Protocollo della tradizione della filiera del pesce azzurro

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Protocollo della tradizione della filiera del pesce azzurro
Allegato 5
Protocollo della tradizione
della filiera del pesce azzurro (pisce currente)
nei borghi marinari di
Otranto, Castro, Porto di Tricase e Leuca
in Puglia
e
Batroun, Beirut, Sour, Naqoura
in Libano
Pesca, trasformazione, conservazione e confezionamento tradizionali
per una valorizzazione del pesce azzurro e povero (pisce currente)
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Sommario
Introduzione .............................................................................................................................. 4 Zona di studio Pugliese ............................................................................................................. 6 Zona di studio Libanese .......................................................................................................... 14 PARTE I - LA FILIERA TRADIZIONALE .......................................................................................... 17 Struttura della filiera tradizionale............................................................................................ 18 Materie prime, lavorazioni e costruzione di attrezzi da pesca................................................. 19 Modelli di auto-regolamentazione della pesca e di gestione delle risorse ittiche ................... 32 Descrizione delle specie ittiche ............................................................................................... 35 Le zone di pesca ...................................................................................................................... 40 Le tecniche tradizionali di pesca ............................................................................................. 42 Le stagionalità della pesca....................................................................................................... 50 Conservazione a bordo delle imbarcazioni e commercializzazione del pesce ........................ 51 Cenni sulle tradizioni alimentari nelle famiglie dei pescatori ................................................. 54 Ricette della tradizione............................................................................................................ 57 PARTE II - LINEE GUIDA E PROTOCOLLO DELLA FILIERA ............................................................ 62 Linee guida per una filiera odierna ......................................................................................... 63 Procollo della filiera ................................................................................................................ 67 Conclusione............................................................................................................................. 71 Fonti ........................................................................................................................................ 73 Autori ...................................................................................................................................... 74 3
INTRODUZIONE
A fronte di una globalizzazione che fa paura, si sente il bisogno di attaccarsi alle proprie
radici, ai prodotti che hanno il sapore della propria terra, del proprio mare e di quell'aria
buona alla quale il legame rimane sempre fortissimo. Un bisogno che si traduce anche nella
necessità di incontrare quei pochi anziani pescatori, rimasti a conoscenza delle antiche
tradizioni del mare, della navigazione e della vita quotidiana in un borgo marinaro. Emozioni
da far rivivere ed apprezzare anche ai turisti in cerca di “qualità”. Diventa, pertanto,
importante legare il prodotto al territorio, associare la qualità e l'origine delle tipicità agli
aspetti culturali, ambientali e dell'artigianato locali.
In questo senso, il progetto “Le Coste dell'Azzurro” consiste in un programma di
cooperazione rivolta a pescatori ed imprenditori del comparto ittico, sulle tematiche inerenti
la tutela e la valorizzazione delle tradizioni marinaresche, riguardanti le tecniche di pesca, la
conservazione e trasformazione dei prodotti, il recupero di pratiche, usi e costumi dei piccoli
borghi marinari di Puglia e di altri Paesi del Mediterraneo.
Facendo proprie le direttive Europee riguardo alla sostenibilità ambientale, sociale ed
economica delle comunità costiere, il progetto si è articolato in un’attività di raccolta di
conoscenze sui saperi della tradizione (descritte nella Parte I), per giungere alla definizione
di un protocollo sulla filiera tradizionale del pesce azzurro e povero (illustrato nella Parte II)
ed alla realizzazione di un marchio di origine e relativo disciplinare d’uso, finalizzato alla
valorizzazione del prodotto attraverso la sua agevole identificazione nell’ambito della filiera
stessa.
Nella Parte I si illustrano i risultati di una ricerca svolta sul campo, intervistando
stakeholders locali della penisola salentina e del Libano (pescatori, gente di mare, ristoratori,
cooperative di commercializzazione del pesce, ecc.), analizzando la filiera del pesce azzurro
ed individuando gli antichi saperi provenienti dalla cultura tradizionale. La ricerca, pertanto,
ha riguardato metodi, tecniche, strumenti, ricette che appartengono alla tradizione, radicata
fino agli anni ’50 del ventesimo secolo.
Sono state svolte diverse interviste, con riprese video, e si sono raccolte informazioni
bibliografiche attraverso fonti letterarie e documentazione grigia.
Nel dettaglio, sono state analizzate le fasi di:
−
Produzione: tecniche e strumenti tradizionali di pesca, caratterizzate dal basso
impatto sull’ecosistema marino e quindi in linea con i principi di sostenibilità
ambientale e preservazione degli stock ittici.
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−
Trasformazione e conservazione: modalità di trattamento del pesce secondo le ricette
più tradizionali, con particolare riferimento a quelle più semplici ed economiche, un
tempo necessarie per trasformare, nel minor tempo possibile, grandi quantità di
pescato e conservarlo opportunamente in mancanza dei sistemi del freddo.
Nella Parte II si descrivono alcune linee guida, ispirate dalla tradizione, per arrivare alla
formulazione del protocollo, che prescrive le modalità di pesca (strumenti e tecniche), di
movimentazione del prodotto, di acquisto, di conservazione, di etichettatura e di
commercializzazione del prodotto fresco con il marchio “Coste dell’Azzurro”.
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ZONA DI STUDIO PUGLIESE
La zona costiera esaminata corrisponde al tratto di mare compreso fra il Comune di
Otranto a Nord e la marina di Leuca a Sud. Le comunità dei pescatori di maggiore rilevanza
storica, che hanno fornito le testimonianze per la realizzazione del presente protocollo, sono
Otranto, Castro, Tricase Porto e Leuca.
Otranto
Otranto è la città più orientale d'Italia e per questo viene chiamata "Porta d'Oriente".
L’origine del suo nome viene indicata in 'Ydrous nel greco classico, Hydruntum nel
latino, Ydrentòs in epoca bizantina, Derentò nell'accezione greca.
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La sua genesi risale all’età del bronzo. I numerosi scavi archeologici effettuati nella zona
hanno portato alla luce delle ceramiche associate a vasi micenei risalenti ad un periodo che
va dalla fine del XIII secolo al XI secolo a.C. Si ha la certezza, pertanto, che quest'area fosse
abitata già in quell'epoca. Le alture calcaree otrantine ospitavano capanne costruite
utilizzando dei pali impiantati nella roccia e rivestite di rami e fronde. La cittadina è
depositaria di non pochi esempi di rapporti con gli abitanti della zona egea.
Intorno al 1200-1000 a.C., si iniziano ad avere notizie dei Messapi. Questo popolo, si
spinse sulle coste italiane o per sfuggire ad incursioni nemiche, o perché vi trovò propizi
spazi di insediamento. Il termine antico "Messapia", "terra di mezzo", sta ad indicare l'area
occupata da questa popolazione, situata tra il territorio degli Itali e il mondo ellenico,
individuabile nella penisola salentina.
Le fonti letterarie attribuirono ai Messapi anche la denominazione di "Pelasgi". I Messapi
crearono una civiltà complessa e fondarono, nel corso dei primi tre secoli del millennio a.C.,
numerose città, tra le quali Vaste, Muro, Alezio, Rocavecchia e Manduria. Otranto fu molto
importante per i Messapi. Costituiva, infatti, lo scalo sul mare Adriatico, fondamentale per
gli scambi, di alcuni centri massapici della zona come Vaste e Muro.
Nel periodo romano, Otranto era una delle città marinare più importanti della Puglia. Il
lavoro mercantile e di artigianato locale era molto fiorente, soprattutto nella lavorazione
della porpora e dei tessuti. Era presente ad Otranto una comunità ebraica e ciò fa capire
l'importanza commerciale che il centro poteva avere e che andava oltre alle isole Ionie.
Nel 162 la città chiese ed ottenne di battere moneta e fu così che venne aperta una zecca,
rimasta attiva sino al secondo secolo d.C. Pian piano il porto di Otranto divenne sempre più
importante, surclassando finanche quello di Brindisi. Tale realtà non fece altro che
consolidarsi in epoca paleocristiana.
Nell'epoca della seconda dominazione bizantina, Otranto raggiunse il massimo splendore.
Il suo prestigio crebbe vertiginosamente. Alla fine dell'XI secolo risale l'abbazia di San
Nicola di Casole, ubicata a pochi chilometri dall'abitato, che presto divenne il cuore del
monachesimo italo-greco in Puglia. Fu considerata "una delle realtà culturali più importanti
del medioevo cristiano, divenuto tra il 1347 e il 1438 il più ricco monastero dell'Italia
meridionale"
Nel 1064, la città hydruntina fu costretta a rassegnarsi al nuovo dominio normanno. I
nuovi "padroni" non stravolsero, però, la realtà preesistente, al contrario, cercarono di
apportare delle modifiche in positivo, ridefinendo le strutture di difesa, come il castello e le
mura. In quegli anni, lo scalo otrantino, ospitò spesse volte i cavalieri cristiani che
combattevano nelle Crociate.
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Dopo la dominazione Angioina, che non godette di larghi consensi nel Salento (Otranto si
ribellò più volte, e per questo fu punita severamente), alla metà del ‘400 subentrarono gli
Aragonesi, ed in questo periodo Otranto era uno dei centri più popolosi del Salento,
contando 1200 abitanti e 253 fuochi.
L'occupazione turca del 1480 trovò una città in piena evoluzione demografica e quindi
economica, un centro culturale ancora floridissimo grazie anche all'ininterrotto apporto del
monastero di Casole. I saraceni rimasero nella città per un anno, fino a quando gli aragonesi
non entrarono nella cittadina e la liberarono.
Nel ‘500 la città si rianimò, presa dalla voglia di riscattarsi. Nel 1539, come attestano gli
annali, contava 3200 anime e 638 fuochi. In questi anni, Otranto fu contesa dai Veneziani e
nuovamente dagli Angioini.
A partire dalla seconda metà del ‘600, Otranto subì un'involuzione. Il commercio fu
soggetto ad un arresto e le manifestazioni culturali furono pressoché nulle. Anche nel settore
edile non ci furono grandi novità. Fu come se la cittadina si fosse fermata, stremata,
dapprima dall'incursione turca, e poi dalla foga della ricostruzione. Per di più, c'era ancora la
minaccia turca. Difatti, molti degli abitanti di Otranto, ormai esausti e spaventati dalle
continue incursioni via mare, decisero di lasciare il proprio paese natio per trasferirsi in
luoghi più sicuri. Fu così che la città perse quel posto primario che occupava nel Salento.
Il ‘700 fu il secolo di una moderata ripresa per il paese, che si consolidò nel periodo
napoleonico, durante il quale la cittadina divenne Ducato del Regno di Napoli e si verificò
una netta ripresa.
I primi anni del ‘900 videro grandi trasformazioni soprattutto nelle campagne e
nell’agricoltura, con la bonifica delle paludi, che portò alla scomparsa della malaria
(endemica fino ad allora) e la possibilità di coltivare molte più terre.
Tra il 1964 e il 1974 Otranto ha subito una variazione di tendenza. Gli operatori turistici,
si sono prodigati affinché la cittadina arrivasse a una svolta importante. La sua storia, il suo
mare e il calore della sua gente ha iniziato ad attirare numerosi turisti da ogni parte del
mondo. Gli otrantini si sono sempre più attrezzati per poter accogliere i visitatori nel miglior
modo possibile. Ecco che sono sorte molte strutture ricettive quali alberghi, spiagge
attrezzate, ristoranti, agriturismi, attività commerciali di vario genere e quant'altro potesse
soddisfare la sempre più ingente richiesta.
Il porto ha assunto sempre più un’impronta diportistica, lasciando gradualmente la
funzione commerciale e peschereccia. Alla fine degli anni ’60 si potevano contare 60
pescatori attivi, oggi sono al di sotto della ventina.
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Castro
Nota nell’era greco-romana come Castrum Minervae per la presenza di un tempio
dedicato alla dea, situato sull’altura sovrastante il porto, era meta di pellegrinaggi
provenienti anche dalla vicina Grecia.
Il suo porto fu un rifugio naturale molto apprezzato dai naviganti, sia per la sua posizione
geografica, che per la presenza di acqua dolce, ed il borgo viene anche citato nella Tabula
Peutingeriana, come sito molto importante, provvisto di fortificazioni.
La popolazione, da sempre vittima di incursioni piratesche, si è insediata a ridosso del
castello eretto sull’altura nel XIII secolo, sotto la protezione di imponenti mura e bastioni.
Tale difesa non servì nel 1480, quando i Turchi, una volta distrutta Otranto, riversarono le
loro devastazioni anche nei confronti di Castro.
La morfologia del porticciolo, un insenatura naturale con alcuni scali a mare, rimase
invariata sino al 1930, anno in cui furono ultimati i lavori di livellamento e allargamento di
via Vittorio Veneto, con l’intento di realizzare una strada per l’accesso al porto vecchio e al
nascente porto nuovo. Una profonda trasformazione dell'area interviene a seguito della
realizzazione delle strade litoranee, volute dal regime fascista in previsione della difesa delle
coste.
I lavori del porto nuovo si protraggono sino agli anni ’50, ma per vederlo nella
configurazione presente, bisogna attendere sino al 1980, anno in cui comincia la costruzione
dell’attuale molo foraneo.
Ai primi del ‘900 Castro conosce una florida espansione, grazie anche all’arrivo di turisti
delle classi più agiate, e le imbarcazioni adibite alla pesca diventano molto numerose,
addirittura un centinaio, con armatori e marinai che provengono anche dai paesi limitrofi.
Ogni barca aveva un equipaggio di 4-5 marinai e, su una popolazione totale di 500 anime,
è facile capire come la pesca sia stata la base dell’economia locale.
I marinai utilizzavano alcune grotte naturali presenti nei pressi del porto in funzione di
deposito per le loro attrezzature pesca; come in altri borghi marinari salentini, ogni famiglia
di pescatori era titolare di una o più grotte.
Attualmente nel porto di Castro sono presenti 25 imbarcazioni da pesca, per un numero
totale di circa 45 addetti, su una popolazione di 2.500 abitanti.
Tricase Porto
Insenatura naturale ridossata dai venti di settentrione, conosciuto anticamente con il nome
di Portus Veneris (per la bellezza dei luoghi, ricchi di grotte e acqua sorgiva), fu centro di
intensi traffici, soprattutto di piccolo-medio cabotaggio lungo le rotte pugliesi e con la vicina
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Albania e Grecia. Il seno, infatti, fu per secoli luogo di scambio di merci, soprattutto sotto
l’impulso imprenditoriale dei signori del luogo (del Balzo Orsini prima, Gallone poi), che
fecero del commercio marittimo la fonte delle loro fortune.
Anche per gli stranieri rappresentava un punto di riferimento durante le loro navigazioni:
nel ‘500 l’Ammiraglio della flotta Ottomana Piri Reis, celebre cartografo, nel suo portolano
citava: “a trenta miglia a sud del borgo d’Otranto c’è il Quav(o) Santamaria e tra i due, a
due miglia all’interno c’è un borgo chiamato Tricase (Triquara) che significa tre case
(Bender-i-Triquaze). Sulla costa, in corrispondenza di Tricase, c’è un gargador, lì si
caricano le navi”.
Nella seconda metà dell’800, grazie all’impegno dei locali deputati del neonato Regno
d’Italia, fu avviata una grande opera di allargamento del bacino naturale e sua messa in
sicurezza con la costruzione di un molo foraneo, una banchina attrezzata, e diverse altre
opere portuali, che fecero di questo sito il più sicuro in tutto il tratto di costa fra Otranto e
Gallipoli. A seguito di questa trasformazione, fu meta di pescatori provenienti da altre
marinerie, come quelle del Barese: durante la stagione estiva, diventava, infatti, ricovero di
decine di paranze che effettuavano lo strascico nelle acque della “fossa di Tricase”.
La piccola comunità di pescatori locali, spesso dediti anche all’agricoltura, ebbe uguale
impulso grazie al miglioramento delle strutture portuali. Nei primi del ‘900, gli addetti erano
circa una cinquantina, con una decina di imbarcazioni utilizzate. Tale numero rimase
costante fino agli anni ’60, quando molti giovani cominciarono a cercare nuovi lavori
impiegatizi, o arruolarsi nella Marina Militare, abbandonando il mestiere dei padri.
Oggi i pescatori di professione sono una decina, con altrettante imbarcazioni iscritte nei
registri della piccola pesca.
S. Maria di Leuca
Sin dai tempi antichi Leuca, per la sua morfologia territoriale, è stata considerata un porto
naturale.
La costa di Leuca si estende tra “punta Ristola” e “punta Meliso”; affacciandosi per tutta
la sua estensione verso sud, risentendo, quindi, delle burrasche di scirocco e libeccio.
La punta Meliso, con il suo costone roccioso alto sul mare, rappresentava il braccio
naturale a protezione della marina di Leuca dai marosi di scirocco (sciaroccu); al contrario,
non vi era alcuna protezione naturale dal vento di libeccio (libescie), e pertanto, durante le
mareggiate invernali, la risacca del mare riversava sulla costa enormi quantità di sabbia. In
questo contesto naturale, i pescatori avevano organizzato i loro approdi in due punti: lo
“scalo di Castrignano” situato a ovest della marina, a ridosso della Torre dell’Omomorto,
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nelle vicinanze di “punta Ristola”, e lo “scalo di Salignano”, collocato nei pressi
dell’insenatura naturale detta “Rena de li cavaddi” (spiaggia dei cavalli, perché da sempre
utilizzata per il lavaggio stagionale delle mandrie).
La popolazione dei pescatori, era costituita, per lo scalo di Castrignano, da circa 60
marinai imbarcati su 15 barche. Lo scalo di Salignano, invece, essendo più piccolo, contava
7 imbarcazioni.
Nelle vicinanze dei rispettivi scali vi erano delle grotte-rifugio, dove i capobarca
riponevano reti e attrezzature. Ogni armatore era proprietario di una o più barche e, in effetti,
la flottiglia era suddivisa tra poche famiglie, che storicamente hanno gestito la pesca.
Ai primi del ‘900 la popolazione di Leuca era costituita da 500-600 abitanti, tutti
direttamente o indirettamente coinvolti nelle attività di pesca.
Nel 1937 furono avviati i lavori di costruzione di una banchina portuale, ma la ditta
appaltatrice, di Gallipoli, si trovò ad affrontare il problema dello smaltimento delle grandi
quantità di sabbia accumulate dai marosi. Il lavoro venne svolto manualmente dalla
popolazione Leucana e principalmente dai ragazzini che, per la loro età, non erano ancora
impiegati nella pesca. Nonostante gli sforzi per smaltire la sabbia, il mare, ad ogni
mareggiata, riversava nuovamente la sabbia sulla costa, quindi dopo 3 anni di lavoro inutile,
si impiegarono mezzi meccanici ed i primi palombari per il dragaggio del fondale.
