Jacopo Cima - Centro Documentazione Comuni Italiani

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Jacopo Cima - Centro Documentazione Comuni Italiani
1876
Jacopo Cima
a cura di
Oscar Gaspari
1876
Jacopo Cima
a cura di
Oscar Gaspari
Presentazione
Piero Fassino
Introduzione
Lucio D’Ubaldo
Centro Documentazione e Studi
Comuni Italiani ANCI-IFEL
Direzione: Lucio D’Ubaldo
A cura di Oscar Gaspari
Coordinamento editoriale di
Camilla Caliento e Alessio Ditta
Progetto, grafica e illustrazioni
Pasquale Cimaroli, Claudia Pacelli
www.backup.it
Indice
Presentazione di Piero Fassino /5
Introduzione di Lucio D’Ubaldo /9
PRIMA PARTE
Perché “Il Nuovo Sindaco” /35
1. Le speranze di riforma della legislazione
locale nel 1876 /35
2. Il fermento culturale nell’amministrazione locale
di fine ‘800 /43
3. Le qualità del sindaco alla fine del XIX secolo
(e all’inizio del XXI) /49
4. Amministrare il Comune da sindaco del re /66
4.1. Il Comune e il sindaco /66
4.2. Il personale dei Comuni /79
4.3. Il ruolo e i beni della Chiesa e la questione
anticlericale /81
4.4. La lunga attesa delle riforme /83
Bibliografia /89
Indice dei nomi /93
PARTE SECONDA
Del Carattere e delle Qualità del Nuovo Sindaco /I
Presentazione
di Piero Fassino
L’attualità della storia stupisce sempre, anche quando
riguarda figure istituzionali, come i sindaci. È la storia
di questo Paese che ha reso e continua a rendere i primi
cittadini interpreti essenziali della realtà locale, dei suoi
bisogni in rapporto agli obblighi derivanti da norme,
consuetudini e dall’attività di Governo, amministrazioni
nazionali e internazionali. È sempre al sindaco che guarda la comunità nel suo insieme e da lui aspetta soluzioni; che per altro, nello stesso momento, i numerosi
portatori di interessi presenti nel territorio sollecitano.
Asili, scuole, assistenza, strade, attività economiche
continuano ad essere al centro dei programmi di governo di qualsiasi Comune, di qualsiasi colore.
In questo lavoro del 1876 il nostro Jacopo Cima chiede molto al sindaco, a partire dall’essere Nuovo, e per
questo esige che da parte sua venga un esame di coscienza per riconoscere, in primo luogo a sé stesso, di
essere o meno all’altezza del compito. Da solo, rispet5
to alla responsabilità sulle decisioni da prendere, ma
non nel proprio ruolo, lo accompagnano idealmente
tutti i sindaci che con lui condividono il peso e l’onore
della carica.
Pagina dopo pagina, Cima richiama l’attenzione soprattutto sulla presenza costante dell’orizzonte europeo:
sono frequenti i richiami comparativi alla legislazione
francese, sulla base della quale si è costruita la normativa comunale italiana, ma vi sono anche numerose
citazioni in ordine alla realtà comunale di altri Paesi
europei. L’Europa non è quindi un elemento specifico
dei nostri anni più recenti, l’Italia ha sempre avuto una
fortissima connotazione internazionale, che con il Risorgimento è diventata la cifra identificativa della Nazione. Nel 1876 questo è chiarissimo: il Regno d’Italia
è appena quindicenne, ancora fortissimi sono i ricordi
delle battaglie per l’Unità cui tanti stranieri avevano
partecipato, contribuendo alla sua realizzazione e insieme alla costruzione di una più vasta identità europea, basata sulle idee di libertà e di democrazia. Ecco, la
stessa libertà e la stessa democrazia cui doveva essere
ispirata la figura del Nuovo Sindaco eletto dal consiglio
comunale e non più designato dal re.
Era il 1876 e si attendeva dal Governo dell’epoca la
riforma comunale, a partire da quella della scelta del
sindaco. Insieme ad essa se ne attendevano altre che
nel complesso avrebbero dovuto permettere lo sviluppo del Comune. Non quelle stesse, ma altre riforme i
sindaci continuano ad aspettare oggi: di qui l’attualità
del Nuovo Sindaco. Con ciò, senza dubbio, un qualche
senso di pena per la continuità di temi e considerazio6
ni. Le riforme come una sorta di supplizio di Tantalo
per i sindaci, condannati a vederle sempre molto vicine, ma sempre altrettanto irraggiungibili.
Desidero, infine, attrarre l’attenzione dei lettori su una
citazione dall’opera di Luigi Ferraris, uomo politico liberale, parlamentare in diverse legislature, prima alla
Camera e poi al Senato e, soprattutto, sindaco di Torino tra il 1878 e il 1882. Proprio come sindaco Ferraris
aveva promosso nel 1879 la prima assemblea di Comuni della storia nazionale. Il 7 e 8 aprile 1879, nell’ex
capitale del Regno di Sardegna, e città monarchica per
eccellenza, un sindaco nominato dal re decideva di
promuovere e organizzare una riunione di colleghi per
chiedere al Governo più risorse perché: “È fatale, dice
egli, che i Municipi non possano rimanere stazionari,
debbono progredire”. Fu quello il primo atto di un movimento che, sviluppato dai Nuovi Sindaci eletti dopo
il 1889 direttamente dai consigli comunali, avrebbe
dato luogo alla nascita a Parma, nel 1901, dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani.
La stessa idea dei Comuni, delle città come motori dello sviluppo, economico, sociale e politico, guida ancora oggi i sindaci dell’Anci che, proprio come ieri, chiedono al Governo di essere messi in grado di svolgere
il proprio ruolo in favore delle comunità locali e, con
esse, di tutta la Nazione.
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Introduzione
di Lucio D’Ubaldo
Il titolo di questo Dizionario di giurisprudenza amministrativa, pubblicato nel lontano 1876, è ambizioso.
Evoca in effetti la volontà di innervare il corpo politico della Nuova Italia, da qualche lustro giunta alla sua
unificazione territoriale (con l’eccezione ancora del
Trentino e la Venezia Giulia) e da appena sei anni all’adozione per via militare di Roma quale capitale della
nazione, con la forza e la sensibilità di una coscienza
amministrativa posta al servizio del buongoverno delle comunità locali. L’autore, segretario comunale, non
nasconde l’impronta, anche ideologica, che connota la
sua attività di funzionario della Pubblica amministrazione locale.
Lo stile e la qualità della scrittura, ben evidenti nella
premessa riproposta in questo piccolo volume, permettono di cogliere il concreto desiderio di unire all’ampia
e dettagliata rassegna del manuale tecnico-normativo
un chiaro appello alla responsabilità etica e politica
del primo cittadino. L’opera di Jacopo Cima si rivolge ai
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sindaci, a quell’epoca espressione ancora non elettiva
della classe dirigente liberale, chiamati a trasfondere
nel quotidiano impegno municipale gli ideali che avevano nutrito l’eroica impresa risorgimentale.
I consigli si alternano alle prescrizioni, perché lo sforzo
dell’autore consiste nel definire con cura l’approccio
migliore alla buona esperienza amministrativa. Tuttavia è il nesso tra etica e ideologia il motore della riflessione che abbraccia l’elencazione e la spiegazione
delle norme tecniche. Il liberalismo si veste di luce pedagogica, diventa ascesi e missione civile.
Cima vuole essere dalla parte del progresso. La citazione di Edgar Quinet(1) posta in esergo del libro
(“Affidiamo la vita nuova a spiriti nuovi”(2)) attesta la
sua naturale collocazione tra i riformatori di stampo
radical-illuminista. È una scuola di pensiero che mira
ad emancipare la storia dagli ingombri della religione
- percepita, in fin dei conti, come superstizione e asservimento clericale - affinché in alternativa, secondo un
canone di laicità intransigente, possano affermarsi le
condizioni indispensabili all’avvio del progresso civile
ed economico della nazione.
1 Di Quinet è tornata in libreria di recente una delle sue opere più importanti, Le rivoluzioni d’Italia, a cura di Maria Grazia Meriggi, Nino Aragno
Editore, Torino 2012. Il testo è quello della edizione parigina del 1851.
Il pensatore francese aveva individuato il nodo principale della “questione italiana” nel ruolo predominante ed oppressivo della Chiesa
cattolica. Solo sciogliendo questo nodo, a suo giudizio, poteva sorgere una nuova nazione più libera e più forte.
2 P. I, infra. L’indicazione si riferisce al testo di Jacopo Cima pubblicato nella seconda parte di questo volume.
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I fantasmi del Novecento, rappresentati anzitutto da
grandi guerre distruttive e tragiche esperienze totalitarie, bloccano qualsiasi ricorso all’insegnamento della storia. Non guardiamo all’indietro, non ci interessa
la tradizione: siamo diventati refrattari alla lettura del
passato. Fatichiamo a stabilire le cause più o meno remote di trasformazioni che pure hanno inciso, attraverso il tempo, sulla mentalità di noi contemporanei. Nondimeno, le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia
hanno riattivato concetti e vibrazioni ideali appartenenti alla sfera dell’amor di patria. È così che abbiamo
riscoperto una radice più antica nei difetti, come nei
pregi, che accompagnano la nascita e lo sviluppo dello
Stato nazionale. L’Italia del XXI secolo è figlia, sotto
vari profili, dei rivolgimenti rivoluzionari e controrivoluzionari del secolo XIX.
Nell’Ottocento, in effetti, cambia a più riprese la scena del mondo e con essa la sensibilità che gli uomini
acquisiscono nel fragore e nelle turbolenze che investono la civiltà europea, scuotendone le fondamenta. Basti pensare al sorgere del gusto estetico e della
percezione filosofico-morale con il Romanticismo, con
quella nota d’inquietudine e dolore a far da sfondo
all’esistenza e al dinamismo della società(3), certamente in antitesi con la settecentesca concezione razionalistica, persino algida, delIa vita umana e della natura. Il Risorgimento italiano, con le alterne fortune del
processo costituente prima e con le numerose asperità
3 Cfr. Isaiah Berlin, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Torino 2001.
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della fase post-unitaria poi, reca appunto il sigillo di
una “mentalità rivoluzionaria” che mescola sentimenti, speranze e inclinazioni politiche di un tempo votato
alla rottura, anche psicologica, con il presente.
Posto che il suo nome campeggia nel frontespizio,
costituendo un preciso riferimento per Cima, vale la
pena capire chi fosse e cosa rappresentasse Quinet.
Secondo Léon Gambetta era un originale scrittore e filosofo, poeta e uomo politico, senz’altro meritevole di
apparire tra i teorici di una concezione o visione della
democrazia più aderente ai problemi squadernati dalla rivoluzione del 1789. Liberale e antigiacobino, egli
avvertiva l’esigenza di dare una risposta all’ansia di
riscatto delle masse popolari, unitamente all’imporsi
di un desiderio di novità che ambiziosi ceti emergenti
andavano rivendicando sul terreno della politica e del
costume civile. Aveva un alto concetto della libertà, del
progresso dei popoli, dell’indipendenza delle nazioni:
tante convinzioni solide, frutto anche di sofferte esperienze personali, che lo avrebbero portato a formulare
la netta condanna della spedizione militare francese
contro la Repubblica Romana.
In effetti Quinet amava l’Italia, ne conosceva la gloria
secolare e ne ammirava l’attitudine a farsi, volta a volta, interprete di passioni e valori in grado di mutare e
arricchire le basi della civiltà. Proprio per questo, nella
sua opera “Le rivoluzioni d’Italia”, tutta protesa a discoprire il genio ambivalente della tradizione italica e
le ragioni di una intrinseca debolezza delle classi dirigenti, imbevute a suo dire d’indebita sudditanza verso
il passato, invitava i patrioti che agitavano la bandiera
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del Risorgimento a non resuscitare una nazione, ma a
crearne una tutta nuova.
Nei secoli gli italiani, anche attraverso lacerazioni e
sofferenze, avevano più volte incrociato il dilemma della scelta tra patria e mondo. Alla fine, ad ogni decisivo
tornante della storia, essi avevano preferito il cosmopolitismo (religioso, letterario, artistico, mercantile)
allo spirito di appartenenza nazionale. Non era questo
il lievito del futuro, non poteva essere l’evocazione del
Sacro Romano Impero l’arma del riscatto italiano. Al
contrario, abbandonata l’aura cosmopolita, l’eroismo
patriottico doveva piegarsi all’invenzione di un’Italia
protesa più che mai a scoprire le sue inespresse potenzialità.
Numerosi gli interlocutori italiani del Quinet: tra questi
Berchet, Mazzini e Garibaldi, successivamente anche
Carducci.
È da presumere pertanto che Cima avvertisse il fascino
di una “voce esterna”, ma decisamente partecipe, che
sapeva ben interpretare le ragioni della nuova rinascita
italiana.
