La riflessione della decretalistica di fronte alla problematica dell

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La riflessione della decretalistica di fronte alla problematica dell
La riflessione della decretalistica di fronte
alla problematica dell’usura nel XIV secolo
Alessandro BUCCI*1
Abstract
The decretalistical doctrine and the legal form of usury in the Middle
Age. The response of the Church and the repression of a well-established
tradition in Europe. Relationship between civil law and canon law.
Keywords: usury, legal interests, repression, aliquid ultra sortem.
1. L’usura nei decretalisti
1.1. Premessa
La mole di lavoro dei decretalisti rispetto a quelle dei decretisti,
risulta essere sicuramente molto maggiore perché dovuta al corpus di norme esteso che questi si trovano a dover interpretare e
risente di una migliore impostazione sistematica. Per ciò che
concerne il nostro istituto giuridico occorre rilevare che sovente
gli autori interrompono il loro discorso per addentrarsi in problematiche che con l’usura si allontanano e di molto. La definizione che dell’usura che aveva dato Graziano e che era stata accettata dai decretisti, non soddisfa in pieno lo spiccato senso
critico dei decretalisti ai quali il quodcumque sorti accedit di Graziano appare alquanto vago e impreciso.
Prof. Alessandro Bucci predă Dreptul bisericesc, Drept civil şi Drept
roman la Facultatea de Drept Canonic, Institutul Pontifical Oriental din
Roma; Dreptul canonic şi Drept bisericesc la Facultatea de Drept a Universitaţii din Cassino (Italia).
1*
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Occorre considerare comunque, che tutti gli autori si preoccupano di dare una definizione dell’usura che, molto spesso, differisce l’uno dall’altra: ciò è da ricondurre non tanto ad una esercitazione di scuola, bensì al fatto che una definizione data
all’istituto dell’usura potrebbe ricomprendere o meno il crimen di
alcune attività. In altre parole, si potrebbe configurare l’ipotesi di
usura a seconda della definizione che viene man mano data.
Così Goffredo da Trani, “in hac descriptione, addo intentione
præcedente vel pacto”2, mette in rilievo il fatto che per esserci
l’usura occorre aver pattuito o, almeno, aver sperato di ricevere
qualcosa di più oltre al capitale.
Così Raimondo da Pennaforte che afferma “usura est lucrum, ex mutuo pacto debitum vel exactum, non enim puto usuram committi si gratis oblatum accipiatur”3, precisando che deve
esistere il guadagno (lucro) e che quindi non c’è usura se non c’è
quell’aliquid ultra sortem a titolo di interesse; il crimine di usura
è connesso al contratto di mutuo; il lucro deve essere pattuito o
riscosso per volere del creditore, perché un arricchimento conseguito a seguito di liberalità del debitore non sarebbe più lucro,
ma donazione e quindi perfettamente lecito.
Così l’Ostiense4 ricorda: “quodcumque solutioni rei mutuatæ
accedit ipsius rei usu gratia, pactione interposta, vel hac intentione
habita ex post facto”, dove si precisa che per potersi avere il delictum usuræ, non è necessario un apposito patto annesso al mutuo,
2
1580, in folio 212 recto.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par. I, Venetiis,
, Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. I, p. 227, Romæ, 1600. La definizione è ripetuta anche dal
(Niccolò de Tedeschi), Commentaria ad decretales, libro V, de usuris, expositio ad rubricam, Augustæ Taurinorum 1577, folio 123 recto;
, In V decreatalium libros commentaria, libro V, de usuris, cap. I, Venetiis, 1570,
p. 616.
4
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, de
usuris, cap. Qui sit usura, Lugduni 1568, in folio 372 recto.
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ma è sufficiente che si abbia l’atto della restituzione della sors, e
la percezione di un di più, che non sia per ciò stesso un dono.
1.2. La nozione di usura mentalis
L’Ostiense sembra che voglia ricomprendere nella sua definizione anche l’usura mentalis, ovvero quella che si commette quando
all’atto del mutuare il creditore spera che il debitore gli darà di
sua spontanea volontà un di più anche se non si è posto alcun
patto al mutuo. Non c’è dubbio che il problema dell’usura mentale viene risolta dai giuristi in modo molto complesso. Goffredo
da Trani5 sostiene che il creditore commette usura perché spinto
soprattutto dalla speranza di un guadagno. Se la speranza invece
è soltanto motivo secondario del mutuo e il motivo principale è
costituito dalla Charitas, allora non si avrà usura. Questi aggiunge
che “maximi momenti pro purgatio delicti usuræ commissi sola
spe non sufficit restituendi eius quod sic sorti accedit, sed sufficit
poenitentia, sicut poenitentia sola, purgatur simonia tantum animo
commissa”6.
Raimondo da Pennaforte non fa alcuna distinzione sui motivi
che conducono il creditore al mutuo e afferma che “sola spe,
sive intentio facit hominem usurarium, unde qui sub tali spe mutavit pecuniam, quidquid postea etiam gratis id est sine sua exactione oblatum ultra sortem acceperit usura est sive illud sit pecunia
numerata, seu frumentum”7 fondando questa convinzione su
alcuni passi del Vecchio del Nuovo Testamento, in particolare
Luca 6,35: “Verumtamen diligite inimicos vestros et bene facite
et mutuum date nihil desperantes; et erit merces vestra multa, et
Cfr.
, in Summa super titulis decretalium, de usuris, par. I,
Venetiis, 1580, in folio 212 recto.
6
Ibidem.
7
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. IV, p. 229, Romæ, 1600.
5
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eritis filii Altissimi, quia ipse benignus est super ingratos et malos”.
Il Pennaforte non si pronuncia sulla restituzione dell’aliquid ultra
sortem precipito in seguito all’usura mentale, ma le sue parole
fanno ritenere che gli pensasse che la restituzione da parte del
creditore fosse cosa doverosa.
Pietro da Ancarano8 riportando anche il pensiero di Giovanni
d’Andrea, accoglie il parere del Pennaforte ricordando brevemente che chi ha mutuato con la speranza di ricevere “aliquid
ultra illud quod dedit, usuram committit et per consequens ad
restitutionem tenetur”, e - perché si abbia usura mentale - non è
affatto necessario, come ritengono alcuni, che il debitore sia a
conoscenza della “prava intentio” del mutuante. Non c’è dubbio
che il sapere della intenzione riprovevole farebbe sorgere una
specie di accordo tra creditore e debitore.
Più vicino alle tesi di Goffredo da Trani appare senza dubbio
alcuno lo Zabarella per il quale l’usura mentale non è da considerarsi usura “ut tamquam ablatum subiaceat restitutioni”9. Il
Panormitano mette in evidenza, infine, cosa che non aveva fatto
nessuno fino a quel momento, che si può parlare di usura mentale solo in rapporto al forum coscientiæ e che pertanto solamente
in relazione alla coscienza che deve essere effettuata la restituzione10.
1.3. I motivi del divieto secondo i decretalisti
Tutti i decretalisti per dare maggiore concretezza alle loro
esposizioni, dopo aver largamente considerato il contratto di
Cfr.
, in Super sexto Decretalium, cap. I, lib. V, tit. 19,
Venetiis, 1585, folio 134 recto.
9
Cfr.
, in Commentaria ad Decretales, libro V, De usuris,
cap. consuluit, par. I, Venetiis 1612, folio 87 recto.
10
Cfr. in Commentaria ad Decretales, libro V, de usuris cap. X, Augustæ Taurinorum 1577, folio 127 recto.
8
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mutuo, quale è riconosciuto da tutti come il solo che possa dare
luogo all’usura11, stabiliscono l’etimologia della parola usura, che
potrebbe derivare da usus rei oppure da usus æris, e notano come
esistono due specie di usura: una spirituale che è lecita anzi, doverosa, che consiste nel fare del bene al prossimo e ricevere il centuplo da Dio per il bene fatto e che in definitiva altro non è che
la Charitas, e cioè il donare senza preoccuparsi se effettivamente
l’altro è in stato di bisogno o meno, ovvero senza chiedersi di
come venga usata la donatio. L’altra è corporale, illecita ed iniqua, e
che si suddivide in altre due specie: il foenus sortis e foenus foeneris.
Non c’è dubbio alcuno che solo l’usura corporale può evidentemente costituire l’oggetto dello studio dei decretalisti.