Nel 1958 i lavori del porto ripresero con il proseguimento della banchina, cominciata nel
1937. Questa fase intermedia terminò nel 1974-‘75, anni in cui qualche famiglia di pescatori
trasferì le sue attività dai due scali storici al nuovo porto.
Gli ultimi lavori, che permetteranno di arrivare all’attuale configurazione del porto,
cominciarono negli anni ’90.
Ad oggi, nonostante l’attuale vocazione diportistica della marina di Leuca, sussistono
ancora varie attività di pesca, gestite dai discendenti di quelle tradizionali famiglie di
pescatori. L’attuale flotta di imbarcazioni da pesca è costituita da 5 pescherecci di circa 1112 metri i quali impiegano ognuno 5-6 marinai, e da circa 20 barche più piccole, di 5-6
metri, per un numero totale di circa 60 addetti.
Attualmente, la popolazione di Leuca è composta da circa 1600 abitanti dei quali
pochissimi addetti alla pesca.
Altre località della zona
Le comunità secondarie (per numero di addetti, sia storicamente, che attualmente) sono:
−
Porto Badisco
−
Santa Cesarea Terme
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−
Marina di Diso (Acquaviva)
−
Marina di Andrano
−
Marina Serra
−
Novaglie
−
Gagliano del Capo (Ciolo)
In queste località, si contavano pochissimi addetti, per cui non è possibile parlare di vere
e proprie comunità, ma di piccoli gruppi sociali o familiari.
Uno sguardo al litorale salentino Otranto-Leuca
La costa è caratterizzata da scogliere alte e frastagliate, costellate da numerose piccole
insenature e grotte, con un mare ancora pulito che fronteggia una fascia litoranea con folta
vegetazione di macchia mediterranea, ancora abbastanza incontaminata, oggi sotto tutela del
Parco Otranto - S. Maria di Leuca e Bosco di Tricase.
A ridosso dei pochi rifugi naturali esistenti, si sono radicate piccole comunità di pescatori
dediti esclusivamente alla piccola pesca costiera. La mancanza di porti attrezzati e sicuri,
infatti, non consentiva l’ormeggio di grandi pescherecci (paranze, trabaccoli, tartane),
obbligando i pescatori a dotarsi di piccole imbarcazioni (massimo 6 metri di lunghezza),
facilmente alabili a terra in caso di maltempo.
La natura dei fondali segue la morfologia della parte emersa: sottocosta, il tipo
caratterizzante è lo scoglio, con sporadiche spianate di sabbia ben conosciute dai pescatori,
in quanto frequentate per alcune tipologie di pesca molto diffuse e praticabili in tale
ambiente (sciabica). Più a largo, i fondali sabbiosi-fangosi risultano predominare, intervallati
dall’affioramento di rocce e costruzioni coralligene (sicche) particolarmente pescose.
Le correnti, sempre intense ed a regime periodico (giornaliero, stagionale), hanno
influenzato nettamente la messa a punto delle tecniche di pesca: a titolo esemplificativo, non
si possono usare reti troppo grandi, con la parete perpendicolare all’azione della corrente, in
quanto sarebbero sottoposte ad una pressione eccessiva, con conseguente stiramento sul
fondale; la corrente, al contrario, è fondamentale per la cattura di pesce con le trappole di
giunco (nasse), come illustrato più avanti.
Riportiamo l’estratto di un delizioso canto, scritto da Noè Summonte, arciprete di
Tricase, che il nipote Francesco Monastero Summonte pubblicò nel 1894, per descrivere il
tratto di costa compreso tra la marina di Castro e quella di Leuca.
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Canto
[…]
A Nettun crucciato solenne offria
Solca la Nave intanto al Mar di Adria
Sacrifizio – Qui pescoso è il Mare
Di Galiano la roccia e di Novaglie
Al Pescator di Nassa, e d’ogni amo:
Ratto trascorre; di Naspe e Vadisco
Il Dentice vi abbonda, e la Murena
Scopre le punte; guata il grand’arco
La Cernia è il più gran pesce: evvi il vopillo
Che chiudon di Cesarea le Grotti
Il mugile, la triglia, e la piovra:
Solfuree: Vede Castro maestosa,
Tra’ Crostacei vi è il Granchio sagace,
Su d’alta roccia, che impreca al Musulman
Il nicchio, la pirola testacea
La sua rovina, ma esiste ancora
Vi è il coccio univalve, vi è la tofa
A scorno di quel barbaro inumano!
E svariati bivalvi che il lido
La misteriosa Ginzinusa scorge
Asconde: vistole son le padelle:
Dall’alta volta co’ suoi stalattiti:
Molti antri si scorgon lunghesso il lido
Tricase che primeggia pe ‘l suo Porto,
U la Donna pudica alla penombra
Ed alla cala della Serra sosta:
Si fa il bagno, e poi riede al suo lavoro
Quivi è Matrona, cu’ Cesare passando
Rinvigorita, e piena d’energia; […]
Da’ Farsalici campi in Occidente
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ZONA DI STUDIO LIBANESE
Le zone costiere esaminate in Libano si estendono da Nord (distretto di Batroun), al Sud
(distretto di Tiro). Data l’esiguità dell’estensione dell’intera Nazione (lunga 250 km e larga da
25 a 60 km), si è potuto effettuare una rilevazione ad ampio raggio, cercando di individuare le
peculiarità fra le comunità dei pescatori dell’intera costa libanese.
Dall’analisi dei dati raccolti non emergono tuttavia sostanziali differenze nelle tecniche di
pesca, nelle attrezzature adoperate, nelle tipologie di pesce pescato, ferme restando, invece,
differenze nelle tradizioni e nella cultura a seconda della religione praticata (cristiana o
musulmana). Tali differenze si apprezzano negli usi e nei costumi della vita delle comunità (ad
esempio il battezzo della barca), non nelle pratiche e tecniche relative alla pesca.
Le indagini sono state svolte nelle città di:
•
Batroun
•
Beirut, porto di Dora
•
Sour
•
Naqoura
Batroun
La città litoranea di Batroun è situata nel nord del Libano, ed è una delle più antiche del
Paese. Il nome deriva dal Greco Botrys, successivamente Botrus in Latino.
Batroun è una destinazione turistica importante. La città vanta dieci chiese storiche, di rito
sia cattolico che greco ortodosso. E’ inoltre un’importante spiaggia con molti locali ed
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attrazioni, ed una intensa vita notturna. I boschetti di agrumi che circondano Batroun hanno
reso famosa la città, e la limonata fresca, che è venduta da tutti i cafés e ristoranti sulla via
principale, è famosa in tutto il Libano.
Il porto, piccolo e ben ridossato, ha ospitato da sempre comunità di pescatori di pesce e di
spugne. Recentemente, con il graduale impoverirsi del mare, sempre più pescatori hanno
cambiato mestiere, lasciando il posto alle imbarcazioni dei diportisti e dei turisti, tanto che oggi
è in corso un all’allargamento del porto per far posto ad ulteriori ormeggi destinati a questo
tipo di economia.
Beirut – Porto di Dora
Dora è un sobborgo a nord di Beirut nel distretto El Metn. Il borgo ha zone commerciali e
residenziali.
Il centro è prevalentemente cristiano, e numerose sono le chiese, come quelle di San
Giuseppe e la Chiesa evangelica Emmanuel.
Nel tempo si sono insediati molti lavoratori stranieri, soprattutto egiziani e iracheni.
Il porto, ben ridossato, ha le caratteristiche di un insediamento poco attrezzato e poco
curato, ma offre riparo a centinaia di imbarcazioni, soprattutto di diportisti.
E’ presente una cooperativa di pescatori molto attiva, che catalizza e protegge gli interessi
dei pochi pescatori professionisti.
Sour (Tiro)
L’antica Sour, in arabo “Roccia” si sviluppò su due isole di fronte alla costa. A nord, la più
grande, col porto e i quartieri commerciali. A sud, sorgeva un tempio dedicato a Zeus. Nel X°
a.C. il re Hiram unì le due isole, la cui colmata dotò la città di un ampio spazio aperto per le
attività pubbliche e per il mercato.
Verso il Mille a.C. il porto di Tiro, il più capace e attivo di tutta la costa siro-palestinese,
diventa sede di intensi traffici. Legnami pregiati, olio, vino, vetro soffiato e porpora. La fama
di città inafferrabile di cui Tiro andava fiera fu rotta da Nabucodonosor nel 572 a C. e da
Alessandro Magno nel 332 a.C. Passò sotto Roma nel 64 a.C. per finire nelle mani degli Arabi
che la distrussero.
Nel XII sec., dopo un lungo assedio, venne conquistata dai Crociati, che l'abbandonarono
solo in seguito alla caduta di San Giovanni d'Acri.
Tiro, 250 mila abitanti, è uno dei tesori artistici e culturali del mondo, tanto che l’UNESCO,
negli anni Ottanta, l’ha dichiarata città da proteggere.
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Naqoura
Naqoura è un piccolissimo centro del sud del Libano, un territorio esposto a grandissime
pressioni dovute alle guerre con gli israeliani degli ultimi decenni. Ancora oggi la zona è
sottoposta ad un controllo rigido da parte dei militari, e sono frequenti piccoli incidenti fra
libanesi e israeliani a ridosso del confine. La forza UNIFIL, che qui opera dal 2006,
sovrintende all’attuazione del cessate il fuoco, e ha avviato alcuni progetti in soccorso
dell’economia locale.
In questa situazione di zona di frontiera, anche il porto è militarizzato, ed i pescatori non
possono accedere ad ampie zone di mare, dove la navigazione è interdetta a chiunque. Per
questo motivo l’economia legata alla pesca ha subito un pesantissimo colpo, portando i
pescatori ad abbondare l’attività e la città. I pochissimi rimasti, riescono a pescare pochi giorni
l’anno, e cercano i tutti i modi di integrare i redditi con attività collaterali, come la ristorazione
e piccole escursioni per i turisti che soggiornano nella zona di Tiro.
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PARTE I - LA FILIERA TRADIZIONALE
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STRUTTURA DELLA FILIERA TRADIZIONALE
La descrizione della filiera tradizionale analizza tutte le sue attività/fasi, così come è emerso
dalle interviste svolte sul campo e dalla documentazione consultata.
In dettaglio, l’analisi si articola come segue:
1. Materie prime, lavorazioni e costruzione di attrezzi da pesca;
2. Modelli di auto-regolamentazione della pesca e di gestione delle risorse ittiche;
3. Descrizione delle specie ittiche;
4. Zone di pesca;
5. Stagionalità della pesca;
6. Conservazione e commercializzazione del pescato;
7. Tradizioni alimentari delle famiglie dei pescatori;
8. Ricette tradizionali.
Nel descrivere l’organizzazione e le pratiche lungo la filiera tradizionale, useremo spesso
denominazioni tipicamente locali, cercando di cogliere anche e soprattutto l’aspetto culturale.
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MATERIE PRIME, LAVORAZIONI E COSTRUZIONE DI
ATTREZZI DA PESCA
Materie prime
Funi
I cavi di armamento delle varie attrezzature erano realizzati da cordai (funari – zzucari) ed
erano principalmente di canapa, successivamente anche di cocco e manila. Le fibre sintetiche
intervennero dopo gli anni ’60.
La canapa pettinata era la materia prima essenziale, la cui qualità era fondamentale nella
riuscita di buone funi, resistenti e durature. Tradizionalmente, l’Italia ha prodotto la migliore
canapa nel panorama europeo, facendone un esportazione considerevole. Le piantagioni più
importanti si trovavano in Piemonte (zona di Carmagnola) e nel Casertano. Celebre era la
corderia della Marina Borbonica a Castellamare di Stabia.
La macchina per realizzare le corde era costituita da una ruota dal diametro di circa un metro
che veniva fatta girare da una persona tramite una manovella. Su di essa erano avvolte delle
corde attorcigliate a dei fusi fissati su un “giratoio”; facendo girare la ruota, i fusi ruotavano
velocemente. Sulla parte anteriore del fuso era presente un anello al quale poi erano fissati i fili
e le funi da torcere.
Per mantenere i fili separati, erano posti in terra dei cavalletti distanti circa 5 metri tra loro, a
seconda della grossezza della corda. I cavalletti erano costituiti da un paletto di legno lungo
circa un metro, appuntito per piantarlo facilmente in terra. Alla sommità del cavalletto era
fissata una traversa orizzontale di legno in cui erano disposti a pettine alcuni tondini di ferro,
che avrebbero mantenuto separati i fili poggiati su di esso.
Un uncino rotante, tenuto da una persona, veniva fissato ad una cintura intorno alla vita: ad
esso venivano legati i fili o la corda all’estremità opposta alla ruota.
Ultimo attrezzo necessario era un blocchetto di legno (pigna) in cui erano praticate delle
scanalature nelle quali scorrevano i fili che si attorcigliavano sotto la guida e la regolazione
della pigna.
Frequente era la preparazione delle funi lungo le strade in prossimità dei porti, o lungo le
banchine. Nei borghi salentini, dove l’olivicoltura ha un peso notevole nell’economia agricola,
il funaro era quasi sempre anche produttore di fisculi, i caratteristici dischi di fibra vegetale
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necessari nella pressatura a freddo della pasta di olive molita nei frantoi.
Sugheri
I galleggianti delle reti, ossia natelli, di forma circolare, realizzati con il sughero, detti sutri –
cortici, venivano realizzati dagli stessi pescatori utilizzando la corteccia dell’omonima quercia
che, sporadicamente, proveniva dalla lontana Sardegna in grosse balle di materiale grezzo.
Ogni pescatore provvedeva alla produzione dei galleggianti necessari per le proprie reti. Dai
grandi fogli di corteccia di sughero, si ricavavano i sutri, utilizzando un coltello per ottenere la
forma tondeggiante: circa 5-6 cm di diametro, per 3 cm di spessore; con un punteruolo
arroventato si praticava il foro centrale.
Successivamente, con l’arrivo delle reti già tessute dai fornitori, principalmente dal distretto
bresciano, anche i sutri venivano importati già pronti: negli anni ’50, i galleggianti venivano
venduti, a Castro, al prezzo di 10 lire cadauno.
Un altro utilizzo del sughero era per costruire le grosse boe galleggianti di segnalazione delle
reti, dette camari.
Pesi
La zavorra utilizzata nella parte inferiore della rete era realizzata con piccoli pesi di
terracotta, di forma ovoidale, con un foro longitudinale centrale, detti furticiddhi.
I fornitori erano i figuli (critari) di Lucugnano (fraz. di Tricase), dove si era insediato un
piccolo ma attivissimo distretto della terracotta, che riforniva tutte le comunità di pescatori del
Capo di Leuca. Successivamente, si cominciarono ad utilizzari i piombi (chiummine), che,
ancora oggi, hanno un peso variabile tra i 50 e 100 grammi.
Filati per reti e lenze
I fili necessari per le reti, così come le lenze per il palangaro (conzu), in tempi più remoti
venivano filati in casa dalle donne, con la medesima tecnica adoperata per i fili dei tessuti,
utilizzando conocchia e fuso (cunucchia e fusu). La fibra impiegata era la canapa più
anticamente, il cotone più recentemente.
Il filato di cotone, cioè la tortiglia usata per le reti, aveva il nome di rovetta o ravetta. In
tempi più moderni il filato pronto veniva acquistato in pacchi di matasse.
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Lavorazioni sulle reti in Puglia
Tessitura
Le reti (riti) erano l’attrezzo in assoluto più utilizzato. Venivano principalmente realizzate
dalle donne che, nella loro vita quotidiana, riservavano gran parte del tempo a tali lavori,
coadiuvate da uomini anziani divenuti inabili al lavoro.
La tessitura si svolgeva esclusivamente a mano, realizzando i nodi con due soli strumenti di
legno: la cammarola (o cammareddha), cioè una cannuccia, utilizzata per dimensionare la
larghezza della maglia (occhiu) e la cuceddha, bastoncino di legno flessibile (di vinchi di ulivo
o di canna), sulla quale erano avvolti alcuni metri di filo di cotone (ravetta – rovetta) o di
canapa (cannima). La tessitrice realizzava il nodo necessario manipolando la cuceddha con
movimenti rapidissimi. Le ‘cuceddhe’ a Leuca erano di ferro tipo ‘sciuscitte’ del telaio, ed
erano più piccole e non schiacciate. Quelle di legno veniva invece usate per riparare le reti.
Successivamente (a partire dai primi anni del ‘900) le reti venivano fornite da alcuni retifici
del bresciano, ove era presente un distretto specializzato in questa produzione.
La rete (lu tonu de riti) è costituita da più parti tutte uguali chiamate pezze – partite – mazzi.
La lunghezza delle reti è calcolata in canne, antica unità di misura lineare equivalente a circa
due metri, due metri e mezzo.
Concia
Per evitare un rapido deterioramento, le reti dovevano essere sottoposte alla concia,
immergendole in una tintura ricavata dall’ebollizione, in acqua, della corteccia di pino ridotta in
polvere finissima (zzuppinu - piticchia a Castro).
La ricetta della tintura prevedeva 1 kg di polvere per 9 litri di acqua. Si metteva nel bidone
l’acqua e quando iniziava a bollire si aggiungeva la polvere di corteccia. Quindi si immergevano
4-5 occhi de ristincu (rami di lentisco) o un cucchiaio di calce vergine. Il ristincu doveva essere
quello femminile cioè quello che fiorisce (il maschile fa solamente gli steli ma non fiorisce).
Quando la tintura arrivava a bollore, si toglieva dal fuoco e si filtrava versando l’acqua in un
altro recipiente. Prima di mettere la rete in ammollo bisognava lasciar raffreddare l’acqua.
Quando la temperatura era tale da poterci tenere il dito dentro senza scottarsi, si potevano
immergere le reti. Infatti, se l’acqua fosse stata troppo calda, si sarebbe rischiato di bruciare e
rovinare la rete.
Per rendere la rete ben carica di colore, la si poteva lasciare nell’acqua anche per 24 ore.
Le reti venivano immerse nella tintura insieme all’armaggiu, cioè alle lime (cavi superiore
ed inferiore ai quali venivano applicati i natelli e i pesi), che andavano a completare
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l’armamento delle reti.
Per una rete bianca era sufficiente una sola tintura. Successivamente, la tintura veniva
ripetuta quando iniziava a stingere, cosa che poteva avvenire anche due volte l’anno, per
ovviare alla scoloritura causata dal frequente uso.
Ogni scalo aveva uno stompo (grande mortaio) per triturare la corteccia e le vasche per
immergere le reti nella tintura calda.
Il tannino della corteccia, oltre a conferire alle reti ed alle lime un colore rossastro, le
preservava dalla marcescenza dovuta al continuo e persistente contatto con l’acqua salata.