Un anno prima di morire, lo scrittore francese aveva
raccolto ne “L’esprit nouveau” (1874) le sue idee attorno all’evoluzione del pensiero liberale europeo nel
secolo XIX. Un affresco, questo, che includeva l’impresa risorgimentale come evento epocale nel disegno
di crescita e affermazione degli ideali di libertà, costituendo un esempio di audacia e concretezza politica
nel grande moto di progresso del Vecchio Continente.
Il messaggio doveva penetrare nella coscienza degli
italiani. Giunta a compimento l’unità della nazione,
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ora lo spirito del tempo richiedeva di alimentare la potenza dello “spirito nuovo” con la solerzia e l’impegno
concreto di “uomini nuovi” - gli stessi invocati nella
citazione posta in apertura del Dizionario di Cima. Di
fronte c’era un compito davvero grande. Bisognava
“fare gli italiani”, a dirla con le parole di D’Azeglio.
La stanchezza, figlia della delusione rispetto alle speranze che avevano accompagnato la nascita del nuovo Stato unitario, non doveva minare l’edificio morale
della nazione. Sebbene fosse tangibile il logoramento
della classe dirigente post-unitaria, non era tuttavia
accettabile un che di impotenza e rassegnazione destinato a pervadere le coscienze più mature e sensibili
del Paese. Alcuni obiettivi importanti erano stati raggiunti, non ultimo il fatidico pareggio di bilancio a cui
la Destra storica di Quintino Sella e Marco Minghetti
aveva assegnato il valore non solo simbolico della credibilità e, dunque, della piena indipendenza dell’Italia
appena risorta.
Il messaggio di Cima equivale a un programma politico. Laddove la lettera non è esplicita, sovviene la comprensione induttiva di ciò che si nasconde tra le righe
del testo. L’energia morale, da conservare o ritrovare,
appartiene alla dimensione delle comunità territoriali.
In mancanza di “Nuovi Sindaci”, all’altezza delle sfide
del cambiamento, lo Stato avrebbe incontrato difficoltà
aggiuntive anche a fronte della centralizzazione legislativa e amministrativa. Dare respiro ai comuni e alle province sembrava anche un modo per superare il carattere
antipopolare della politica di risanamento delle finanze
pubbliche. Al tempo stesso, la trasformazione del qua14
dro politico era un auspicio e una necessità dal momento che un’alternativa di governo, pur nella sostanziale
continuità di azione come quella assicurata da Cavour
in avanti, pareva inevitabile.
La svolta maturò appena due anni prima l’uscita dell’opera di Cima. “Nell’ambito delle competizioni elettorali
postunitarie, le elezioni del 1874, con la dura sconfitta
della destra nel Mezzogiorno, possono considerarsi spia
di un sistema di governo ormai logoro, senza prospettive di rinnovamento e significativo preludio del passaggio del potere alla sinistra, che lo condividerà con
altri gruppi politici nell’operazione trasformistica”(4). In
quella circostanza caddero molte personalità della Destra storica, tra cui Bonghi, Spaventa e Pisanelli, tanto
da far dire a Francesco De Sanctis che le elezioni avevano sancito la “ecatombe dei generali”.
Troppe divisioni avevano indebolito il partito dei Moderati, mettendo in risalto le divergenti impostazioni
della Permanente (animata dai piemontesi) e della
Consorteria (animata dai toscani). In sostanza, lo sgretolamento della Destra era il risultato di un progressivo espandersi delle istanze localistiche, con gruppi
di potere interessati alla difesa di specifiche esigenze
di centri piccoli e grandi, senza più il collante di una
visione generale sul futuro del Paese(5).
4 Ornella Confessore, Le elezioni politiche del 1874, in AA.VV., 18741976. Le elezioni politiche che hanno cambiato il Paese, “Studium”,
Rivista bimestrale, marzo-aprile 2013 - Anno 109, p. 169.
5 “La caduta della Destra sarà, in una certa misura, un’esplosione di
regionalismo contro la stretta unitaria. Non a caso Giolitti ha potuto
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Era una questione tutta interna al mondo liberale. Nelle prime competizioni elettorali l’incidenza del voto
cattolico non poteva essere alta, anche quando non
fosse scattato, come per altro avvenne nel 1874, il
“non expedit” della Santa Sede. La quota così esigua
di cittadini, solo di sesso maschile, ammessi al voto
in base al censo escludeva che la parte dell’elettorato
più legata alla gerarchia ecclesiastica potesse risultare
determinante: lo sarebbe stata invece con l’aumento
del numero degli aventi diritto, specie quando si arrivò
nel 1914 al suffragio universale, ma pur sempre limitatamente alla componente maschile.
In realtà, l’adozione su vasta scala del motto di don
Margotti (“Né eletti, né elettori”), formulato per protesta a seguito dei soprusi subiti nelle elezioni del
1857 nel Regno di Sardegna, impediva che la Destra
potesse giocare la carta dell’unità del blocco moderato
e conservatore associando i “clericali” nella politica di
scrivere che ‘la Destra cadde parte per ragione delle sue stesse virtù’.
(...) Rimproverare alla Destra di non aver avvertito l’esigenza immediata di un allargamento delle basi dello Stato, significa trascurare
che in quegli anni le masse erano in gran parte contro lo Stato” (in
Fernando Manzotti, Partiti e gruppi politici dal Risorgimento al fascismo, Le Monnier, Firenze 1973, p. 7).
Per un ragguaglio ampio e dettagliato, si potrebbe dire “in presa
diretta”, cfr. anche Ruggero Bonghi, Come cadde la Destra, Treves
1929. “Gli scritti del Bonghi, allora ministro della pubblica istruzione,
sull’argomento, studiano e illuminano le ragioni della crisi, osservano e rappresentano al vivo le caratteristiche dei diversi partiti, scovrono la logica delle cose e dei fatti, confermano le riserve della Destra sull’azione che gli avversari avrebbero svolto, e, non raramente,
pongono in rilievo, crudamente, i difetti e i torti degli amici, come degli avversari politici” (dalla Introduzione di Francesco Piccolo, p. XIX).
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contrasto verso la minaccia del sovversivismo rosso,
anarchico e socialista, esploso clamorosamente con la
Comune di Parigi nel 1871.
In ogni caso, a ben vedere, l’astensionismo cattolico
ebbe l’effetto di limitare le manifestazioni d’intransigenza anticlericale tanto care alle schiere del partito
radical-liberale e progressista. Le lance più acuminate
di questa intransigenza finirono per scagliarsi contro
un nemico del tutto esterno ed estraneo, spesso dipinto a tinte fosche e con malcelato fastidio, ma non
contro un’attività di opposizione precisa e stringente
da parte di cattolici eletti in Parlamento. Le istituzioni
furono così circondate dal muro protettivo dell’ideologia liberale, tanto da prefigurare una dialettica esclusiva tra chi apriva alla “libertà della Chiesa” e chi invece
la intendeva limitare, semmai teorizzando, a beneficio
dell’autorità dello Stato, la “libertà dalla Chiesa”. Allora tanto la Destra quanto la Sinistra avrebbero legittimato se stesse in funzione di tale dialettica, essendo
più aperta la prima e più chiusa la seconda alle rivendicazioni di sovranità della Chiesa. Tuttavia, dopo la
Breccia di Porta Pia, questa differenziazione sarebbe
andata sfumando fino a trasformarsi, a cavallo tra Ottocento e Novecento, nella diversa valutazione circa
le modalità di coinvolgimento delle masse cattoliche
nella difesa dello Stato liberale.
Ciò che avvenne nel 1876 con la “rivoluzione parlamentare”, vale a dire con la caduta di Minghetti e l’avvento
di Depretis, era già impresso in qualche modo nella
trama degli equilibri parlamentari usciti dalle elezioni
del 1870 subito dopo la presa di Roma. In quella cir17
costanza, infatti, furono eletti oltre 170 nuovi deputati
che alla Camera presero posto nei banchi del Centro,
sottolineando così la perdita d’importanza di Destra
e Sinistra. Negli anni successivi tornarono d’attualità
i tentativi di dar vita a un connubio: fu creato in seno
alla Sinistra un gruppo, detto “sinistra giovane”, aperto verso il centro allo scopo, disse De Sanctis, di formare “maggioranze stabili e sicure, al di fuori dei vecchi
partiti ormai superati”(6).
La conquista di Roma allentava le tensioni che si erano palesate all’indomani della sconfitta militare subita nel conflitto del 1866, la cosiddetta Terza guerra
d’Indipendenza. Dunque, la battuta d’arresto sulla via
dell’annessione delle terre irredente (Trento e Trieste)
sarebbe stata compensata, nel giro di pochi anni, dalla elevazione di Roma a capitale del Regno. Con ciò la
missione della Destra appariva pressoché conclusa,
solo dovendosi perfezionare, di lì a breve, con l’annuncio del pareggio di bilancio.
In tutta evidenza, gli eredi di Cavour avevano portato a termine la prima fondamentale opera di consolidamento dello Stato, dando attuazione e sviluppo al
principio di autorità che ne sostanzia la forma giuridica. In questo ambito di sacrale esaltazione dello Stato
si esplica un esempio di “giacobinismo normativo”,
nel senso che la produzione e l’esercizio della norma
s’iscrivono per gli uomini della Destra in un disegno
ambizioso e organico di direzione sulla società, pun6 Giampiero Carocci, Destra e sinistra nella storia d’Italia, Laterza,
Roma-Bari 2002, p. 15.
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tando con lo strumento del potere legislativo e amministrativo a regolarne gli interessi. Qui risiede, in simbiosi, tanto la forza quanto la debolezza della classe
dirigente post-unitaria: in questo sforzo di dominio
delle dinamiche spontanee della società brilla infatti la
sua nobiltà politica, ma, nel medesimo tempo, avanza
a tappe forzate la consunzione di un’impresa, a forte
impianto egemonico, che aveva inteso perseguire. In
conclusione, la caduta della Destra può essere spiegata con l’icastica formula usata a suo tempo da Adolfo
Omodeo: la sconfitta subita era figlia di un “eccesso di
coscienza direttiva”(7).
L’avvento al potere di Depretis segna, con il cambio
di classe dirigente alla guida del Paese, la ripresa di
una linea cavourriana di ampio coinvolgimento delle
forze più omogenee all’espansione di un progetto di
governo, senza preclusioni a Destra o a Sinistra; in realtà, però, questo processo non si aggancia a un chiaro
obiettivo strategico, salvo intendere di per sé l’allargamento delle basi democratiche dello Stato come fine
a se stesso del nuovo aggregato di potere. Con quali
conseguenze? In luogo della formazione di due partiti
alternativi, uno democratico e l’altro conservatore, si
procede alla “trasformazione” delle preesistenti forze
politiche al fine di riaggregare, fuori dallo schema di
competizione politica tra Destra e Sinistra, un vasto
blocco democratico di governo. Sta di fatto che l’origine del trasformismo si debba rinvenire in una dichia-
7 Carocci, cit., p. 12.
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rata vocazione innovativa e progressiva, nonostante il
suo rapido contaminarsi con pratiche di clientelismo
e corruttela in concomitanza con lo sfaldamento della
struttura appena abbozzata dei primi partiti politici. In
effetti la convergenza attorno a un paradigma di libertà
più incline ad assorbire le molteplici istanze sociali, canalizzando perciò le spinte popolari in direzione dello
sviluppo democratico del Paese, si depotenzia lungo
la linea di una inarrestabile confusione di programmi
e di gestione, a tutto detrimento della credibilità delle
istituzioni e della essenza stessa della lotta politica.
Alla fine di un lungo ciclo, il trasformismo si presenterà alla stregua di una deviazione dal percorso di modernizzazione della vita democratica; e sarà, a partire
da un certo momento, oggetto di catalogazione quale
simbolo per antonomasia dei mali del Paese. Tirate le
somme dei trent’anni di governi della Sinistra, a parte il
tentativo di svolta reazionaria di Pelloux e di Rudinì nel
1898, Francesco Saverio Nitti descriverà così nel 1907
la condizione politica del Paese: “Manca (...) in Italia
ogni divisione sincera, anzi in apparenza ogni causa
di divisione. Non è visibile né meno quale differenza
vi sia fra le varie parti politiche che si contendono il
governo: gli stessi uomini si uniscono, si disuniscono
secondo fuggevoli contingenze”(8). Agli occhi dell’intellettuale e politico lucano, la confusione parlamentare indicherà la dolente e pericolosa perdita di funzione
8 Francesco S. Nitti, Il Partito radicale e la nuova democrazia industriale - Prime linee di un programma del Partito radicale, Società tipografico-editrice nazionale (già Roux e Viarengo), Torino-Roma 1907, p. 3.