Innocenzo IV (Sinibaldo de’ Fieschi) iniziando il suo commento al titolo del Liber Extra che riguarda l’usura, sente il bisogno di chiarire quali siano i motivi che hanno portato la Chiesa a
proibire il prestito interesse e fu il primo canonista che affrontò
il grave problema in modo compiuto. Tranne Paucapalea, i giuristi precedenti, infatti, si erano limitati ad annotare come l’usura
fosse stata vietata dalle sacre scritture e dalla patristica, e questo
era stato per loro motivo sufficiente e tale da giustificare le più
gravi pene a carico degli usurai. Il Pontefice dopo aver ripetuto
che l’usura è proibita nel Vecchio nel Nuovo Testamento, prosegue elencando le ragioni che costituiscono il fondamento sul
quale è basata la condanna canonica del prestito ad interesse:
“usura proibita est quia si licere team accipere, omnia mala inde
sequerentur et maxime quia non intenderent homines culturæ possessionem, nisi quando aliud non possent et ita tanta esset caristia
quod omnes pauperes fame perirent et divides tum propter securitatem pecuniæ potius in usuras, quam in minora et minus tuta lucra
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par. I,
Venetiis, 1580, in folio 212 recto;
, Summula de
summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. I, p. 227, Romæ, 1600, solo per citarne
alcuni.
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poenerent pecuniam. Item alia causa est, quia vix potest esse, quin
aliquis usuras debens diu duret sine paupertate, quod nimis est
periculosa. Item multa mala sequuntur, quia in dividendo pecuniam et in diligendo vix evitatur idolatria, ibi enim est cor avari
nam est thesaurus tuus, ibi est cor tuus” 12.
In vulgo dicto: la prima di queste ragioni è data dal fatto che
se l’usura fosse permessa, gli uomini andrebbero incontro le
peggiori calamità. Infatti, le genti tutte abbandonerebbero le coltivazioni dei campi e vi sarebbe una così grave carestia che tutti
i poveri morirebbero di fame e ciò perché i possessori dei capitali non impiegherebbero questi ultimi nell’acquisto di beni strumentali che sono necessari per coltivare la terra; sarebbero solamente disposti a dare il denaro in prestito garantendo loro a
quest’operazione profitti maggiori e più sicuri di quelli derivanti
dall’esercizio delle attività agricole. Inoltre, se fosse lecito agli
uomini prestare ad interesse, si verificherebbe un fenomeno
molto pericoloso: quello, cioè, di un continuo e progressivo arricchimento delle classi più abbienti e di un altrettanto continuo
e progressivo impoverimento delle classi economicamente meno
elevate. Accanto a queste due ragioni di ordine economico e sociale, Innocenzo IV ne dà una terza di carattere prettamente fideistico e di biblica memoria: il fondato timore, cioè, che gli
uomini tutti presi dall’ansia di aumentare con l’usura il loro interesse, dimentichino Dio e diventino isolati di adoratori dell’oro.
Ai fondamenti addotti dal Pontefice Innocenzo IV si aggiunge
quello di Antonio da Budrio di non minore importanza. Questi
ricorda che la liceità dell’usura indurrebbe i cristiani a non seguire
più il sublime dei precetti angelici, la charitas, l’amore verso il
Cfr.
, In V decreatalium libros commentaria, libro V, de usuris,
cap. I, Venetiis, 1570, p. 615.
12
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prossimo e il dovere di aiutarlo disinteressatamente13. Un altro
autore, il Panormitano (Niccolò dè Tedeschi), tra i principali
motivi del divieto dell’usura ricorda l’antico il principio di Aristotele14, che il prestito ad interesse è contro il diritto naturale
perché considera fruttifero un bene (quello costituito dal denaro
o da un’altra cosa fungibile) che in realtà fruttifera non è. Il motivo enunciato dal Panormitano, vecchio ormai di quasi due millenni, ma sempre ritenuto valido, riceve ampio sviluppo da Mariano Socini, giurista, che enumera ben diciannove ragioni in
base alle quali l’usura è contro il diritto naturale. In effetti, queste
ragioni si riducono solo a quattro poiché il Socini cade spesso in
ripetizioni che possono essere così riassunte: “1) Quod usura
facit rem naturalem supervalere naturæ suæ, et artificialem arti
sua, cioè il denaro contrapposto le altre cose fungibili, che sono
cose naturali; 2) quod res mutuata quæ non generat fructum,
facit lucrum; 3) quia venditur ususr rei mutuatæ, cuius usus est
ipsa consumptio; 4) quia æquitas dicit quod pro æquali non exigatur inæquale”15. E’ interessante notare a lato, che il giurista
nell’ultima ragione, la diciannovesima, conclude in modo estemporaneo: “decimanona et ultima ratio fit universalis, plurima
complectens, quondam usura est res frugienda, abhorrenda
atque detestanda, tamquam molesta, nefraria Se noi consideriamo
le giustificazioni portate lungo l’arco di circa due secoli a sostegno
della proibizione dell’usura, possiamo notare come tutte queste
giustificazioni sono riconducibili a tre distinti ordini: e cioè ragioni dettate dalla fede (timore dell’idolatria e timore che si vada
Cfr.
, Commentaria ad decretales, cap. 19, X, 5, 19, par.
10, folio 67 recto, Venetiis 1758: “quidam sunt contractus quod solum procedere debent ex charitate, in quibus spes lucri indefinite est inhibita, ut mutuum”.
14
Politica 1-10. Cfr.
, Commentaria ad decretales, cap. de usuris,
folio 123 recto, Augustæ Taurinorum 1577.
15
, Commentaria in V decretalium, cap. de usuris usura quare
fuerit prohibita, Parmæ 1538, folio 202 verso e ss.
13
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contro il precetto della carità se); ragioni di età dal diritto naturale
(in produttività del denaro); e infine ragioni dettate da considerazioni di ordine e pace sociale (timore di carestie e di turbamenti
causati dalla eccessiva disparità di condizioni economiche tra le
varie classi della popolazione).
È evidente che i due ultimi ordini di motivi si ispiravano a una
economia prevalentemente fondata sulle risorse naturali e che,
quindi, non potevano adattarsi all’economia monetaria degli inizi
del secolo XII che si andarono sviluppando sempre di più nei
secoli successivi. Alcuni dei canonisti, sensibili alla realtà della
vita, pur continuando esporre questi motivi di condanna del prestito ad interesse, ammettono d’altro canto – come tra non molto
vedremo – che il ricevere qualcosa oltre il capitale nei casi di
danno emergente e di lucro cessante sia lecito.
1.4. Rapporti tra leggi civili e canoniche in materia d’usura
Il problema del rapporto tra leggi civili e canoniche, in materia
di usura, ha molti punti di contatto con quello esaminato finora.
Secondo Goffredo da Trani tra i due fori non potrebbe sussistere
alcun contrasto perché tanto la Chiesa quanto la società civile
hanno vietato il prestito interesse. Che vi fossero norme canoniche che proibivano l’usura non c’era nemmeno bisogno di dimostrarlo; difficile è, invece, riuscire a provare che anche nel diritto
Giustinianeo l’usura fosse vietata. Il giurista per provare il suo
assunto segue una via non proprio lineare: Giustiniano nell’Authenticum, testo legislativo posteriore al Digesto (nel quale l’usura
è permessa), stabilisce di osservare le norme emanate nei Concili
di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia16. Ma il capitolo 17
“De regulis ecclesiasticis et privilegiis, aliis capitulis ad sacrosanctas
ecclesias et reliquas venerabiles domos pertinentibus præsentem proferimus
leges. Sancimus igitur vice legum obtinere sanctas ecclesiasticas regulas, quas
a sanctis quattuor conciliis expositæ sunt, aut firmatæ, hoc est in Nicæno
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del concilio di Nicea, bandisce l’usura che viene in questo modo
proibita anche da Giustiniano avendo disposto che i capitoli dei
citati concili siano osservati allo stesso modo delle leggi. Né vale
obiettare, prosegue il fine giurista, che il capitolo 17 del Concilio
di Nicea s’indirizza solo ai chierici17, poiché “auctoritas tamen
quæ e sacra scriptura inducitur, generalis est et locum habet tam
in laicis quam in clericis”18.
Raimondo di Pennaforte, alla domanda se devono essere osservate le leggi civili che permettono l’usura, risponde: “dico
breviter quod non immo sunt omnes abrogatæ, quod probo auctoritate ratione et civili iure”19. Non c’è dubbio che l’autorità di
cui parla il Pennaforte sia da ricondurre al diritto divino e che il
princeps non può “condere leges contra imperatorem cæli”.
Questi inoltre sembra avere vedute più larghe del canonista di
Trani, poiché conclude il suo ragionamento sull’argomento con
parole dal tono conciliante: “illæ tamen leges, quæ permittunt
trecentorum decem et octo, et in Constinopolitano. Prædictarum enim quattuor Synodorum dogmata, sicut sanctas scripturas accipimus, et regulas sicut
leges observamus”, in Authenticum, collatio nona, tit. VI, de ecclesiasticis titulis et
privilegiis.