Armo delle reti
Il complesso della rete e di tutti i suoi componenti armati era frutto della tradizione,
tramandata da padre in figlio, ma anche dalle innovazioni che ciascun pescatore, in relazione
alle sue personali esperienze, adottava per la loro messa a punto. Per questo motivo, è
particolarmente indicativo il nome dato all’insieme dell’attrezzato, chiamato lu ‘ngegnu, cioè
l’ingegno. La differenziazione degli attrezzi si riscontra anche fra una comunità di pescatori e
l’altra, pur se distanti solo qualche miglio l’una dall’altra. Non esistevano, cioè, regole fisse e
rigorose, ma pratiche di base con varianti locali e personali.
La trama della rete (mappa), in ogni pezza, viene corredata con due lime parallele, una
superiore, l’altra inferiore. Questi due cavi costituiscono l’armaggiu. Sul cavo di armaggiu
superiore vengono collocati i natelli (sutri), mentre in quello inferiori i pesi (furticiddhi), in
corrispondenza gli uni con gli altri. Le quattro estremità delle lime presentano altrettanti brevi
prolungamenti denominati orze, alle quali si collegano i due cavi (calari, statulare) che arrivano
in superficie alle boe di segnalazione (camari).
La maglia di una rete si misurava sulla diagonale, e per armare una rete, si contavano le
maglie. I natelli erano posti ad una distanza, l’uno dall’altro, di circa 5 cammarole. La
cammarola (o cammareddha), usata per dimensionare la larghezza della singola maglia, veniva
utilizzata anche per posizionare i punti di fermo della rete sulle lime. I pesi vengono applicati tra
di loro ad una distanza media di 3 cammarole l’uno dall’altro.
Se longitudinalmente la mappa è delimitata dai cavi di armaggiu, lateralmente le maglie
sono infilate in due cordicelle sottili denominati catafili – catrafili – quatrafili.
Nel disporre in acqua l'intero tonu, le due estremità della rete sono assicurate a due funi
(calari) che sono tenute sul fondo da grosse pietre (mazzare – mazzere) ed in superficie, da due
grossi galleggianti di sughero (camari), forniti di segnale di appartenenza.
Il segnale di appartenenza consisteva, di giorno, in una bandierina di stoffa issata su di un
asta (camaru a bastone, camaru tunnu) e, di notte, in una piccola campana che, appesa a due
archi di legno incrociati (camaru a campanile), o ad un bastone ricurvo in testa (lu torchiu),
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consentiva una facile localizzazione dell’attrezzo al momento della salpata. Ogni barca, infatti,
aveva un campanello che emetteva un suono diverso dagli altri, per evitare confusione e
permettere quindi un riconoscimento immediato della propria rete.
Per costruire un camaru a campanile occorrevano due rami del carrubo, molto flessibili,
puliti della corteccia ed arcuati, incrociati a formare una cupola. Si infilzavano le estremità in
fori praticati ai quattro angoli della base di sughero, preventivamente bruciato al fuoco vivo per
alleggerirlo. Con dello spago, si legavano bene le estremità dei rami arcuati al sughero, per
evitare che si sfilassero.
All’incrocio dei due rami arcuati si legava una campana con una cima che veniva fatta
passare in un pezzo di canna.
Sui quattro rami si legavano poi delle pietre, alla stessa altezza della campana. Anche le cime
che legavano le pietre erano fatte passare attraverso delle canne per evitare che si imbrogliassero
tra di loro. Questi sassi rendevano ancora più efficace il suono della campanella, anche quando
il movimento impresso dalle onde del mare era lieve.
Per costruire un camaru tunnu si usavano le rimanenze del sughero, unite insieme con una
sorta di reticolato di spago resistente, per tener uniti tutti i pezzi di sughero ed ottenere un
tutt’uno solido e duraturo. Il reticolato non doveva essere troppo stretto, altrimenti si rischiava
la rottura dello spago quando si metteva in mare, e il sughero si imbeveva d’acqua.
Quando i pezzi di sughero erano troppo piccoli, si univano insieme per mezzo dei pìviri cioè
dei chiodi di legno che passavano nei sugheri da unire.
Al centro della base di sughero si praticava un foro con un ferro rovente e qui si inseriva un
bastone. All’estremità del bastone si metteva una campana di notte o una bandierina di giorno.
Al termine, si fissava la bordatura, cioè quella cima a cui si legava il cortice della rete.
La campana veniva legata sia alla punta del bastone che alla base del camaro, per evitare di
perderla in acqua nel caso di rottura del bastone.
Le caratteristiche sopra descritte sono per lo più comuni a tutti i tipi di rete. Piccole
variazioni sono in funzione della tipologia di rete, dell'accrescimento della loro capacità di
cattura e delle prede a cui sono destinate.
Le varianti praticate per calare le reti erano: a cursu, cioè da terra verso largo, a mazza, cioè
parallelamente alla costa, a ‘nghiale cioè con la rete che forma un angolo. Una variante
ulteriore, è quella a gnaru: lungo l’intero tonu, cioè lungo l’insieme delle pezze che
costituiscono la rete da calare, alla distanza di 12 canne l’una dall’altra, vengono disposte
(rrucciate) dei grossi pesi di pietra di circa 3 kg (criaturi), che permettono al pescatore di
delineare agevolmente l’andamento della rete sul fondale, disegnando ora tratti rettilinei, ora
profonde anse, per rendere l’attrezzo più efficace in relazione al tipo di pesce ambito.
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Manutenzione
Quantunque la tintura fosse protettiva, subito dopo l’utilizzo le reti dovevano essere
sottoposte ad una particolare cura. Tutti gli spazi ampi nei porti della zona (banchine, piazzali),
venivano utilizzati per esporre le reti al sole: poggiate su cavalletti, o appese ai muraglioni,
dovevano asciugare bene, prima di essere impiegate per la successiva battuta di pesca. In questa
parte della giornata, le donne provvedevano anche alla loro riparazione.
La consuetudine seguita dai pescatori prevedeva la massima attenzione verso la rete, che
ovviamente rappresentava uno strumento fondamentale e di valore economico notevole. Tornati
in mattinata dalla pesca, con le reti a bordo piene di pesce, i pescatori procedevano alla
scameddatura (estrazione del pesce impigliato), e quindi a stendere le reti, quanto più aperte
possibile, per farle asciugare a dovere. Solo a questo punto, dopo avere anche sistemato la barca
e tutti gli altri attrezzi, i pescatori potevano andare a casa per sfamarsi e riposarsi, lasciando le
donne al lavoro di riparazione delle reti, che poteva protrarsi fino a sera, quando dovevano
essere pronte per la nuova pescata, e quindi raccolte (‘mmasate) a bordo della barca in procinto
di uscire a pesca.
Questo genere di manutenzione terminò con l’avvento dei fili e delle cime di nylon.
Riparazione
La riparazione delle reti era un compito riservato alle donne che, a volte, dovevano lavorare
giorno e notte per rimettere in ordine l’attrezzo pronto per la nuova battuta. Gli utensili
impiegati erano i medesimi per la tessitura: cuceddha, cammarola (o cammareddha), rovetta e
l’immancabile coltello.
Tale lavorazione, essendo prettamente familiare, coinvolgeva tutte le donne a disposizione:
mogli, cognate, madri, zie, figlie. Sovente si vedevano intere strade e banchine popolate da
donne intente a lavorare intorno alle reti, per ripararle il più rapidamente possibile, cogliendo
l’occasione per svolgere una forte socializzazione, sebbene originata da necessità di economia
familiare.
Quando gli uomini tornavano da mare, volevano trovare le donne pronte a cominciare il
lavoro di riparazione. La casa, quindi, doveva essere già messa in ordine, i figli accuditi ed
eventualmente affidati. Le donne dovevano scendere al porto per aggiustare le reti grandi, che
venivano messe sui cavalletti per asciugare. Le reti più piccole, invece, venivano riparate a casa.
L’impegno dipendeva dai danni che aveva subito la rete, dovuti principalmente all’azione
predatoria dei delfini, che anche oggi si avventano ai pesci intrappolati, strappando la rete in
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maniera molto estesa.
In genere ogni donna lavorava alle reti del proprio marito, ma sovente chi aveva la rete poco
danneggiata, finito il lavoro, poteva dare un aiuto a chi aveva avuto più danni. Era molto forte il
sentimento di mutuo soccorso, che, per la verità, si attuava anche in tanti altri ambiti della vita
quotidiana.
Durante il lavoro c’era il tempo di chiacchierare, di raccontare i cunti, di cantare, di
scherzare e ridere, ma solo nei momenti di minore impegno e attenzione: non si poteva perdere
tempo, e la rete doveva essere pronta per la sera!
Le bambine, sin dalla più giovane età, imparavano quest’arte, che sarebbe stata fondamentale
anche nella valutazione della futura donna come buona sposa e pilastro della fortuna economica
domestica.
Lavorazioni delle reti in Libano
Le reti erano essenzialmente di due tipi: quella con maglia da 15mm, per i pesci più piccoli,
e quella da 35 mm, per i più grandi. Ogni rete, in arabo, aveva un proprio nome, che si riferiva
alla misura della maglia. L’altezza era, quasi sempre, di circa due metri.
La tessitura delle reti avveniva in casa, poiché non si potevano acquistare, già pronte, dai
retifici. Ogni pescatore tesseva le proprie reti con l’aiuto della moglie, in pezzi da 20 metri
ciascuno, poi assemblati per formare reti da 300-400 metri. Una volta pronta, la rete veniva
colorata, assumendo un colore marrone chiaro. Si usavano tinture ricavate da cortecce che si
trovavano arenate sulle spiagge, oppure da quelle di eucalipto, che conferivano un colore
particolarmente intenso.
Altre attrezzature
Lampare
Le lampare erano una fonte luminosa a supporto di varie tipologie di pesca, come il
bolentino a mano (togna) ed il cianciolo (chianci).
Lo scopo del loro utilizzo era quello di raccogliere quei pesci che, per natura, sono attratti
dalla luce (pesce azzurro, boghe, occhiate, ecc.).
La fonte luminosa era originata dalla combustione dell’acetilene, prodotto dalla reazione
chimica fra carburo di calcio e acqua, dando origine ad una fiamma di colore bianco intenso,
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estremamente luminosa e molto resistente allo spegnimento.
Successivamente, venne impiegata la lampara a gas di petrolio, poi quella a gpl e,
attualmente, a lampadine elettriche, la cui elettricità è prodotta da gruppi elettrogeni montati a
bordo delle barche.
Nasse
Tra le attrezzature da pesca, la nassa è sicuramente una delle più antiche. Nella nostra zona
se ne conoscono tre tipi, in rapporto alla grandezza ed alle prede di cui si ambisce la cattura. Le
tre tipologie conosciute sono la nassa ranne o de tardiu, la manzana e la nzerta. La tipologia,
che prenderemo in considerazione in relazione ai nostri pesci di riferimento, è la ranne, in
quanto usata esclusivamente per la pesca degli zerri e delle boghe nei mesi di agosto e
settembre, fino a metà ottobre.
La nassa consiste in una gabbia a maglie molto strette di giunchi intrecciati e legati, dagli
stessi pescatori (nassari), con fili di canapa, ora di fibra sintetica. Ha la forma tronco-conica,
che termina nella parte superiore con una cupola (nassa) provvista di un’apertura (musu). La
base del cono è costituito da un imbuto (la campa), con la punta all’interno rivolta verso il
musu, e terminante con spuntoni di giunchi slegati al vertice e convergenti (spinarole). Un
piccolo disco di giunchi intrecciati (purtiddhu) del diametro di circa 15-30 cm, chiude o apre il
musu, cioè l’apertura della nassa.
Anche nelle nasse si usava mettere fasci di ristincu, il lentisco, perché attiravano le seppie a
deporvi le uova.
Per consentire di trasportare quante più nasse possibili sulla stessa barca, si usava il seguente
sistema: le barche, in genere di 6 metri, avevano sul tambureddu (gavone di prua) un foro, a cui
corrispondeva un altro foro sul paiolato sottostante. Qui si infilava la furchetta, una specie di
albero di un paio di metri d’altezza, come una forcella sulla parte superiore. A questo si
legavamo le nasse, facendovi passare il capistreddhu. A prua, in questo modo, si potevano
sistemare quattro nasse. A poppa poi se ne potevano mettere altre sei, fissate all’antenna della
vela, che era lunga 5-6 metri.
Altre volte le nasse venivano smontate della campa e caricate a campana, infilate l’una
nell’altra; quando i pescatori arrivavano sul luogo di pesca, veniva rimontata la campa. Si
diceva che le nasse, in questa maniera, venivano ‘ccampanate.
Il trasporto di numerose nasse avveniva solo per i grandi spostamenti; ad esempio quando da
Leuca i pescatori si spostavano a Torre S. Giovanni o Torre Pali, per pescare i masculari nel
mese di marzo-aprile. Quando invece si usciva a pescare nelle vicinanze di Leuca, si portavano
solo 2-3 pedi de nasse.
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Caloma
La calòma è un piccolo palangaro (conzu) di superficie costituito da una lenza madre
piuttosto sottile, lunga circa 140 passi (1 passo = 1,7 mt circa) ed alla quale sono montati, alla
distanza di circa un metro l'uno dall'altro, braccioli di filo più sottile (palamare), muniti di amo.
Sulla lenza madre, in prossimità di ogni palamara, è legato un galleggiante di piccole
dimensioni che consente alla caloma di rimanere in superficie.
Particolare è la tecnica della posa in acqua, che consiste nell'assicurare un'estremità del
palangaro ad un galleggiante realizzato con due pezzi di canna, incrociati e legati al centro, ed
armati di vela triangolare, una piccola vela latina che, sotto la spinta del vento, distende la
caloma sull'acqua, allontanandola dalla costa o dalla barca.
Togna
La togna è composta da un pezzo di sughero a cui è avvolto un filo, alla cui estremità si trova
un piombo, di peso variabile (100-200 grammi), a seconda della corrente presente nel mare e
della profondità che si intende raggiungere. Sulla trave madre, di corda fine, oggi nylon,
(ferrazzula), alla distanza di circa due passi dal piombo, vengono montati, tramite braccioli
(palamare), dai tre ai cinque ami distanti tra loro circa 30 cm.
Le barche
La piccola marineria locale si avvaleva, e si avvale prevalentemente, di piccole imbarcazioni
di legno, la cui lunghezza variava dai 4,5 metri (17 palmi; 1 palmo = 26,5 centimetri), dette
schifeddhi, a 6,5 metri (24 palmi), dette schifi o varche. Le dimensioni dipendevano e
dipendono dal tipo di pesca cui erano e sono destinate, ma le più diffuse, come rilevato
statisticamente dai dati censiti negli anni 1945-1970, erano gli schifetti da 18 palmi (4,80 mt).
Il cantiere che riforniva i pescatori della zona, a partire dalla seconda metà dell’’800 è stato,
ed è attualmente, quello della famiglia Frassanito di Marittima.
Fu fondato da Michele (nato nel 1840), il quale, nel 1885, fu iscritto nel ruolo della gente di
mare in qualità di allievo maestro d’ascia e, tre anni dopo, nel 1888, ottenne l’abilitazione
definitiva.
L’arte della costruzione di barche fu ereditata dal nipote Vitale il quale svolgeva anche altri
lavori, come la fabbricazione dei telai di legno per la tessitura, e tale mestiere non fu mai
completamente abbandonato, alternando ora la creazione di una nuova barca da pesca, ora la
costruzione di un telaio per le donne del paese.
Nel 1933, un figlio di Vitale, Salvatore, nato nel 1907, prese l’abilitazione di maestro
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d’ascia, con esame sostenuto presso la Capitaneria di Porto di Brindisi. All’età di 26 anni, egli
dunque, cominciò la produzione di imbarcazioni iscrivibili nei registri delle Capitanerie.
Salvatore avviò il cantiere in forma d’impresa a conduzione familiare: fra i lavoranti, infatti, sin
dalla più tenera età, vi erano i figli Vitale, Giovanni, detto Nino e Antonio, nella bottega di via
Sciesa a Marittima. Oggi rimane solo Antonio a svolgere l’attività.
Nella costruzione delle barche si usava, per la maggior parte, il legno di leccio, la lizza,
molto diffusa sul territorio. Con la lizza si produceva la chiglia e talvolta le ordinate, in quanto
legno forte e durevole. Il legname veniva acquistato dalla gente del luogo: chi aveva dei tronchi,
o degli alberi da abbattere, proponeva l’acquisto al maestro, che, dopo i necessari accordi,
provvedeva al taglio e alla stagionatura. I tronchi venivano tagliati nel periodo di fine estate –
settembre, e rappresentavano la riserva per le costruzioni lungo tutto l’inverno. Alcuni tronchi
venivano tagliati subito a fette, per farli stagionare, soprattutto per la chiglia.
Altri legnami, utilizzati per l’ossatura, erano il rovere, la vallonea, l’olmo ed il gelso:
quest’ultimo era molto apprezzato e soprattutto diffuso lungo tutta la nostra fascia costiera, nella
qualità moro, più duro di quello bianco. Per il fasciame si usava l’abete, il pino da pinoli, il pino
silano. Si compravano dai rivenditori, scegliendo il cosiddetto “primo tronco”, cioè tavole lisce,
senza nodi e imperfezioni.
Prima dell’avvento dei macchinari moderni, nel cantiere Frassanito venivano prodotte 4-5
barche all’anno, numero che crebbe fino a 20-25 in tempi più recenti. Una barca da 4,5 metri
veniva prodotta in un paio di mesi, con lavoro tutto manuale.
Terminata la costruzione dello scafo, la barca veniva trasportata al porto di pertinenza
dell’acquirente. La consegna, infatti, era “a legno”, cioè senza la verniciatura finale, che
spettava all’armatore. Inoltre, sempre alla consegna, dovevano essere effettuate le ultime
operazioni per la giusta collocazione degli scalmi dei remi e delle pedane di appoggio dei piedi
per la voga: in pratica si ultimava la barca “su misura” del futuro equipaggio.
La colorazione e decorazione delle barche veniva fatta utilizzando prodotti naturali: i
pigmenti colorati in polvere (in genere il verde, il rosso, il blu) e l’olio di lino, ben miscelati
insieme. Tale vernice impiegava qualche giorno per asciugare. L’interno della barca e l’opera
viva, invece, venivano dipinti con la pece.
Tutte le barche erano munite di un armo a vela latina (le più grandi ne avevano due: la
principale e la “veletta” per il cattivo tempo). Tradizionalmente, le vele venivano cucite dalle
donne dei pescatori, secondo un’arte, tramandata nel tempo, che stabiliva grandezza, forma,
rifiniture. Le più brave mesce de vele si trovavano a Castro e Leuca. Esse tracciavano il
contorno della vela a terra, con un gesso, e successivamente stendevano i ferzi e li tagliavano
secondo la sagoma. Quindi si procedeva alla cucitura (a mano anticamente, con la macchina più
recentemente), ed alla rifinitura, con l’inserimento del catafilo nell’orlo dei tre lati, la ralinga
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esterna e le bugne di penna e caro, l’applicazione dei matafioni, dei terzaroli e della scotta fissa.