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della politica. Con il lungo ciclo della Sinistra al potere,
l’Italia avrebbe sperimentato e introiettato il modello
di una democrazia depoliticizzata e fatalmente intrisa
di personalismi e camarille, ingerenze di potentati economici, degrado burocratico e corruzione.
Qualcosa eccede le buone intenzioni. Sotto Depretis
il governo diventa proteiforme, diventa il luogo e la
forma della unificazione di quanti sono effettivamente
disposti a collaborare alla direzione della struttura statuale. Nel biennio 1874-76 prende insomma consistenza un modello di conquista e conservazione del potere
non più fondato sulla limpida identificazione di un programma di governo, ma sull’adesione a una maggioranza di carattere pragmatico per la quale il consenso
elettorale e politico si traduce in ordinaria capacità di
gestione(9).
Con l’abbandono delle vecchie contrapposizioni politiche si arriva perciò a definire il primato della dimensione amministrativa: lo Stato guadagna autorevolezza
ed efficienza - questa la tesi o meglio l’auspicio - essenzialmente in virtù di una “trasformazione” decisiva
e profonda della figura dei partiti, ovvero della loro
funzione nazionale: passo dopo passo si modellano
alle particolarità del territorio assumendo, attorno al
9 “La radice del trasformismo è tutta qui: nella dissoluzione delle antitesi ideali che avevano dato un senso alle battaglie della Destra e
della Sinistra storica e nella necessità di comporre una ‘maggioranza
costituzionale’ articolata ed eclettica che permettesse di portare a
termine il programma di riforme amministrative e di risanamento finanziario del governo” (in Manzotti, cit., p. 12).
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notabilato locale, le vesti e le caratteristiche di organizzazioni sostanzialmente adibite alla mera raccolta
del consenso elettorale.
Senonché, una volta distinta la sfera della politica da
quella dell’amministrazione, quest’ultima sarà più debole nei rapporti con gli interessi organizzati. All’eccesso di coscienza direttiva subentrerà, proprio negli
anni del trasformismo, un eccesso di compenetrazione tra Stato ed economia. In breve, l’austero impianto
della Destra sarà sostituito da una sorta d’ibridismo
politico-gestionale, che la Sinistra adotterà con disinvoltura, sebbene in funzione di una maggiore apertura
sociale(10).
Tuttavia, il processo di allargamento delle basi democratiche dello Stato, specie con l’espansione del diritto
di voto, non farà argine alla diffusione di prassi collusive e poco trasparenti tanto nel quadro parlamentare,
quanto nelle relazioni tra apparati pubblici e industria.
Se ne avvantaggerà il Nord, dove il protezionismo alla
lunga agevolerà il riconoscimento dei fondamentali
bisogni della classe operaia, nel mentre il Sud pagherà il prezzo di un’economia bloccata sugli interessi e
lo strapotere dei latifondisti. Quando l’Italia avrebbe
avuto necessità di un opera generosa e potente d’inte-
10 Con la rivolta del macinato, nel 1869, venne in risalto la grave scollatura tra popolo e istituzioni. Per la prima volta l’assetto politico
post-risorgimentale fu scosso da un moto sociale diffuso e spontaneo. La reazione dei contadini si ammantò, in molti casi, di rimpianto
per le condizioni del passato. Il segnale non doveva lasciare indifferenti gli uomini di governo.
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grazione nazionale, accadeva che il progressismo della borghesia liberale poco o nulla opponeva, viceversa, alla crescente divaricazione tra il dinamismo delle
regioni settentrionali e l’arretratezza di un Meridione
senza slancio economico e con troppi vincoli clientelari
e burocratici.
Non fu coraggiosa l’azione del governo, se per coraggio s’intende la caparbietà di piegare l’andamento
naturale delle cose a un disegno di respiro strategico,
più attento al futuro che non al presente. Cercò infatti
di aggredire il nodo dello sviluppo industriale senza
tuttavia favorire, nell’orizzonte della necessaria solidarietà che la giovane esperienza statuale richiedeva,
le condizioni di una fruttuosa e incisiva cooperazione
tra il Nord e il Sud del Paese. Il governo della Sinistra,
avrebbe scritto più tardi Luigi Sturzo, “tentò di attenuare la pressione fiscale sui consumi popolari e agevolare lo sviluppo dei commerci. Però ad esso si deve
l’enorme errore di aver sviluppato il protezionismo
delle industrie parassite, (...) inizio di una politica dannosa al sano sviluppo economico del paese; e agevolò
la formazione di una classe di trafficanti attorno allo
stato, che purtroppo con gli anni è divenuta sempre
più potente e esigente”(11).
Sebbene in quegli anni, vale a dire nell’ultimo quarto
di secolo, crebbero le preoccupazioni attorno all’accentramento dello Stato, in realtà le riforme in direzione di una maggiore democratizzazione degli enti
11 Luigi Sturzo, Italia e fascismo, Zanichelli, Bologna 1926, p. 21. L’edizione qui utilizzata è quella del 1965.
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locali avanzeranno con troppa lentezza e scarsa determinazione. La lotta per il decentramento, solo qua e là
intonata ad alcune suggestioni federaliste di matrice
democratico-repubblicana, presto andrà caricandosi
di livore polemico verso il predominio degli interessi
economici delle regioni settentrionali. Autonomismo e
meridionalismo andranno allora di conserva, anzitutto avvalendosi delle elaborazioni libero-scambiste del
gruppo de “Il Giornale degli economisti” - con scrittori del calibro di Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De
Marco e Ugo Mazzola - fortemente critico rispetto al
compromesso che alimentava la concrescita d’intervento pubblico e monopoli privati.
In definitiva, a cavallo del Novecento, il supporto
scientifico più forte alle rivendicazioni autonomiste e
democratiche lo fornisce la scuola dei marginalisti italiani alcuni dei quali, come De Viti De Marco, si concentreranno con l’andar del tempo sulle problematiche di
stampo prettamente liberista. Invece il socialismo municipale manterrà un suo profilo più autonomo e contraddittorio, anche scontando, secondo la critica sturziana, l’eccessiva dipendenza dal modello burocratico
e statalista del riformismo di tipo giolittiano.
È una stagione assai diversa dell’autonomismo: quasi niente sopravvive del progetto, alla prova dei fatti
velleitario, degli emuli più esigenti e radicali di Cattaneo. L’ultimo sussulto di un federalismo dispiegato in
funzione alternativa al modello piemontese prenderà
forma fugace e s’incanalerà, senza successo, nelle tormentate giornate romane susseguenti all’ingresso delle truppe di Cadorna il XX settembre a Porta Pia. Con il
24
vagheggiamento di una improbabile reviviscenza della
Repubblica Romana, sembra in effetti annunciarsi, a ridosso delle elezioni per il Campidoglio, la ripresa di un
mazzinianesimo ancora e sempre fedele allo spirito di
una rivoluzione afferente a un concetto religioso di nazione e di popolo, ma ora conciliato con l’istanza della
crescita e del progresso delle diverse comunità locali.
Certo, però, non poteva essere questa la prospettiva
dei liberali moderati, in particolare dopo la legge del
20 marzo 1865 per l’unificazione amministrativa del
Regno. Nella capitale andavano frenate le spinte che
apparivano più pericolose: “Il governo italiano, dal canto suo, era portato a guardare con particolare cura alla
situazione che si sarebbe determinata nella nascita del
primo organo di governo a Roma, non solo per l’ovvia
importanza preminente di quanto sarebbe accaduto
nella città, ma anche perché timoroso, in base a informazioni ricevute, che si volesse, da parte del Cernuschi
e di altri membri della Costituente del 1849, proclamare
dal Campidoglio la rinascita della repubblica romana:
che era idea patrocinata anche da Alberto Mario”(12).
In pochi anni cambia il volto della politica nazionale.
Quando esce il libro di Jacopo Cima si consolida la svolta: a gennaio il governo Minghetti propone la nazionalizzazione delle ferrovie; a marzo si accerta il raggiungimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio, anzi si
ottiene un avanzo di 18 milioni; ma sempre a marzo,
dopo la crisi ministeriale e le dimissioni di Minghetti, a
12 Claudio Pavone, Gli inizi di Roma Capitale, Bollati Boringhieri,
Torino 2011, p. 10.
25
sorpresa si forma il primo governo Depretis(13); ad agosto è definita per legge la preminenza del Presidente
del Consiglio rispetto agli altri membri dell’Esecutivo;
ad ottobre, bloccato sulla via delle riforme, cade il governo e si va alle elezioni anticipate; con il discorso
di Stradella, nello stesso mese, Depretis lancia il suo
programma di unità nazionale, mentre a Bologna, per
ragioni di ordine pubblico, il prefetto scioglie il III congresso cattolico; a novembre si svolgono le elezioni e
vince lo schieramento raccolto attorno al Presidente
del Consiglio uscente. Il cambiamento è irreversibile:
13 “Il 18 marzo 1876, una componente (la destra toscana) della maggioranza che aveva sin allora guidato il paese votò contro il governo,
che fu così battuto alla Camera, su una questione (il rinvio della discussione di una mozione sulle modalità di riscossione della tassa sul
macinato). In realtà la vera posta in gioco era un’altra: il progetto, annunciato dal presidente del Consiglio Minghetti e del suo ministro dei
Lavori pubblici Spaventa, di esercizio statale delle ferrovie, progetto
cui i moderati toscani si opponevano anche in ragione di loro concreti
interessi (molti di loro erano legati alle compagnie private che gestivano le ferrovie o ne erano addirittura azionisti). Ne sortì quella che
impropriamente fu detta ‘rivoluzione parlamentare’ e che in realtà fu
qualcosa di molto simile a ciò che oggi si definirebbe un ‘ribaltone’”
(Giovanni Sabatucci, Il trasformismo come sistema, Laterza, RomaBari 2003, p. 43). Ad un’analisi affrettata potrebbe risultare strana l’adesione del Sovrano al cambio di maggioranza e di governo. In realtà,
i legami di Vittorio Emanuele II con gli ambienti della Sinistra erano
solidi. Avvenne perciò che l’avvento di Depretis corrispose a una maggiore libertà di manovra della Corte. “Quando nel 1876 Depretis e la
Sinistra giunsero al potere, lasciarono al re le briglie più sciolte, in
parte forse perché aveva o minore esperienza di governo, ma anche
perché il re era sempre stato più vicino a Rattazzi ed ai suoi amici che
alla maggior parte dei membri della Destra” (in Denis Mack Smith,
Vittorio Emanuele II, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 343).
26
su 508 deputati, 400 appartengono alla Sinistra e 108
alla Destra. Si inaugura, dunque, l’inedito modello di
un “governo della trasformazione” proprio in nome
del duplice principio formulato a Stradella: “L’unità del
corpo politico, la concordia degli animi”(14).
In questo passaggio eccezionale, con la dislocazione di ampi strati di borghesia agraria e commerciale
nell’area di un cauto progressismo, permaneva evi-
14 Questo discorso, così noto e importante, suscita ancora interesse
per alcune analogie con la situazione politica attuale. Depretis, con
alle spalle l’impresa della Destra in materia di riordino istituzionale e
finanziario, sottolinea l’esigenza di una nuova politica di investimenti. Il debito però è troppo alto, come pure gli oneri che ne derivano. Il
leader della Sinistra si premura di non spaventare i mercati finanziari,
l’Italia intende onorare i suoi impegni di fronte ai creditori europei. Al
primo punto ci sono le riforme, perché senza un radicale cambiamento, soprattutto nel campo della politica tributaria e della giustizia, le
prospettive di sviluppo resterebbero lettera morta. Depretis rovescia
il principio cavourriano secondo cui “il governo è un partito” indicando, quale opzione alternativa, la convergenza di forze fino a quel momento contrapposte: dunque “il governo non è un partito” o meglio
ancora “un partito non è il governo”. Ma l’annuncio orgoglioso di tante novità, come pure la stessa proclamazione di fedeltà alla causa del
progresso, scivolano sulla lastra di ghiaccio di un certo pragmatismo
e di una certa spregiudicatezza politica. “Alla fine il discorso [di Stradella] avrebbe potuto essere sottoscritto, in buona parte, anche da
un uomo della destra, e non per nulla è apostrofato sui quotidiani del
giorno successivo come ‘il discorso dell’attaccapanni’, al quale cioè
tutti potevano appendere il proprio cappello, definizione che resterà
negli anni, ripresa anche da Giosuè Carducci...” (I discorsi che hanno
cambiato il mondo, a cura di Antonello Capurso, Mondadori, Milano
2008, p. 39). C’è dunque alle origini del trasformismo, frammisto ad
ambizioni e buona volontà, anche un peccato di falsa retorica. Da notare, infine, che il passaggio della Destra all’opposizione comporterà
la sua dissoluzione. Non è una costante della storia politica italiana?
