riceve come risposta: non sia blasfemo. Ci sono ancora oggi in certi paesi uomini e donne che sono
condannati a morte perché affermano di non essere credenti. Questo esiste ai giorni nostri, nel XX° secolo.
E ciascuno sa che questo è esistito fino alla fine del XVIII° secolo in tutti i paesi cristiani d'Europa e
d'America. Tutto ciò non è così lontano. Ed è perciò che ho concluso con quest'aforisma dicendo che non
era accettabile se non con il suo contrario. Sono possibili tutti e due. Non dico per niente che l'unica forma
di pensiero ammissibile sia l'ateismo: dico che l'ateismo non è l'indifferenza, l'ignoranza o la frivolezza, che
è una forma di pensiero che esiste, che ha la sua coerenza, che ha la sua morale e che non c'è nessuna
ragione per non lasciarla collocare di fronte alle altre. Adesso ritorno alla Sua domanda sul peccato. Preciso
come intendo la nozione di peccato. In tutte le religioni monoteiste, esistono codici di condotta (la Torah, il
Corano, le Epistole di San Paolo) che contengono disposizioni, divieti, obblighi che sono in generale molto
generici, e che sono da prendere tali e quali, senza discussione, senza accomodamento, senza sfumature.
Ciò che obietto a questo è che la valutazione della condotta e del comportamento degli uomini è molto più
sottile e deve essere molto più sfumata. Per tornare all'omosessualità, non condanno, non giudico. L'unica
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cosa che osservo è che in tutti i codici religiosi l'omosessualità è condannata e spesso sanzionata con la
pena di morte. Ora se gli omosessuali sono omosessuali non vi possono nulla, non è colpa loro, sono così.
Che sia un problema ghiandolare, o un problema di determinazione psicologica durante l'infanzia, vi sono
quantità di spiegazioni possibili, ma resta comunque il fatto che un bel giorno si accorgono che sono attirati
dallo stesso sesso e non dal sesso opposto. A questo non c'è condanna possibile. Non di più del fatto che
Lei non può dire che il fatto di essere grande o piccolo è un peccato. La valutazione o l'applicazione d'una
regola di condotta non può verificarsi sotto questa forma rude, massiva, globale. Evidentemente
l'omosessualità è un caso estremo. Citavo il caso dell'astinenza, o almeno della temperanza, che è
considerata una virtù. Ma se la temperanza è una virtù, non è tanto una virtù per un impotente quanto per
un maniaco sessuale. Dunque il fatto di dire che colui che si modera nei rapporti sessuali è virtuoso per
questo solo fatto considerato nella sua manifestazione esteriore, è profondamente ingiusta. Lo sforzo non è
lo stesso nei due casi e non li si può giudicare alla stessa maniera. Un vero codice morale deve prendere in
conto la personalità dell'individuo, la sua psicologia, la sua mentalità. Tutte queste sfumature non esistono
nella nozione di peccato. Decretare che la temperanza è una virtù e fare di questa imposizione un criterio di
valutazione della moralità degli individui è un metodo del tutto insufficiente.
L'ascoltatore:
Ma questo non ha nulla a che veder con la religione.
Alain Gérard:
Ah, ma si, mi dispiace. Tutte le religioni procedono in tal modo, giustamente.
L'ascoltatore:
Ma quello che Lei ricusa in questo caso è la norma in quanto è universale, e semplicemente perché manca di
sfumatura, di sottigliezza, perché la persona umana è complicata. Lei ha pienamente ragione di prendere la
difesa dell'omosessualità e di rifiutare la sua condanna come peccato. Sono interamente d'accordo con Lei
su questo. Ma non penso che si possa ricusare questa condanna per la ragione e l'argomentazione che Lei
adduce, vale a dire perché sarebbe una tendenza incontenibile, spontanea e rispondente ad un
determinismo sul quale l'individuo non esercita padronanza. Perché a questo punto si potrebbe dirne
altrettanto di qualsiasi tendenza sulla quale l'individuo non esercita padronanza, compreso una tendenza
per esempio alla violenza.
Alain Gérard:
Niente affatto, quello che voglio dire è che una regola morale non deve essere applicata secondo un
principio universale come quello lì, ma secondo le condizioni generali nelle quali ha luogo. Lei confonde le
conseguenze sociali delle azioni dell'uomo ed i meriti che gliene si possono attribuire. Sono due campi
visivi che non coincidono. E l'errore del sistema del peccato è giustamente di farli coincidere. Lei fa
esattamente lo stesso errore delle religioni con il loro sistema del peccato. Prendiamo il caso della violenza.
Perché non condannare l'omosessualità? Perché gli omosessuali non fanno male a nessuno. Invece colui
che, come Lei diceva, viola e taglia a fettine dei bambini, là non è evidentemente ammissibile e la
condanna è indispensabile.
L'ascoltatore:
Ma qui, la ragione che Lei dava prima, non la dà più per niente.