17
Il capitolo 17 del Concilio Niceno si trova tutto in Graziano, can. II,
Distincio XLVII: “Item ex Concilio Niceno. [c.] 17. Quoniam multi sub regula constituti auaritiam et turpia lucra sectantur, oblitique diuinæ scripturæ,
dicentis: “Qui pecuniam suam non dedit ad usuram,” mutuum dantes centesimas exigunt: iuste censuit sancta et magna sinodus, ut, si quis inuentus fuerit
post hanc diffinitionem usuras accipiens, aut aliquam adinuentionem uel quolibet modo negotia transigens, aut emiolia, id est sescupla exigens uel aliquid
tale prorsus excogitans turpis lucri gratia, deiciatur a clero et alienus existat a
regula”.
18
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par.
XIV, Venetiis, 1580, in folio 213 recto.
19
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. X, p. 236, Romæ, 1600.
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usuras exigi ratione interesse, vel ratione moræ, bonæ sunt et
approbandæ si sane intelligantur”20.
Tra i giuristi posteriori a questi citati, ce ne sono alcuni, come
l’Ancarano21, che restano fermi nella convinzione che il prestito
interesse sia, o che perlomeno dovrebbe essere, vietato nel diritto secolare; mentre ve ne sono altri come Antonio da Budrio
e Mariano Socini che, più aderenti alle esigenze economiche dei
secoli XIV e XV, sostengono che le leggi civili giustamente permettono la percezione di interessi in base al contratto di mutuo.
Interessante è soprattutto la motivazione portata a sostegno della
tesi di Antonio da Budrio, il quale afferma che, poiché gli uomini
non sono così caritatevoli come sarebbe auspicabile che lo fossero, il princeps ha ritenuto bene di ammettere la percezione
delle usuræ perché i poveri non morissero di fame22.
Come si vede lo stesso motivo d’ordine sociale è addotto, a
distanza di un secolo e mezzo da quando Innocenzo IV lo aveva
enunciato per spiegare il divieto dell’usura, a conforto di una tesi
del tutto opposta a quella cui originariamente accedeva. Ma ciò
che ancora più interessante è che anche Antonio da Budrio, nel
paragrafo precedente a quello in cui tratta il problema del rapporto che intercorre tra il diritto civile e il diritto canonico, si
occupa delle ragioni della proibizione dell’usura e non fa altro
che ripetere quello già addotte da Innocenzo IV e tra le altre riporta proprio quella dei “pauperes qui fame perirent” che in
Budrio risuona come “insurgeret puperem excidium”23.
Una così palese contraddizione si può spiegare se si considera
che i canonisti da un lato, sono portati a seguire le correnti di
20
Ibidem.
, Lectura super V decretalium, rubrica tit. 19, I, 5, Venetiis, 1585, folio 99 verso.
22
Cfr.
, Commentaria ad decretales, cap. 19, X, 5, 19, par.
3, Venetiis 1758, folio 61 recto.
23
Ibidem.
21
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pensiero tradizionali e ormai affermate; dall’altro si rendono
conto in modo quasi inconsapevole che le teorie dei loro maestri
non possono adattarsi ai tempi mutati e che quindi devono essere
cambiate. Su questa linea, Mariano Socini, respingendo il pensiero
di quei canonisti che vorrebbero l’usura vietata al diritto civile, si
attiene a considerazioni di carattere più strettamente giuridico di
quelle esposte da Antonio da Budrio. Il Socini sostiene, infatti,
che contro un solo testo di Giustiniano, il quale sembra vietare
l’usura, esistono innumerevoli altre che senza dubbio prevedono
il prestito ad interesse come lecito e che non c’è dubbio alcuno
che “per illa verba generalia, dum mandavit quattuor concilia
observari, voluerit usuras prohibere”24. Al lato occorre considerare che sia il Socini che gli altri decretalisti che si sono occupati
del problema in questione, hanno sì trattato ampiamente il dibattuto problema della validità delle leggi civili in materia di usura,
ma hanno spesso e volentieri completamente ignorato la vasta
produzione giuridica operata dagli ordinamenti particolari.
1.5. I contratti para-usurari: alcuni esempi
Come hanno fatto i decretisti e come ha fatto Gregorio IX
nel Liber Extra, anche i decretalisti prendono in esame un consistente numero di contratti per stabilire se sono stati conclusi in
frode al divieto dell’usura o contro di essa. In questa sede cercheremo di considerare soltanto alcuni contratti, perché la maggior parte di questi ha già formato oggetto di indagine da parte
dei decretisti e i decretalisti non prospettano a loro riguardo
nuove soluzioni.
, Commentaria in V decretalium, cap. de usuris, quo iure usura
quare fuerit prohibita, Parmæ 1538, folio 30 recto.
24
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a) La rendita vitalizia.
Nel secolo XII e in quelli successivi, doveva essere molto
diffuso il contratto della rendita vitalizia. Goffredo da Trani distingue due casi di vitalizio: a) una parte consegna all’altra, di
solito una persona giuridica ecclesiastica, una somma di denaro
e riceve in cambio una res in possesonem da tenere al fine di goderne
i frutti per tutto il tempo della sua vita. Alla morte della prima
parte sia il denaro che la possessione resteranno definitivamente
acquisiti alla seconda parte; b) una parte si obbliga affinché dopo
la sua morte, una sua proprietà sia trasferita ad una chiesa in
cambio dell’usufrutto della stessa e di un altro bene già di proprietà della chiesa. Per quanto concerne il primo caso Goffredo
dice che il contratto, ratione incertitudinis, potrebbe apparire lecito, ma in definitiva lo ritiene essenzialmente illecito perché la
parte che cede il bene spera di vivere talmente tanto, da percepire
più di quello che aveva dato; e basta questo per far avere usura
mentale:
“homines sperant vivere et sic taliter contrahentes credunt se amplius percepturus de possessionum proventibus quam sit pecunia
quam dederant. Et sicut in principio dictum est, sola spe contrahitur
vitium usurarum”25.
Nel secondo caso prospettato, invece, il giurista di Trani lo
ritiene “iustus. Est enim contractum precarium”26.
Dello stesso avviso ad omnia è Raimondo da Pennaforte27
ma anche il Panormitano, che considera la rendita vitalizia nel
suo aspetto tipico: “numquid sit licitum dare alicui centum, ut
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par.
XXX, Venetiis, 1580, in folio 214 verso. Sulla speranza di ricevere l’aliquid
ultra sortem, cfr. quanto detto nelle pagine precedenti al paragrafo 1.5.1.
26
Ibidem, par. 31, in folio 214 verso.
27
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. VIII, Romæ, 1600, p. 233.
25
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ipse singulis annis in perpetuum, seu ad vitam seu hæredum, det
tibi certum annum reditum, puta quinque”28.
Una critica al pensiero di questa parte della dottrina viene
formulata dall’Ostiense, rivelando che la speranza di un profitto
(“lucrum”), non può sussistere tanto nel primo, quanto nel secondo tipo di vitalizio e che quindi quest’ultimo contratto deve
essere ritenuto lecito o illecito in tutti due casi prospettati. Neque satis: il contratto è sempre lecito, dovendosi assimilare nella
prima ipotesi alla emptio-venditio (compravendita) che non al
mutuo e nella seconda ipotesi – abbracciando la tesi di Goffredo
da Trani – di un contratto precarium 29. Inoltre, ritiene lecito anche un altro contratto che molto si avvicina quello considerato.
Si tratta di un contratto aleatorio compiuto con un monastero,
che prevede lo scambio di pecore contro una rendita vitalizia
proporzionata al numero di ovini, anche “si numerus centuplicatus foret” oppure dovessero perire tutte30. A conclusione, occorre
considerare che il fatto che l’Ostiense si soffermi ad esaminare
tanto minuziosamente un negozio che col prestito interesse non
ha in verità molto in comune, dà un’idea sufficientemente chiara
dei raggiri e delle astuzie messe in opera dagli usurai per cercare
di nascondere i loro traffici.
b) Cartelle di debito pubblico.
Un altro contratto che dava luogo usura era un tipo di prestito
pubblico che si andava affermando nei secoli XIV e XV al quale
sempre più spesso ricorrevano le grandi città ogni volta che, in
tempo di guerra o di calamità, si trovavano a dover far fronte a
Cfr.
, Commentaria ad V librum decretalium, cap. VI de usuris,
par. VII, Augustæ Taurinorum 1577, in folio 126 recto.
29
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium,
De usuris, cap. An aliquo casu ultra sortem, Lugduni 1568, in folio 374 verso.
30
Ibidem.