27
dentemente nelle nuove aspirazioni di libertà il retaggio di una disciplina per la quale l’interesse personale
doveva comunque rispondere a motivi più alti di consapevolezza attorno ai doveri che ognuno era tenuto
ad osservare per il bene della società e dello Stato. Il
compito del funzionario pubblico era quello di conservare tale spirito di disciplina nella sfera delle competenze proprie e nella cornice, in generale, delle specifiche attività amministrative.
Questo concetto di un profilo alto, sia morale che professionale, va tenuto a mente: il dovere del sindaco, o
per maggiore precisione del “Nuovo Sindaco” immaginato da Cima, è intriso della responsabilità che attiene
a un pubblico ufficiale - servitore dello Stato - impegnato al servizio della propria comunità. Così l’autore,
nelle ultime righe della prefazione, vuole sintetizzare il
suo pensiero: “Noi vorremmo (...) che ognuno sapesse comprendere che a questo così difficile e delicato
ufficio non dovrebbesi accedere che quando si sente
di avere l’animo rinvigorito da una forte e sicura coscienza del dovere”(15). Amore della libertà, fiducia
nel progresso, senso delle istituzioni: ecco la visione
d’insieme che Cima propone ai suoi lettori del tempo.
La rappresentazione, ai nostri occhi, conserva la sua
nobiltà di colori e di immagini. Se non fosse per un
repertorio di anticlericalismo decisamente datato(16),
15 Pp. XVI, XVII, infra.
16 Cima a riguardo, sempre nella prefazione, propone un lessico davvero sferzante e aggressivo: “Vigilerà [il sindaco] che l’istruzione si
mantenga nel suo comune emancipata dagli agenti del clericalismo,
28
a risplendere sarebbe ancora tutta intera questa appassionata ricerca di finalità nel procedere faticoso sul
cammino della rinascita nazionale. In fondo, tra le righe
del Dizionario, traspare adornata di sapienza tecnica la
missione della Nuova Italia, quella cioè di creare buoni
amministratori in grado di formare con il loro esempio
la coscienza di buoni cittadini.
Queste pagine possono ancora costituire un tributo
all’idea che le virtù pubbliche crescano insieme alle
virtù individuali. Traspare una convinzione che faceva
da puntello al costituzionalismo post-giacobino circa
l’intimo legame tra i comportamenti adottati, nell’una sfera e nell’altra, dall’individuo-cittadino educato,
secondo un canone liberale e illuministico, ai valori
della nuova società. Nel periodo della conquista napoleonica, proprio sul finire del secolo diciottesimo, i
testi costituzionali delle repubbliche sorte nella Penisola (Repubblica Cisalpina, Repubblica Romana, ecc.)
riportavano tal quale l’articolo che per la prima volta
era stato inserito nella Costituzione francese del 1795
(art. 4): “Nessuno è buon cittadino, se non è buon figliuolo, buon padre, buon fratello, buon amico, buon
marito”. Era un principio e al contempo un monito,
che dava in effetti particolare luce al capitolo dei doveri del cittadino.
nemico delle libertà civili, e che le lettere e la storia particolarmente non vengano per niun modo apprese da uomini ecclesiastici”, p.
XIII, infra. Si coglie in questa sorta di “dichiarazione programmatica”
l’intima condivisione dell’ancora vivo radicalismo anticlericale della
Sinistra post-garibaldina.
29
Cima non parla di un governo territoriale che assuma
una funzione dialettica rispetto al potere centrale, né
vede il sindaco, quantunque nuovo, rivestire i panni
di un piccolo sovrano nei confini di una determinata
comunità locale. Il suo cruccio è quello di armonizzare una cultura delle istituzioni e di stabilire un “continuum” nell’esercizio delle responsabilità pubbliche
a fronte di criteri finalistici omogenei. In tutta Europa
soffiava, nell’età della borghesia vittoriosa, il vento di una modernizzazione a tutto campo prodotta e
assicurata dal modello dell’accentramento politicoburocratico. Lucidamente, a tale proposito, osservava
Roberto Ruffilli: “Era la lettura propria in genere delle
classi dirigenti liberali del continente, allorché si sono
trovate ad operare in paesi in ritardo nell’attuazione
delle prospettive liberal-individualiste e dell’egemonia
borghese: lettura che portava ad imporre una rapida
realizzazione ‘dall’alto’ delle une e delle altre, con il richiamo appunto alla ‘ragione’, in quanto radice della
giustificazione del titolo e dell’esercizio del potere statuale, in quanto sostegno e cardine dell’ordinamento
liberale dello Stato e della società”(17).
Si avverte perciò, nella severa raccomandazione che
Cima porge ai suoi interlocutori, quasi un fastidio per
l’improvvisazione con la quale si presume di poter accedere alla carica di primo cittadino. “La sciarpa di Sin-
17 Cfr. Problemi dell’organizzazione amministrativa nell’Italia liberale, in Istituzioni Società Stato. Scritti di politica e di storia di Roberto
Ruffilli, a cura di Giuliana Nobili Schiera, III voll., Il Mulino, Bologna
1989, vol. I, p. 378.
30
daco, è uopo asserirlo, viene desiderata da ognuno,
perfino da coloro i quali si mostrano in apparenza più
ripugnanti a recingerla e più incapaci”(18).
Ma i tempi per la verità impediscono di coltivare ambizioni, esplicite o nascoste, che non siano allineate al
duro compito di una progettualità diretta a sviluppare
il profilo dell’Italia come grande nazione moderna nel
contesto europeo. Gli uomini della Sinistra, fra questi
appunto Cima, si preoccupano evidentemente di preservare il connotato più autentico della loro formazione ideale, immettendo nel circuito della battaglia politica l’energia ancora viva dell’eroismo risorgimentale
di tipo garibaldiniano.
Uno sguardo eroico sulla nazione richiedeva l’assunzione di un disegno coraggioso per amalgamare, nella
coscienza collettiva, l’autorità dello Stato e i bisogni
emergenti della società. L’educazione popolare doveva essere il collante di questa possibile amalgama.
Pertanto il riscatto delle classi più deboli e più povere
andava collocato nell’ottica di una politica di rafforzamento delle istituzioni liberali. Nell’attività della scuola, a partire da quella elementare in mano ai comuni,
entrava di diritto la volontà di una borghesia consapevole degli obblighi sociali che ad essa erano imposti
da un progresso attraversato da macroscopiche divisioni e contrapposizioni sociali.
È questa la preoccupazione della nuova classe
dirigente; questa, del pari, la sollecitazione che permea
18 P. XVI, infra.
31
le pagine che il nostro segretario comunale mette a
cappello del suo Dizionario giuridico-amministrativo.
Lo Stato, a tutti i livelli e nelle varie articolazioni, è
chiamato a riempire vuoti, sanare fratture, promuovere sviluppo: tale iniziale interventismo è anch’esso
un riflesso di ciò che la “visione eroica” della Sinistra
post-risorgimentale vagheggia come suo titolo d’onore
e vincolo di responsabilità nel momento in cui eredita
una funzione direttrice al governo del Paese.
Lo stile di Cima, con il sovraccarico di sostantivi e aggettivi vetero-ottocenteschi, non aiuta a penetrare
fino in fondo la potenza di un messaggio pedagogico
e politico. Il testo non scorre agevolmente: si fatica a
leggerlo oggi, forse anche all’epoca rimaneva ostico
ai più. Ciò non toglie, però, che dietro una qualche
eccessiva leziosità della prosa si possa intravedere la
ricchezza e il rigore di un pensiero fortemente proteso
a disciplinare la vorace tensione delle forze emergenti
dell’Italia post-unitaria.
Il punto focale della questione, a discernere la logica
interna de “Il Nuovo Sindaco”, è proprio la dinamica
di questa Italia che prova a declinare in chiave più
pragmatica i miti del Risorgimento e ad incamminarsi
sulla via dello sviluppo industriale e commerciale, così
rompendo senza dichiararlo, anzi nascondendolo a se
stessa, i ponti con il suo passato di faticose conquiste
e pesanti sacrifici.
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PRIMA PARTE
Perché
“Il Nuovo Sindaco”
di Oscar Gaspari
1. Le speranze di riforma della legislazione
locale nel 1876
La scelta di pubblicare l’introduzione di Jacopo Cima al suo Il Nuovo Sindaco. Dizionario di giurisprudenza amministrativa(1) nasce da una peculiare
attualità del testo. La modernità Del Carattere e delle
Qualità del Nuovo Sindaco è palese nonostante - o
forse per - la particolare impostazione ideologica del
volume. Quelle pagine sono infatti tutte incentrate sulle caratteristiche morali e politiche del primo cittadino
non solo perché di nuove norme da commentare, nel
1876, ancora non ce n’erano, ma soprattutto perché
1 Jacopo Cima, Il Nuovo Sindaco. Dizionario di giurisprudenza amministrativa, Tipografia nazionale, Cesena 1876; l’indicazione in nota di
pagine senza alcun altro riferimento bibliografico si intende attribuita
sempre a questo stesso volume.
35
quelle qualità erano ritenute fondamentali dalla Sinistra storica, anticlericale e con simpatie garibaldine e
mazziniane, particolarmente pronunciate nel volume,
qualità che oggi possono essere in gran parte condivise, una volta depurate dalla carica polemica che indubbiamente contengono.
Nelle pagine che aprono Il Nuovo Sindaco l’autore delinea carattere e qualità dell’uomo che avrebbe
dovuto guidare il Comune scaturito dalla riforma della legge comunale promessa dalla Sinistra giunta al
governo, il 18 marzo 1876, dopo un quindicennio di
ininterrotto potere della Destra. Il volume, pubblicato
nell’ottobre dello stesso anno, puntava ad uscire contemporaneamente alla prevista riforma e conquistare
così - grazie alla tempestività - una fetta del fiorente
mercato dei manuali a disposizione di impiegati, tecnici, dirigenti, consiglieri, amministratori comunali e, non
ultimi, di quei segretari comunali di cui Cima era parte.
Il volume è intitolato Il Nuovo Sindaco perché
la novità fondamentale della futura riforma doveva essere il passaggio dal sindaco nominato dal re al sindaco “eletto dal proprio Consiglio municipale, o dagli
elettori”(2). La formula o dagli elettori faceva capire che
la scelta del sindaco da parte del consiglio non rappresentava il traguardo ma una tappa, evidentemente perché l’obiettivo finale, l’elezione diretta da parte dei cittadini, non doveva sembrare così irraggiungibile allora,
ed era il 1876. Per uomini come Cima, evidentemente, la
2 P. I, infra.
36
concessione di una vera
autonomia ai Comuni non
doveva sembrare in alcun
modo un azzardo, come
invece era sembrato chiaro appena qualche anno
prima ai prefetti che,
interrogati nel 1869 dal
Ministro dell’Interno Girolamo Cantelli(3) sull’opGirolamo Cantelli
portunità di dar seguito
alla volontà di riforma che animava il governo liberale
nazionale, risposero negativamente, per timore che
gli amministratori e la classe dirigente locale potessero utilizzare l’eventuale autonomia a proprio esclusivo
vantaggio se non, addirittura, contro l’ancor giovanissimo Stato liberale unitario(4).
La presentazione di un progetto di riforma della
legge comunale e provinciale da parte del Ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, nel dicembre 1876, sembrava
dar ragione alle speranze di Cima. Il progetto prevedeva
l’elezione, da parte dei rispettivi consigli, del sindaco e
del presidente della deputazione provinciale - com’era
chiamata allora la giunta provinciale - un limitato amplia3 Giuseppe Talamo, Cantelli Girolamo, in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. 18, 1975; http://www.treccani.it/enciclopedia/girolamocantelli_%28Dizionario-Biografico%29/.
4 Raffaele Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 79-83.
37
mento dell’elettorato attivo e la previsione del voto
femminile, nella prospettiva implicita di bilanciare
in senso moderato l’allargamento del suffragio. Ma
la crisi del governo, scoppiata l’anno seguente con
le dimissioni proprio del
Ministro dell’Interno, fece
Giovanni Nicotera
fallire l’impresa(5).
L’agognata riforma la fece tredici anni dopo,
nel 1889, il Governo di Francesco Crispi(6), mentre per
l’elezione del sindaco da parte dei cittadini di anni ne
sarebbero dovuti passare centodiciassette, tanti ne
sono trascorsi tra il 1876 e il 1993. L’attesa nel 1876 era
grande: “Confions la vie nouvelle à des esprits nouveaux (Affidiamo la nuova vita a degli spiriti nuovi)”, così
il motto nel frontespizio sintetizzava lo scopo del libro:
contribuire a forgiare gli spiriti dei Nuovi Sindaci.
5 Marco De Nicolò, Nicotera Giovanni, in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. 78, 2013; http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanninicotera_(Dizionario-Biografico)/; dello stesso autore si veda anche:
Trasformismo, autoritarismo, meridionalismo. Il ministro dell’interno
Giovanni Nicotera, Il Mulino, Bologna 2001.