36
Alain Gérard:
Ma invece si, per l'appunto. Prenderò un altro esempio del tutto differente. Lei ha parlato di principi
universali. Ma non ci sono principi morali universali. Ci sono società che praticano il crimine rituale e nelle
quali il fatto di dare la morte al proprio simile è considerato una virtù. Non c'è fatto umano che non trovi da
qualche parte una forma di giustificazione. Anche il fatto di togliere la vita al proprio simile. Non voglio dire
che non bisogna condannare gli assassini. Voglio dire che non bisogna soltanto considerare il precetto a
partire da esso stesso ma a partire dalle sue implicazioni sociali. C'è da un parte l'intenzione dell'individuo e
dall'altra parte le conseguenze del suo atto. C'è ancora il contesto culturale che può variare
considerevolmente da uomo a uomo. E' tutto ciò che fa il valore d'una virtù, d'una regola morale, e non
soltanto uno dei punti di valutazione. Non si troverà un solo principio morale che sia applicabile
universalmente a tutti gli uomini, di qualsiasi cultura, tradizione, mentalità facciano parte. Noi, io, Lei,
diciamo certo evidentemente che ci sono dei principi da rispettare in ogni circostanza, e “non uccidere” ne
è certamente uno, non fa ombra di dubbio. Ma anche per questo principio se troviamo qualcuno che
l'infrange, non è sicuro che non lo faccia ritenendo di far bene. Bisogna impedire gli omicidi rituali là dove
esistono, ma non bisogna dire che gli autori di tali omicidi rituali siano colpevoli nella stessa maniera del
Suo sadico pedofilo o dei volgari sordidi crimini delle nostre società industriali. Quando gli Spagnoli sono
arrivati in Messico dopo Colombo, hanno trovato gli Aztechi che praticavano l'omicidio rituale in scala
quasi industriale. Certamente era abominevole. Per la ragioni che ho detto prima: il mio prossimo è il mio
simile, e se faccio male al mio prossimo devo ammettere che il mio prossimo faccia del male a me stesso,
ecc. La compassione può nascere da questa semplice constatazione. Per di più la messa a morte è il solo
male che sia irreversibile, irreparabile. Anche per il credente, perché anche per la religione nessuno può
rivivere in questo mondo qui dopo la morte. La similitudine tra tutti gli esseri umani implica il rifiuto di dare
la morte in qualsiasi circostanza. Non è necessario che Dio l'abbia ordinato per arrivare a questa
conclusione. Ma gli Aztechi non la facevano quella constatazione. Quelli che erano sacrificati nei loro riti
erano guerrieri d'altri popoli catturati in combattimento, che non erano considerati uomini. Erano
sacrificati come cibo per gli dei che avevano bisogno di sangue per sussistere, per continuare a distillare i
loro benefici agli Aztechi stessi. Dire agli Aztechi come l'hanno fatto gli Spagnoli “non uccidere” non aveva
alcun senso. Gli Aztechi non hanno compreso. Si sono detti: questi Spagnoli sono pazzi, voglio che gli dei
muoiano di fame! Bisognava spiegarsi, giustificarsi. Bisogna dire anche che siccome gli Spagnoli non si
privavano essi stessi d'ammazzare a casaccio, questo rendeva le cose ancora più complicate... L'assassinio
di bambini o il sordido delitto di casa nostra ci fanno “male”, ma non si poteva dire che gli Aztechi facevano
“male” nella stessa maniera. Ora i missionari cattolici spagnoli lo dicevano. Da cui la conclusione che gli
indiani d'America non erano uomini come gli altri. E l'assassinio è evidentemente il caso più violento, ma
succedeva lo stesso per precetti infinitamente meno importanti, come il modo di vestirsi, di vivere con i
propri, di fare l'amore, etc. E per i missionari cristiani, in tutta la storia, tutti quei precetti, anche i più
anodini, erano considerati come se si trattasse di principi universali. Ed è così che i missionari cristiani
hanno assassinato quantità di culture nel mondo e tolto l'identità a quantità di popoli. Certo i cristiani non
ne sono più a questo oggi, ma i mullah iraniani si, ed a mio avviso, Giovanni Paolo II pressappoco pure. E'
un problema che non è teorico. E' ancora presente tutti i giorni intorno a noi nelle nostre società moderne.