28
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improvvise ed ingenti spese per le quali non potevano far fronte
con i propri fondi. Alla particolarità del soggetto che chiedeva il
prestito, se ne aggiunge un’altra che consisteva in ciò che l’acquisto delle cartelle del debito pubblico erano obbligatorie da parte
dei cives. Le città naturalmente garantivano agli acquirenti un
interesse del 5%; si riservavano la possibilità di eliminare le cartelle dalla circolazione rimborsando i possessori del capitale e
permettevano, infine, il libero commercio dei titoli rappresentativi del debito pubblico. Appare indubbio che, applicando rigorosamente la disciplina canonistica del divieto del prestito ad
interesse, è evidente che questi “imprestita”31 sarebbero stati
considerati come usurari, perché colui che acquista le cartelle del
debito pubblico altro non fa se non dare in mutuo alla civitas un
certo capitale per i quali viene corrisposto, seppur modico, un
interesse fino al giorno in cui egli non rientri in possesso del
capitale versato o mediante la vendita della cartella, oppure mediante il rimborso ottenuto da parte della città.
I decretalisti si rendono conto che ragionare in questo modo
avrebbe inasprito molto di più i rapporti che erano già di per sé
molto tesi tra la Chiesa e gli ordinamenti civili. Il contrasto non
potrebbe essere più stridente: da una parte la Chiesa vieta severamente il prestito ad interesse, imponendo perciò di restituire il
capitale percepito indebitamente e irrogando al contempo gravi
sanzioni a tutti coloro i quali non si uniformano al dettato normativo. Dall’altra parte, molti comuni stabiliscono nei loro statuti
che il prestito ad interesse è lecito e fanno confermare ai cittadini
questi stessi statuti con il giuramento cercando di impedire che i
debitori, una volta pagati gli interessi, tentino di ottenerne la restituzione adendo la giurisdizione ecclesiastica.
Tale il nome del prestito pubblico, secondo quanto riportato
dall’Ancarano, in Super sexto Decretalium, cap. I, lib. V, tit. 19, Venetiis, 1585,
folio 135 verso.
31
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243
Il motivo del contrasto va ricercato nell’opportuna diversità
dei fini dell’ordinamento canonico e dell’ordinamento comunale:
il primo ha come fine il raggiungimento della salus animarum tenendo conto dei privilegia e delle exceptiones e deve vietare il prestito
interesse perché questo negozio porta inevitabilmente con sé, come
notano San Basilio e San Gregorio32, “fidem faciens mendacio,
per juramenta, perjurium seum malum quemdam et adventitium
inhumanitatis quæstum acquirit”.
L’ordinamento civile si propone invece di procurare la pace
sociale e il benessere economico, e non può quindi fare a meno
di considerare lecito il prestito ad interesse, negozio che sta alla
base di ogni traffico commerciale e che dunque risulta essere
essenziale per la vita economica di un sistema monetario in pieno
sviluppo come quello dei secoli XIII e XIV. In altre parole, come
affermato dalla dottrina penalistica moderna e con una visione
del tutto laica, “le disposizioni penali contro l’usura, che si ispiravano un concetto di fraternità cristiana e di condominio dei
Su San Basilio, cfr. Homilia in partem Psalmi XIV et contra feneratores, in
, PG XXIX, 264C – 280C che afferma “usura mendacii principium
est; occasio ingrati animi, peridiæque et perjurii” (270B); leggiamo invece il
testo dell’omelia di Gregorio di Nissa nella moderna edizione curata da E.
(Brill, Leiden 1967), contenuta nel IX vol. delle Opere di Gregorio di
Nissa, pp. 193-207. Fra gli studi sulle nostre omelie segnaliamo: S.
, De
saint Basile à saint Ambroise. La condamnation du prêt à intérêt au IVe siècle, in Science Religieuse, 32 (1944), pp. 95-128; M.
, Aspetti economici fra III e
IVsecolo. Prestito ad interesse e commercio nel pensiero dei Padri, in Augustinianum,
17(1977), pp. 25-37; R.F.
, The teaching of the Fathers on usury. An historical study on the developments of christian thinking, in Vigiliæ Christianæ, 27 (1973),
pp. 241-265; F.
, La illegittimità del prestito di moneta a interesse in due
omelie del secolo IV», in AA.VV., Raccolta di scritti in memoria di G. Toniolo, Vita e
Pensiero, Milano 1929, pp. 287-325; O.
, Reichtum und Eigentum in der
altkirchlichen Literatur. Ein Beitrag zur sozialen Frage, Herder, Freiburg 1908; A.
, s.v. Usure, in D.Th.Cath., XV, col. 2316 s.
32
Il credito feneratizio, il τοκος, fu sempre fortemente
condannato in Isræle come uno tra i peggiori mali.
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beni, e che mettendosi in contraddizione con la vita reale, finivano
per ridurre ad uno stato ancor più misero le condizioni di coloro
che erano più deboli economicamente, costituivano l’attuazione
del pensiero politico medievale della Chiesa, quello cioè di dirigere tutta la vita del popolo e non solo quella morale, religiosa,
ma anche quella economica”33.
Di qui, e ponendo l’accento sui punti che diversificavano il
prestito pubblico tra il comune prestito interesse, riescono a dimostrare in modo molto convincente la liceità del primo. Forse
non era estraneo all’Ancarano e al Panormitano, i due canonisti
che più consapevolmente hanno affrontato l’argomento in questione, il pensiero che chi avesse liquidità lo impegnasse nell’acquisto di cartelle del debito pubblico piuttosto che darlo ad usura
anche a costo di un interesse sicuramente meno elevato. Ed è
per questo motivo, riteniamo, che il Panormitano considera leciti
i prestiti delle civitates perché questi non danno luogo al contratto
di mutuo “quia cives compelluntur subvenire communitati et non
possunt repetere quando volunt, licet communitas possit se esonerare ab illo debito solvendo capitale. Item commune libere
constituit lucrum”34. Ciò non di meno occorre ricondurre il prestito pubblico ad una categoria già nota di contratti, quale la
rendita vitalizia, reditum constitutum, che è perfettamente lecito
poiché in esso si possono rilevare gli elementi di una vendita e
non già quelli di un mutuo35.
L’Ancarano, invece, pone la sua attenzione esaminare se fosse
lecito o meno la vendita delle cartelle del debito pubblico, effettuata dagli originari acquirenti. I giuristi, infatti, erano arrivati la
Cfr. così D.
, Svolgimento storico del diritto penale canonico, in Enciclopedia del diritto penale italiano, a cura di E.
, vol. I, Milano, 1905, p.
666.
34
Cfr.
, Commentaria ad V librum decretalium, cap. VI de usuris,
par. VII, in folio 126 recto, Augustæ Taurinorum 1577.
35
Ibidem.
33
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245
conclusione che l’acquisto dei titoli rappresentativi del debito
pubblico fosse scusato dalla necessità quando era fatto dai cives
direttamente alla città; ritenevano invece che fosse illecita qualsiasi contrattazione dei titoli stessi effettuata dai cittadini tra di
loro in quanto poteva dare luogo a eventuali guadagni sospetti di
usura. Il Nostro, invece, considera questi titoli allo stesso modo
di ogni altra merce “quia precium pro eis crescit et decrescit”,
senza tenere conto che questi “subiacente etiam pericolo, quia
posset comune eis in totum tollere (scilicet valorem) et saepe
ipsis onera imponete”36; per tutte queste ragioni il giurista sostiene
che la compravendita di questi titoli deve ritenersi permessa anche
al diritto della Chiesa.
c) Un caso di scuola.
Un’ultima fattispecie e sulle quali molto si è dibattuto, è quella
che riguarda il caso in cui un mercante abbia intenzione di recarsi
in una città per acquistare dei beni che rivenderà traendone un
buon guadagno. Un suo amico, venuto a conoscenza del fatto, e
avendo bisogno di denaro, lo dissuade promettendogli di restituirgli entro un certo tempo, più della somma che doveva essere
adoperata nella speculazione commerciale. I giuristi e commentatori si chiedono se questo comportamento possa dare luogo a
usura; sicuramente la risposta sarà senz’altro positiva, perché non
c’è dubbio che ci si trova in presenza di un contratto di mutuo al
quale accede un patto con cui sono stati stipulati degli interessi.
La dottrina decretalistica però dà due opposte soluzioni a questa
fattispecie giuridica ritenuta molto importante e alquanto frequente. Giovanni d’Andrea, ricorda37 che Innocenzo IV aveva
36
Ibidem.
, Novella in Decretales, cap. 19 De usuris, par. 5, Venetiis
1581, in folio 77 verso: “quid si habens pecuniam volebat ad nundinas ire et
merces emere ut alium deferret vel tempore servaret propter lucrum. Ego
37
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sostenuto, sempre fedele ai principi tradizionali della Chiesa in
materia di usura, l’illiceità del contratto, mentre l’Ostiense aveva
detenuto il contratto perfettamente lecito. Occorre a questo proposito soffermarsi di più su questa disparità di vedute.