6 La riforma entrò in vigore nel 1889 per i Comuni capoluoghi di
provincia o superiori a 10.000 abitanti e nel 1896 per tutti gli altri.
Fausto Fonzi, Crispi Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. 30, 1984; http://www.treccani.it/enciclopedia/francescocrispi_%28Dizionario-Biografico%29/.
38
Francesco Crispi
A chi obiettava che sarebbe stato meglio mantenere la nomina regia del sindaco, per via dell’autorevolezza che sembrava essere così garantita al primo
cittadino, Cima ribatte:
Noi opiniamo invece che venendo il sindaco
nominato dal Consiglio comunale non perderebbe affatto della sua indipendenza e libertà d’azione, ma che
queste all’incontro si rafforzerebbero vie maggiormente nelle qualità di funzionario governativo(7).
Questo perché la vera forza del sindaco non
proveniva dal re ma dal popolo, o meglio da quell’opinione pubblica che premeva per il cambiamento di
norme ormai obsolete:
7 Pp. 626-7.
39
L’opinione pubblica in Italia intorno alla convenienza che il Sindaco sia dagli interessati nominato,
si è per modo pronunciata, che non potrà tardare molto ad aver luogo tale provvedimento(8).
La nomina del sindaco da parte del re prevista
dalla legge comunale piemontese del 1859, poi estesa
a tutta l’Italia nel 1865, aveva l’obiettivo di garantire autorità e prestigio alla carica bilanciando le istanze locali
rappresentate dal consiglio comunale e, contemporaneamente, evidenziare la duplice natura del sindaco
che era sia capo del municipio, sia ufficiale di governo.
La nomina regia, inoltre, era sembrata indispensabile
all’indomani dell’Unità per rappresentare il legame tra i
cittadini e la monarchia sabauda e, inoltre, per garantire
la lealtà istituzionale del primo cittadino, prima e fondamentale preoccupazione della scelta che spettava di
fatto al Ministero dell’Interno. Erano i prefetti, infatti, a
raccogliere le informazioni sui possibili candidati attraverso l’autorità giudiziaria e i carabinieri.
La nomina dall’alto, in ogni caso, non era sufficiente a garantire la stabilità delle amministrazioni che
soffrivano per il continuo avvicendamento di assessori
e consiglieri comunali e per l’esiguità del corpo elettorale, che rendeva fragili gli equilibri politici. La legge
comunale, infatti, prevedeva un mandato di tre anni
per il sindaco, il rinnovo annuale per metà della giunta
8 P. 628.
40
e, sempre ogni anno, di un quinto del consiglio comunale che nel suo complesso rimaneva in carica cinque
anni. La legge prevedeva poi il solo elettorato maschile,
molto limitato dal censo, cosicché il diritto di voto era
attribuito ad appena il 2% circa della popolazione(9).
Nel 1876 le speranze di cambiare questa situazione sembravano fondate. Non era stata forse la
Destra ad imporre in Parlamento accentramento e controlli su Comuni e Province? E non era stata sempre la
Sinistra a chiedere invece decentramento, autonomia
ed estensione del suffragio che, per alcuni tra di loro,
sarebbe dovuto essere universale? Secondo Cima non
vi potevano essere dubbi, con il nuovo governo di Agostino Depretis(10):
Un’era di vita affatto nuova sta per aprirsi ai
comuni e noi presentiamo che dinanzi al soffio d’un regime costituzionale ogn’ora più libero gli avanzi di una
logora legislazione non tarderanno a sparire(11).
9 Sull’argomento: Elisabetta Colombo (a cura di), I sindaci del re
(1859-1889), Il Mulino, Bologna 2011.
10 Raffaele Romanelli, Depretis Agostino, in Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. 39, 1991; http://www.treccani.it/enciclopedia/
agostino-depretis_%28Dizionario-Biografico%29/.
11 P. 772.
41
Primo governo Depretis
42
2. Il fermento culturale nell’amministrazione
locale di fine ‘800
Ma la riforma non si fece tanto presto, il Dizionario di Cima non ebbe il successo vagheggiato e
quel volume andò ad infoltire il mercato delle guide
per le amministrazioni comunali dove si era da tempo
affermato il famoso Manuale Astengo, pubblicato dal
1862(12) addirittura fino al 1975, grazie a nuove edizioni
che sfruttavano la celebrità del più antico e conosciuto
testo per la Pubblica amministrazione. Apparso subito dopo l’Unità l’Astengo fu il primo supporto tecnico
alle attività delle amministrazioni di comuni e
province, “capillarmente
distribuito specie tra il
personale delle prefetture e delle amministrazioni locali”. A questa si
affiancavano altre pubblicazioni periodiche che
costituivano uno “straordinario canale di comunicazione interna al mondo
degli uffici negli anni a
Manuale Astengo
cavallo tra i due secoli”.
12 Il titolo preciso era: Manuale degli amministratori comunali e
provinciali e delle opere pie. Raccolta periodica delle leggi, dei
regolamenti e dei pareri del Consiglio di Stato, delle Istruzioni, delle
Circolari e delle decisioni di massima delle amministrazioni centrali.
43
Numerose, in particolare, quelle dedicate ai segretari
comunali e provinciali, ma vi erano anche quelle per
impiegati e tecnici comunali, “riviste legate alle culture
tecniche dell’amministrazione” e, ancora, “riviste più
genericamente politiche e culturali [come] (‘Il Giornale
degli Economisti’, ‘Nuova Antologia’)” che avevano pagine dedicate alle amministrazioni locali.
Il Giornale degli Economisti
Nuova Antologia
Scrive sempre Melis a questo proposito: “Una
leva di operosi funzionari dello Stato e delle amministrazioni locali occupò con i suoi scritti le pagine di
questi periodici, affrontandovi per lo più, alla luce
dell’insegnamento dei ‘maestri’, le questioni pratiche
legate alla loro attività d’ufficio, segnalando e tentando
di classificare nelle categorie del diritto le nuove espe44
rienze in corso (ad esempio quelle legate al nuovo campo delle municipalizzazioni, o a quello delle bonifiche,
o dell’elettricità, o delle ferrovie)”. “Fu - scrive ancora
Melis - un’intensa opera di volgarizzazione, dalla quale però emerse chiaramente la collocazione subalterna
di questi intellettuali dell’amministrazione all’interno
dell’organizzazione del sapere giuridico negli anni anteriori alla guerra mondiale”. A questi “intellettuali
dell’amministrazione” fu riservato un compito difficile:
“trasmissione, divulgazione, il riordino della giurisprudenza, la diligente registrazione e sistemazione di ciò
che già appariva noto; ma anche, specie nei nuovi campi del diritto […] i primi (rischiosi) lavori di scavo e […]
compilazioni di fonti”(13).
Tutte queste pubblicazioni della seconda
metà dell’800 erano, allora, “in bilico tra l’ufficialità e
l’organo di opinione, tra la pubblica amministrazione e
la società civile […, una] franca commistione di diritto
e di ‘politica’” in un periodo nel quale il diritto amministrativo non aveva ancora una “precisa identità giuridica” e nel quale era “l’amministrazione a stabilire un
rapporto diretto, non mediato dalla politica, con la società civile” e godeva, quindi, dell’appoggio della Pubblica amministrazione, dei ministeri come degli uffici
periferici. Vent’anni dopo alcuni degli autorevoli personaggi che scrivevano su queste riviste, come Cesare
13 Guido Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Il
Mulino, Bologna 1996, pp. 214-7.
45
Correnti(14) e Pasquale Stanislao Mancini(15), avrebbero
poi contribuito allo sviluppo di una moderna amministrazione e a testi prestigiosi, quali il Digesto italiano e
l’Enciclopedia giuridica italiana.
Cesare Correnti
Pasquale Stanislao Mancini
Era così che “noti accademici [prestavano] […]
il loro contributo, o [facevano] le prime prove, insieme a funzionari, a magistrati, ad avvocati, o semplici
pubblicisti”. Opere nelle quali erano comuni o coinci-
14 Luigi Ambrosoli, Correnti Cesare, in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. 29, 1983; http://www.treccani.it/enciclopedia/cesarecorrenti_%28Dizionario-Biografico%29/.
15 Mancini, Pasquale Stanislao, in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. 68, 2007; http://www.treccani.it/enciclopedia/pasquale-stanislao-mancini_%28Dizionario-Biografico%29/.
46
devano finalità commerciali ed educative, nei confronti
di amministratori e funzionari. La grande fortuna del
Manuale e la brillante carriera del suo inventore, Carlo
Astengo, diventato senatore, sembrano confermare,
secondo Romanelli, l’importanza di queste opere(16).
Opere che sostenevano migliaia di burocrati nello sforzo quotidiano di amministrare e che contribuirono a definirne la cultura nell’Italia appena unificata. Augusto
Monti scrisse nel 1922 che:
“l’Italia non aveva quando
nacque quella che si chiama l’attrezzatura dello Stato moderno: la burocrazia
gliel’ha data, la burocrazia
è l’attrezzatura moderna
dell’Italia, potenza europea. L’Italia non aveva, e
neanche ha, una classe
dirigente: la burocrazia ha
dovuto, purtroppo, fare
lei da classe dirigente ed
il Prefetto ed il Segretario
comunale hanno di fatto
Augusto Monti
governato l’Italia” sottoli-
16 Raffaele Romanelli, Sulle carte interminate, Il Mulino, Bologna
1989, pp. 36-41; 45; una breve biografia di Carlo Astengo è in questo
stesso volume pp. 63-4. Si veda anche la sua nota biografica di senatore del Regno, http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/2b16bb
7ad173f710c125700c00529606/6e15c2003224f75e4125646f00587
83b?OpenDocument.
47
neando che “Scorrendo la grama e breve storia della
nostra burocrazia, non credo si possa trovare un periodo in cui ci fu davvero tra burocrazia e paese quella
tale adesione, anzi in cui si ebbe addirittura la sommissione, anche volontaria, degli interessi particolari dei
funzionari agli interessi generali del paese”(17).
La grande produzione letteraria di quegli anni
rimase purtroppo separata dallo sviluppo del diritto
pubblico italiano avvenuto a cavallo tra XIX e
XX secolo. Vi fu allora
quello che Vittorio Emanuele Orlando(18) descrisse come il “malefico divorzio fra la scienza pura
e la pratica illuminata”,
nel quale il maestro del
diritto pubblico italiano
individuò “una delle cause della crisi dell’una e
Vittorio Emanuele Orlando
dell’altra”(19).
17 Augusto Monti, Attivo e passivo sulla burocrazia, in “La Rivoluzione liberale”, n. 13, 14 mag. 1922.
18 Giulio Cianferotti, Orlando Vittorio Emanuele, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 79, 2013; http://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-emanuele-orlando_%28Dizionario-Biografico%29/
19 Melis, Storia dell’amministrazione italiana, cit., pp. 216-7.
48
A partire dal primo ‘900, nel frattempo, sarebbe cambiato tutto. L’alba del XX secolo fu definita dal
socialista riformista Giovanni Montemartini(20) “primavera nella vita municipale”(21), le città divennero protagoniste dello sviluppo politico, economico-sociale
dell’età giolittiana, ma rimasero a margini dello sviluppo del diritto proprio mentre invece “in Europa e negli
Stati Uniti si sviluppò una discussione sui differenti
aspetti che l’amministrazione delle città inevitabilmente portava con sé”(22).
3. Le qualità del sindaco alla fine del XIX
secolo (e all’inizio del XXI)
Sono così diverse le qualità del sindaco della
fine del XIX secolo descritte da Cima da quelle di uno
dell’inizio del XXI? No, non lo sono, com’è evidente
dal citato accenno all’idea di un sindaco scelto dagli
elettori, che l’avrebbe fatto sentire “tanto forte di sé
da sobbarcarsi impavido alla grave missione”(23). L’impostazione laica e anticlericale militante del volume,
20 Marco De Nicolò, Montemartini Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 76, 2012; http://www.treccani.it/enciclopedia/
giovanni-montemartini_%28Dizionario-Biografico%29/.
21 Giovanni Montemartini, La municipalizzazione dei publici servigi,
Società editrice libraria, Milano 1902, pp. 372-3.
22 Federico Lucarini, Scienze comunali e pratiche di governo in Italia
1890-1915, Giuffrè, Milano 2003, pp. 4-5.
23 P. II, infra.
49
di cui si è scritto, è evidenziata dalla scelta della citazione presente nel frontespizio e dal luogo di stampa:
Cesena, in Romagna.