Prendiamo l'escissione delle donne africane. E' abominevole questa tortura inflitta alle donne. Ma perché
gli Africani fanno questo? La cosa s'inserisce in tutto un contesto cosmologico secondo il quale gli uomini e
le donne nascono sessualmente neutri. I bambini sono asessuati. Non hanno che un abbozzo di sesso. E per
poter avere un sesso completo ed entrare così nella società degli adulti, debbono subire un'operazione che
gli completa in qualche modo il sesso incompleto che hanno alla nascita. L'escissione delle donne ha come
controcampo le circoncisione degli uomini, è togliergli una pelle “femminile” per lasciargli al sesso
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l'integralità delle caratteristiche maschili, e l'escissione delle donne è levar loro un membro “maschile” per
lasciarle al sesso l'integralità delle caratteristiche femminili. Quest'operazione rende le donne
completamente donne, come la circoncisione rende gli uomini completamente uomini. La donna africana
che non ha subito l'escissione non può sposarsi, non può entrare nella società degli adulti. Allora quando
queste poverine arrivano in Francia e che fanno la stessa cosa alle loro figlie e che sono messe in prigione
non capiscono niente. Non che non bisognava fare tutto per arrestare queste pratiche mutilanti e
traumatizzanti, ma non è in questo modo che bisogna farlo. Il concetto di peccato, con il suo carattere
monolitico e uniforme, basa le regole di morale sulle apparenze e sul loro risultato finale più che sul loro
fondo e sulle loro ragioni costitutive, e non prende in considerazione le differenze di fatto che ci sono tra
gli uomini. E' insufficiente perché gli uomini sono differenti e non possono di getto applicare tutti gli stessi
principi di comportamento dall'alto in basso della scala morale. Ed il fatto che gli uomini abbiano principi di
comportamento differenti non deve impedirgli di comprendersi e coabitare.
Un ascoltatore:
L'idea di Dio non sarebbe imputabile alla debolezza dell'uomo, o non sarebbe un antidoto all'angoscia che
c'è a prendere in considerazione una libertà responsabile?
Alain Gérard:
Credo che non si debba mai sottovalutare l'uomo. Se ci sono persone che non si sentono forse capaci
d'affrontare un mondo senza riferimenti o senza ricorsi, bisognerebbe vedere perché essi hanno
quest'atteggiamento. Bisogna vedere come gli si presenta la rappresentazione delle cose. Può darsi che sia
una carenza d'informazione o un difetto d'educazione. Vivono in un contesto che non favorisce questo tipo
d'atteggiamento, che ne favorisce un altro. Ci sono persone che hanno interesse a che alcuni restino
nell'asservimento e la sottomissione. Ciò può essere vero fisicamente, politicamente, può essere vero
intellettualmente. Per alcuni è un buon modo per avere sempre ragione sugli altri mantenerli nella paura. Si
può aspirare ad essere maestro degli altri in maniera temporale ma anche intellettualmente. Vero è che ci
sono persone psicologicamente più esitanti, più timorate d'altri, ma non è un'iniziativa positiva, direi
addirittura utile, partire da questa constatazione. Meglio partire dall'idea che gli uomini hanno tutti la
possibilità d'affrontare il proprio destino se ve li si prepara, se gli si spiega, non si omette di mostrargli i lati
positivi ed i vantaggi. Se veramente ce ne sono che sono meno ben corazzati, si può sempre occuparsene
d'una maniera o l'altra. Ma non bisogna cominciare da lì. Non bisogna prendere l'uomo in considerazione
cominciando a degradarlo. E poi qui c'è un atteggiamento un po' paternalistico e sprezzante: se gli altri non
sono capaci, io lo sono. Io preferisco dire che tutti sono capaci d'assumere un comportamento di
responsabilità e d'iniziativa. In ogni modo se si è convinti che tal è la realtà, si è proprio costretti a dirla.
Non è mai una soluzione nascondere la verità. E se ce ne sono che soffrono veramente sarà sempre tempo
di farsene carico.
Un ascoltatore:
Una domanda un po' sociologica. La religione e la credenza in Dio sembrano essere appartenuti all'umanità
da quando si hanno informazioni su quello che gli uomini pensano. Non si conosce cultura che non sia
munita di religione. L'uomo ha sempre avuto l'idea di Dio. Il calo della religione è senza dubbio stato un
fenomeno concomitante all'ascesa in potenza d'una credenza nel progresso. L'evoluzione materiale ed
intellettuale dell'umanità è stata considerevole nei due ultimi secoli. Ma questa fede nel progresso comincia
seriamente ad essere battuta in breccia. Non si può dire che da dieci anni a questa parte le cose si siano
evolute positivamente. Si è passati dal paradigma del progresso al paradigma del mercato. Il progresso
poteva sostituirsi alla religione. Il mercato non è qualcosa di così esaltante. Non si è attualmente in una
situazione pericolosa, dato che la religione è sprofondata, la credenza nel progresso, che poteva sostenere i
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non credenti sta sprofondando? Non c'è qui una crisi di cui il primo sintomo sarebbe la moltiplicazione delle
sette, che è una specie di tentativo disperato di trovare da qualche parte un senso che ridona speranza?