La velocità della barca con la vela latina arrivava anche 7-8 nodi. Con la vela a cappuccio, 45 nodi. A remi si poteva arrivare a 4 nodi.
La scotta veniva fatta passare in un foro praticato sul dritto di poppa, in prossimità degli
agugliotti (minchiozzi), e poi tenuta in mano dal timoniere, che la cazzava o lascava a seconda
della necessità. Il timoniere sedeva su una tavola poggiata sulle serrette, all’estrema poppa.
Infatti, per le lunghe navigazioni, risultava scomodo rimanere troppo tempo seduti sul bordo
(capo di banda, ‘ncarratu). Seduto su questa tavola, il timoniere manovrava il timone tenendolo
sotto al braccio.
Nel caso d’assenza di vento, si ricorreva alla voga, dai due ai quattro rematori: in
quest’ultimo caso, i due remi centrali avevano una lunghezza di 6 metri, gli altri due erano
lunghi 4 metri e mezzo. L’equipaggio, in media, era composto dai quattro rematori più il
capobarca al timone.
Al ritorno dalla pesca, le barche venivano sempre alate a terra, soprattutto nei porti meno
protetti (Castro, Leuca), anche d’estate. L’alaggio avveniva sullo scalo, facendo scorrere
l’imbarcazione su pezzi di legni ingrassati (palanghe). C’era una persona, l’ommu de quartieri,
addetta a dare il grasso sulla chiglia (primo) della barca ed agli stroppi dei remi. Il grasso era di
origine animale, ottenuto pestando il lardo su un piano di marmo con un bastone, fino a ridurlo
in poltiglia, divisa poi in più blocchi; questi venivano infilati in bastoni e appesi nella rimessa
degli attrezzi. Ogni barca aveva le sue palanghe. La forza veniva praticata con l’ausilio della
taia, un grosso paranco costituito da due bozzelli ed un cavo di grande spessore. Quando si
rientrava in porto dopo aver pescato, gli attrezzi da pesca venivano sbarcati a terra; a bordo
rimanevano solo i remi, l’albero, l’antenna e il caro. Tutto il resto (vela, cordame, ecc.) si
metteva in un sacco e si sbarcava per il timore dei furti.
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Le barche Libanesi
Al momento dell’ordine della barca, il pescatore committente indicava al maestro d’ascia
solo la lunghezza desiderata. Il resto delle dimensioni e la decisione sulle forme erano affidate
al maestro, che non disponeva di alcun progetto o disegno, ma ricorreva alle proprie
conoscenze e capacità, trasmesse oralmente da padre in figlio. Solo raramente si facevano
contratti scritti, molto spesso erano solo accordi verbali.
Il legno per costruire le barche proveniva essenzialmente dal Libano; raramente, qualcuno
commissionava barche costruite con legno di altra provenienza. I legni maggiormente utilizzati
erano il pino per il fasciame esterno, e l’eucalipto o l’acacia per l’ossatura interna. Il maestro
d’ascia impiegava circa due mesi per costruirla.
Le barche, fino a 50 anni fa, erano piuttosto piccole, di 6-7 metri, poiché si conducevano a
remi e a vela. Ora la dimensione più frequente è di 10 metri, le barche più corte sono di 7-8
metri.
Le barche venivano dipinte con vernici colorate, e qualche decorazione apotropaica. Veniva
sempre attribuito un nome, in genere quello di un familiare (la moglie, i figli, ecc.)
Al momento del varo, amici e parenti del proprietario facevano gli auguri di buona fortuna,
versando del caffè e pregando. A volte, chi se lo poteva permettere economicamente,
sacrificava un animale e offriva la carne a tutti quanti; si faceva una piccola festa e si beveva
tutti insieme.
Nelle comunità cristiane, la barca veniva benedetta dal sacerdote con l’acqua santa. In
alcuni casi il rito veniva svolto dallo stesso proprietario.
A Batroun, inoltre, è consuetudine celebrare, ogni anno, una messa cristiana di buon
auspicio per i pescatori, e per chiedere la protezione di Santo Stefano, patrono della città, e San
Giorgio.
La vela (scirà) adoperata era “latina” (pittan), cioè triangolare, issata sull’albero (sare), per
mezzo dell’antenna (sima) in un unico pezzo. A volte si utilizzava un caccia fuori detto flick o
tanda. I vari legni dell’armo erano di pino. L’albero veniva posizionato a circa un terzo della
barca, verso prua.
Il tessuto della vela era il cotone ed il suo taglio e cucitura veniva fatto dagli uomini, a
volte con l’aiuto delle donne. Solo raramente le vele venivano colorate con decori di vario
genere.
Arrivati sul luogo di pesca, la vela veniva raccolta, l’armo smontato e riposto ad un lato
della barca, per non dare impedimento.
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Le barche avevano anche i remi, detti madif, utilizzati per navigare in mancanza di vento.
Erano lunghi un po’ meno della barca (su una barca di 8 metri, potevano essere lunghi 6 mt).
Sulla barca vi era solitamente un equipaggio composto da 3-4 persone, ognuno con un ruolo
ben preciso.
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MODELLI DI AUTO-REGOLAMENTAZIONE DELLA PESCA E
DI GESTIONE DELLE RISORSE ITTICHE
Diritto sulle piscare
Nella nostra zona, la pesca si esercitava prevalentemente entro 3 – 4 miglia dalla costa, da
tempo immemorabile (ed ancora oggi), in alcuni punti particolari lungo la costa: le piscare o
pascare. Queste, costituivano delle mete quotidiane, conosciute da secoli, verso le quali i
pescatori dirigevano le prue delle loro imbarcazioni, e che prendevano il nome dalla fantasia
popolare ispirata da particolari conformazioni o particolarità geologiche o geografiche degli
scogli o dei fondali.
La tradizione prevedeva che tutti avessero il diritto di pescare su ciascuna piscara ma, una
volta assicuratoselo, occorreva preservare il diritto di pesca con un chiaro e preciso rituale. Le
reti del pescatore, titolare del diritto in quel momento, dovevano essere calate ogni sera,
all'imbrunire, o anche solo immerse nel mare (s'erene 'mmuddhare). Era quindi essenziale che,
dalla costa o dal mare, si vedesse la barca del pescatore intenta a “segnare il territorio”
immergendo le reti.
Altro rito da compiere consisteva nel realizzare un segnale personale, spesso un cerchio di
cavo distintamente riconoscibile (‘zzuca a Novaglie), e nell’appenderlo ad uno spuntone di
roccia (‘ncocciaturu) nei pressi della piscara.
Il diritto di pesca decadeva immediatamente se per negligenza (assai rara) o per l'avvento di
una mareggiata, fosse divenuto impossibile proseguire il rito di calare le reti.
Ad Otranto non vi era un vero e proprio diritto di pesca sulle poste: esse si prendevano
giornalmente. La sera si usciva a calare le reti, che si ritiravano il giorno dopo. La sera
successiva, il primo ad arrivare poteva calare in quello stesso posto. Per fare ciò, bisognava
andare a ricatta (navigare al massimo della velocità per arrivare prima sulla piscara), perché
tutte le barche uscivano contemporaneamente.
Si raccontano numerosissime imprese epiche compiute per conservare il diritto di pesca sulle
piscare, anche nel corso di violentissime tempeste, spesso risolte, oltre che grazie all'abilità ed
alla solidarietà degli uomini, anche per voto fatto alla Madonna, sia essa Assunta o del Rosario,
di Leuca, di Pompei o di Costantinopoli od a Santa Teresa e San Nicola.
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La pesca a cunserva
Si tratta di un chiaro esempio di mutualità e cooperazione tra pescatori che, spesso, veniva
posto in atto non solo per accrescere le potenzialità di pesca, ma anche per frenare la
concorrenza e la conseguente tipica competizione tra pescatori che, dato il variare della
pescosità tra le piscare, spesso sfociava in liti accese e difficili da acquietare (addirittura anche
dopo generazioni).
La cunserva consisteva, appunto, nel pescare in società. Con un patto sulla parola, si
mettevano in comune imbarcazioni, uomini, opere e 'ngegni, sia in occasione di un particolare e
proficuo tipo di pesca (es. sciabica), sia per una o più stagioni di cattura. Il pescato era venduto
dalla cunserva, ed il relativo guadagno diviso in parti eguali tra le diverse ciurme.
Si è a conoscenza di cunserve, sottoscritte fra pescatori, durate anche tutta una vita in mare.
Un motivo ulteriore per ricorrere alla cunserva era quello di trovare un mutuo soccorso in
caso di pericolo: alle volte bisognava uscire in mare anche con il tempo non proprio buono, e
quindi il timore dei pescatori veniva mitigato dalla consapevolezza di non essere soli.
Molte volte le cunserve si rompevano per mancanza di correttezza: ad esempio una barca
nascondeva il pesce all'altra, e questo portava anche a furiosi litigi fra gli ormai ex-soci.
I Capi Regolatori e gli Ommini de Scaru a Leuca
Al momento, non ci è dato sapere se fosse sulla base di un qualche atto scritto o di un
accordo verbale tra armatori di barche da pesca, certo è che, sino a meno di cinquanta anni fa, la
comunità dei pescatori di Leuca, riuscì ad elaborare, e felicemente condurre, un brillantissimo
ed alquanto affascinante modello di autoregolamentazione dal basso, finalizzato alla
sostenibilità del settore anche in funzione della pace e dell’uguaglianza sociale, almeno
relativamente al dare, a ciascuno, la stessa possibilità di cattura.
Nel mare di Leuca, le pratiche di pesca più diffuse erano, certamente, la sciabica e le nasse.
Come dicevamo, la competizione era grande in relazione ad alcune zone particolarmente
pescose. I leucani pensarono bene di affidare la regolamentazione ed il controllo sull'utilizzo di
questi due attrezzi a quattro pescatori anziani, denominati Capi Regolatori, eletti da tutti e tra
tutti i pescatori del luogo e coadiuvati da due Ommini de Scaru (Uomini di Scalo). Leuca, priva
di porto vero e proprio, aveva due scali di varo ed alaggio (lo scalo di Castrignano e quello di
Salignano) per cui, due Capi Regolatori erano eletti tra i pescatori dello scalo di Castrignano e
due, tra quelli di Salignano. Stesso criterio lo si seguiva per la nomina degli Ommini de Scaru.
Notata la presenza di un banco di pesce (vatu de pupiddhi), il pescatore che per primo si
imbatteva nella fruttuosa pescata (albaranu), rientrando in porto, ne dava notizia ai Capi
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Regolatori che, dopo aver stimato la grandezza e l'entità del vatu, riunivano i pescatori
interessati a ritornare, il giorno successivo, sulla stessa piscara (praticamente tutti) e decidevano
l'attrezzo da usare (che secondo il periodo dell'anno e le condizioni di mare, di cielo e di vento
potevano essere le nasse o le sciabiche), l'orario di uscita in mare, il numero di calate della
sciabica (cala) e, se si trattava di nasse, il numero di coppie di nasse (pedi de nasse) per barca.
All'ora stabilita, i due Ommini de Scaru, da due punti alti sulla costa e scambiandosi le
rispettive postazioni, segnalavano l'inizio della battuta di pesca, suonando a gran fiato un corno.
Loro compito era anche quello di vigilare sulla regolarità della battuta e consisteva nello
scrutare attentamente il mare per individuare qualche eventuale imbarcazione “pirata” e
segnalare prontamente, col suono del corno, l'avvistamento di chi non rispettava le regole.
Questi, al rientro ed al momento della pesata, veniva denunciato ai Capi Regolatori ed
all'autorità marittima e punito, dai primi, con la confisca del pescato e dalla seconda, con la
sospensione, per qualche giorno, della licenza di pesca ovvero con il pagamento di una pena
pecuniaria.
Il sistema di regolamentazione e controllo ideato a Leuca, era conosciuto ed apprezzato
anche dalle marinerie di Castro e di Tricase (anche se ritenuto un tantino teatrale) e, nonostante
non venne mai adottato, furono diversi i pescatori di queste comunità che lo sperimentarono a
bordo di imbarcazioni leucane.
Modelli di auto-regolamentazione della pesca in Libano
Fra i pescatori c’erano degli accordi di regolamentazione, fatti rispettare da un capo, detto
rais. Le regole erano conosciute e rispettate da tutti, anche se, alle volte, insorgevano dei
problemi fra i pescatori. La regola fondamentale riguardava il diritto di pesca in una zona: dopo
una mareggiata, il pescatore che arrivava per primo sul posto, aveva il diritto di pesca fino alla
mareggiata successiva. Tutti rispettavano questo diritto.
Quando 70-80 anni fa, il Libano era protettorato francese, c’era la regola di non pescare i
pesci troppo piccoli. Lo stato francese controllava che tutti la rispettassero. Adesso questa
regola è poco osservata.
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DESCRIZIONE DELLE SPECIE ITTICHE
Le specie ittiche considerate “pesce azzurro e povero o pisce currente”, tradizionalmente
oggetto di pesca ed alimentazione delle comunità locali della zona di riferimento, sono le
seguenti:
Nome italiano
Nome scientifico
Nome dialettale
Aguglia
Belone belone
Àcura - Àquera
Boga
Boops Boops
Vopa –Voparedda – Vopa de mazza
Garrizzo
Maena Smaris
Zerro
Maena Chriselis
Zerro musillo
Centracantus Cirrus
Sardina
Sardina Pilchardus
Sarda
Lanzardo
Scomber Japonicus Colias
Maccareddhu
Zitella (Leuca)
Riccardi (Otranto)
Sgombro
Scomber Scombrus
Culeu
Pupiddhu – Mascularu – Fimmineddha
Spicaluru (Mmommu a Tricase)
nello stadio giovanile:
Zazà o Spicalureddhu (Otranto, S.M. Leuca)
Rascapanaru (Tricase), Lacertu - Lucerteddhu
Sugarello maggiore
Sugarello pittato
Trachurus Mediterraneus
Trachurus Picturatus
Suro
Trachurus Trachurus
Spicaluru (tondinu – rutunnu – iancu – niuru
maru)
Tombarello
Auxis Thazard
Motulu
Tonnetto
Euthynnus Alletteratus
Furceddha (Tricase – Castro)
Alletteratu (S.M. Leuca)
Palamita
Sarda Sarda
Palamita
Aguglia
Molto comune lungo le nostre coste vive solitamente al largo tranne nei mesi primaverili,
periodo della riproduzione. Ha una forma particolarmente allungata a sezione cilindrica, con
occhi abbastanza grandi e circolari e con mascelle altrettanto lunghe a forma di becco con denti
piccoli e aguzzi. Ricoperta di piccole scaglie, ha le pinne dorsali e ventrali piccole e posizionate
nella metà posteriore del corpo. Si presenta di colore azzurro con sfumature bluastre sul dorso e
verdastre tipiche della pinna centrale, mentre è di color argento brillante sui fianchi e biancastro
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sul ventre.
Può raggiungere una lunghezza massima di 100 cm.
Nelle nostre zone si avvicina alla costa da Luglio a Dicembre preferendo approssimarsi a
piccole cale con fondale sabbioso soprattutto in occasione di mare burrascoso.
Boga
Si può trovare sia in prossimità della costa che al largo, preferisce i fondali rocciosi e vive
quasi sempre in banchi. Si presenta con un corpo fusiforme di colore giallo-verdastro con
riflessi metallici sul dorso, caratterizzato dalla presenza di 3-4 strisce longitudinali dorate e
bianco-argenteo sui fianchi e sul ventre.
Ha una lunghezza media di 15-20 cm, ma può raggiungere un massimo di 40 cm.
Nel periodo della riproduzione (febbraio – marzo) ritorna annualmente presso gli stessi punti
vicino alla costa per la deposizione delle uova, per cui risulta facile individuarla.
Zerro
Vive soprattutto nei fondali sabbiosi e fangosi fino ad una profondità di anche 100 mt e oltre.
Difficile da riconoscere perché molto simile ad altri pesci appartenenti allo stesso genere.
Presenta un corpo piuttosto alto, appiattito sui lati e poco allungato con una testa che può
raggiunge la stessa lunghezza dell’intero corpo. E’ ricoperta di scaglie distribuite in serie
longitudinali, in numero di 4 al di sopra della linea laterale e di 12 al di sotto. La linea è
caratterizzata da 70-80 scaglie. La pinna dorsale è molto alta con un margine ondulato. Cambia
colore a secondo del sesso e dell’età, normalmente grigio chiaro metallico negli esemplari più
giovani, quelli più adulti e di genere maschile presentano sul capo e sul tronco delle macchie o
fasce azzurre – bluastre (masculari).
Le femmine possono raggiungere una lunghezza massima di 18 cm, i maschi 21 cm.
Presente più o meno tutto l’anno nella nostra zona di riferimento, si avvicina
prevalentemente a punti della costa caratterizzati dalla presenza di acqua fredda, spesso dovuta a
risorgive di acqua dolce. Nel periodo della riproduzione, gli esemplari adulti di zerro, che fino a
quel momento erano di sesso femminile (fimmaneddhe), iniziano la trasformazione in esemplari
maschi (se vestene) passando dallo stadio intermedio di pupaddhazzi a quello terminale di
masculari. Il “vestirsi”, consiste nell’assumere una diversa colorazione che dalle gradazione del
grigio chiaro raggiunge la tonalità del blu soprattutto nella zona della testa. Terminato il loro
compito, i masculari iniziano a perdere peso drasticamente, fino alla morte. Le fimmaneddhe,
invece, deposte le uova, si allontanano dalla costa.
Sardina
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Molto comune lungo tutte le nostre coste, è un pesce migratorio e gregario che vive
generalmente tra i 25 e i 55 metri di profondità. Nel periodo riproduttivo si avvicina lungo le
coste mentre nei mesi invernali si spinge più al largo e in profondità.
Presenta un corpo allungato, fusiforme, compresso ai lati e ricoperto di scaglie. L’occhio è
grande e circolare, la bocca grande e provvista di denti piccolissimi. L’opercolo è striato verso il
basso. Ha un’unica pinna dorsale, in posizione centrale rispetto all’intera lunghezza del corpo,
le ventrali sono molte piccole mentre le pettorali sono grandi, inserite molto in basso. La pinna
caudale è forcuta, munita su ogni lato di due scaglie appuntite Il dorso presenta una colorazione
azzurro-bluastra con fianchi e ventre argentati. In prossimità dell’opercolo, ha una macchia
nerastra seguita da macchioline nere, non sempre ben evidenti, che arrivano fino al limite
posteriore della pinna dorsale.
Può raggiungere la lunghezza di circa 15-20 cm.