La
citazione
rende omaggio a Edgar
Quinet, morto nel 1875,
l’anno precedente alla
pubblicazione del volume(24). Quinet, democratico e repubblicano,
cristiano nell’animo e
profondamente anticlericale, sostenne l’incompatibilità del “principio
cattolico […] con la liber-
Edgar Quinet
24 Edgar Quinet (Bourg-en-Bresse 1803 - Parigi 1875) storico e politico francese, auspicava una riforma del cattolicesimo sulla falsariga di
quella protestante e fu nemico giurato di gesuiti e seguaci del Papa.
Partecipò alla rivoluzione del 1848, si oppose alla spedizione di truppe francesi contro la Repubblica Romana del 1848-49, democratico e
repubblicano convinto, nel 1851 venne esiliato dall’imperatore Napoleone III come altri scrittori democratici - primo fra tutti Victor Hugo
- e decise di tornare a Parigi, nonostante l’amnistia del 1859, solo
dopo la sua caduta nel 1870. Ebbe contatti con molti patrioti europei
e, tra gli italiani, con Giovanni Berchet, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Scrisse di politica, letteratura, storia, tra le sue opere:
La Croisade autrichienne, française, napolitaine, espagnole, contre
la République romaine, Parigi 1849 e L’Esprit nouveau, Parigi 1875,
dalla quale è quasi certamente tratta la citazione del frontespizio;
http://www.treccani.it/enciclopedia/edgar-quinet/; sul personaggio
Giuseppe Santonastaso, Edgar Quinet e la religione della libertà, Dedalo, Bari 1968.
50
tà moderna”(25). Era l’autore di un’opera Les révolutions
d’Italie (Parigi 1848-51) che ebbe eccezionale successo
in Francia e in Italia, dove venne tradotta per la prima
volta nel 1863 da Niccolò Montenegro, mazziniano e tra
i Mille di Garibaldi(26). Notissima negli anni del Risorgimento, l’opera, che colpì anche Benedetto Croce, ha
avuto diverse edizioni in italiano ancora in anni recenti,
come nel 1970, con la prefazione del noto storico inglese Denis Mack Smith e, ultimamente, nel 2012(27).
La casa editrice de Il Nuovo Sindaco era “La
Tipografia Nazionale” di Giuseppe Vignuzzi(28) con
sede a Cesena, nella Romagna patria per eccellenza
dei sovversivi dell’epoca quali erano i repubblicani
25 Edgar Quinet, Le rivoluzioni d’Italia, prefazione di Denis Mack
Smith, Laterza, Bari 1970, p. IX.
26 Giuseppe Monsagrati, Montenegro Niccolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 76, 2012; http://www.treccani.it/enciclopedia/
niccolo-montenegro_(Dizionario-Biografico)/.
27 Edgar Quinet, Le rivoluzioni d’Italia, a cura di Maria Grazia Meriggi, Nino Aragno Editore, Torino 2012.
28 Alla fine dell’’800 la tipografia aveva solo sei lavoranti e un torchio a mano, ma negli anni ‘70 dell’’800 sapeva “preparare dei libri
che nulla avevano da invidiare a quelli dei grandi stabilimenti tipografici italiani, mostrando ancora una volta l’alto livello qualitativo
dei volumi usciti dalle stamperie artigiane di provincia”. Pur lontane
dalle potenzialità dei grandi editori nazionali che stavano crescendo
in quegli stessi anni, era proprio nei manuali per i Comuni, oltre che
negli stampati commerciali e nei libri scolastici, che le tipografie della
Romagna, come quella di Vignuzzi, erano riuscite a ritagliarsi il proprio spazio; Giorgio Montecchi, Itinerari bibliografici. Storie di libri, di
tipografi e di editori, Franco Angeli, Milano 2001, p. 153.
51
mazziniani, i garibaldini,
gli anarchici, i socialisti,
tutti profondamente anticlericali. Ma in quella
stessa Cesena dove nel
1871 si pubblicava il giornale “Satana” e nel 1881
“L’Avanti!”, trasferito poi
dal socialista Andrea Costa(29) a Roma, un paio
di decenni dopo, nel
1899, si sarebbe stampato anche il settimanale Il Savio “giornale
democratico
cristiano
[ch]e si contrapponeva
con vivacità a liberali e
repubblicani”
ispirato
da Romolo Murri(30), cui
faceva il verso, ironicamente, di tanto in tanto,
il foglio “Il Matto”(31). Alla
fine dell’’800, quindi, la
Romagna avrebbe avuto
spazio anche per i demo-
Giornale “L’Avanti”
Romolo Murri
29 Andreina De Clementi, Costa Andrea, in
Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 30, 1984.
30 Sull’argomento cfr. Lorenzo Bedeschi, Il modernismo e Romolo
Murri in Emilia e Romagna, Guanda, Parma 1966.
31 Montecchi, Itinerari bibliografici, cit., pp. 146-152 e p. 151.
52
cratico-cristiani, anch’essi sovversivi, in questo caso
rispetto a liberali e repubblicani ma anche, e non certo
per ultimo, rispetto al moderatismo clericale che si stava progressivamente affermando nell’Italia giolittiana.
Le pagine dedicate a Il carattere e le qualità
del Nuovo Sindaco, iniziano con un’esortazione all’umiltà. Il Nuovo Sindaco, innanzitutto, doveva conoscere sé stesso come uomo per intraprendere la missione
di sindaco eletto dal consiglio, come accadeva ai suoi
omologhi in altri Paesi. L’orizzonte europeo dell’autore
è richiamato sin dalle prime righe ed è sottolineato dal
grande spazio dato frequentemente a citazioni anche
molto lunghe, in nota, in lingua francese.
Il rispetto delle leggi doveva essere assoluto,
l’unico cui il sindaco sarebbe stato soggetto quando, in
un non lontano futuro, sarebbe finita la subordinazione
al centralismo. Cosciente della doppia natura della carica, quella di ufficiale di governo e di rappresentante
della propria comunità,
non avrebbe mai dovuto
abusare dei propri poteri.
I principi di democrazia
avrebbero dovuto guidarlo seguendo la tradizione
della Repubblica di Roma,
quella antica studiata da
Georg Barthold Niebuhr,
lo storico tedesco che
Georg Barthold Niebuhr
all’inizio dell’’800 mar53
cò l’inizio di una nuova
era negli studi romani e,
soprattutto, negli studi
storici(32). Subito dopo veniva l’accenno ai principi
democratici sostenuti da
Giuseppe Garibaldi, nel
quale un lettore attento
non avrebbe mancato di
ricordare il difensore della Repubblica Romana del
1848-49, pur non espressamente nominata.
Giuseppe Garibaldi
Viene poi il richiamo al progresso, allo sviluppo socio-economico, all’educazione nazionale, e Cima
ricordava qui in nota, ancora, come ulteriore omaggio, il
nome di Quinet. L’autonomia tanto cara però non era un
idolo a cui sacrificare tutto, ma uno strumento per il progresso, per questo dopo un richiamo alla necessità di un
rapporto diretto e paritario con la provincia - allora guidata dal prefetto, fino al 1889 - ne rammenta il potere di
sostituirsi alla “forza insufficiente e manchevole del Comune giuridico”(33). E ancora, all’interno del volume, alla
voce Amministratori l’autore, conscio della limitatezza
della cultura e delle capacità di molte amministrazioni
32 «His permanent contribution to scholarship was his method»;
Barthold Georg Niebuhr; http://www.britannica.com/EBchecked/
topic/414548/Barthold-Georg-Niebuhr.
33 P. IV, infra.
54
manifestava non solo il suo consenso ma sollecitava lo
svolgimento di ispezioni delle prefetture nei Comuni:
Le frequenti e non superficiali ispezioni per
parte del Capo della provincia ai comuni di sua giurisdizione apparecchieranno questi a sapersi reggere da
sé medesimi(34).
A questo punto Cima citava un’opera di Pacifico Valussi, politico e giornalista friulano, anticlericale
sì, ma deputato della Destra dal 1866 al 1874(35) - quasi
a bilanciare le citazioni del repubblicano francese Quinet - opera dedicata alla definizione dei caratteri della
nuova Italia appena unificata(36), a sottolineare la natura didattica del suo volume diretto a definire i caratteri
del Nuovo Sindaco.
Il segretario comunale ricordava, quindi, l’importanza di un esercizio “con la possibile mitezza” degli ordini delle autorità superiori, con implicito riferimento a quelli relativi all’ordine pubblico. Rimarcava
poi la necessità di diffondere il “principio dell’Autorità e della Contribuzione […, che] deve sopportarsi da
ognuno per comune sicurezza e garanzia in propor34 P. 50.
35 Alberto Buvoli (a cura di), Il Friuli. Storia e società. 1866-1914: il
processo di integrazione nello Stato unitario, Istituto friulano per la
storia del movimento di liberazione, Udine 2004, ad nomen.
36 Pacifico Valussi, I caratteri della civiltà novella in Italia, P. Gambierasi, Udine 1868.
55
zione alle loro forze”. Non a caso metteva sullo stesso piano il corretto esercizio dell’autorità e il principio
dell’equità fiscale: dovevano essere esercitati in modo
equo, ma proporzionale, e quindi esigendo di più ai più
potenti, che erano anche i più ricchi. Chiedeva anche
al Nuovo Sindaco di non agire in nome della propria
parte ma per “il benessere della Nazione”, unica forma
di esercitare “il Ministero militante” (37).
Cima, ancora, chiedeva al sindaco “che le abitudini della sua vita privata sieno regolari, decorose,
morali”, di essere “campione di pace […] in nome di
quella fratellanza universale che è la dottrina del Cristo e aspirazione e voto della civiltà progrediente”(38).
Esigeva fermezza di carattere, moralità, la promozione
della pace, mutuando il richiamo della religione cristiana non in nome della vita ultraterrena ma in quello
di un laico progresso, implicitamente contrapposto,
quindi, al tradizionalismo di cui erano portatori liberali
conservatori e clericali di quegli anni.
Ma il sindaco doveva anche essere coraggioso: “Quando sovrasterà al suo comune un qualche pericolo o troverassi colto da calamità, il NUOVO SINDACO sarà primo ad affrontarla”(39). Quasi con lo stesso
coraggio avrebbe dovuto poi promuovere il progresso
37 P. V, infra.
38 P. VII, infra.
39 P. VII, infra.
56
in tutte le sue dimensioni
sociali ed economiche e
qui Cima cita testualmente alcune righe di un’opera, non meglio identificata, di Luigi Ferraris, deputato della Destra liberale
nel Parlamento Subalpino nel 1848 e, ancora, nel
Regno d’Italia dal 1863 al
1871 quando venne nominato senatore e, soprattutto, futuro sindaco di
Torino dal 1878 al 1882(40).
Luigi Ferraris
Italia, 1885 ca
40 Sandra Pileri, Ferraris Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 46, 1996; http://www.treccani.it/enciclopedia/luigiferraris_%28Dizionario-Biografico%29/.
57
“Mite, subordinato e nondimeno indipendente e fermo” rispetto alle autorità superiori, il Nuovo
Sindaco doveva essere “nelle funzioni di Ufficiale di
polizia giudiziaria [...] avveduto, prudente, risolutamente energico e coraggioso […, perché] chi viola la
legge è un nemico della società […, e] non si lascierà
piegare a’ sensi di compassione verso una rea sventura né da riguardi d’amicizia o di affinità ”(41).
Iniziano a questo punto pagine tra le più pungenti del volume, quelle più profondamente anticlericali,
che iniziano con un’affermazione di principio oggi condivisa ma che allora, a qualche anno dalla presa di Roma,
e dalla fine del potere temporale della Chiesa, feriva ancora la sensibilità di molti cattolici: “Il NUOVO SINDACO terrà ben distinto il principio politico dal religioso”.
“Il Potere ecclesiastico - ammoniva l’autore - è
per se stesso espansivo e tende ad uscire facilmente
dai confini naturali per entrare nel campo delle temporalità e della politica”. In particolare il Nuovo Sindaco
avrebbe dovuto contrapporre la “tolleranza in materia
di opinioni religiose” e l’avversione al “fanatismo comunque s’ammanti” al “gesuitismo, il quale particolarmente nelle campagne, tende ad infiltrarsi nelle vene
del popolo”(42).
41 Pp. VIII, IX, infra.
42 P. XI, infra.
58
Cima condivideva la polemica verso il
“gesuitismo” avviata da
Quinet in Francia(43), diffusa in tutta l’Europa della prima metà dell’’800, e
fatta propria in Italia anche da uno dei maggiori
interpreti del pensiero
risorgimentale di ispirazione cattolica, Vincenzo
Gioberti, che nutriva una
“radicale e irrimediabile
Vincenzo Gioberti
ostilità [verso lo] spirito
gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo
morale e autoritarismo, [che contrapponeva] a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale”(44).