Innocenzo IV non aveva motivato la sua tesi in nessuna maniera, né del resto era tenuto a farlo dato che tutte le disposizioni
del Decretum e del Liber Extra stavano a suo favore. L’Ostiense
a sostegno della propria ardita tesi, aveva invece detto che l’amico
del mercante era obbligato a rifondere quest’ultimo dell’interesse
“illius lucri, quod facturus erat verisimiliter ex pecunia”38, purché
però fossero presenti due condizioni: in altre parole che il contratto non fosse stato concluso in una tal maniera per eludere il
divieto dell’usura e che il mercante non fosse solito tradere pecuniam ad usuram”.
Quanto a Giovanni d’Andrea, e gli preferisce il pensiero di
Innocenzo IV e aggiunge che il debitore sarà tenuto all’interesse
di cui parla l’Ostiense solo e soltanto quando non avrà pagato la
somma dovuta entro il termine prefissato. Se si accettasse il parere dell’Ostiense, continua Giovanni d’Andrea, si aprirebbe la
via al prestito ad interesse perché gli usurai sarebbero sempre
pronti a partire se fosse loro concesso di stipulare contratti di
questo tipo.
indigens pecunia illam recipio, offerens me illam restituere cum lucro sperato
in termino et loco? Dicit hic Innocentius, quod licet quidam contrarium teneant,
ipse putat hunc contractum usurarium, nec scit illum excusare. Hostiensis,
super eo capitulo salubriter, quod tali mercatori obligatus sum ad interesse
illius lucri, quod facturus erat verisimiliter ex pecunia, dummodo nihil fiat in
fraudem usurarum et dictus mercator dicto modo non consueverit pecuniam
tradere ad usuram; verius videtur dictum Innocentii et quod dicitur de interesse, illud, locum habet post moram debitoris. Et ex contrario praretur aperta
via ad foenus, staret enim usurarius paratus, si sibi liceret taliter stipulari sub
colore lucri sperati aliquid ultra sortem”.
38
Ibidem.
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247
Dei decretalisti che prendono in considerazione la fattispecie
de qua, come Antonio da Budrio e Pietro Ancarano, non esprimono un pensiero personale ma accettano quello di Giovanni
d’Andrea. Altri, al contrario, come Zabarella e Panormitano, apportano alla soluzione del problema nuovi elementi. Lo Zabarella
afferma che il guadagno conseguito dal mercante non è illecito
perché è ottenuto titolo di interesse e non di usura ammettendo
che il debitore corrisponda il lucro sperato, ma solo se questo
può essere valutato con una certa sicurezza. Certo è che il fine
giurista viene colto dal dubbio di essere stato troppo audace e
allora conclude dicendo “sed propter moltitudinem fraudis omnino debet prohiberi”39. E proprio quest’espressione riassume
tutto il pensiero dello Zabarella che in un certo senso è confermato anche dal Panormitano, quando dice “posset forte dici,
quod ubi mutuans ducitur bona intentione, et potius mutuat ut
serviat amico, quam in fraudem, quod tunc excusatur a peccato,
licet alia opinio sit tutior”40.
Anche il Panormitano quindi accoglie la tesi dell’Ostiense,
ma alla fine si accorge che essa potrebbe risultare molto pericolosa e allora, con un colpo di coda, ritorna al pensiero di Innocenzo IV che gli appare in quel momento più sicuro. La pericolosità della tesi di Enrico da Susa, visto ovviamente da punto di
vista dei canonisti del XIII e XIV secolo e non già al nostro,
Cfr. così
, Commentaria ad decretales, 1.5, De usuriis,
cap. naviganti, par. 2, Venetiis 1612, in folio 89 recto: “Pone habeo pecunias,
venis ad me, petis mutuum, dico, quod cum meis volo proficisci in Alemaniam et emere argentum, de quo lucrabo viginti pro centenario. Dicis et ego
volo tibi dare istud lucrum. An licet? Innocentius dicit quod non, quod tenet
Johannes Andreae et Johannes Cald. An quod oppone quia istud lucrum datur pro interesse, quod licet. Tu solum si omnino constare istum creditorem
esse iturum pro mercimoniis, et probatur posse existimare lucrum, forte
posse concedi, sed propter multitudinem fraudis omnino debet prohiberi”.
40
Cfr.
, Commentaria ad V librum decretalium, cap. VI de usuris,
par. XIV, Augustæ Taurinorum 1577, in folio 131 recto.
39
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consiste evidentemente nel fatto che, una volta ammessa la liceità
della percezione di interesse a titolo di lucro cessante41, si arriva
con una certa facilità ad ammettere in ogni caso la liceità del
mutuo che non sia gratuito.
In altre parole se è lecito che un mercante riceva dal debitore
l’equivalente del guadagno mancato, è anche lecito che un mercante possa pretendere sempre, per i prestiti da lui fatti, un certo
interesse, dato che facilmente gli si potrebbe presentare l’occasione di investimenti proficui se avesse disposizione la somma
mutuata. E, così facendo, non si vede motivo per cui non si dovrebbe vietare agli altri ciò che invece è permesso a un mercante.
1.6. Eccezioni all’aliquid ultra sortem.
Al tema dei contratti conclusi contro o in frode al divieto
dell’usura, si ricollega intimamente il tema delle eccezioni consentite al generale divieto di percepire l’aliquid ultra sortem. Infatti, tutti quei contratti che sono sospetti di usura e sono considerati illeciti, nello stesso tempo sono annoverati tra le eccezioni
perché in essi si ha la percezione, non vietata, proprio di un
qualcosa di più. Enrico da Susa, altrimenti detto Ostiense, ricordiamo, è tra i decretalisti colui il quale più ampiamente e profondamente si è interessato del delicato argomento, iniziando la
trattazione in un modo molto simile a quello usato da Giovanni
Teutonico: “generaliter vero hoc fermissime teneas quod non
licet ultra sortem aliquid exigere. Fallit in casibus”42, ecc. Certo è
La problema del lucrum cessans si riferivano sia l’Ostiense che Giovanni
d’Andrea (in Novella in Decretales, cap. 19 De usuris, par. 5, Venetiis 1581, in
folio 77) verso quando discutevano se dovesse essere pagato prima o dopo la
costituzione in mora del debitore, l’interesse “illius lucri, quod facturus erat
verisimiliter ex pecunia”.
42
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. An aliquo casu ultra sortem, Lugduni 1568, in folio 373
verso.
41
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249
che dopo queste parole il canonista enumera tredici eccezioni
che a suo avviso possono sussistere alla previsione dell’usura43.
Alcune di queste sono le stesse che aveva ritenuto esistenti il
Teutonico; per fare una comparazione tra i due giuristi: a) al favor
ecclesiae del Teutonico, corrisponde il secondo caso di Enrico
da Susa; b) al fideiussor, corrisponde il quinto caso; c) alla poena,
corrisponde l’undicesimo caso; d) all’interesse, corrisponde il
settimo caso; e) alla ratio incertitudinis, corrisponde il dodicesimo
caso.
Altre, invece, sono sostenute per la prima volta proprio
dall’Ostiense, oppure sono state avanzate da giuristi a lui precedenti o contemporanei tra i quali, ricordiamo, Raimondo da Pennaforte, Sinibaldo dè Fieschi (Innocenzo IV), Goffredo da Trani
e Bernardo da Parma e poi ripresi più felicemente dall’Ostiense.
Partendo proprio da quest’ultimo, si prende atto che opera
l’estensione ai laici dell’eccezione consentita nel Liber Extra al
cap. 8, libro V, tit. 19 ai chierici44 argomentando a contrario la
considerazione che “multa licent laicis quae clerici illicita sunt”45.
Un’altra eccezione è quella costituita da quel di più che si ottiene
dal debitore a titolo di donazione, elargita in modo spontaneo.
Di seguito è considerata eccezione la vendita a termine, il pegno
Ibidem.
Che riportiamo: “Alexander III. Salernitano Archiepiscopo. [...] Super
his fraternitati tuæ taliter respondemus, quod, sive ante sive post interdictum
nostrum usuras extorserint, cogendi sunt per poenam, quam statuimus in
concilio, eas his, a quibus extorserunt, vel eorum heredibus restituere, vel, his
non superstitibus, pauperibus erogare; dummodo in facultatibus habeant,
unde ipsis possint eas restituere, quum iuxta verbum B. Augustini non remittatur peccatum, nisi restituatur ablatum. Illi autem, qui non habent in facultatibus, unde usuras valeant restituere, non debent ulla poena mulctari, quum
eos nota paupertatis evidenter excuset”.
45
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. An aliquo casu ultra sortem, Lugduni 1568, in folio 373
verso.