Lanzardo
Molto comune nei nostri mari, è una specie pelagica che vive sia in profondità sia in
superficie. Ha il corpo molto slanciato, fusiforme, poco compresso ai lati e molto sottile nel
peduncolo caudale. Le pinne dorsali sono due, ben distanti tra loro; la seconda è seguita da una
serie di cinque pinnule. L’anale è uguale ed opposta alla seconda dorsale. Il dorso è di colore
bluastro con sfumature giallastre e con numerose strisce vermicolari nere; fianchi e ventre si
presentano di colore bianco argenteo.
Può raggiungere la lunghezza massima di 50 cm.
Nelle nostre zone si avvicinano a terra nei mesi di giugno, luglio e agosto, riproducendosi nel
mese di luglio.
Sgombro
Ha il corpo slanciato fusiforme, a sezione quasi circolare, assottigliato nel peduncolo
caudale. La bocca è molto grande, incisa, munita di numerosi dentini appuntiti, disposti su una
sola fila. L’occhio è rivestito di due palpebre adipose, trasparenti, che delimitano una fessura
verticale fusiforme. Sul dorso sono presenti due pinne molto distanziate tra loro di cui la
seconda è seguita da cinque pinnule; l’anale è opposta alla seconda dorsale, seguita anch’essa da
cinque pinnule. Il colore dell’animale è azzurro-verdastro sul dorso con numerose striature
sinuose, di colore nero. I fianchi ed il ventre sono bianchi-argentei.
L’animale misura fino a 50 cm di lunghezza e può toccare anche se eccezionalmente i 1.500
grammi di peso.
Si riuniscono molto spesso in banchi numerosissimi. Lo sgombro vive quasi sempre in
profondità e solo quando è molto vicino alla costa sale in superficie.
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Sugarello maggiore
Vive in profondità tra i 50 e i 500 mt, in branchi numerosi e vicino la costa nell’età più
giovane. Facilmente confondibile con gli altri pesci della stessa specie, è distinguibile grazie a
delle sue caratteristiche specifiche: il numero degli scudetti che formano la linea laterale è di 7895, sono molto aderenti alla pelle, per cui poco percettibili. Il colore è verde-azzurrastro sul
dorso, bianco-argenteo sui fianchi e sul ventre, con riflessi iridati. Per ogni lato, sull’orlo
posteriore dell’opercolo, c’è una macchia nerastra.
Può raggiungere 45 cm di lunghezza totale.
Ha carni buone a seconda del mare di provenienza, poco apprezzate nella nostra zona di
riferimento, perché preferisce fondali fangosi.
Si pesca tutto l’anno. Si riproduce in estate.
Sugarello Pittato
Ha il corpo piuttosto fusiforme, massiccio e poco compresso lateralmente. Il peduncolo
caudale è molto sottile. La linea laterale è costituita da scudetti ossei il cui numero varia da 90 a
108. Il colore è grigio-nerastro sul dorso, bluastro quando l’animale è appena pescato; i fianchi
sono grigio-azzurri lucente mentre il ventre è bianco argentato. La caratteristica macchia
nerastra, posta sul margine posteriore dell’opercolo, non è molto evidente quando il pesce è
ancora in vita.
Misura fino a 60 cm di lunghezza.
Vive in profondità su fondale roccioso. Ha carni bianche molto apprezzate nelle nostre zone
di riferimento.
Suro
Vive dai 50 ai 500 mt di profondità, in branchi numerosi e vicino la costa quando giovani.
Presenta un corpo massiccio fusiforme, occhi grandi con due palpebre adipose ben evidenti ed
una bocca ampia in posizione obliqua. Caratteri distinguibili sono la linea laterale ricoperta da
circa 69-79 scudetti ossei abbastanza appuntiti, e la linea laterale accessoria vicina disposta
vicino le pinne dorsali. Il colore è grigio-verde sul dorso, argenteo con riflessi iridescenti sui
fianchi e bianco sul ventre, con la presenza di una macchia nerastra sull’orlo posteriore
dell’opercolo.
Misura fino a 50 cm di lunghezza.
Tombarello
E’ fondamentalmente un pesce migratorio e gregario. Si presenta con un corpo affusolato e
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panciuto al centro. Ha 2 pinne dorsali, una più grande dell’altra e di forma triangolare, la coda a
forma di semiluna con i lobi molto appuntiti. Ha la bocca piccola con una sola fila di dentini, la
pelle è liscia e non presenta scaglie. Il dorso è di colore blu- nerastro o grigio- piombo con fasce
vermicolari, il ventre di colore argento e le pinne sono grigiastre mentre quelle dei pettorali
sono nerastre all’interno.
L’animale misura fino a 50 cm di lunghezza e può toccare anche se eccezionalmente i 1.500
grammi di peso.
Si avvicina alla costa ad agosto per mangiare e per deporre le uova.
Tonnetto
Vive spesso in banchi numerosi e si spinge molto vicino alla costa. E’ una specie molto
comune lungo tutte le nostre coste. Si presenta con corpo affusolato e allungato, la pelle liscia
non presenta scaglie, ha 2 pinne dorsali, la prima è piuttosto allungata, la seconda decisamente
più piccola. La bocca presenta una mandibola prominente ed una sola fila di dentini, gli occhi
circolari e piccoli. Il colore azzurro – nerastro è inconfondibile, brillante con presenza di
macchie scure in numero variabile; i fianchi e il ventre sono di color argento.
L’animale misura fino a 80 cm di lunghezza e può toccare i 7 Kg di peso.
Scende verso la costa a luglio ed è possibile pescarlo fino a marzo aprile.
Palamita
E’ una specie predatrice che insidia banchi interi di acciughe, sardine, cefali e aguglie. Si
presenta con corpo allungato, leggermente appiattito sul fianco con coda grande e lobi appuntiti.
Ha la bocca ampia con denti appuntiti e ricurvi ed occhio piccolo di forma circolare. Il colore
del dorso è blu scuro con 7-9 linee oblique di colore nerastro, mentre i fianchi e il ventre sono di
colore argento con riflessi verdastri o azzurrastri.
L’animale misura fino a 80 cm di lunghezza e può eccezionalmente superare i 10 Kg di peso.
Nella nostra zona di riferimento è presente nel periodo da ottobre a gennaio.
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LE ZONE DI PESCA
Piscare di Otranto
Le zone di pesca di Otranto erano la Palummara (con le piscare marmurà, la manta, il
cacaturu, parite de l'orte, cilindru), il canale Punta Facì e il canale Sputu
Vi erano buone piscare sia a sud che a nord del porto. A sud erano più numerose le
’ncocciature, punti a terra dove si legava un’estremità della rete, per distenderla poi verso il
largo.
Piscare di Castro
Da Nord a Sud, dalla Marina di Santa Cesarea Terme alla Marina di Castro: Punta Resti,
Portu Miscianu, Palombara, Mucurune, Acqua Viva, Burrara
Data la particolare conformazione del fondale (prevalentemente sabbioso), il tratto di mare
compreso tra Santa Cesarea Terme ed il Porto di Castro è un’intera piscara di pesce azzurro.
Le piscare indicate sono riferimenti esatti delle zone di maggiore concentrazione.
Vati di Castro
Acqua Viva
Fino a circa 10 anni fa, prima che la zona fosse selvaggiamente deturpata dall’utilizzo delle
reti a strascico, le piscare erano anche vati
Vati e Piscare di Tricase
Da Sud a Nord, dalla Marina di Tiggiano alla Torre del Sasso: Turre Uscenti, Durfinu,
Scariceddhu, Furcata, Rutteddhe, Pescuranca, Scianneddha, Canale du Riu, Casteddhu,
Custantina, Calu, Scalamasciu, Scala Prevala, Casteddhu, Punta de’ Canne, Durfinu, Totala,
Capu de Munti, Caddhuzzu, Punta Lingua, Fiumi, Barrattonne, Scianneddha, Calu
Piscare di Leuca
Da punta Meliso al Ciolo per la pesca con le reti: Meliso, Posta, Rèuma, Cravatta de
l’ancelu, Culozza, Agninu, Agnu, Rutteddha, Tuzzatura, Ttaccatura vasciu, Ttaccatura viancu,
Fanistrata, Cconatura, Cornu ertu, Rutteddha de l’acqua, Pascara de la vurpe, Pizzillisciatu,
Cornu ertu (2), Mastra de lu Terradicu, Mastra de Lavante, Terradicu, Parranu, Varduseddha,
Ciavuli, Novatu, Ortucupu, Bora, Scincacchia, Cappellone, Anga, Mannute, Muscunò,
Criniceddha, Crina, Rutta la fuca, Doi Petre, Cacateddhu, Vibbhru, Scanca anche, Cuiunara de
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la tòtala, Tòtala, Cisaneddha, Sciardine, Spaccatura, Cupascina, Chianca, Spanditi,
Muntanicchiu, Nanti custodia, Custodia, Marsignara, Puzzareddhu, Puzzu, Sculiscente, Punta
pede, Canale de marine, Aspru, Petra, Ciulu, Praziche, Mattara, etc.
Da punta Ristola fino a Torre Vado di Morciano: Ristola, Ciàffulu, Circhiu, Rutteddhi,
Mesciu Scianni, Fiume, Falcona, Turre, Listincu, Fiume dellu Dracu, Dracu, Omuamare,
Canale Pinnareddhe, Via de Ciardu, Curciacchia, Paiareddha, Muntenivru, Turre, Parite,
Foggia, Carcera, Canaleddhu, Canale, Furcatu, Motta, Munte Masciu, Monucu, Murcianu.
Vati di Leuca
Vati di levante (da terra verso il largo): Cucuruzzu, Chiancuzza, Paiareddha, Furnu,
Rutteddhi, Spunta e nu spunta le doi petre, Scaleddha.
Vati di scirocco o de menzu (da terra verso il largo): Massaria, Spaccatura de terra,
Terraticu, Nsaline, Spurtaru, Doi petre, Spaccatura de fore, Siccateddhu, Ripa de l’anga,
Paseddhu, Arbru de lu finale.
Vati di ponente (da terra verso il largo): Dalìa de terra, Lamicciòla, Rascie de terra, Callena
piccinna, Callena ranne, Omumortu, Lavati, Rascie de fore, Dalìa de fore, San Giuseppe de
fore.
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LE TECNICHE TRADIZIONALI DI PESCA
Pesca con reti
Cianciolo
Chianci
E’ il tipo di pesca più comune con rete da circuizione ed è orientato alla cattura di piccoli
pesci di banco (sarde, alici, boghe, sugarelli, zerri…). Di solito il banco, nelle ore notturne,
viene attratto in un determinato tratto di mare da una o più piccole imbarcazioni dotate di
potenti fonti luminose (lampare). Quando il banco è ben compatto, viene stesa intorno ad esso
una rete rettangolare con sugheri (sutri - cortici) nella parte alta e piombi (chiummine) in quella
inferiore. Quando il banco è circondato, la rete viene chiusa nella parte inferiore e lentamente
ritirata fino a quando i pesci sono concentrati in uno spazio piccolo e possono essere recuperati
con un coppo o issati a bordo insieme al cianciolo.
Nella nostra zona di riferimento, ed in particolare nelle comunità pescherecce di Castro e
Tricase, la Chianci era composta da due barche madri lunghe dai 6 ai 7 metri (a remi ed a vela),
che si spartivano la rete e da diverse barchette dette luci della lunghezza di 4,5 - 5 metri, dotate
di 2 lampare.
Gli equipaggi erano composti da 6 - 7 uomini per ogni barca madre e da 3 per ogni luce, di
cui due rematori ed uno addetto alla lampara (luciaru).
Nella seconda metà del ‘900, in seguito agli scambi ed alla collaborazione con i pescatori
calabresi e siciliani che venivano a pescare nelle acque del Capo di Leuca, si acquisì la tecnica
della pesca con una sola imbarcazione madre (un po’ più grande delle prime) sempre coadiuvata
dalle luci.
La rete è costituita da un’unica pezza lunga circa 140 canne. Se la distendessimo su una
superficie piana, presenterebbe una forma poligonale con i bordi laterali di uguale lunghezza,
perpendicolari ad una base retta (il cavo dei sugheri), a cui è opposta una base a linea curva (il
cavo dei piombi). Sul cavo a linea retta è disposto l’armamento dei galleggianti (sutri – cortici)
che variano di dimensioni in rapporto diretto alla lunghezza della parte di rete sottostante e
quindi, in rapporto al peso. Detto ciò, i galleggianti più grossi, si troveranno verso il centro in
quanto è il punto più alto della rete. La rete inizia con 1.000 maglie (circa 10 mt) di altezza,
aumenta gradatamente fino a raggiungere al centro circa 3.000 maglie per poi decrescere
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nuovamente. Nel cavo a linea curva è disposto l’armamento dei pesi (furticiddhi – chiummine),
posti alla distanza di una cammarola (o cammareddha) e del peso di circa 50-100 grammi l’uno.
Nella parte centrale del cavo, chiamata fonda, sono disposti circa 20 anelli equidistanti, nei quali
si fa scorrere un altro cavo che sarà tirato per consentire la chiusura del fondo della rete, prima
della salpata.
Il cianciolo in Libano
Il cianciolo (gargara) era molto praticato in Libano. Si utilizzava una barca madre di 13-15
metri, con l’ausilio di 5-8 barche più piccole, ognuna con 1-2 luci a bordo. Si pescavano
sardine, barracuda, ricciole, palamite.
Reti per boghe
Massali ad Otranto
Voparizzi o riti a Tricase e Santa Maria di Leuca
Riti ‘oparizze a Castro
Usate per la pesca prevalentemente delle boghe (vope) presentano maglie di dimensioni
diverse in rapporto alla grandezza delle prede, variabile in relazione alla zona ed alla stagione di
cattura. Le riti chiare (Schietti a Castro) hanno un massimo di 17 maglie a palmo (palmo = 25
cm circa) . Le riti cieche hanno un massimo di 22 maglie a palmo. Una pezza di voparizzo può
raggiungere la lunghezza di 25 canne ed un’altezza media di 150 maglie. Lu tonu de voparizzu è
costituito da un minimo di 4 pezze e, generalmente, da un massimo di 20.
Menaide
Milaita ad Otranto
Minaidi a Castro e Tricase Porto
Manàiara a Santa Maria di Leuca
La rite de' sarde è formata da due sole grandi pezze lunghe complessivamente fino a 200
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metri ed alte anche più di 15 metri (molto dipendeva dalla profondità della zona di pesca). E’
provvista di grossi galleggianti (5 litri circa detti baie - sumaturi) posti alla distanza di 10 passi
l’uno dall’altro, intervallati da galleggianti più piccoli (sutri – cortici) che consentono alla rete
di galleggiare senza mai toccare il fondo con la lima dei piombi e derivare, spinta dalla corrente.
Se cieca (usata per la cattura delle sardine), ha 18 maglie per palmo e, se chiara, 12 (anche
per catture più grosse).
L'altezza di galleggiamento (controllata dal numero di galleggiati) varia in dipendenza della
stagione di pesca e della relativa presenza del banco di prede, ponendo sempre attenzione alla
profondità della zona di pesca.
Reti per tonnetti
Motulare
Le motulare sono reti derivanti usate per la pesca dei tombarelli e dei tonnetti. Hanno le
stesse caratteristiche tecniche delle menaidi, ma possono raggiungere un'altezza di 20 – 25 metri
ed avere maglie di 4 – 5 cm.
A volte, quando si avvistava il banco, potevano essere utilizzate per circondare lo stesso (a
chiusa) e, facendolo impaurire con battute di remi sull'acqua e lanci di pietre (mmazzisciare),
indurlo ad incappare nella rete.
Reti di fondo
Spatuni a Tricase
Sputuni a Santa Maria di Leuca
Spituni ad Otranto e Castro
Gli Spatuni sono altre reti per la cattura delle sarde e degli zerri (pupiddhi) che possono
avere un minimo di 17 maglie a palmo ed un massimo di 21. La pezza di spatuni può
raggiungere la lunghezza di 18 canne e l’altezza di 10 – 15 metri.
Sono reti da posta fissa che pescano prevalentemente a fondo, spesso sabbioso, per la cattura
degli zerri. Nel periodo di cattura delle sarde (maggio) la loro azione di pesca viene spostata
appena al di sotto della superficie allungando (se dava acqua) i calari, e facendo lavorare la rete
sozza, cioè alla stessa altezza rispetto alla superficie, anche grazie all’aggiunta di grossi pesi di
pietra (criaturi) per assecondare l'andamento del fondale e/o di galleggianti (baie – sumaturi).
Nel calare un tonu de spatuni, un'estremità della rete viene legata a terra, in un punto preciso
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della costa (piscara) e, dopo averla distesa in senso perpendicolare alla stessa, viene assicurata
al calaru fornito di mazzara e di camaru.
Sciabica (tartana se di dimensioni ridotte)
La Sciabica è una rete a strascico da calare nelle piccole profondità, poco lontano da terra,
che consta essenzialmente di un sacco e di due braccia. Usata dalla riva in altre e numerose
marinerie italiane e mediterranee, per la morfologia della costa, nella nostra zona di riferimento
(rocciosa, alta e spesso a strapiombo sul mare), era utilizzata solo dalla barca (e da una sola
barca).
Dopo essere stata messa in mare, la sciabica assume la forma di una campana con due ampie
ali (i razzi o le razze) ed una calotta conica (mànaca), forata in testa e chiusa da un legaccio.
Ciascun braccio è suddiviso in tre parti che prendono nomi diversi (chiaru, puru e cazzaritu) in
relazione al numero di maglie per palmo che lo costituiscono e che vanno gradatamente, quasi
impercettibilmente aumentando, man mano che ci si avvicina alla bocca (vucca) della mànaca.
Quest'ultima termina, restringendosi progressivamente, nel pusceddhu, cioè nella parte più
stretta e più profonda dove il pesce viene a raccogliersi dopo essere rimasto intrappolato e che
viene slegato per la fuoriuscita delle prede. Lungo i bordi della rete, definiti dai cavi (calàri),
sono disposti, in bande opposte, i galleggianti ed i pesi che hanno il compito di reggere
verticalmente le braccia della sciabica e, soprattutto, di tenerne aperta la vucca. Le due estremità
della grande rete, le sue razze, terminano su due pezzi di legno molto resistente (màngani) a cui
sono assicurati i cavi utilizzati da due coppie di pescatori che, dalla barca, ritirano la sciabica.
Interessante, data la particolarità dell'utilizzo della sciabica dalla barca: alcune ore prima
dell'alba, nelle notti serene e calme (il capobarca accendeva un fiammifero e, solo se rimaneva
acceso ed il cielo era privo di nubi, si procedeva alla battuta di pesca) si gettava un àncora
(fierru) assicurata, generalmente, al cavo di dritta della sciabica e che avrebbe contribuito a
tener ferma la barca al momento della salpata. A metà del cavo, era disposto un galleggiante
(camàru) a segnare il punto in cui bisognava riportare la barca dopo la positura per avviare la
procedura di ritiro. Facendo proseguire la barca, si filava in mare il cavo di dritta sino a
raggiungere i màngani e, virando a sinistra, ad angolo retto, si procedeva a distendere l'intera
rete, filando in mare anche il cavo di sinistra e facendo convergere la rotta verso il segnale
galleggiante per ancorare la barca ed iniziare le operazioni di recupero della sciabica.