Alain Gérard:
La risposta che si può formulare è un po' la stessa di quella che davo alla domanda precedente: non bisogna
sottovalutare l'uomo. Ma ci sono parecchi punti nella Sua domanda. Innanzitutto, che gli uomini hanno
sempre creduto in Dio è vero, ma essi hanno pure creduto che il sole girava intorno alla terra. Ci sono
conoscenze che si rivelano agli uomini e che sono irreversibili, irrecusabili. Il modo di verità della modernità
è l'incertezza, ma in questa incertezza vi sono certezze parcellari che vengono a prendere posto (al
contrario della posizione religiosa che dice che c'è una certezza globale, assoluta, nel quadro della quale
non vi possono affatto essere incertezze). Il fatto che gli uomini hanno sempre creduto in Dio non
conferisce necessità strutturale o logica alla credenza in Dio come tale. Le conoscenze acquisite dagli
uomini non eliminano ogni possibilità dell'esistenza di Dio , ma la rendono a colpo sicuro meno decisa, o
meno monolitica. Adesso, è vero che c'è una crisi dell'ideologia del progresso così com'era uscito
dall'Illuminismo. Ma non penso che essa sia completamente scomparsa. E' vero che è cambiata, non ha più
la stessa connotazione morale. Nessuno più spera in un cammino dell'umanità verso la felicità e la pace
come credeva Condorcet o Renan. Quello che invece sussiste sempre è il fatto di non rassegnarsi alla sorte
presente. Il che è una forma d'ideologia del progresso. La non accettazione della propria sorte resta
indubitabilmente una caratteristica della società attuale ed una forma d'ideologia del progresso se la si
oppone alla situazione delle vecchie società tradizionali dove c'era una totale rassegnazione alla propria
sorte. Non c'era nemmeno l'idea che si potesse cambiare condizione. La vita era com'era per l'eternità e
bisognava sopportarla così. L'uomo moderno non si rassegna: conserva sempre la nozione d'una possibilità
di miglioramento della propria sorte, dunque una forma di progresso. La crisi attuale è prima di tutto una
crisi economica, più che morale. O crisi morale perché crisi economica. Bisogna uscire da questa crisi. Ci si
arriverà probabilmente dando alle persone un supplemento di responsabilità, un supplemento di libertà, un
supplemento di compassione. Le sette sono una delle numerose conseguenze di questa crisi. Bisogna
combatterle, ma non bisogna darci troppa importanza. E' un problema che accosterei maggiormente a
quello della droga che a quello delle religioni. E' una fuga. Questo sintomo particolare dovrebbe poter
essere veramente combattuto, come altri, solo attaccandosi in maniera molto più larga all'insieme dei
problemi che incontriamo oggi. E' come questo o quel problema che si vuole risolvere puntualmente, a
spizzico , mentre non potrà esserlo se non attraverso una riforma molto più ampia. La crisi che
attraversiamo è una crisi di società, e tal o tal altro problema che ne deriva non sarà risolto da solo. Occorre
attaccarsi all'insieme. Le sette sono un sintomo fra gli altri.
Un'ascoltatrice:
Vorrei che Lei approfondisse la differenza che fa tra l'ateismo e l'agnosticismo.
Alain Gérard:
Di norma l'ateismo nega l'esistenza di Dio. Afferma che Dio non esiste. Mentre l'agnostico dice che non sa.
L'etimologia dei termini lo dice: “a-theos”, senza Dio, “a-gnosis” senza conoscenza. Non mi sono attardato
sulla sfumatura, perché, in rapporto al problema posto, non cambia tanto le cose. Ci possono essere
svariati tipi d'agnosticismo. C'è un agnosticismo di comodità o d'indifferenza. E c'è un agnosticismo che è
uno scetticismo fondamentale, che afferma che non c'è alcuna possibilità di sapere. Per questo
agnosticismo il credente, checché ne dica, non può saperne di più dell'agnostico. E' un po' l'atteggiamento
che ho difeso. Nello stesso tempo è per il fatto stesso un atteggiamento tollerante. I due aforismi con i quali
ho concluso prima, esprimono una forma d'agnosticismo. In ogni modo i termini sono inadeguati. Sarebbe
un buon esercizio per una classe di filosofia provare a trovare un altro nome per l'ateismo, che non sia
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un'espressione negativa, al fine d'evitare il perpetuo riferimento a ciò che rigetta e per dargli un
qualificazione in sé. Si potrebbe pensare ad “autonomismo”, forse. Bisognerebbe cercare.
Un ascoltatore:
Ma ci sono parecchi ateismi possibili. Come Lei ha così ben detto c'è un agnosticismo d'indifferenza, di
menefreghismo teorico, come ci può essere un ateismo d'indifferenza religiosa e di negligenza. C'è un
ateismo d'opposizione, che è un contro-teismo, o un anti-teismo. Ma ci può essere anche un ateismo che è
forse l'ateismo dell'avvenire che sarebbe un ateismo privativo ma non negativo, un ateismo che riposerebbe
sull'idea che la questione non si pone o non si pone più. Non siamo atei, noi oggi, per esempio, rispetto agli
dei del panteon greco. Non ci sarebbe alcun senso dire che saremmo atei di quegli dei. La questione per noi
non si pone più. Dire oggi “sono ateo” è professare un ateismo in rapporto a religioni che ci appaiono oggi
più pertinenti anche se le disapproviamo. Non si può escludere che venga un tempo in cui gli uomini (e
perché no tutti gli uomini, non ne so strettamente nulla, non so se bisogna augurarselo) siano atei di tutti gli
dei come noi lo siamo oggi degli dei del panteon greco. E quell'ateismo sarebbe un ateismo veramente
privativo. Dopo tutto, non è per forza negativo. Sebbene non credo che un ateo oggi possa essere altro che
un anti-qualcosa, poiché le religioni esistono di fatto e se egli è ateo occorre proprio che combatta in un
modo o nell'altro. Dopo tutto, non so perché bisogna aver vergogna e dire che non si cerca di convincere
nessuno. Se sono ateo, farò certo qualche sforzo per convincere, per guadagnare alla mia causa senza
utilizzare, beninteso, un qualunque mezzo coercitivo, essendo ateo. Ma perché dire per prima cosa “non
voglio convincere nessuno”? Ho proprio l'intenzione di convincere, essendo ateo.