Il volume ricorda quindi il motto cavouriano,
messo in risalto dall’uso di lettere maiuscole “LIBERA
CHIESA IN LIBERO STATO”, raccomanda al sindaco “la
maggiore riservatezza nell’esplicare in pubblico giudizi in materia di religione e di culto” perché doveva
43 Jules Michelet, Edgar Quinet, Des Jésuites, par Mm. Michelet et
Quinet, Comptoir des imprimeurs-unis, Hachette, Paulin, Paris 1844;
per una moderna traduzione italiana: I Gesuiti, di Michelet e Quinet,
introduzione di Domenico Novacco, Avanzini e Torraca, Roma 1968.
44 Francesco Traniello, Gioberti Vincenzo, in Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. 55, 2001; http://www.treccani.it/enciclopedia/
vincenzo-gioberti_%28Dizionario-Biografico%29/.
59
ricordarsi di essere sempre il principale bersaglio delle
critiche di quell’opinione pubblica cui doveva l’incarico
e che sarebbe stata pronta in ogni momento ad abbandonarlo, se ne avesse dato motivo sufficiente:
dovrà ognora rammentarsi che la sua vita privata non
può correre disgiunta dalla pubblica, ma che in questa
confondesi formando un sol tutto, laonde i di lui pensamenti, la di lui fede, le di lui simpatie e convinzioni
istesse non debbono farsi palesi, appunto perché siccome il Sindaco è il principale obbiettivo delle comuni
osservazioni(45).
La perorazione anticlericale del Nuovo Sindaco termina con la
raccomandazione di adottare sempre un comportamento energico
e fermo verso i probabili atteggiamenti antinazionali dei sacerdoti.
Erano ancora ben lontane dal comparire sulla scena politica le figure
di Romolo Murri e Luigi Sturzo, prosindaco di Caltagirone dal 1905 al
1920 e vicepresidente dell’Anci dal
1915 al 1923, oltre che fondatore del
Partito popolare nel 1919. La Chiesa
era ancora stordita dalla proclamazione di un Regno d’Italia che ap-
45 Pp. XIII, XIV.
60
Luigi Sturzo
pena negli anni ‘50 dell’’800 sembrava utopia e che
nel 1860 con l’impresa dei Mille divenne realtà. La
Chiesa cattolica italiana non aveva ancora trovato gli
interpreti che avrebbero compaginato la fede religiosa
e quella nello Stato nazionale. Ma la distanza tra le
ragioni di quelle due fedi, che sembrava incolmabile
ai tempi di Cima, sarebbe stata tutta percorsa appena
all’inizio del XX secolo.
Alle raccomandazioni per un atteggiamento
di ferma opposizione a qualsiasi ingerenza religiosa
e all’esortazione a comportamenti pubblici e privati consoni all’importanza della carica seguiva, sullo
stesso identico tono, il richiamo a un atteggiamento
di neutralità nelle campagne elettorali che, è necessario ricordare, erano allora molto frequenti, per via del
rinnovo annuale di parte del consiglio comunale. Una
neutralità che però non doveva riguardare le eventuali ingerenze del “partito oscurantista”, che era quello,
allora ancora molto pericoloso per il neonato Regno
d’Italia, che predicava il ritorno ai regimi preunitari,
questo perché: “Il ritorno al passato è morte - noi dobbiamo allearci con le cose viventi; esse infondono la
speranza, dell’avvenire, la forza del presente e rendono alla patria la giovinezza immortale”(46).
È quindi la volta delle pagine dedicate alla
“pubblica istruzione” perché allora il Comune era re-
46 P. XVI.
61
sponsabile dell’educazione elementare, dalla
cura dell’edificio scolastico al pagamento degli insegnanti. All’indomani dell’Unità, infatti,
venne esteso a tutto il
Regno d’Italia l’obbligo
di bambine e bambini
a frequentare i primi
due anni della scuola
elementare
stabilito
dalla legge Casati, la
legge piemontese del
Gabrio Casati
1859 che aveva preso il
nome dal Ministro proponente, Gabrio Casati(47), anche
se il pagamento delle spese, esclusivamente a carico
dei municipi, ne limitava fortemente l’applicazione.
Secondo Cima l’istruzione era alla base dello
sviluppo “delle industrie e del commercio” e doveva
quindi essere favorita, facendo però sempre molta attenzione alla possibile influenza della Chiesa perché
“il clericalismo è multiforme”(48).
47 Luigi Ambrosoli, Casati Gabrio, in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. 21, 1978; http://www.treccani.it/enciclopedia/gabriocasati_%28Dizionario-Biografico%29/.
48 P. XIII, infra.
62
Tra le principali raccomandazioni che seguono
vi è quella di “tenere in buona considerazione i propri
impiegati” e trattarli in modo tale che nessuno potesse pensare che fossero al servizio del Sindaco “finché
non vengano credute persone addette ai di lui privati
servigi”. Cima, a questo punto, faceva una concessione alla propria categoria e raccomandava che “tra gli
impiegati il NUOVO SINDACO cercherà di poter avere
una particolare deferenza per il suo segretario in cui
riporrà ogni riposto pensiero”(49).
La “particolare deferenza” professionale che
il Nuovo Sindaco avrebbe dovuto concedere al segretario era dovuta a consonanza politica: il segretario,
infatti, condivideva con lui l’appartenenza alla Sinistra
parlamentare, al “partito liberale-progressista”. Cima,
infatti, immaginava il sindaco a cui si rivolgeva già eletto dal consiglio e, quindi, naturalmente bendisposto
verso il governo che aveva fatto la tanto attesa riforma. Così Cima scriveva in nota alla voce “Segretario
comunale”:
la classe dei segretari comunali, anche per l’avvenimento del 18 marzo 1876 (1. Alludesi alla chiamata al
potere del ministero Depretis - rappresentante il partito liberale-progressista) presenta in Italia un apprezzabile contingente al partito LIBERALE PROGRESSISTA,
vuoi perché questi funzionari s’affidano, auspice l’evo-
49 P. XIV, infra.
63
luzione politica, ad un migliore avvenire, o vivendo in
perenne contatto con la classe popolare si assimilano
ad essa di preferenza per uniformità di bisogni e di
aspirazioni(50).
Come ricorda Romanelli, “Il decentramento
era uno dei principali obiettivi di riforma indicati da
Depretis nel programma di Stradella [..., che] appartengono alla primissima fase del governo della Sinistra”
e la categoria dei segretari comunali nutrì fortissime
speranze che la Sinistra al governo, insieme a quella
grande riforma, varasse norme per il miglioramento
della loro difficile condizione economico-professionale(51), che era tale specie nei Comuni medio-piccoli, la
quasi totalità dei Comuni italiani dell’epoca. I segretari, però, dovettero aspettare il nuovo secolo per vedere
il miglioramento della loro situazione(52).
Per quanto riguarda la giunta Cima chiedeva
che le decisioni “per il buon andamento amministrativo [...] vengano adottate per convincimento di ognuno e come defluite dallo studio e dalla meditazione
comune”(53) e, nel consiglio comunale, chiedeva il rispetto delle regole e moderazione nel linguaggio.
50 Pp. 593-4.
51 Romanelli, Sulle carte interminate, cit., pp. 200 e 164.
52 Sulla storia della categoria: Oscar Gaspari, Stefano Sepe (a cura
di), I segretari comunali. Una storia dell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2007.
53 P. XV, infra.
64
Al termine di tante raccomandazioni l’autore
si chiedeva per quale ragione un uomo avrebbe avuto
il desiderio di sobbarcarsi di pesi simili e la risposta era
la stessa che vale ancor’oggi: ambizione personale e
desiderio di potere, molto più che aspirazione al bene
comune “una tale abnegazione è soventi volte più che
del patriottismo figlia dell’amor proprio e dell’irresistibile piacere della supremazia”. È per questo che, proprio come accade nei nostri Comuni, oggi:
La sciarpa di Sindaco, è uopo asserirlo, viene
desiderata da ognuno, perfino da coloro i quali si mostrano in apparenza più ripugnanti a recingerla e più
incapaci.
Allora, in tempi nei quali le persone che potevano aspirare alla carica di sindaco erano quasi solo i
proprietari terrieri che formavano la grandissima parte
degli uomini agiati, i soli che potevano votare ed essere
eletti, interessi personali e ambizione non erano caratteristiche tanto universalmente diffuse se Cima doveva riconoscere che non era facile convincere “un felice proprietario ad abbandonare la sua calma e le sue
private delizie per gettarsi in questo cammino di lotte,
di dispute e di perigli”(54). Solo la convinzione di poter
agire ispirati dal bene della Patria, avrebbe dovuto poter convincere una persona a divenire il Nuovo Sindaco.
Ma questo Cima lo scriveva con un tono d’augurio, sot-
54 P. XVI, infra.
65
tolineato dall’uso del condizionale “noi vorremmo”, e
non con quello dell’esortazione patriottica: il desiderio
di perseguire il bene pubblico anche al di sopra anche
dei propri interessi doveva essere raro anche allora.
4. Amministrare il Comune da sindaco del re
4.1. Il Comune e il sindaco
Alle pagine dedicate al Nuovo Sindaco seguono quelle del Dizionario di giurisprudenza amministrativa e si passa così dall’attualità degli insegnamenti
morali a quella... della difficoltà dell’amministrare il
Comune italiano.
Un esempio è già nelle prime pagine dove tra
le più importanti e complesse voci del dizionario spicca quella relativa agli Ammalati. Nell’Italia appena unificata il pagamento delle spese relative al ricovero e
alla cura degli ammalati era di competenza comunale,
come d’altra parte lo è stato sostanzialmente fino alla
riforma sanitaria del 1980(55). Spicca, in particolare, la
difficoltà di gestire una materia per la quale era necessario conoscere non tanto la più recente legislazione
55 Ancor oggi, però, mentre in caso di prestazioni sanitarie il relativo
pagamento è a carico del Servizio sanitario nazionale, nell’eventualità di prestazioni socio-assistenziali quali sono, ad esempio, quelle
in favore di malati di mente, è il Comune di residenza all’epoca del
ricovero che se ne deve far carico in ultima istanza.
66
nazionale in vigore, che era minima, ma soprattutto
quella preunitaria, quindi i trattati internazionali per i
cittadini stranieri in Italia e per quelli italiani all’estero.
Un estero che nel caso del Veneto, per esempio, non
era tale rispetto alle regioni dell’Impero Austro-ungarico di cui la regione aveva fatto parte fino al 1866, appena dieci anni prima dell’uscita del Dizionario.
La questione fondamentale era la definizione
delle modalità attraverso le quali individuare la residenza di un cittadino, perché se i municipi d’origine,
quasi sempre poveri e di montagna, tendevano a dichiarare con facilità l’abbandono del Comune, ai grandi Comuni della pianura non bastava che una persona
abitasse nel proprio territorio da un certo tempo per
stabilire che quella fosse residente a tutti gli effetti.
La decisione rispetto a quale Comune dovesse esse-
Ospedale di Torino
67
re assegnata la residenza di un ammalato comportava
la competenza del pagamento delle spese ospedaliere
che, nel caso di trattamenti particolari, ad anziani e malati cronici, per esempio, potevano essere anche molto
alte. Questa è la ragione dell’ampiezza della voce. Così,
alle poche norme del Regno d’Italia succedono i pareri
del Consiglio di Stato, le sentenze della Corte di Cassazione, le norme dei diversi stati preunitari cui facevano
riferimento i Comuni delle diverse regioni.
Il commento conclusivo di Cima sulle difficoltà economiche provocate da una legislazione confusa
potrebbe essere sottoscritto ancor oggi da molti amministratori locali:
Dallo stato attuale della legislazione e della giurisprudenza con cui vengono regolate le competenze
passive per cure ospitalizie, le Amministrazioni risentono gravi pregiudizi nel loro andamento economico.
Alla denuncia delle difficoltà provocate dalla
burocrazia segue quella della pericolosità di qualsiasi
ostacolo posto alla libertà di commercio e di industria.
La Sinistra dei tempi di Cima era, ancora nella seconda metà dell’’800, impregnata dei principi del classico
liberalismo inglese che considerava profondamente
deleterio qualsiasi intervento pubblico in ambito economico, al contrario di quanto avrebbero argomentato
di lì a qualche anno sia i socialisti sia, a partire dalla
fine dell’’800, i cattolici di Murri e Sturzo. Cima, quindi,
alla voce Annona si esprimeva decisamente contro la
68
possibilità concessa ai Comuni di imporre prezzi calmierati e più avanti, alla voce Farmacia, descriveva la
sua contrarietà alle limitazioni previste dalla legge riguardo all’apertura di farmacie in quanto “contraddice
ai principi della libertà professionale”(56).