L'equipaggio si disponeva quindi per la salpata, con due uomini a prua e due a poppa. Si
iniziava a ritirare il cavo di sinistra (capu de fore) sino al raggiungimento di un apposito segale
di stoffa (trasatùra), posto sullo stesso ad indicare che le ali della sciabica si erano disposte
parallelamente. A questo punto, le due coppie iniziavano a ritirare contemporaneamente, con
vigore, prudenza, cautela e sincronismo, prima le due braccia e poi la mànaca ed il suo
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pusceddhu, spesso pieno di oltre 5 quintali di pupiddhi.
La quantità di pesce pescato con la sciabica, anche in una sola battuta, era tale che solo gli
armatori in possesso di tale 'ngegnu, avevano un credito aperto dai fornitori di materiali della
zona.
La sciabica in Libano
La sciabica da terra in Libano si chiamava garuf. Si assicurava un capo sulla spiaggia e
quindi si calava la rete in mare, riportando a terra il secondo capo. Le reti più grandi venivano
tirate dalla spiaggia, con le due cime, grazie a 20 persone. Quelle più piccole necessitavano di 4
persone.
Fondamentale, per la buona pesca con la sciabica da terra, era la lunghezza dei due cavi:
quanto più lunghi erano, più a largo potevano essere calate e quindi strisciare su un fondale più
ampio. A volte le cime erano lunghe fino ad un chilometro.
Con questo tipo di pesca si prendevano tutti i pesci: dai più piccoli a quelli grossi fino a 25
kg.
Questa rete era posseduta, in genere, dal pescatore più ricco, che quasi sempre aveva anche
più esperienza ed era il capo (rais).
Reti per sgombri
Puri a Tricase
Schietti a S.Maria di Leuca
Sono reti da posta fissa, alte dai 3 ai 5 metri, utilizzate per la pesca degli sgombri (culei), dei
sugarelli (spicaluri) e delle boghe adulte (vope de mazza). Sono realizzate da un numero di
maglie variabile tra un minimo di 8 a un massimo di 13 per palmo.
Reti miste
Bardascioli
I Bardascioli sono un particolare tipo di rete utilizzata per la pesca delle palamite, delle
ricciole, dei sugarelli (spicaluri), etc. Per metà della loro altezza (può raggiungere i 10 metri di
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altezza con maglie dai 3 ai 5 cm circa) sono delle vere e proprie reti trimagliate (tramacchiati),
cioè composte da una mappa centrale e da due mappe esterne (tramicchiu) a maglie molto
larghe (15 cm. circa). La lunghezza di una pezza è di circa 20 canne ed il tonu è formato, in
media, da 10-15 pezze.
Reti alte
Ritote
Le Ritote, utilizzate per la pesca della palamite, delle ricciole, dei sugarelli ma anche dei
tombarelli e dei tonnetti, sono dei bardascioli armati di sola mappa centrale, senza tramicchi.
Reti per argentini
Manosciara a Tricase Porto
Manusciara o Cornoliera a Leuca
Minosciara a Castro
E’ una rete di circa 100 metri di lunghezza per due metri e mezzo di altezza. Il filo con cui è
realizzata è molto sottile ed ha 24 - 25 maglie per palmo. E’ armata con piccoli galleggianti
posti alla distanza di due palmi l’uno dall’altro e, alla base, con chiummine di 50 gr, poste alla
distanza di un palmo l’una dall’altra. Il nome manosciara deriva dalla tipologia del pesce
pescato, denominato manoscia, una specie di piccolo argentino che si avvicina alla costa, in
grossi banchi. La tecnica di cattura consiste nel delimitare, con la rete, su fondali bassi e
sabbiosi, uno specchio d’acqua, legandone i due capi alla costa. Una volta calata e chiuso lo
specchio d’acqua, dalla barca, rimasta all’interno, si cominciano a battere i remi sull’acqua
(mmazzisciare), od a lanciare sassi assicurati a delle funi (mazzare) per spaventare il banco ed
indurlo ad incappare nella barriera di rete.
Interessante è testimoniare, soprattutto dagli anziani, come venissero osteggiati e disprezzati
coloro che, pur professionisti, utilizzavano questa tipologia di pesca. Il battere fortemente
sull’acqua, per creare rumori, (tecnica in uso ogni volta che, anche con altre reti, si circondava
un banco individuato in una determinata zona) bruciava il mare (la manosciara bruscia), cioè
intimoriva così tanto i pesci da non farli riavvicinare a quel punto della costa per lungo tempo.
A dire il vero, la si usava soltanto per avere una qualche possibilità di guadagno quando, per
giorni, era impossibile uscire in mare a causa delle sue cattive condizioni. L'acqua, resa torbida
dalla mareggiata (acqua china), ne agevolava la posa in mare (anche in porto), senza che i pesci
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intuissero il pericolo che stavano per correre.
Altre tecniche di pesca
Nasse
La nassa viene fatta sdraiare sul fondo marino e tenuta giù dal peso di una mazzara
assicurata con una cima alla sua cupola. Per effetto della corrente, la nassa si dispone in
posizione contraria alla direzione della stessa presentando al pesce la zinna ossia la bocca
dell’imbuto. I pesci (zerri o boghe), risalendo la corrente, entrano nella nassa attraverso la zinna,
quasi cercando un rifugio dalla forza della corrente, rimangono imprigionati nello spazio
compreso tra la campa e le pareti della nassa. In particolare i maschi (masculari), subiscono
questa sorte rincorrendo le femmine (fimmaneddhe)
Le nasse vengono calate a coppia e, unitamente agli elementi con cui sono armate (cime,
galleggianti e pesi), prendono il nome di pede de nassa, composto dalla nassa de capu (legata
alla fune principale) e dalla nassa de cuda (legata ad un prolungamento della fune stessa, la
cuda). Ogni pede è evidenziato in superficie da un galleggiante detto bàiana, provvisto di un
particolare segnale di appartenenza, consistente in rami di olivo, di palma o di stoffe colorate.
Dalla bàiana si diparte un cavo, dotato di altri galleggianti (mazzi), posti a distanza di 5 passi
l’uno dall’altro.
Le Nasse in Libano
La pesca con le nasse era molto praticata in Libano. Una barca ne possedeva anche 40-50,
che però venivano usate due per volta. Ogni giorno si ritiravano quelle del giorno prima e se ne
calavano altre due.
Erano costruite con filo di metallo e bronzo, di forma tonda. Si usava innescarle con sardine
sotto sale, e si pescava di tutto, ma venivano impiegate soprattutto in primavera ed estate. In
inverno non si usavano.
Palangaro di superficie
Calòma o filu
La calòma si utilizza, soprattutto, per la pesca delle aguglie (àcure – àquere), innescando gli
ami con piccoli filetti di sardina, altri piccoli pesci o molluschi.
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Un proverbio ci fornisce l’idea della complessità di questa tecnica e della pazienza
necessaria per praticarla: “Se a castimare vo’ ‘mparare, pia ’a caloma e va a mare” (Se vuoi
imparare a bestemmiare, prendi la caloma e vai a mare).
Bolentino a mano
Togna (con ausilio di lampara)
Si pesca “al tocco”, avvertendo l’abboccata del pesce dalle vibrazioni trasmesse lungo il filo,
e dando un forte strattone per la ferrata definitiva. La salpata avviene a mano, con movimento
costante e senza scosse.
La barca è ferma ed ancorata, se il mare è mosso e soffia vento o, alla deriva, se il mare è
calmo ed il vento è completamente assente.
Con l’ausilio di una lampara per attirare i pesci, nelle ore notturne era utilizzata per la pesca
prevalente dei sugarelli (spicaluri) e degli sgombri (culei - maccareddhi) innescando gli ami
con dei piccoli pezzi di purpascina (la femmina del polpo, che veniva eviscerata, spellata e
tagliata a pezzi – a volte essiccata e conservata in vasetti di vetro per successive battute di
pesca); successivamente per esca si utilizzavano anche dei piccoli pezzi di sacchetti di nylon
bianchi. La voracità dei pesci, in talune occasioni, era tale che abboccavano all’amo nudo,
essendo sufficiente il solo luccichio di questo per attirarli.
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LE STAGIONALITÀ DELLA PESCA
Specie
Stagionalità
Vopa
Dicembre – Gennaio – Febbraio – Marzo – Aprile – Maggio
Pupiddhu
Novembre – Dicembre – Gennaio – Febbraio – Marzo – Aprile – Agosto – Settembre
Sarda
Dicembre – Aprile - Maggio –Giugno
Culeu
Febbraio – Marzo – Aprile – Maggio (in genere tutto l’anno con il cianciolo)
Maccareddhu
Giugno – Luglio – Agosto - Settembre – Ottobre
Spicaluri
Maggio – Giugno – Luglio – Agosto – Settembre – Ottobre
Rascapanaru
Luglio – Agosto
Furceddha
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
Palamita
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
Motulu
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
Tradizionalmente, l’annualità della pesca aveva inizio il giorno di San Michele (29
settembre) giorno in cui, i capobarca, provvedevano all'arruolamento dell'equipaggio.
Interessante è far notare che si doveva attendere lo stesso giorno per eventuali licenziamenti o
dimissioni che, se precedenti, dovevano essere ben motivati.
Si riporta il calendario della stagionalità seguendo tale tradizione:
Ott
Nov
Dic
Gen
Feb
Mar
Apr
Mag
Giu
Lug
Ago
Vopa
Pupiddhu
Sarda
Culeu
Maccaredduh
Spicaluru
Rascapanaru
Di seguito alcuni detti che aiutavano a scandire le stagioni di pesca:
“de Santu Mattia la vopa se minte in via, de San Valentino la vopa se minte in cammino”.
“Da’Mmaculata, la vopa è d’ovata”.
“nnà ddhunata, nnà mareggiata e la sarda e' passata”.
50
Set
CONSERVAZIONE A BORDO DELLE IMBARCAZIONI E
COMMERCIALIZZAZIONE DEL PESCE
Il tempo massimo che il pesce trascorreva a bordo delle imbarcazioni, dalla cattura
all’attracco, era di 2 ore circa. Non si ricorreva a refrigerazione artificiale, mancando le tecniche
di conservazione del freddo.
Sovente, quando il pesce intrappolato nelle reti era in quantità notevoli, le operazioni di
scameddhatura (rimozione del pesce dalla rete) proseguivano con la barca all’ormeggio in
banchina, ricorrendo all’aiuto dei familiari o di altri pescatori volontari. Comunque, fra la
salpata delle reti e la consegna al pescivendolo non si superavano le 2-3 ore.
Storicamente ed ancora oggi, il pescato fresco veniva sempre conferito ad un pescivendolo
(iatacaru – iaticaru) che si occupava della vendita al dettaglio. Non esisteva la figura del
grossista.
La filiera prevedeva, quindi, due passaggi commerciali:
−
dal pescatore al pescivendolo
−
dal pescivendolo al consumatore
Compravendita pescatore-pescivendolo (iatacaru - iaticaru)
Il pescivendolo preleva e prelevava il pesce in banchina, direttamente dalla barca. Nel
passato, non potendo conservare il pesce e dovendolo smerciare immediatamente, tale fase
comportava la pesata di tutto il pescato e l'annotazione della quantità e della specie su di un
apposito libretto, tenuto dal capobarca. Ogni capobarca possedeva due bilance (vaddhanze): una
di metallo, conforme alle disposizioni di legge, l'altra di giunchi intrecciati, formata da due
spaseddhe legate alle estremità di un bastone. Con quest'ultimo tipo di bilance si effettuavano le
operazioni di pesatura dei pesci venduti ai pescivendoli, i quali le preferivano in quanto le
spaseddhe non trattenevano l'acqua, garantendogli così una pesatura vantaggiosa ed “igienica”.
Per le misurazioni, si utilizzavano pesi di pietra, perfettamente equivalenti a quelli,
regolamentari, di ghisa. Generalmente, venivano usati pesi da 5 kg (pisa), 1 kg (rotulu), 2 kg
(ddhoi rotuli) e ½ kg (menzu rotulu). Le bilance ed i pesi di ghisa spesso rimanevano nel
magazzino del pescatore (rutta) e messi fuori solo in occasione di qualche sporadico controllo
dell'autorità portuale.
Il prezzo veniva contrattato direttamente sulla banchina, andando al ribasso in senso
inversamente proporzionale alla quantità pescata ma, quasi sempre, il prezzo era deciso solo dal
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pescivendolo, che provvedeva a ricompensare il capobarca ogni 15 giorni o alla fine del mese
(solitamente di domenica).
Tale sistema di compravendita è in uso ancora oggi con l'unica differenza che, mentre prima
lo iatacaru ritirava l'intera pescata, oggi preleva soltanto il quantitativo che ritiene di poter
vendere, lasciando al pescatore la restante parte. Soprattutto nella vendita del pesce povero
tradizionalmente pescato della nostra zona, il calo di consumo di pesce povero ha fatto si che il
lasciarne una grande quantità al pescatore, abbia diminuito l'interesse alla cattura e fatto volgere
lo sguardo a specie ittiche ora commercialmente più interessanti, dando inizio ad una caccia
sicuramente meno sostenibile e piuttosto selvaggia.
Non esistevano pescherie ed il pesce veniva venduto dai pescivendoli ambulanti che
utilizzavano, come mezzi di trasporto, le biciclette o i carretti a mano.
Il capobarca, ricevuto il pagamento dallo iatacaru, procedeva alla spartizione del ricavato tra
tutti i componenti l'equipaggio secondo le costumanze antiche, mai messe in discussione: con
equipaggio composto da cinque membri (compreso il capobarca), il ricavato era suddiviso in
nove parti, corrispondenti al numero degli uomini più due parti spettanti all'attrezzatura
('ngegnu) e due alla barca. Con quattro membri di equipaggio, si divideva per otto. A ciascun
membro dell'equipaggio, il capobarca riconosceva una mancia, consistente in un piccolo
quantitativo di pesce (rancata), soprattutto da destinare al consumo domestico.
Compravendita pescatore-pescivendolo in Libano
Il pesce veniva sempre venduto dai pescatori ai pescivendoli, che si chiamano semme. Non
vi era mai vendita diretta. Il pescivendolo comprava il pesce e lo rivendeva a quasi il doppio
del prezzo. Ad esempio se lo comprava a 5 lo vendeva a 7-8. Il pescivendolo pagava il
pescatore alla consegna, giornalmente, oppure ogni settimana. Il pesce veniva pesato sempre
alla consegna, con la bilancia messa a disposizione dal pescivendolo. I rapporti fra i due non
sempre erano buoni: ogni tanto si litigava per problemi sul prezzo o sul peso.
Per quanto riguarda il ricavato, si divideva in 5 parti: una quota per ogni pescatore e una
per la barca. Quindi il proprietario della barca prendeva 2 quote. Se le reti erano in numero
considerevole, ed avevano quindi un grande valore economico, veniva destinata una quota
anche ad esse.
Il pesce migliore, tuttavia, veniva tenuto dai pescatori, che lo dividevamo con il resto
dell’equipaggio.
Il compito di comperare il pesce nelle pescherie spettava sempre alle donne.
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Compravendita pescivendolo-consumatore finale
Il pescivendolo, rifornitosi di pesce direttamente in porto, si occupava della
commercializzazione nell’entroterra. Poteva avvalersi di una rete di piccoli rivenditori
(iatacareddhi) che, dietro modesto compenso o “a provvigione” sul guadagno, gli consentivano
di ramificare la vendita su un territorio più vasto, coprendo più paesi. Il trasporto era sempre
basato su mezzi di trasporto molto semplici, principalmente la bicicletta.
Gli iatacareddhi di Tricase era Pignata, che prendeva il pesce a Tricase e lo vendeva ad
Ugento, Pascalinu Russu, Tarremotu, Tanì. Tutti vendevano il pesce nei paesetti, e riuscivano
a racimolare qualche lira.
Il consumatore finale acquistava il pesce dagli ambulanti. Non esistevano forme di
confezionamento (carta, sacchetti): il pesce veniva posto, dalle massaie, nei panieri di canna o di
giunco (panari e sporte) o nei fazzoletti, a fagotto, e così trasportato a casa. Il pesce veniva
smerciato entro l’ora di pranzo. Non esistendo apparecchi per la refrigerazione, il ciclo di
commercializzazione - trasformazione - consumo, doveva necessariamente terminare entro le 68 ore dalla salpata.
Le massaie compravano il pesce per il consumo immediato, in pratica per trasformarlo entro
l’ora di pranzo. Sempre nello stesso arco di tempo, si trasformava il pesce per la sua
conservazione duratura (es. pupiddhi a salsa o pesci sotto sale).
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CENNI SULLE TRADIZIONI ALIMENTARI NELLE FAMIGLIE
DEI PESCATORI
Il regime alimentare
Il pesce, per ovvie ragioni, rappresentava l’alimento principe della dieta dei pescatori. Si può
senz’altro affermare, che, rispetto alle popolazioni dell’entroterra, il pescatore era anche
privilegiato, in quanto poteva contare su una riserva costante di proteine nobili animali, oggi
ritenute ottime per le importanti sostanze contenute, primi fra tutte gli acidi Omega3. Il pesce
utilizzato nella cucina era, però, solo quello invenduto, cioè:
−
la parte della “mancia”, ovvero la citata rancata di pesce suddiviso fra i membri
dell’equipaggio (pesce non vendibile perché di taglia ridotta);
−
gli esemplari rotti o rovinati, i quali, sebbene esteticamente meno attraenti, dal punto di
vista del sapore, avevano un “qualcosa in più”. Calando le reti di sera e tirandole al
mattino successivo, infatti, i pesci rovinati (parzialmente morsi da predatori come
murene, dentici) avevano il tempo di insaporirsi con l’acqua salata, risultando
decisamente più gustosi.
La fantasia e l’esperienza della donna, dunque, determinava la varietà delle ricette, avendo
sempre il comune denominatore nell’ingrediente pesce. In brodetto, fritto, arrostito, e in tutte le
possibili varianti, il pesce veniva consumato 7 giorni su 7.
Il pescatore-agricoltore
L’integrazione alla dieta, tuttavia, era una necessità tenuta in debita considerazione. Tutti i
pescatori, di Otranto, Castro, Tricase, Leuca, avevano un pezzettino di terra da curare quando
non andavano a mare, per assicurarsi ulteriori tipologie di provviste: verdure, legumi (fagioli,
ceci, piselli), la gallina e le sue uova rappresentavano una fonte di sostentamento e
diversificazione dell’alimentazione.