Alain Gérard:
Non ho detto che non era mia intenzione non convincere qualcuno, ho detto che non volevo radunare
nessuno, imporre nessuno, in opposizione a certi atteggiamenti autoritari e coercitivo della religione.
Beninteso, se si discute, è per convincere, ma ci sono diverse forme di discussione. D'altra parte, non è
perché l'idea non è più relativa, o più polemica, che cessa d'essere negativa. Con quella denominazione
resta sempre negativa. Quello che voglio dire è che il concetto d'una rappresentazione del mondo senza
ricorso ad un fattore esterno qualsiasi, basta a se stesso, può auto-definirsi soltanto, e che non è quindi
necessario definirlo, con qualche nuance che Lei prospettava, in rapporto ad un altro concetto. Il problema
è che alcuni hanno giustamente tendenza ad abbassare quella rappresentazione ad un livello inferiore. Non
mancano persone per dire che l'ateismo non esiste se non in rapporto alla religione, e che è una posizione
inferiore: la prova, dicono, che non può definirsi che così. Sono degli argomenti che s'incontrano. Non è
importante, ma diciamo che sarebbe più logico e più chiaro che si potesse designare altrimenti questa
forma di rappresentazione del mondo. Ma non è facile da trovare.
Un ascoltatore:
C'è “materialismo”.
Alain Gérard:
Ah, no, giustamente, non materialismo. Ecco anche un'altra confusione. L'ateismo non è necessariamente il
materialismo, nel senso stretto che intendevano certi uomini di scienza della fine del XIX° secolo che
pensavano che la scienza sapeva tutto e diceva tutto e che non c'era più niente da cercare.
L'ascoltatore:
Ma questo non è il materialismo, è una caricatura meccanicista del materialismo.
Alain Gérard:
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Che cosa Lei chiama Materialismo allora?
L'ascoltatore:
E' una gran domanda. Arrischio una definizione che sarebbe evidentemente problematica e di conseguenza
da discutere. Intenderei per materialismo una concezione del mondo che considera che ogni cosa si spiega
con la materia e le sue leggi e si rifiuta di considerare che il mondo spirituale possa godere d'un primato
ontologico qualsiasi. Non vedo come questo includerebbe e implicherebbe l'idea secondo la quale il
funzionamento della materia debba ridursi ad un meccanicismo di tipo cartesiano quale quello al quale era
ridotta la fisica alla fine del XIX° secolo. A mia conoscenza non esistono materialisti che continuano a
aderire a questa posizione filosofica all'epoca dei quanta, all'epoca della relatività, e ciò non implica la
rinuncia a vedersi aprire nuove prospettive nella conoscenza del funzionamento della materia. Per “affogare
il cane” non si può accusarlo di rabbia e definire a priori il materialismo come una concezione che si
ridurrebbe al meccanicismo. Il materialismo è il rifiuto d'accordare al mondo spirituale un primato
ontologico.
Alain Gérard:
Bisognerebbe prima mettersi d'accordo su cosa s'intende per materia. Non è così semplice.
L'ascoltatore:
In senso filosofico, non in senso fisico. E' evidente.
Alain Gérard:
Ah, ma giustamente! Quando si parla di materialismo s'intende la materia in senso fisico. Ed ancora, nel
senso fisico classico. Perché la materia oggi non è più per niente quello che era nella fisica classica. La
materia oggi è diventata molto più difficile da definire. Si chieda ad un fisico che cos'è la materia.
L'ascoltatore:
In senso scientifico è certo, ma il senso filosofico non si è affatto evoluto allo stesso grado.
Alain Gérard:
Intendiamoci bene. La nozione di materia si è evoluta, la nozione di materialismo si è evoluta, allora si
rischia di non parlare delle stesse cose. Io, quando parlo di materialismo intendo la concezione del mondo
della maggior parte degli uomini di scienza della fine del XIX° secolo che era meccanicista e che considerava
la materia come un'entità in sé, con un'opacità, una ponderabilità (era il criterio essenziale) ed è ciò che
giustamente scompare nella fisica moderna.
L'ascoltatore:
Lei ha pienamente ragione. Bachelard ha scritto un libro che s'intitola “Il materialismo razionale” e che io
sappia Gaston Bachelard non può essere tenuto per colpevole d'aver fatto queste confusioni.