43
44
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250
ricevuto dal genero in luogo della dote promessagli, lo ius belli–ius
usurae, casi tutti quanti fondati sulle note norme del Liber Extra
e sul canone XII, C. XIV, Q. III, altrettanto noto nel Decretum46.
L’Ostiense prospetta, infine, altre eccezioni ovvero la vendita
con patto di riscatto (de retroemendo), il denaro dato ad pompam e il mutuo che abbia costretto il mutuante a sopportare un
determinato lavoro. Se di scarso interesse sono le prime due eccezioni, perché non ci troviamo in presenza di mutui, ma di una
vendita di un bene immobile fruttifero con la possibilità del venditore di riacquistare il bene stesso senza che il compratore sia
tenuto a computare i frutti percepiti al capitale, e di una locazione, non differente da qualsiasi altra locazione, potendosi il denaro considerare alla stessa stregua di una res infungibilis.
L’eccezione in base alla quale è data la possibilità al debitore
di ottenere un compenso del proprio lavoro che ha dovuto svolgere in occasione del mutuo, è invece degna di nota poiché pone
il principio sul cui fondamento sorgeranno, poco dopo la metà
del XV secolo, i Monti di Pietà47. Tutte le eccezioni ammesse
dall’Ostiense confermate da Giovanni d’Andrea, Antonio da
Budrio e da Francesco Zabarella48.
C’è chi come l’Ancarano che propone nuove eccezioni, come ad
esempio l’amministratore che ha ricevuto una somma di denaro
Ibidem. Le norme del Liber Extra sono il cap. 6, 5, 19 per la vendita a
termine e il cap. 16, 5, 19 per il pegno dato al posto della dote, per i quali cfr.
par. 1.4.0 di questo nostro studio.
47
Cfr. A.
, s.v. Intérêt et usure, in D.D.C.,vol. XXX, pp. 1505 e ss.:
“Quelques – uns de ces établissements, qui avaient des ressources suffisantes,
faisaient des prêts gratuits. Mais la plupart demandaient un intérêt modéré,
qui servait a payer leurs frais d’administration, tels que les salaires du personnel, la location des magasins, l’achat des livres de compatibilité”.
48
Cfr.
, Novella in Decretales, De usuris, cap. VIII, par. 2,
Venetiis 1581, in folio 74 verso;
, Commentaria ad decretales,
cap. 8, par. 2, Venetiis 1758, folio 63 verso;
, Commentaria ad decretales, De usuriis, cap. 8, par. 2, Venetiis 1612, in folio 86 verso.
46
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251
dall’amministrato per acquistare un pezzo di terra: dopo un certo
periodo di tempo l’amministrato, chiedendo il rendiconto del
suo operato si accorge che questi non ha fatto l’acquisto di cui
era incaricato. Afferma l’illustre giurista49 che l’amministratore,
nel caso in cui si presentino queste circostanze, è tenuto a restituire all’amministrato non solo ciò che ha ricevuto per effettuare
la acquisto, ma anche gli interessi legali che questi avrebbe dovuto
recepire al terreno se, ovviamente, fosse entrato in possesso
come si prometteva di fare. La ratio lucri cessanti è senza dubbio
l’ispiratrice della soluzione dall’Ancarano, considerato come eccezione al divieto dell’usura.
Non c’è dubbio che si potrebbe obiettare che il rapporto che
lega l’amministrato e l’amministratore non è di per sé un rapporto
di mutuo e quindi ha scarsa importanza il fatto che l’Ancarano
parli di interessi percepiti a titolo di lucro cessante. Sennonché
occorre notare brevemente che si ha pur sempre una dazione di
una somma di denaro e questa dopo un certo tempo deve essere
resa insieme agli interessi, pagati per ricompensare colui il quale
aveva dato il denaro di un mancato guadagno. Del resto lo stesso
giurista poco dopo avere esaminato il caso dell’amministratore,
si chiede in che cosa consista l’interesse in ragione del quale tutti i
decretalisti50 concordemente ammettono si possa lecitamente recepire un qualcosa di più e risponde che l’interesse è composto dal
danno “contingentis” e dal lucro cessante, aggiungendo subito
, Lectura super V decretalium, De usuris, cap. 8, par. 6,
Venetiis, 1585, in folio 102 recto.
50
Cfr.
, Glossa ordinaria in Decretales D.
Gregorii Papae IX, Glossa de feudo, cap. 8, l. 5, tit. 19;
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. III, p. 228, Romæ, 1600;
, Novella in Decretales, De usuris, cap. VIII, par. 2, Venetiis
1581, in folio 74 verso;
, Commentaria ad decretales, cap. 8,
par. 2, Venetiis 1758, folio 63 verso;
, Commentaria ad
decretales, De usuriis, cap. 8, par. 2, Venetiis 1612, in folio 86 verso.
49
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dopo “dum tamen honeste in nomine consueto lucrari de pecunis
ut in negotiatiore”51 e come esempio porta quello di un mercante,
il quale, una volta che abbia costituito la mora al suo debitore,
può pretendere il versamento di una somma equivalente a quella
che avrebbe guadagnato in caso di tempestivo pagamento del
debito.
Ricollegandoci a quanto abbiamo detto precedentemente,
occorre ricordare che il Panormitano accetta la spiegazione data
dall’Ancarano circa l’interesse e porta, di più, un altro esempio di
una percezione lecita di interesse a titolo di lucro cessante: “idem
puto de isti viduis, quae solent ponere pecuniam in banchis, et
aliquod lucrum consequi ex honesto mercimonio”52, concludendo come “et de iure canonico possit peti aliquid ultra sortem
ratione interesse non solum damni contingentis, sed etiam lucri
cessantis”53.
Sono trascorsi circa tre secoli da quando Graziano affermava
che “usura est, ubi amplius requiritur quam datur, verbi gratia si
dederis solidos decem et amplius quaesieris, vel dederis frumentum modium unum et super aliquid exigeris; ecce evidenter
ostenditur quod quidquid ultra sortem exigitur usura est”54, e
non c’è dubbio alcuno che durante questo periodo di tempo, la
dottrina canonistica ha subito profonde trasformazioni.
1.7. L’usura manifesta e sua repressione.
Nel Liber Extra e nel Liber Sextus si prendono in considerazione norme di carattere più spiccatamente penalistico; norme
, Lectura super V decretalium, De usuris, cap. 8, par. 6,
Venetiis, 1585, in folio 102 recto.
52
, Commentaria ad V librum decretalium, De usuris, cap. VIII ,
Augustæ Taurinorum 1577, in folio 186 verso.
53
Ibidem.
54
Ad es. Liber Extra lib. 5, tit. 19, capp. 3, 5, 11, 15 e Liber Sextus, lib. 5, tit.
5, cap. 2.
51
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253
che presentano comunque notevoli interessi, perché i destinatari
non sono gli usurari ex sese considerati, ma quelli cosiddetti
“manifesti”, ovvero quelli che creano maggiormente scandalo in
quanto noti alla comunità. E questo rientra nei principi cardine
del diritto canonico. La ratio logico giuridica della norma è la vitatio scandali, principio ben noto al legislatore canonico, presente
già nelle Sacre Scritture. È per questo motivo che gli usurari “notorii evidentia facti”, ovvero quelli “notorii iuris”55, devono essere
puniti maggiormente rispetto a quelli “occulti” ovvero quelli che
rimangono ancora nell’ombra. Dello stesso avviso e sulla stessa
linea troviamo Bernardo da Parma, Giovanni d’Andrea e Baldo
degli Ubaldi56.
Certo è che non è semplice arrivare a stabilire la notorietas iuris:
differentemente da quella che può essere l’evidentia facti, che potrebbe sussistere, secondo questi commentatori, quando l’usuraio
tiene un banco per strada proprio per effettuare prestiti a interesse a tutti quelli che lo desiderano alla luce del giorno, la notorietas iuris si ha, secondo l’Ostiense, proprio quando l’usuraio è in
ecclesia publicatus, ovvero quando sia stata dimostrata la sua colpevolezza o attraverso la sua confessione o quella di testimoni. Il problema della determinazione della notorietas iuris viene a intrecciarsi
proprio con quello della chiamata in giudizio e anche, in ultima
analisi, con quello di riuscire a convincere del reato d’usura tutti
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. Quae poena usurariorum, Lugduni 1568, in folio 375
verso.
56
, Glossa ordinaria in Decretales D. Gregorii
Papae IX, Glossa manifestos, cap. Cum in dioecesi, l. 5, tit. 19;
,
Novella in Decretales, De usuris, cap. VIII, par. 2, Venetiis 1581, in folio 74 verso;
, Commentaria super decretalium, De officio delegati statuimus,
par. IV, Lugduni 1561, in folio 145 verso.
55
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quegli usurari che esercitavano la loro infamante attività in un
modo più o meno nascosto57.