Si otteneva, in pratica, quell’unicum alimentare che oggi va sotto il nome di “dieta
mediterranea”. I più fortunati, inoltre, potevano contare anche su qualche albero d’ulivo, dal
quel ricavare il prezioso olio, anch’esso base imprescindibile della citata dieta delle nostre aree.
Il pranzo della festa
Nel giorno della festa, in pratica la domenica e le grandi festività, il pesce veniva preparato
al sugo, utilizzato per condire la pasta fatta in casa, cioè orecchiette e maccheroni (ricche e
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maccarruni) e sagne.
Per tale scopo erano preferiti i pesci di scoglio ma, dato il loro maggior pregio, la minore
quantità pescata e conseguentemente la possibilità di venderlo più facilmente, si ricorreva
sovente alla preparazione del sugo con il pesce azzurro (rascapanari, vope de mazza, ecc.)
Connubio pesce e frisella
La fonte dei carboidrati era chiaramente il pane che, nell’alimentazione salentina in genere,
aveva la variante della forma biscottata, cioè la fraseddha o friseddha. Il grande vantaggio di
tale alimento si trovava nella possibilità di conservarlo per mesi, nei recipienti di terracotta
(capase). L’unione della frisella con il pesce si aveva nel brodetto: l’abbondanza di sughetto
liquido aveva la funzione di rammollirla (spunsarla), potendo così mangiare insieme pesce,
frisella e sughetto in un connubio dall’indubbia gustosità.
D’altronde l’uso del biscotto, che nel Salento si è diffuso in tutto il territorio, anche
nell’entroterra contadino, è una costante di tutte le marinerie mediterranee. Un pane fatto
indurire con la seconda cottura in forno, nelle varianti di farine, forme, nomi, è sempre stato
presente, sin dall’antichità, in tutto il Mediterraneo prima e negli Oceani dopo, a bordo di
velieri, piccoli e grandi, di piccolo cabotaggio o d’altura.
La mmarenna durante la pesca
La merenda del pescatore rispecchiava la citata usanza dei marinai del brodetto con la
frisella. Quando arrivava l’ora del pasto, verso le 11.00, si sbarcava a terra (se possibile) al
riparo di un ridosso e, con il pesce pescato, si preparava un brodetto in pochi minuti. Sugli
scogli si potevano facilmente trovare dei pezzetti di legno, chiamati orfanelli (orfaneddhi),
portati dalle mareggiate, con i quali si accendeva un fuocherello. Si mettevano acqua e
pomodori in una pentola e, quando bolliva, veniva calato il pesce. Non era necessaria l’aggiunta
di sale, in quanto il pesce, lavato nel mare, prendeva già la giusta sapidità. Quando il pesce era
cotto (bastavano pochi minuti), s’immergevano le friselle e si mangiavano insieme al pesce e ai
pomodori; tutti prendevano il cibo nella medesima padella.
In barca, quindi, non mancava mai il necessario per preparare il brodetto: la bottiglietta di
olio, le friselle, i pomodori, chiaramente la padella e lu ‘mmile di acqua dolce, cioè il fiasco di
terracotta prodotto a Lucugnano.
I bambini
Anche la merenda pomeridiana dei bambini (molte volte il pasto principale), era basata sul
pesce: una sarda o uno spicaluru fra due fette di pane fatto in casa, il tutto condito con
l’immancabile olio.
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Ma i bambini avevano un asso nella manica: sin dalla più tenera età venivano istruiti dalle
madri a mangiare qualunque tipo di pesce, anche il più spinoso. Bastava fare un po’ di
attenzione, avere un po’ di pazienza e, soprattutto, il tempo necessario.
La dispensa in una casa di pescatori
La dispensa della moglie di un pescatore non era certamente caratterizzata da abbondanza e
varietà. Come precedentemente detto, il pesce era consumato prevalentemente fresco (si andava
a pescare ogni giorno, tranne che durante le mareggiate), e l’integrazione avveniva con legumi
secchi (conservati nelle capase) e con la verdura di campo. Rare uova e carne rappresentavano
più che altro delle eccezioni.
La conservazione del pesce, descritta più avanti nei dettagli, si attuava fondamentalmente
con due ingredienti: il sale e l’aceto.
Alici, rascapanari, sarde venivano messi sotto-sale nei recipienti di terracotta (stangati) e,
dopo 3-4 mesi di maturazione, erano pronti per la consumazione. Ogni famiglia media (4-5
persone) ne metteva da parte una ventina di chili, come riserva annuale. Si mangiavano questi
pesci nei giorni di mareggiata, oppure per accompagnare un paio di fette di pane, o per
insaporire qualche sughetto o soffritto di base.
Caratteristica di quest’usanza, comune a tutte le marinerie della zona, è che il pesce sotto
sale non veniva mai commercializzato. Ogni famiglia provvedeva alla propria esclusiva
provvista; a volte si regalava a qualche amico o cumpare, che apprezzavano e gradivano molto
volentieri il regalo. Raramente si usava come merce di scambio con prodotti dell’agricoltura.
L’aceto, invece, consentiva la conservazione del pesce a sarsa (pupiddhi, vope, masculari),
per 10-15 giorni. Si preparava soprattutto in primavera e risultava molto utile nei giorni in cui
non si poteva andare a mare per il cattivo tempo.
Si friggeva per bene, si lasciava un giorno/due a riposo, per ammorbidirlo, poi si cospargeva
di pane grattugiato e si condiva con menta ed abbondante aceto. Un piatto che trovava la sua
massima espressione a Castro nel giorno della festa della Madonna dell’Annunziata, il 25
marzo, in cui si consumava in abbondanza durante i festeggiamenti del paese.
Una moderna forma di conservazione, che ha preso piede nelle famiglie dei pescatori, è il
pesce sott’olio (sgombri, tonnetti) ma, questa usanza non rappresenta una vera e propria
tradizione, in quanto l’olio necessario deve essere abbondante e tale alimento era troppo
prezioso per essere usato in questo modo. Pertanto, non consideriamo questa pratica nel novero
dei sistemi tradizionali di conservazione.
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RICETTE DELLA TRADIZIONE
Ricette per la conservazione
Pupiddhi alla salsa (anche vope e spicaluri)
Si lavano per bene i pupiddhi, preferibilmente con acqua di mare. Si infarinano e si friggono
in olio bollente. Si mettono in un vaso di terracotta smaltata (limmu), sistemandoli a strati
ricoperti da abbondante pane grattugiato, menta ed aglio tritati finemente, bagnando ogni strato
con aceto di vino e con pochissimo olio. Prima di consumare, far riposare per alcuni giorni. Il
periodo di conservazione è di oltre quindi giorni.
Questa tecnica è diffusissima, nel Capo di Leuca, per conservare diversi prodotti sia del mare
che della terra.
Questa ricetta era anche una pietanza tipica dei pranzi di matrimonio: vope de mazza,
pupiddhi, lucerti venivano disposti e conditi dentro grandi piatti ed offerti agli invitati.
Vopa sfumata
L'affumicatura è uno dei più tradizionali metodi di conservazione del pesce, anche se nella
nostra zona era utilizzato solo nella conservazione delle boghe per un periodo di 15 – 20 giorni.
Consisteva nel far passare un grosso filo di spago tra gli opercoli delle boghe (eviscerate),
utilizzando un piccolo giunco (sciuncu) e nell'appenderle in un angolo del camino (cantune), un
tempo acceso tutti i giorni, dalla mattina alla sera.
Sarde sotto sale
Dopo aver eliminato la testa e le interiora, si procede a lavarle accuratamente,
preferibilmente con acqua di mare. Sul fondo di un recipiente di terracotta (stangatu) o vetro,
alto e ben pulito, si dispone un primo strato di sarde e si ricopre interamente con abbondante
sale grosso. Si alternano uno strato di alici ad uno strato di sale, fino al completo riempimento
del recipiente. Si pone, al di sopra dell’ultimo strato di sale, un coperchio di legno, di diametro
appena inferiore a quello del recipiente, sopra il quale, per almeno quindici giorni, si colloca
una grossa pietra (circa un chilo). Si conserva per tre-quattro mesi in luogo asciutto, scuro e
fresco, eliminando il liquido che si viene a formare in seguito alla disidratazione del pesce, ma
prestando attenzione a che ne rimanga almeno un centimetro a coprire il tutto. Quando le sarde
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raggiungono una colorazione rossastra, sono mature e pronte al consumo.
Sotto sale si possono conservare anche i pupiddhi, gli spicaluri, i maccareddhi ed i culei.
Questi pesci, al contrario delle sarde, prima della consumazione venivano anche arrostiti sul
fuoco e conditi con l’olio
Ricette per la trasformazione
Pastina in brodo di pesce spisciatu
Molto utilizzata nelle famiglie di pescatori, soprattutto in quelle numerose, consisteva
nell'utilizzare i pesci rotti e rovinati (non vendibili) che, invece di essere gettati o dati ai gatti,
contribuivano a realizzare una vera leccornia.
Si mette in una casseruola dell'acqua, qualche pomodoro maturo e spezzettato, fettine di
cipolla, uno spicchio di aglio, qualche fogliolina di prezzemolo ed un po' di origano, olio d'oliva
e sale. Si porta a bollore, facendo cuocere per alcuni minuti, prima di aggiungere i vari pesci
(Pupiddhi, Vopareddhe ...), e continuare una breve cottura. Terminata la cottura, si passa il
tutto, pesci compresi, nel passaverdura e si utilizza il brodo (divenuto abbastanza denso) per
condire la pastina (vermicelli fatti a mano, lasciati seccare qualche ora nei setacci)
precedentemente bollita.
Nel brodo si poteva immergere anche la frisella (frasedda), o il pane fatto a casa, a seconda
dei gusti.
Sarde o alici gratinate (rracanate)
Le sarde freschissime devono essere scapuzzate (tolte le teste), diliscate delicatamente
(aprendole a libro con l'aiuto di un dito) e lavate bene. Si unge una teglia con pochissimo olio e
si spolvera con pane grattugiato. Si sistemano le sarde, nella forma originale, quindi si
cospargono con prezzemolo finemente tritato, uno spicchio d’aglio tritato, un pizzico di origano,
due-tre cucchiaiate di pecorino grattugiato e qualche cucchiaio di pane raffermo grattugiato
finemente. Si condisce il tutto con un pizzico di sale e un filo d’olio. Si inforna a 200°, sino a
quando non si sarà formata una crosticina dorata. Servire caldo nello stesso tegame di cottura.
Anticamente, la cottura avveniva nei tegami (stanati) con il sistema “fuoco sopra e fuoco
sotto”: il tegame, con il coperchio, venva avvolto dai carboni ardenti per il tempo necessario alla
cottura.
Alicetti crudi
Gli alicetti freschissimi devono essere scapezzati, eviscerati, lavati sotto acqua corrente. Si
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distendono su un panno ad asciugare, dopo averli cosparsi con un pizzico abbondante di sale. Si
sistemarno in un piatto da portata, condendo con pepe macinato al momento, olio extra vergine
di oliva ed il succo di un limone preventivamente filtrato. Lasciati insaporire per almeno un’ora
in frigo, vanno serviti freddi, accompagnati con fettine di pane. Gli alicetti crudi possono essere
gustati come ottimo antipasto.
Stanatu de sarde
Le sarde freschissime devono essere scapuzzate, eviscerate, diliscate, e lavate sotto acqua
corrente. Si distendono su un canovaccio ad asciugare. Si dispongono a strati in una pirofila
leggermente unta con olio, condendo con sale, prezzemolo tritato e pecorino grattugiato.
L’ultimo strato, condito come gli altri, deve essere cosparso con uova sbattute con pecorino
grattugiato. Si spolverizza con pane grattugiato e si condisce il tutto con un filino d’olio.
Infornare e cuocere per 45 min. in forno a 200°. Devono essere servite ben calde nella stessa
pirofila di cottura.
Pasta con le sarde salate
Si condiscono gli spaghetti cotti al dente con abbondante olio extravergine di oliva in cui è
stato fatto imbiondire uno spicchio d’aglio con pezzetti di sarde o alici salate, diliscate e lavate
bene sotto acqua corrente, una macinata di prezzemolo tritato finemente e un pizzico di pepe
macinato al momento. Spolverizzate con pane grattugiato, precedentemente tostato in olio.
Pasta al sugo rosso di pesce
Dopo aver eviscerato, squamato e lavato il pesce (vope de mazza, spicaluri autunni, ecc.), in
una casseruola si mettono spicchi di aglio ed olio extravergine d'oliva e si fa soffriggere. Si
adagiano i pesci sino a farli colorire da tutti i lati e si rimuovono dalla pentola. Si aggiunge
quindi la salsa di pomodoro si regola di sale e, verso fine cottura, si immergono nuovamente i
pesci. Bollita la pasta, la si condisce con il sugo, completando con una manciata di prezzemolo
tritato ed una spolverata di pepe nero, appena macinato.
Sarde spinate e fritte
Si puliscono delle belle sarde grosse, gli si toglie la testa e la lisca lasciandole attaccate dalla
parte del dorso. Si lavano per bene e si spolverano con un po’ di sale e si mettono a scolare. Si
passano poi nella farina da ambedue i lati e si immergono in un uovo sbattuto leggermente
salato. Si friggono in abbondante olio bollente. Si servono calde con qualche goccia di limone o
fredde spruzzate di aceto rosso di vino.
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sarde ripiene e fritte
Eviscerare e togliere delicatamente la lisca centrale (aprendole a libro con l'aiuto di un dito)
ad un kg di sarde freschissime. Lavarle sotto l’acqua corrente e metterle a scolare cosparse di
pochissimo sale. Preparare a parte un composto di: 100 gr di pane grattugiato, 50 gr di pecorino
grattugiato, 3-4 alici salate ben lavate, 1 rosso d’uovo, uno spicchio d’aglio ed un pizzico dio
origano. Impastare inumidendo con poco latte, se necessario. Dopo aver ben amalgamato gli
ingredienti, riempire con questi le sarde alle quali darete la forma iniziale richiudendole.
Passarle ad una ad una, nella farina, nell’uovo sbattuto leggermente salato, quindi nel pane
grattugiato. Friggere in abbondante olio bollente e servire ben calde.
sgombro o tonnetto all’agro o in insalata
Pulire e sfilettare il pesce (Culei – Maccareddhi – Furceddhe – Motuli). Immergerlo in acqua
bollente e aceto (nella proporzione rispettivamente di 2/3 e 1/3) e cuocerlo per 5 min. Adagiare i
filetti sul piatto da portata e condirli con olio extra vergine d'oliva, gocce di aceto, basilico e
pomodorini tagliati a rondelle. Servire freddo.
alici marinate
Le alici freschissime vengono decapitate, aperte e private della lisca centrale quindi disposte
a strati in una terrina spolverizzate di sale, irrorate man mano con succo di limone e lasciate
marinare così per almeno sei ore in frigorifero. Si elimina il liquido di marinatura e si coprono
di ottimo olio extra vergine d’oliva ed aromatizzate con pepe nero macinato al momento o
peperoncino a piacere. Possono essere consumate subito o comunque entro qualche giorno. Per
una conservazione più duratura si usa sostituire il succo di limone con aceto bianco di vino.
pesce alla maranara (in brodetto)
Mettere in una teglia qualche pomodoro ben maturo spezzettato, fette di cipolla, uno spicchio
di aglio, qualche fogliolina di prezzemolo ed un po' di origano. Condire con olio e sale e
aggiungere dell’acqua. Portare a bollore e cuocere per alcuni minuti, quindi, aggiungere i vari
tipi di pesce (i pescatori usavano qualsiasi specie di pesce provenisse dalle loro battute di pesca)
squamati (se necessario) e ben puliti. Cuocere a fuoco dolcissimo.
Il brodetto di pesci era il vero pasto tradizionale dei nostri pescatori sia in barca che a terra.
Versato sulle friselle (fraseddhe) sbriciolate, le ammorbidiva bene, e rappresentava un ottima
pietanza per riempire lo stomaco e riscaldare il corpo nei giorni di freddo.
Alcune volte si usava il pane di orzo scuro (le vastedde), che veniva consumato nei periodi di
ristrettezze, al posto del più costoso pane di frumento.
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àcure in guazzetto
Soffriggere cipolla, aglio (facoltativo) e peperoncino. Aggiungere dopo pochi minuti dei
pomodorini, sale, pepe, una spolverata di origano e cuocere per qualche minuto. Aggiungere le
aguglie eviscerate e tagliate a pezzi. Se necessita aggiungere dell’acqua. Cuocere a fuoco lento.
palamita alla pizzaiola
Preparare un soffritto con cipolla, aglio e peperoncino e cuocere fino a quando sarà
leggermente dorato. Aggiungere dei pomodori pelati e cuocere a fiamma moderata per circa 15
minuti, quindi adagiare la palamita preventivamente eviscerata e pulita. Continuare la cottura e
qualche minuto prima di spegnere il fuoco, aggiungere i capperi sott’aceto.
polpette di sarde
Le sarde fresche venivano prima lavorate sugli scogli, dentro le piccole conche con l’acqua
di mare, togliendo le teste e le interiora. A casa, il pesce veniva macinato e condito con le uova,
formaggio, menta. Si realizzavano le polpette, fritte in olio di oliva portato alla giusta
temperatura.
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PARTE II - LINEE GUIDA E PROTOCOLLO
DELLA FILIERA
62
LINEE GUIDA PER UNA FILIERA ODIERNA
Filiera del pisce currente e comunità locali
La ricerca storica svolta sulle comunità rivierasche, di cui è stata data una panoramica nei
precedenti capitoli, ha evidenziato una serie di “fari” di luce del passato, che si vogliono tenere
oggi in considerazione nel seguire le rotte verso un’economia sostenibile legata al mare ed al
pesce.
Faro n. 1: Pescatori custodi di biodiversità
L’analisi delle antiche pratiche di pesca ha dimostrato la piena consapevolezza, da parte dei
pescatori, almeno fino agli anni ’60, di una fortissima attenzione verso la tutela delle specie
ittiche, con una conoscenza empirica, ma profondissima, dei comportamenti e delle abitudini
delle varie tipologie di pesce, e la conseguente determinazione delle quantità prelevabili e delle
tecniche di pesca più idonee. Tale conoscenza ha portato alla costituzione di forme di autoregolamentazione ben definite e rispettate da tutti i pescatori, che ne comprendevano
l’importanza per assicurarsi una sostenibilità nel tempo.
I pescatori sono, dunque, il baluardo della conservazione della biodiversità, e come tale
hanno un ruolo primario nella messa a punto di una politica di tutela e valorizzazione del mare e
delle sue specie, come fattore di crescita umana e civile della comunità, fonte d’opportunità per
i giovani e per le future generazioni.
I pescatori saranno gli artefici del rinascimento della buona pratica, mettendo a punto i propri
attrezzi e le tecniche di pesca in ottica di eco-compatibilità, seguendo le stagionalità del pesce e
governando i prelievi dagli stock ittici, mediante un sistema di auto-regolamentazione che
prende ispirazione da quanto già fatto dai loro avi.