Alain Gérard:
Bachelard non intendeva il materialismo nello stesso senso degli uomini di scienza dell'inizio del secolo. Ma
questo rischia di portarci molto lontano. Grossomodo, se vuole, quello che voglio dire, è che c'è stata una
certa concezione del mondo che aveva la dimensione meccanicista nel senso in cui la s'intendeva ad una
certa epoca e che non è più sostenibile all'epoca attuale. E l'ateismo non può essere riportato a questo. Ma
ci sono ancora persone che hanno questa concezione. I marxisti, tra gli altri. Il marxismo è stato impregnato
di questa concezione. E' uno dei drammi del marxismo. Per Marx stesso, è forse più complicato, ma Lenin
aveva a questo proposito concezioni filosofiche d'un semplicismo spaventoso.
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L'ascoltatore:
Occorrerebbe vedere da vicino. Non sono pronto a spaventarmi a così buon conto. La definizione di
materialismo può non essere necessariamente compromessa con questo semplicismo.
Alain Gérard:
C'è un'altra nuance che interviene ancora e che è importante. E' l'idea d'esteriorità del mondo considerato
da questa concezione della scienza. E', nell'insieme, un mondo nel senso d'un insieme galileiano, in
opposizione al mondo della relatività o della fisica quantistica. E' un mondo in cui l'uomo non è implicato.
Lo scienziato, colui che lo guarda, lo studia, con quest'operazione non interviene nel corso degli
avvenimenti. Quel mondo è un semplice oggetto. Lo scienziato è davanti, come il mugnaio davanti al
mulino o l'orologiaio davanti all'orologio. E non è più sostenibile. Il solo fatto di darsi all'esperienza è un
intervento nello stesso processo sperimentato. Il che è una conferma dell'idea che l'uomo è parte
integrante del mondo. Non è spettatore: è attore. Ed in ogni caso. Questo cambia in maniera considerevole
le cose. Gli esseri della fisica quantistica sono esseri matematici, ed i fisici sono incapaci di pronunciarsi
sulla natura esatta del loro essere reale, se pur ne hanno uno. Che cos'è la materia, che cos'è il
materialismo in questo caso? Ogni azione dell'uomo sul mondo è un'azione dell'uomo su se stesso, e ogni
azione dell'uomo su se stesso è un'azione dell'uomo sul mondo. Ed il materialismo nel senso in cui lo
intendo io qui resta estraneo a questa concezione.
L'ascoltatore:
Assolutamente
Un altro ascoltatore:
Vorrei ringraziare Alain Gérard per il riequilibrio che opera tra i credenti ed i non credenti. E' vero che per
moltissimo tempo, ed ancora in certe aree del mondo, i non credenti non hanno avuto voce in capitolo. Sono
ateo, o agnostico, l'uno o l'altro, o l'uno e l'altro, non ne so nulla, ma non sono credente. Una seconda cosa
che vorrei dire è che penso che ogni uomo, scusate il termine, si gratta a suo piacimento. Alcuni hanno
bisogno d'una stampella, o di un ombrello, o di una cabina per salire, ed altri sono autosufficienti. Penso che
bisogna lasciare la libertà alle persone di vivere la vita come vogliono. Una terza cosa che vorrei dire è, Lei
lo ha ben detto, che non bisogna bollare i credenti di debolezza, perché un argomento porta un argomento
contrario. A me, per esempio, succede di dire: i credenti sono formidabili, sono arrivati a toccare l'assoluto,
mentre io, nel mio piccolo, non ci arrivo. Un ultimo punto: Lei ha parlato di ateismo, ma non ho sentito
parlare d'umanesimo. Per me, un umanista è qualcuno che si occupa degli uomini, che vive nella società
degli uomini e che forse non ha bisogno di Dio o lo dimentica mentre è con gli uomini perché c'è tanto da
fare sulla terra che forse non c'è tempo per occuparsi di Dio.
Alain Gérard:
Penso che si possa perfettamente toccare all'assoluto essendo ateo. Ma risponderò al Suo ultimo punto.
Che cos'è l'umanesimo? C'è un testo celebre di Michel Foucault che dice in sostanza che l'umanesimo è una
bottiglia con una bella etichetta nella quale si fa passare tutte “le merci cattive” (sono le sue parole) che ci
sono venute dal XIX° secolo. E' probabilmente andare un po' lontano. Sappiamo che Foucault era
strutturalista e lo strutturalismo è stata una teoria molto incompleta in ciò che concerne l'uomo ed il
soggetto. E' vero che questo genere di termine un po' vago e messo un po' in tutte le salse può veicolare
concezioni non sempre molto chiare. Ma credo che quello che si chiama comunemente umanesimo e del
tutto indipendente dalla religione e dall'ateismo. Per me l'umanesimo resta valido. E' un modo di vedere le
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cose che pone l'uomo in primo piano. Ci sono molti credenti che sono perfetti umanisti. Non è per niente
incompatibile, è del tutto un'altra cosa. Evidentemente gli integralisti non sono umanisti. Ma umanesimo e
credenza o ateismo, per me, sono nozioni differenti che non s'intersecano e non coincidono. Il modo in cui
concepisco l'umanesimo è il prolungamento di questa semplice constatazione che ogni uomo è un altro me
stesso e che di conseguenza quello che debbo provare nei suoi confronti è il sentimento della nostra
uguaglianza, e questo è indipendente dalla credenza o non- credenza in Dio.