L’usuraio, o meglio il presunto operaio, può essere chiamato
in giudizio a seguito della denuncia di qualcuno (denuntiatio alicuius) ovvero mediante procedimento ex officio, quando non ci
siano denunce, ma il giudice sia a conoscenza della fama di usuraio goduta da qualche persona. Il giudice competente in materia
d’usura, secondo i criteri uniformemente contenuti dei decretalisti, rimane quello ecclesiastico quando vi sono questioni di difficile soluzione, ritenendo invece la competenza al giudice secolare quando si tratta di risolvere questioni semplici. Baldo degli
Ubaldi, nel suo Commentaria, afferma che si può chiedere la restituzione delle usurae davanti al giudice secolare, quando l’ammontare degli interessi sborsati sia certo e quando risulta che il contratto, in base al quale gli interessi sono stati pagati, sia contro o
in frode al divieto d’usura. Nel caso contrario, il debitore dovrà
adire il tribunale ecclesiastico58. Bonifacio de Vitaliniis, sostiene
che
“quaestio usurarum potest agitari coram iudidi saeculares quando
non est quaestio sit usura vel non; vel quae contineantur nomine
usurae, vel an sit licita vel non, solum agi deberet coram iudici ecclesiastico. Unde quod dicitur causa usuraria est quasi spiritualis et
sic ecclesiastica non civilis, debet intellegi, hoc crimen usurarium
est ecclesiasticum. Tamen iudex saecularis tenetur audire debitorem renitentem solvere usuras et solutas repetere”59.
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par. VII,
Venetiis, 1580, in folio 212 verso.
58
, Commentaria super decretalium, De vita et honestate
clericorum, clerici, par. XVI, Lugduni 1561, in folio 377 verso e ibidem, De iureiurando, ad nostrum, in folio 304 verso.
59
In Commentaria in Clementinas constitutiones, De usuris, par. XLVII, Venetiis
1574, in folio 201 verso.
57
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Per il Panormitano60, l limitato potere giurisdizionale del giudice secolare è stato attribuito dalla Chiesa stante il principio
contenuto nel Liber Extra, lib. V, tit. 19 cap. 12: “Iudaeos ad remittendas Christianis usuras per principes et potestates saeculares
compelli praecipimus”. Non c’è dubbio che il capitolo si riferisce
solamente ai Giudei, ma il Panormitano, dandone un’interpretazione estensiva, arriva a concludere che
“sicut Iudaei possunt compelli per potestatem seu principem saecularem, ita et Christiani: est ergo istud crimen muxtum seu mixti
fori, ut possit fieri restitutio seu repetitio tam in foro saeculari
quam ecclesiastico; et hoc ubi non dubitatur contractum usurarium
esse, si autem dubitetur cognitio pertinet ad forum ecclesiasticum”.
Nicolò de Tedeschi si allontana in parte dalla dottrina più
tradizionale, perché per lui il crimen usurae deve essere annoverato
come un delictum mixtum. Ciò però sembra avere un’importanza
relativa perché anche i sostenitori dell’usura come crimen ecclesiasticum ammettevano in certi casi la competenza del giudice civile.
Certo è che per la canonistica tutta, il riuscire a provare la
colpevolezza di un presunto usuraio appartiene senza alcun
dubbio a questioni di pertinenza del giudice ecclesiastico: l’usuraio può essere convinto del suo delitto afferma l’Ostiense, “per
testes et indicia”61, dal fatto che il canonista parli ampiamente
degli indicia e quasi per nulla dei testes possiamo supporre che
molto più spesso il giudice dovesse servirsi del procedimento
indiziario e non di quello per testimonianza. E ciò confermato
, Commentaria ad V librum decretalium, De usuris, Quod miserabilem, cap. XII, par. 2, Augustæ Taurinorum 1577, in folio 128 recto, ma
anche Lectura aurea super quinque libris decretalium, Quod miserabilem, Iohannes
Schottus ed., Novi Novembris 1510, in folio 208 verso: “Casus coguntur Iudaei
ad restitutionem usurarum apud subitationem puersationis christianorum”.
61
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. IX Qualiter contractus usurarius detegatur, Lugduni 1568,
in folio 375 verso.
60
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dal fatto che lo Zabarella afferma che il giudice ecclesiastico
deve imporre, a quanti sono venuti a conoscenza di qualche elemento atto a convincere gli usurai a presentarsi a deporre “sub
poena excommunicationis”. Se il giudice era costretto a ricorrere
ad una minaccia così grave, è evidente che tutti quelli che potevano testimoniare contro gli usurai erano piuttosto restii a farlo:
“nam usurarii adhibent omnem fraudem quam possunt ut non
possit de his sciri, unde celebrant non per se, sed per meditatores,
et pignora faciunt transire per tres vel ures manus antequam veniant ad se”.
Gli indizi, in ogni modo, possono essere costituiti dal fatto
che a) il chiamato in giudizio è solito vendere “ad terminum
quam in presenti”; b) è solito contrarre spesso vendite con patto
di riscatto; c) oppure abbia rinunciato pubblicamente alla esazione
delle usure; d) ovvero contro di lui fanno fede gli “instrumenta
usurarum”62. Si è visto che il capitolo unico delle Clementine, 5,
563 stabiliva l’obbligo per gli usurai di esibire i libri contabili affichè facilmente si pot giungere a provare che erano in colpa:
“coeterum quia foeneratores sic ut plurimi contractus usurarios
occulte ineunt et dolose quod vix convinci possunt de usuraria pravitate, cum de usuris agetur, suarum codices rationum, censura ipsos decernimus ecclesiastica compellandos”.
Si ritiene che questa misura, come del resto molte altre, non
ottenesse l’effetto sperato se Giovanni d’Andrea ci riferisce che
gli usurai invitati alla esibizione dei codices rationum, rispondevano
Cfr.
, Novella in Decretales, Lib. V De usuris, cap. XV,
par. 2, Venetiis 1581, in folio 76 verso.
63
Tale capitolo equivale alle disposizioni sull’usura prese dal Concilio di
Vienna nel 1311. Cfr. precedentemente il par. 1.4.5.
62
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che li avevano perduti o che erano andati distrutti ed erano pronti
ad asseverarlo con il giuramento64.
In materia processuale dobbiamo ricordare alcuni problemi,
che, secondo la moderna terminologia giuridica si potrebbe definire di diritto processuale civile. Un fine giurista, Baldo degli
Ubaldi, ci ricorda di un caso che dovette verificarsi con una certa
frequenza davanti al giudice secolare, ovvero quello in cui l’attore
agisce in sede civile per ottenere la restituzione di una somma
mutuata e il convenuto solleva l’obiezione che il mutuo è viziato
d’usura. Baldo risponde che se il contratto di mutuo è chiaramente usuraio, il giudice secolare potrà trattenere la causa e risolverla; qualora vi siano dubbi sull’esistenza dell’usura o sia difficile
trovare la frode, la causa dovrà essere messo l’autorità ecclesiastica65.
Un altro caso che doveva presentarsi di frequente è quello
descritto da Antonio da Budrio secondo il quale un usuraio agisce in giudizio per ottenere la restituzione degli interessi pagati a
un altro usuraio; questi obietta che il primo non ha restituito ai
propri debitori le usurae a loro estorte come impone il capitolo
14, X, 5, 19, per il quale
“statuimus ut si quis usurarius a nobis litteras impetraverit super
restituendis usuris, nisi prius ipse restituerit usuras quas de aliis
nascitur recepisse, auctoritate litterarum ipsarum nullatenus audiatur”.
In questo caso, ispirandosi evidentemente a un criterio di
equità, il fine commentatore ritiene che la fattispecie sia stata risolta dall’Ostiense che aveva affermato, benché non avesse l’appoggio di alcun testo legislativo, che il giudice doveva respingere
Cfr.
De usuris.
64
, Ad Clementinas, glossa Compellendos, cap. unico,
, Commentaria super decretalium, De ordine cognitionum,
tuam, par. VI, Lugduni 1561, in folio 207 verso.
65
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la domanda dell’usuraio–attore ed era tenuto allo stesso tempo a
costringere ex officio l’usuraio–convenuto affinché soddisfacesse
“de usuris non agenti, sed illis quibus debet satisfacere agens et
a quibus agens extorserat usuras”66.
1.8. L’obbligo della restituzione delle usurae
Certo è che l’obbligo della restituzione poteva dare luogo anche ad altri problemi che la decretalistica ha esposto, seppur brevemente, ma in modo molto chiaro: secondo Goffredo da Trani
contro l’usuraio si poteva intentare un’azione personale e il giudice “ex ufficio suo” costringerà l’usuraio a restituire gli interessi percepiti in modo illecito67. Per l’Ostiense si tratterebbe più di
un “actio indebiti” dato che il denaro pagato a titolo d’usura non
è dovuto “quod non potest retineri sine peccato”68.