Faro n. 2: Prodotto biologico
La produzione e la commercializzazione di specie ittiche deve garantire la qualità del
prodotto, in ogni passaggio della filiera ittica.
La qualità, infatti, è un diritto del consumatore finale, al quale bisogna garantire un prodotto
identico, da tutti i punti di vista, a quello consumato dai nonni alcuni decenni fa.
I principali ambiti su cui concentrare gli sforzi verso un prodotto biologico e genuino, sono:
−
pesce totalmente privo di sostanze inquinanti, garantito, a valle, attraverso il
monitoraggio continuo delle partite di pescato, a monte tramite politiche territoriali di
63
limitazione dell’inquinamento marino;
−
freschezza, cioè vendita del pescato entro poche ore, tramite modelli commerciali
particolarmente rapidi
Quanto sopra può avere una pratica attuazione con l’applicazione delle moderne tecniche di
tracciabilità, che, nell’ambito di una filiera corta-cortissima, devono garantire il massimo
dell’informazione con procedure snelle ed economiche.
Un apposito marchio attesterà tale tipologia di prodotto, identificando la qualità del pescato e
delle modalità di distribuzione-commercializzazione .
Faro n. 3: Filiera corta e cortissima
Si devono intraprendere azioni di promozione ed organizzazione delle attività commerciali
volte all’avvicinamento del consumatore al pescatore, instaurando rapporti diretti tra produttori
e consumatori (filiera corta), e mettendo in pratica anche iniziative collettive di vendita gestita
direttamente dai pescatori (filiera cortissima).
L’attuale congiuntura, caratterizzata da una diffusa crisi economica, ha incrementato
fortemente la domanda di prodotti locali, più accessibili da un punto di vista del prezzo, in
quanto emerge fortemente la necessità di diminuire la spesa alimentare.
Occorre, quindi, fornire elementi utili ai soggetti della filiera per definire il giusto prezzo e,
contemporaneamente, educare i consumatori perché siano capaci di scegliere i prodotti e
attribuire loro un valore adeguato, riconoscendo eventuali distorsioni di prezzo.
Faro n. 4: Integrazione mare-terra
Le ricerche svolte sulle modalità di consumo di pesce e del regime alimentare delle comunità
costiere, ha evidenziato l’imprescindibile legame con il mondo dell’agricoltura.
L’unione dei prodotti del mare con quelli della terra, che ha sintesi nella “dieta
mediterranea”, deve essere maggiormente rivalutata e valorizzata, soprattutto nei confronti delle
generazioni più giovani.
Si ritiene che un elemento di altissimo valore aggiunto possa provenire da modelli di
intersezione/osmosi fra filiere ittiche ed agricole locali.
Il rapporto diretto dei pescatori con il mondo agricolo, infatti, si attuava in due modalità:
−
pescatore-agricoltore: sovente i lavoratori del mare coltivavano orti dai quali ricavare i
necessari prodotti integrativi alla loro dieta;
−
scambi diretti di prodotti: il baratto era una consuetudine diffusa che generava una
economia domestica rilevante.
Le filiere ittiche/agricole collegate e permeabili le une rispetto alle altre, possono, quindi,
creare un modello di “super” filiera dell’alimentazione delle comunità locali.
64
Faro n. 5: Cultura del mare
Ogni cambiamento negli usi e costumi vuol dire, in pratica, cambiamento culturale. Questo
aspetto è imprescindibile e fondamentale nell’attuazione di un progetto/programma di
valorizzazione di prodotti e pratiche, e di recupero di un rapporto armonico tra l’uomo e la
natura, nel rispetto delle tradizioni e dell’identità culturale, economica ed alimentare, del
proprio territorio.
Si dovranno attuare azioni per valorizzare il patrimonio ambientale e culturale, con
particolare riferimento ai borghi marinari, alla flora e fauna del mare e di tutta la fascia costiera.
Si dovranno attuare politiche di educazione, soprattutto dei più giovani, per renderli consci
del patrimonio alimentare ittico dei loro mari, della cultura dei pescatori e degli artigiani ad essi
legati, a tutela delle loro caratteristiche e tipicità.
La promozione territoriale dovrà, parimenti, essere un pilastro di tale linea programmatica,
per puntare alla creazione di modalità di fruizione turistica pienamente integrate nell’ambito
delle zone costiere, tenendo presente anche la recente istituzione del Parco Regionale OtrantoS.Maria di Leuca e Bosco di Tricase. Si dovrà incoraggiare l’organizzazione di sagre ed eventi,
le visite guidate presso i borghi marinari, l’ittiturismo, la costituzione di musei marinari, ecc;
Infine, un aspetto di particolare rilevanza è il cambiamento culturale negli operatori del
settore. A tal fine si promuoveranno programmi di aggiornamento professionale dei tecnici e dei
pescatori, attraverso l’organizzazione di corsi di formazione, di specializzazione, seminari e
workshop. Una scuola riconosciuta nell’ambito territoriale diventerebbe un punto di riferimento
per un’evoluzione della pesca verso una nuova forma di “modernità“.
Strutturazione della filiera
L’esame della filiera tradizionale ha evidenziato una serie di caratteristiche proprie che
rappresentano punti di forza nella valorizzazione della catena del valore del pesce azzurro e
povero:
−
Sostenibilità: le pratiche di pesca avevano regole e prassi consolidate per la
preservazione degli stock ittici nel tempo e, conseguentemente, la garanzia del
sostentamento alle future generazioni.
−
Eco-compatibilità: gli attrezzi erano caratterizzati dall’avere un bassissimo impatto
sull’ecosistema marino. I materiali utilizzati erano biodegradabili, la rotazione della
pesca (per stagionalità, per luoghi di pesca) garantiva i necessari tempi di recupero alla
flora-fauna marina.
−
Filiera corta e rapidità di arrivo del prodotto al consumatore: non esistendo i sistemi del
freddo, il pesce veniva commercializzato e trasformato entro pochissime ore dal
65
prelievo. La freschezza del prodotto, quindi, era garantita, sebbene a causa di forza
maggiore.
A partire da questi fatti salienti, si illustrano le linee guida per la strutturazione di una
moderna filiera del pisce currente, tenendo presente che oggi occorre considerare nuovi aspetti
fondamentali, quali:
−
la pratica di una pesca e di un commercio responsabili;
−
la continua operatività lungo la filiera, per consentire l'opportuna rintracciabilità ed
etichettatura dei prodotti ittici;
−
l'applicazione delle norme sulla sicurezza alimentare;
−
la stipula di accordi volontari, lungo la filiera, di qualificazione della produzione, e
l'applicazione dei contratti di filiera;
−
l’adozione di un marchio di qualità;
−
l'organizzazione di campagne promozionali;
−
la promozione dei metodi e degli strumenti di qualificazione e valorizzazione dei
prodotti ittici pescati;
−
la puntuale informazione dei consumatori e una comunicazione più diretta con
informazioni utili.
66
PROCOLLO DELLA FILIERA
Denominazione della filiera
Il nome identificativo della filiera del pesce azzurro e povero (pisce corrente) pescato,
commercializzato, trasformato nella zona di riferimento è: “Le Coste dell’Azzurro”. Esso si
identifica in un marchio registrato, comprendente nome, logo, modalità di uso.
Zona di riferimento
La zona di pesca di riferimento è quella compresa fra le competenze amministrative del
Comune di Otranto a nord e della Marina di Leuca (Comune di Castrignano del Capo) a sud. I
principali borghi marinari presenti sono:
−
Otranto
−
Castro
−
Tricase Porto
−
Marina di Leuca
Tutti gli addetti del settore rientranti della zona, pur non appartenendo direttamente ad uno
dei borghi citati, possono rientrare, avendone i requisiti, nella filiera della comunità “Le Coste
dell’Azzurro”.
Specie ittiche
Le specie ittiche ammissibili sono quelle afferenti al pesce azzurro e povero (pisce currente),
elencate nella seguente tabella.
Nome italiano
Nome scientifico
Nome dialettale
Aguglia
Belone belone
Àcura - Àquera
Boga
Boops Boops
Vopa –Voparedda – Vopa de mazza
Garrizzo
Maena Smaris
Zerro
Maena Chriselis
Zerro musillo
Centracantus Cirrus
Sardina
Sardina Pilchardus
Sarda
Lanzardo
Scomber Japonicus Colias
Maccareddhu – Zitella (Leuca)
Sgombro
Scomber Scombrus
Culeu
Pupiddhu
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Sugarello maggiore
Sugarello pittato
Trachurus Mediterraneus
Trachurus Picturatus
Spicaluru (Mmommu a Tricase)
nello stadio giovanile:
Zazà o Spicalureddhu (S.M. Leuca)
Rascapanaru (Tricase), Lucerteddhi (Castro)
Suro
Trachurus Trachurus
Spicaluru (tondinu - rutunnu)
Tombarello
Auxis Thazard
Motulu
Tonnetto
Euthynnus Alletteratus
Furceddha (Tricase – Castro)
Alletteratu (S.M. Leuca)
Palamita
Sarda Sarda
Palamita
Tecniche di pesca
Le tecniche di pesca utilizzabili sono:
Nome italiano
Nome dialettale
Cianciolo
Chianci
Reti per boghe
Voparizzi o riti a Tricase e Santa Maria di Leuca
Riti ‘oparizze a Castro
Menaide
Minaidi a Castro e Tricase Porto
Manàiara a Santa Maria di Leuca
Reti per connetti
Motulare
Reti di fondo
Spatuni a Tricase
Sputuni a Santa Maria di Leuca
Spituni a Castro
Sciabica
Sciabica
Reti per sgombri
Puri a Tricase
Schietti a S.Maria di Leuca
Reti alte
Ritote
Reti per argentini
Manosciara a Tricase Porto
Manusciara o Cornoliera a Leuca
Minosciara a Castro
Nasse
Nasse
Palangaro di superficie
Calòma o filu
Bolentino a mano
Togna
Periodo di pesca o di cattura
La stagionalità della pesca deve rispecchiare le tradizioni consolidate nel passato. Pertanto si
riporta una tabella di riferimento, che evidenzia i periodi di pesca per ciascuna specie, secondo
gli usi in vigore fino agli anni ’50 del XX secolo.
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Specie
Stagionalità
Vopa
Dicembre – Gennaio – Febbraio – Marzo – Aprile – Maggio
Pupiddhu
Novembre – Dicembre – Gennaio – Febbraio – Marzo – Aprile – Agosto – Settembre
Sarda
Dicembre – Aprile - Maggio –Giugno
Culeu
Febbraio – Marzo – Aprile – Maggio (in genere tutto l’anno con il cianciolo)
Maccareddhu
Giugno – Luglio – Agosto - Settembre – Ottobre
Spicaluri
Maggio – Giugno – Luglio – Agosto – Settembre – Ottobre
Rascapanaru
Luglio – Agosto
Furceddha
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
Palamita
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
Motulu
Settembre - Ottobre - Aprile - Maggio
I periodi evidenziati, tuttavia, possono essere suscettibili di variazioni annuali, per
attualizzare le consuetudini in relazione alla disponibilità degli stock ittici e alle condizioni
generali ambientali, che saranno oggetto di puntuale analisi periodica.
Conservazione a bordo delle imbarcazioni
Il tempo massimo intercorrente fra la salpata e lo scarico del pesce a terra, è di 2 ore.
La modalità di conservazione prevista nel suddetto arco di tempo contempla l’immissione
del pescato in vasche di materiale plastico, curando di non provocare riscaldamento eccessivo
del pescato. Tale periodo dalla pescata allo scarico deve essere ridotto al minimo per evitare
perdita di qualità organolettica. Non è consentito refrigerare il prodotto.
Conservazione e commercializzazione a terra
Il tempo massimo previsto fra la salpata ed il momento della distribuzione non deve superare
le 8 ore: una volta a terra, il pesce deve essere trattato nel minor tempo possibile.
I ristoratori devono trasformare il pesce entro le 16 ore dalla salpata.
Etichettatura
Il pesce dovrà essere esposto all’interno di apposite vaschette e/o cassette riconoscibili
attraverso segni, targhette o altri indicatori di marchio forniti dal concessionario o per conto
dello stesso, indicando in modo chiaro e leggibile le seguenti informazioni:
−
Nome della specie in italiano e in dialetto locale
−
Data e ora di pesca (salpata)
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−
Luogo esatto di pesca (piscara)
−
Nome del pescatore o della ditta di pesca
Controlli
Tutti i soggetti rientranti nella filiera dovranno garantire modalità di autocontrollo igienicosanitario secondo la normativa vigente.
Marchio “Coste dell’Azzurro”
Con il Marchio “Coste dell’Azzurro” vengono promossi, supportati e commercializzati
esclusivamente i prodotti ittici destinati al consumo fresco, trasformati e/o conservati secondo la
più rigorosa tradizione così come descritta nei precedenti paragrafi del protocollo. Possono
utilizzare il marchio le aziende, le organizzazioni pubbliche e private che, condividendone i
principi e gli scopi, ne facciano richiesta, identificandosi come appartenenti ad uno specifico
segmento della filiera (anche attività di supporto), nell’ambito della zona individuata
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CONCLUSIONE
La ricerca svolta ha portato alla luce alcuni elementi storici, etnoantropologici, economici
che di seguito riassumiamo:
1. Le marinerie della zona, sottoposte ad esame, non raggiunsero mai grandi economie,
contando piccole comunità di pescatori con barche di dimensioni ridotte. Ciò era
determinato dalla conformazione molto ostile della coste, esposta ai venti ed ai marosi
propri del Canale di Otranto, e dalla mancanza di grandi seni ove realizzare installazioni
portuali importanti. Le piccole insenature naturali, angusti ridossi strappati alle alte
rocce, sono stati tuttavia popolati sin da epoche remotissime, e conosciuti dai naviganti
come approdi temporanei per ripararsi dal cattivo tempo o rifornirsi di generi di prima
necessità, prima fra tutti l’acqua dolce. Pertanto, rappresentavano dei punti “caldi” dove
popoli e culture si incontravano, seppur per periodi brevi. Attestazioni di questa antica
miscela culturale ci vengono dalle testimonianze lasciateci nell’antichità: a Castro
sorgeva un importantissimo tempio dedicato alla dea Minerva, situato sull’altura
sovrastante il porticciolo, meta di continue peregrinazioni da parte dei fedeli precristiani; Tricase porto era dedicato alla dea Venere, per la bellezza dei luoghi, ricchi di
grotte incantevoli e ricchezza di acqua dolce; a Leuca, i Messapi e i Greci hanno
lasciato le loro iscrizioni nelle numerose grotte vicine, dedicando messaggi e preghiere
a diversi dei dell’olimpo. Quindi, piccoli porticcioli che però sono sempre stati centri di
frontiera, di incontro fra culture, fino ai giorni nostri.
2. Tale situazione di frontiera ha portato i pochi abitanti di questi luoghi a contaminarsi
culturalmente con numerosi popoli del Mediterraneo, e per questo sviluppare una
cultura (saperi, tradizioni, usi) che sono comuni a tutte le comunità di questo grande
mare, proprio perché condivise e scambiate nel corso di secoli. Risulta formidabile
come i pescatori di Tricase e quelli Albanesi o Libanesi, ad esempio, incontratisi per
attività progettuali negli scorsi anni, abbiamo dimostrato un efficacissimo modo di
comunicare e comprendersi: la loro lingua, un misto di parole, gesti, sguardi, risulta
essere veramente quell’idioma comune che ha sempre legato i popoli costieri del
Mediterraneo.
3. Le comunità costiere, quindi, risultano essere scrigni di cultura mediterranea, comune a
tutte le altre e nello stesso tempo peculiari, che devono essere preservate e trasmesse ai
posteri. La preservazione delle comunità e la loro valorizzazione non può prescindere
dalla tutela del prodotto fondamentale delle loro attività: il pesce. Occorre, quindi,
legare saldamente cultura e biologia, tradizioni e scienza per assicurare ciò.
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4. Una comunità, tuttavia, può agire, nell’ambito delle sue possibilità, con una presa di
coscienza del proprio valore, che proviene dalla loro stessa storia. Gli insegnamenti
degli avi devono, pertanto, essere ripresi, con nuovo vigore, e ristabiliti come linee
guida del vivere quotidiano. In questo senso un protocollo di filiera secondo la
tradizione può, e deve, essere uno strumento che, provenendo dal basso, cioè dai
pescatori, garantisca loro la sostenibilità ambientale, economica, e culturale.
72
FONTI
−
“Aneddoti di storia tricasina” di A. Raeli – Ed. Congedo Editore
−
“Leuca, una perla ai confini della terra” di A. R. Potenza – Ed. Leucasia
−
“Monografia di Castro” di L. Mangiulli – Ed. Pietro Galatino
−
“Uomini e attrezzi di mare” di A.C. Morciano e V. Cassiano – C. Culturale “La Ristola”
−
“Un canto sulla Marina Serra ed un breve cenno monografico di Tricase” di Francesco
Monastero Summonte – Ed. Tipografia del popolo (Maglie)
−
“Il Salento in cucina” di A. E. Foscarini – Ed. Congedo Editore
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Pietrino Petracca (Pietrinu Passacravotti)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Gino Capraro (Ginu Schirosi)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Nino Fersini (Ninu Gabbianu)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Rocco Cazzato (Roccu Nesca)
−
L’Esperienza ed il sapere del Sig. Salvatore Turco (Totu Ricciolu)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Mario Margarito (Mariu Pistoleru)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Antonio Schifano (‘Ntoniu Tarantini)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Francesco Capraro
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Vincenzo Rizzo (‘Nzinu Patucciu)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Rocco Ruberto e del Sig. Donato Cito (I Marascialli)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Andrea D’Amico
−
L’esperienza ed il sapere della Sig.ra Lucia Varrazza
−
L’esperienza ed il sapere della Sig.ra Annunziata Marino (Nunziatina Ciapili)
−
L’esperienza ed il sapere del Sig. Giuseppe Vallo (Pippi Mulese)
−
L’esperienza ed il sapere della Sig.ra Vittoria Turco
−
L’esperienza ed il sapere della Sig.ra Donata De Roma
−
L’esperienza ed il sapere dei pescatori della comunità di Otranto
−
L’esperienza ed il sapere di tutti i pescatori, delle loro mogli e delle loro famiglie, dei
borghi marinari di Castro, Leuca e Tricase.
−
L’esperienza ed il sapere dei pescatori e dei maestri d’ascia Libanesi di Batroun, Beirut –
Dora, Sour, Naqoura.
73
AUTORI
Alessandro Bortone
Antonio Errico
Salvatore Baglivo
Monica Martella
Elena De Marco
Emanuela Russo
Un particolare ringraziamento va a Francesco Ferraro per la sua collaborazione e
disponibilità.
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