Un'ascoltatrice:
Lei ha detto che l'ateismo poteva essere un modo di vita. Si vive senza credenza in Dio. Si può benissimo
vivere con quelli che credono in Dio. Ma quando la gente crede in Dio, c'è dietro ad essa tutta un'istituzione,
c'è la Chiesa, c'è la nozione di gruppo, c'è un'appartenenza. E ci sono tutti quelli che sono nella frangia
situata tra credenza e non-credenza, che non praticano più ma continuano a sposarsi in chiesa e che
seguono ancora grossomodo i principi morali della religione. Di fronte a ciò, quale sentimento
d'appartenenza gli atei possono avere? Quale può essere la loro ricaduta della comunità cristiana? Cosa
significherebbe una comunità di atei? C'è anche questo problema qui: l'ateismo passerà le frontiere?
Un ascoltatore:
Si assiste attualmente ad un arretramento delle ideologie religiose, ad una perdita di riferimenti politici, ed
anche ad una cosa della quale Lei non ha parlato a proposito dell'economismo: la disoccupazione. Andiamo
verso una società nella quale ci sarà sempre meno lavoro e quindi a livello del lavoro ci saranno minori
riferimenti, mentre è importante come mezzo di conferimento di senso, come significato della vita. Tutti
questi riferimenti, politici, religiosi, economici, scompaiono nello stesso tempo. Non pensa che sono molte
cose in una volta?
Alain Gérard:
Ci sono numerosi problemi in queste domande. Un primo punto sul quale rispondo rapidamente, è quello
dell'universalismo dell'ateismo. L'ateismo è una particolarità occidentale, europea, vedi forse francese, un
po' come una certa laicità è una particolarità francese? E' un'impressione che si ha talvolta. Si sente talvolta
dire che paesi come la Spagna o l'Italia sono profondamente credenti. Non è vero. Conosco abbastanza
bene questi due paesi per averci vissuto, è vero che sono paesi che hanno un passato molto impregnato di
cattolicesimo, ma c'è nella Spagna come nell'Italia moderna almeno altrettanti non credenti come in
Francia o altrove. Le istituzioni non sono le stesse, le abitudini culturali sono diverse, e non appaiono
sempre nella stessa maniera, ma vi assicuro che la realtà è del tutto simile. C'è anche il caso dei paesi anglosassoni e specialmente degli Stati Uniti. Sapete che nessun americano vi dirà praticamente mai che non ha
religione. Invece gli Americani vi parlano di atei protestanti ed atei cattolici. Non invento nulla. Sono
espressione che ho sentito. Lì anche, i modi d'esprimersi, le abitudini sono altre, ma il fondo delle cose non
è tanto diverso. Credo quindi che si possa dire che l'ateismo moderno è un fenomeno limitato a l'uno o
l'atro paese in particolare. Invece c'è un altro problema, che è effettivamente importante, giacché si tratta
di un'obiezione sollevata spesso da credenti. L'ateismo sarebbe una forma d'atomizzazione della società.
Colui che perde la fede si de-socializzerebbe in qualche sorta. O, in altri termini, la religione sarebbe un
cemento sociale che nell'ateismo non sarebbe sostituito da nulla. E sotto quest'aspetto particolare la
religione sarebbe indispensabile alla società e la sua scomparsa sarebbe un fattore di dislocamento difficile
da superare. Personalmente non lo credo. E' smentito dai fatti. Il sentimento sociale, il sentimento di
compassione e di solidarietà esiste integralmente in una società laica. Direi addirittura che esiste forse
maggiormente, perché è diretto, è immediato. Non passa per un intermediario, esiste perché è sentito.
L'ateo non ama il prossimo perché gli viene ordinato. Ama il suo prossimo perché osserva da sé che il suo
prossimo e simile a lui, che fa le stesse sue cose, che vive con lui. E' più immediato, più diretto. Non
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immaginiamo una società, un gruppo sociale, che non conosca la compassione. Non può esistere. Colui che
non prova alcuna compassione per i suoi simili non può vivere. Se c'è disintegrazione sociale non è
l'ateismo a provocarla. E' come la perdita di senso di cui tanto si parla, è più una questione di senso sociale,
vale a dire che è un problema d'organizzazione economica, d'organizzazione politica, che sono insufficienti,
che sono inadatte, perché anch'esse sono state superate dagli avvenimenti. E questo ha poco a che vedere
con le interrogazioni filosofiche e religiose. La migliore prova, è che uno dei collanti della società attuale, è
il movimento associativo. Il movimento associativo è sempre molto attivo e cerca di combattere, di
compensare, di riparare i danni del movimento disintegrante dominante. Alla stessa maniera, i grandi
movimenti umanitari dell'epoca moderna sono stati tutti creati da non credenti. “Amnesty International”,
“Medici senza frontiere”, ecc. Victor Schoelcher era ateo dichiarato e alla sua epoca molti credenti si sono
opposti alla sua legislazione sulla soppressione della schiavitù e l'hanno combattuta. La realtà delle cose
dimostra che il fatto di non porsi sotto il segno della religione non genera la disintegrazione della coesione
sociale.