Diverso il caso in cui il creditore sia intenzionato ad effettuare
la restituzione dell’usura, ma il debitore è “absens in remotiis
partibus vel nescitur in quo loco sit”69. In questo caso secondo
Raimondo da Pennaforte il creditore deve inviare senz’altro la
somma di denaro in quel luogo che secondo la propria coscienza
dimori il debitore, o comunque dispensare le usurae ai poveri70.
L’Ostiense dà una soluzione molto più particolareggiata, ricordando che se il debitore è lontano a causa del trasferimento del
creditore, quest’ultimo è obbligato a inviargli la somma dovuta a
, Commentaria ad decretales, De usuris, cap. 14, par. 4,
Venetiis 1758, folio 65 recto.
67
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, de usuris, par.
XVI, Venetiis, 1580, in folio 213 recto.
68
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. Est autem usura reddenda, Lugduni 1568, in folio 376
recto.
69
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. XVI, p. 241, Romæ, 1600.
70
Ibidem.
66
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sue spese. In caso inverso il debitore potrà liberarsi facendo pervenire le usurae imputando a lui le spese a meno che queste non
superino l’ammontare del debito; in questa circostanza è opportuno che l’usuraio pentito distribuisca ai poveri quanto doveva71.
E non c’è dubbio, secondo quanto afferma il Pennaforte, che
l’usuraio deve rendere solamente i frutti che abbia ricavato dagli
interessi ottenuti al debitore contrariamente a quanto affermavano
Sant’Ambrogio e San Girolamo che, sempre secondo il fine
commentatore, “tenetur omnia restituere, quae enim ex radice
procedunt, corrupta sunt”72. Già lo Zabarella si accosta alle tesi
di Sant’Ambrogio e San Girolamo solo nella misura in cui l’usuraio è entrato in possesso di un bene produttivo di frutti; nel
caso di una somma di denaro, qualunque sia l’impiego fatto di
questo, l’usuraio sarà tenuto a restituire solo quanto ricevette73.
Questa tesi fu accettata in pieno dal Panormitano che nota come
i frutti ottenuti da un bene produttivo “procedunt immediate ex
usuraria pravitate”, mentre gli eventuali guadagni ricavati dal denaro “procedunt ex opibus suis et ex industria”74.
Per quanto attiene al dettato del Liber Extra, cap. 5, lib. 5, tit.
19 che aveva stabilito che la restituzione degli interessi andava
fatta ai debitori, ai loro eredi o ai poveri:
“Alexander III. Salernitano Archiepiscopo. [...] Super his fraternitati
tuæ taliter respondemus, quod, sive ante sive post interdictum nostrum
usuras extorserint, cogendi sunt per poenam, quam statuimus in
Cfr.
(Ostiense), Summa aurea sive copiosa de titulis decretalium, cap. De usuris, par. Est autem usura redenda, Lugduni 1568, in folio 376
recto.
72
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. XVII, p. 242, Romæ, 1600.
73
, Commentaria in Clementinarum volumen, De usuris,
cap. unico, par. 9, Venetiis 1579, in folio 180 verso.
74
, Commentaria ad V librum decretalium, De usuris, cap. XIX,
par. 21, Augustæ Taurinorum 1577, in folio 131 recto.
71
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concilio, eas his, a quibus extorserunt, vel eorum heredibus restituere, vel, his non superstitibus, pauperibus erogare; dummodo in
facultatibus habeant, unde ipsis possint eas restituere, quum iuxta
verbum B. Augustini non remittatur peccatum, nisi restituatur ablatum. Illi autem, qui non habent in facultatibus, unde usuras valeant
restituere, non debent ulla poena mulctari, quum eos nota paupertatis evidenter excuset Possessiones vero, quæ de usuris comparatæ
sunt, debent vendi, et ipsarum pretia his, a quibus usuræ sunt
extortæ, restitui, ut sic non solum a poena illa, sed etiam a peccato
possint, quod per usurarum extorsionem incurrerant, liberari”.
I decretalisti si soffermano su quale sia il significato più opportuno da dare al termine “pauperes”. Francesco Zabarella ci
ricorda che due erano le opinioni proposte: l’una facente capo
all’Ostiense che sosteneva che la distribuzione degli interessi
usurari andava fatta nel luogo stesso in cui erano state estorte le
usurae perché “in illo locum satum est damnum, melius ergo est
quod vicini sentiant commodum”; l’altra proposta da Federico
da Siena, che, pur apprezzando il pensiero dell’Ostiense, riteneva
che l’erogazione ai poveri potesse essere indifferentemente attuata in ogni luogo75.
È sempre inerente al dettato del capitolo 5, X, 5, 19, Goffredo
da Trani si chiede se il possesso acquistato con denaro di provenienza usuraia e passato di proprietà ad un terzo estraneo al rapporto tra creditore usuraio e debitore, resti allo stesso modo vincolato all’obbligo di essere venduto affinché il suo prezzo sia
restituito al debitore che pagò gli interessi. Il fine commentatore
dà una risposta negativa a patto che non ricorrano due condizioni: e cioè che il terzo sia entrato in possesso del bene ex causa
lucrativa” e che l’usuraio, o in sua mancanza i suoi eredi, siano
stati invano convenuti ed escussi in ordine alla restituzione delle
, Commentaria ad decretales, De usuris, cap. Cum tu,
par. 26, Venetiis 1612, in folio 85 verso.
75
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usurae76. A questa stessa soluzione arriva anche Raimondo da
Pennaforte che mette in risalto come ci si trovi in presenza di
un’eccezione ammessa – si badi bene – solo in materia di usura,
perché secondo le regole generali “vitia personalia non transeunt
ad successores”77.
Il Panormitano fonda invece la sua decisione, che è del tutto
in linea con quella dei primi due, interamente sull’aequitas che
impone che se una “res mea vel mihi debita pervenerit ad te ex
causa lucrativa, tu teneris eam restituere”78 .
Un’altra fattispecie di restituzione prevista per il reato d’usura,
era quella presente nel Liber Extra al lib. 5, tit. 19, cap. 9, per il
quale si imponeva agli aredi dell’usuraio la restituzione degli interessi del de cuius:
“Alexander III. Episcopo Placentino. Tua nos duxit fraternitas
consulendos, quid sit de usurariorum filiis observandum, qui eis, in
crimine usurarum defunctis, succedunt, aut de extraneis, ad quos
bona usurariorum asseris devoluta. Tuæ igitur quæstioni literis
præsentibus respondemus, quod filii ad restituendas usuras ea sunt
districtione cogendi, qua parentes sui, si viverent, cogerentur. Id
ipsum etiam contra heredes extraneos credimus exercendum”.
Non c’è dubbio che sorgevano due problematiche: se gli eredi
erano obbligati alla restituzione anche nei casi in cui l’usuraio
non aveva lasciato alcuna disposizione testamentaria; e se gli eredi
fino a che punto dovevano rendere gli illeciti proventi del de
cuius. Giovanni d’Andrea risponde ad entrambe le domande:
alla prima “scire debes quod dato quod usurarius de restituendo
Cfr.
, Summa super titulis decretalium, De usuris, par.
XVIII, Venetiis, 1580, in folio 213 verso.
77
Summula de summa, libro II, de usuris et pignoribus, par. XVII, p. 237, Romæ, 1600.
78
, Commentaria ad V librum decretalium, De usuris, cap. XIX,
par. 21, Augustæ Taurinorum 1577, in folio 125 recto.
76
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non mandet, haeres nihilominus restituire tenetur”79. Quanto al
secondo quesito egli ritiene che l’erede dell’usuraio sia sempre
tenuto ad effettuare la restituzione “secundum vires haereditates,
et non ultra, si fecit inventarium”80. Certo è che queste parole
lasciano sottintendere che l’erede che non abbia fatto l’inventario
è sottoposto all’obbligo di restituzione degli interessi percepiti
dal de cuius, anche oltre le forze dell’eredità. Non c’è dubbio che
una simile tesi sia troppo severa, tenuto conto che sia l’Ancarano
quanto il Panormitano, sempre in nome dell’equità, arrivano a
sostenere che l’erede dell’usuraio deve essere obbligato a restituire
solo entro i limiti di quanto gli è pervenuto81.
79
quamquam, Venetiis, 1581.
80
Ibidem.
, Novellae in Sextum, glossa Mandaverit, cap. II,
, Lectura super V decretalium, De usuris, cap. Tua nos,
par. 7, Venetiis, 1585, in folio 210 verso;
, Commentaria ad V librum decretalium, De usuris, cap. IX, par. 11, Augustæ Taurinorum 1577, in folio
127 recto.
81
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