Un ascoltatore:
Il matrimonio religioso continua ad essere praticato,anche da parte di non credenti, perché offre una forma
di cerimonia che non offre il matrimonio civile. E' ancora più vero per i funerali, poiché i funerali civili non
sono nemmeno una cerimonia, sono un'assenza di cerimonia. E' doppiamente triste. Molta gente sceglie i
funerali in chiesa perché questa offre una cerimonia. Non c'è una riflessione da fare per creare cerimonie
che permettano agli atei di ritrovarsi nei valori che li caratterizzano?
Alain Gérard:
E' anche un rimprovero che è spesso fatto alla società laica (per non dire atea): non avrebbe il senso della
festa. Ma se non c'è nulla che impedisce a qualcuno che non vuole sposarsi o che non vuole funerali sotto il
segno della religione d'immaginare una cerimonia che gli convenga. Perché non sposarsi in Comune e poi
ritornando a casa fare una grande festa? Non è indispensabile che questa festa sia la stessa per tutti.
Personalmente preferisco che sia diversa. Se volete sotterrare un amico che non era credente, perché non
immaginare una cerimonia, con musicisti che suonano intorno alla tomba? Che ne so? La gente non vi
pensa, ma nulla lo vieta. Ancora una volta, le cose cambiano talmente velocemente oggigiorno che la gente
non ha il tempo d'abituarsi. Vi sono sempre feste, ma sono differenti. Alcuni concerti di musica moderna
sono formidabili feste, manifestazioni di comunione sociale straordinarie. Vi si producono addirittura crisi
d'isteria. E' un formidabile raduno, una formidabile festa laica. Talvolta la cosa degenera. Ma ci sono feste
religiose che degenerano pure. Si fa festa in modo diverso. Ma è ancora la festa che si fa. Se si prova il
bisogno di segnare le grandi tappe della vita, la nascita, il matrimonio, la morte con una cerimonia, nulla
vieta d'inventare questa cerimonia.
Un ascoltatore:
Lei dice che le religioni sono in via di regressione. Voglio proprio crederlo. Ma quando si vede l'impatto delle
religioni, come l'Islam con la cieca obbedienza alla sharia o quando si vede l'impatto del cattolicesimo nei
paesi d'America latina, o quando si vedono capi di stato fare obbedienza al Vaticano, trovo che la religione,
verso i laici, non è più tollerante. Essa vuole sempre prendere il potere temporale. C'è pericolo.
Ultimamente, i testimoni di Geova hanno fatto un processo a dei laici che avevano detto del male di loro.
Non c'è oggi una radicalizzazione delle religioni?
Alain Gérard:
Bisogna vedere le cose nella loro dimensione storica. Bisogna ricordarsi di che cosa era ancora la Chiesa
cattolica solamente cento anni fa, all'epoca dell'istituzione della scuola laica in Francia. Bisogna vedere
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quello che dicevano i giornali cattolici. Era ancora il linguaggio del Medio Evo. Non lo s'immagina più oggi.
C'è un prelato dell'epoca, non ricordo più quale, che diceva che non c'era che una sola libertà assoluta, la
libertà religiosa, e che tutte le altre non erano che libertà relative. Il papa Leone XIII proclamava che la
religione cattolica era l'unica vera, che non era questione ch'essa accettasse d'esser confrontata su d'un
piano d'uguaglianza con nessun'altra. E tuttavia Leone XIII era un papa che aveva apportato una
spiegazione totale del mondo, per definizione addirittura. Ma tutte anche, possono, in un certo contesto
storico, di fronte ad una certa evoluzione delle coscienze (e senza cessare d'esister in quanto tali), evolvere,
cambiare, apprendere la critica storica, aprirsi alla tolleranza ed al rispetto delle altre forme di pensiero. Il
cristianesimo lo ha fatto nella globalità, anche se sussistono integralisti e fondamentalisti al suo interno.
L'Islam non lo ha ancora fatto, nella grande maggioranza, è evidente. Ma nulla vieta che non lo faccia un
giorno. I paesi musulmani, per ragioni storiche, sociali, culturali, economiche, sono ancora nella quasi
totalità contadini poveri, dove l'istruzione è poco sviluppata e la democrazia e la libertà d'espressione non
esistono affatto. Quando l'Europa era nello stesso stadio di sviluppo, praticava la religione alla stessa
maniera. La Chiesa cattolica passa oggi forse attraverso una certa tendenza regressiva , ma non penso che
sia una tendenza generale a lungo termine. Speriamolo perché se gli integralismi dovessero vincere sarebbe
drammatico per l'umanità e per il mondo.
15 gennaio e 24 marzo 1997.
Fine
Traduzione di Franco Virzo
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