È vista alla luce dei principi liberali anche la
questione del dazio consumo, bollato come “ingerenza
del Governo” in una imposta comunale e, soprattutto,
come ostacolo alla circolazione delle merci sia dal punto
di vista economico, per la somma che si doveva pagare
per il passaggio nel territorio comunale, sia dal punto di
vista fisico, perché prevedeva l’esazione al passaggio
in entrata o in uscita dai centri abitati, rallentandone i
movimenti. Era per questo che il dazio non esisteva da
tempo nel paese più industrializzato dell’epoca, l’Inghilterra, ed era stato da poco abolito in Belgio e Olanda(57).
Scrive Cima:
Il dazio consumo produce due mali: il primo,
l’ingerenza del Governo che percepisce utili da un’imposta di natura eminentemente comunale; il secondo,
molto più grave, consta dei profondi danni che ne risentono le popolazioni per il progressivo aumento di
questa imposta(58).
56 Pp. 53 e 320.
57 P. 230.
58 P. 238.
69
Il problema poi era anche che, come ancor
oggi per imposte e tasse a vantaggio sia dei Comuni,
sia dello Stato, quella del dazio era una risorsa fondamentale per i bilanci municipali come per quello nazionale. Questo significa che la sua cancellazione avrebbe favorito i bilanci dei privati e lo sviluppo economico
generale, ma poteva essere funesto per i bilanci pubblici e, quindi - e deve essere ben sottolineato - anche
per quei servizi pubblici alla cittadinanza che costituiscono, a loro volta, un elemento alla base dello sviluppo socio-economico generale. La scelta di ridurre o di
eliminare una tassa o un’imposta che costituisce una
risorsa di rilievo per gli enti locali deve essere compiuta dal Governo tenendo conto delle conseguenze sui
servizi locali e, quindi, sul territorio.
La progressiva limitazione al principio di neutralità assoluta dello Stato in economia propria dell’ideologia liberale era comunque vicina, come avrebbe
dimostrato, di lì a poco, la scelta compiuta dal Governo
di un progressivo impegno diretto nel finanziamento
della costruzione e poi nella gestione delle ferrovie.
Nel frattempo, un segnale di questo cambiamento
veniva da una lunga nota finale alla voce Boschi dove
è sottolineata l’urgenza dell’intervento pubblico per
proteggere ed accrescere le foreste in montagna per
salvaguardare così il territorio da frane e alluvioni(59).
59 P. 131.
70
La rete ferroviaria
Nella sua lunga introduzione alla voce Comune, dove ricostruiva la gloriosa storia dell’ormai lontano passato dei Comuni italiani e la successiva stagione
di sottomissione allo Stato, Cima concludeva lasciandosi andare alla previsione di un futuro radioso, garantito dalla vicina riforma:
I Governi più liberi consentono ora al Comune
tutta quella autonomia che non può danneggiare l’unità dello Stato, né arrecare indebolimento ai poteri del
governo centrale [...]
Quali saranno le fasi avvenire del Comune
italiano e la sua sorte nella forma costitutiva del reggimento politico, se esso sta per divenire il naturale
rappresentante dei portati civili ed il principal Fattore
della prosperità nazionale?
Chi può conoscere le nuove fasi del Comune in Italia, se il prodigioso svolgersi degli avveni71
menti politici e sociali eruisce diuturno senza soste e
difficoltà”(60).
Che però il futuro del Comune non fosse poi
così semplicemente indirizzato verso un futuro di
progresso è facilmente intuibile dall’inizio della voce
Consiglieri Comunali che richiama il pericolo del familismo, tuttora esistente, nella vita politica comunale:
“La legge comunale non avendo determinato il numero dei fratelli che possano contemporaneamente
far parte del Consiglio comunale [...] Sta agli elettori
il provvedere”(61). Allora, come oggi, è ai cittadini, con il
voto, che spetta la responsabilità fondamentale della
scelta dei propri amministratori.
Tra le competenze che aiutano a comprendere
quale fosse il ruolo del Comune nell’Italia appena unificata ve ne sono diverse che oggi sono di competenza
di altre istituzioni ed enti pubblici. In sostanza è possibile affermare che ben prima della nascita di quello
che oggi conosciamo come il welfare, statale per eccellenza, il welfare era solo comunale, a partire dalla
ricordata istruzione obbligatoria elementare(62).
“Ogni comune - riporta il Dizionario - deve avere una
scuola elementare maschile e femminile, o almeno una
60 P. 158.
61 P. 183.
62 Si ricorda che nel 1877 la Sinistra riformò il settore con la legge
Coppino che elevò l’obbligo scolastico da due a cinque anni, lasciandone la competenza ai Comuni.
72
Scuola elementare rurale
scuola mista, e lo stipendio per il maestro o la maestra deve stanziarsi nel bilancio [...] sono esenti i soli
comuni di popolazione inferiore ai 500 abitanti”(63).
Grado e modalità di applicazione della legge furono,
evidentemente, molto diverse da Comune a Comune,
con conseguenze generalmente deleterie per lo sviluppo dell’educazione.
Altra competenza squisitamente comunale era
quella sanitaria, in particolare il pagamento del medico
condotto. È evidente dalla lettura delle due voci, Medici
e chirurghi e Maestro che la gestione di queste figure
professionali era fonte di difficili questioni, relative in
particolare, anche se non solo, ai rapporti economici.
63 P. 634.
73
Una voce di particolare interesse che aiuta a
comprendere la complessità dei problemi finanziari che
doveva gestire un sindaco dell’epoca di Cima è Sovrimposta nella quale viene descritta la possibilità di Comune - e Provincia - di sovrimporre una propria percentuale
alle imposte dello Stato, in modo tale da garantire risorse sufficienti all’amministrazione. Il segretario, per
rispondere alle accuse che l’opinione pubblica faceva ai
Comuni di imporre pesi troppo alti sui propri cittadini,
ricordava che nel periodo preunitario le sovrimposte
comunali erano più basse perché i Comuni avevano
compiti piuttosto limitati: spendevano poco e, quindi,
avevano bilanci piuttosto magri. L’aumento delle sovrimposte, che tanto preoccupava la popolazione, era
dovuto al fatto che il nuovo Regno d’Italia aveva caricato sui Comuni sia nuove competenze, sia spese relative
a servizi di natura statale. Ciò che più premeva a Cima,
però, era un problema che pare ripreso dalle pagine dei
quotidiani dei nostri giorni, salvo per la mancanza di un
protagonista, la regione. Da evidenziare l’illusione che
l’aumento delle imposte fosse di natura temporanea
dovuta solo alla necessità di costruire, praticamente da
zero, tutti i servizi propri di uno Stato moderno:
Ciò che importa egli è di uscire da uno stato di
cose, vera immagine del caos, dove comuni, provincie
e Stato s’invadono, s’accavallano, si sovrammettono
senza tempo e senza ordine. Trascorso che sia questo
periodo di transizione e sopravvenuto uno stabile as-
74
setto, molte economie potranno aver luogo(64).
Problemi di complessità di applicazione e di
esosità, però, ve n’erano anche quando i mezzi finanziari del Comuni provenivano da tasse proprie, com’era
il caso, all’interno della voce Tasse comunali della prima risorsa a disposizione del Comune che era la “tassa
fuocatico o di famiglia”, tanto che Cima commentava:
Nella molteplicità delle imposizioni e sovraimposizioni la tassa famiglia assume (particolarmente nei
piccoli comuni) un carattere vessatorio e contraddice
ai tempi e alle tendenze del miglioramento sociale(65).
La voce Sindaco è una delle più importanti del Dizionario e a sottolinearlo ci sono due pagine interamente
in francese tratte da “Roret - Des Maires” ossia da uno dei
Manuali Roret, editi a Parigi, dedicato agli amministratori
locali(66). La citazione in francese ci fa capire non solo che
la legislazione comunale italiana era ispirata a quella transalpina ma anche che la lingua francese doveva essere in
qualche modo di uso comune tra sindaci - che erano allora
soprattutto proprietari terrieri e professionisti - e segretari
comunali, i due principali referenti del volume di Cima. Nelle
due pagine erano riassunte principali caratteristiche e fun64 P. 680.
65 P. 685.
66 Charles Vasserot, Nouveau manuel complet des maires adjoints
et conseillers municipaux ... , 6 edizione, Librairie encyclopédique de
Roret, Paris 1866.
75
zioni del sindaco a partire dalle due nature, quella di capo
dell’amministrazione comunale e di ufficiale di governo:
le maire comme le chef de l’association communale. Cette qualité est la première, mais elle est accompagnée d’une autre intimement liée a celle-là par
la législation: la qualité d’agent et délégué du gouvernement auprés de la commune(67).
Il sindaco doveva essere ispiratore dello sviluppo economico locale; promotore della diffusione
della più importante novità nell’assistenza sanitaria
dell’epoca, i vaccini, della manutenzione e dello sviluppo delle strade, di un corpo comunale dei vigili del
fuoco e, infine, doveva ricoprire il ruolo di paladino del
rispetto delle leggi e dell’ordine pubblico “pour assùrer
la soumission aux lois et le respect dû à l’autorité”(68).
Rispetto alle modalità di elezione, dopo aver
illustrato quelle vigenti in diversi paesi europei, Cima
dichiarava la propria preferenza per la scelta da parte
del consiglio:
Come si vede l’Europa è divisa su questa questione,
ma noi preferiamo che come in Prussia e in Austria
la nomina dei sindaci venga abbandonata ai consigli
comunali salvo la conferma del Re […] Noi opiniamo
67 P. 602.
68 P. 603.
76
invece che venendo il sindaco nominato dal Consiglio
comunale non perderebbe affatto della sua indipendenza e libertà d’azione, ma che queste all’incontro si
rafforzerebbero vie maggiormente nelle qualità di funzionario governativo(69).
L’importanza del ruolo del sindaco viene sottolineata anche in altre occasioni, come per esempio all’interno della voce Leva. Al termine dell’illustrazione del
ruolo del Comune nella gestione delle liste dei giovani
destinati allo svolgimento del servizio militare obbligatorio - che non esisteva nei regni preunitari - si sottolineava la funzione pedagogica del municipio in favore del
rispetto di quell’obbligo considerato un fondamentale
strumento di educazione nazionale:
Il soldato fa il cittadino.
Con tali organizzazioni
l’istruzione militare completa quella civile. Il diffondere cotesto spirito
tra i cittadini che vengono chiamati alla leva, è
uno dei più sacri e più sublimi compiti assegnati
alla missione morale del
Nuovo Sindaco(70).
Allievo caposcelto della Scuola
Militare Nunziatella di Napoli, 1880 ca
69 Pp. 626-7.
70 P. 393.
77
Il sindaco di Milano Giulio Belinzaghi,
“Spirito folletto”, 3 giugno 1880
Per avere un’idea della varietà dei pesi che
aveva sulle spalle un sindaco dell’epoca è interessante
leggere le voci relative al funzionamento dell’amministrazione comunale. Per esempio la voce Giunta municipale, con in nota diverse citazioni di opere dedicate
alla legislazione francese e inglese, si conclude con un
commento dell’autore che denunciava la conflittualità
tra Sindaco e Giunta favorita dalla legge in vigore:
Il nostro ordinamento della Giunta è metodo tutto belga, e come nel Belgio, così com’è regolato, non risponde ai principi razionali di amministrazione pubblica.
Tra il Sindaco e questo Collegio esecutivo sono inevitabili le conseguenze del dualismo(71).
71 P. 348.
78
4.2. Il personale dei Comuni
Alla voce Impiegati comunali Cima dedicava
particolare riguardo, in questo caso la sua attenzione
di studioso e quella di appartenente alla categoria si
confondevano. Nella sua visione il miglioramento della
situazione economica e professionale degli impiegati,
e particolarmente di quelli di alto livello, doveva corrispondere all’affermazione dell’importanza del Comune nei suoi rapporti con lo Stato, come sarebbe avvenuto nella prevista riforma. In particolare gli impiegati
dovevano essere sottratti ai capricci di amministrazioni e consigli comunali, mutevoli e spesso in crisi. Era
anche vero, d’altra parte, che la situazione dei dipendenti comunali corrispondeva a quella della Pubblica
amministrazione in generale e dell’intero Paese che,
particolarmente nei Comuni minori, era molto arretrata rispetto a quella dei principali paesi europei allora
presi a modello. Scriveva Cima:
Se il Comune è il primo elemento dello Stato, è naturale che le sue funzioni d’ordine generale debbano procedere in armonia con quelle dello Stato. L’impiegato
comunale, adunque, superiore, rivestito di carattere
giuridico dovrebbe andare annoverato tra i funzionari
d’ordine generale, trattato con le leggi di quelli e sottratto per conseguenza alla insindacabilità delle risoluzioni del Consiglio comunale(72).
72 P. 366.
79
Uno svolgimento molto simile aveva la voce
Segretario comunale alla cui classe Cima apparteneva. Alla chiusura delle pagine dedicate a questa figura,
in una nota in parte già citata in precedenza, l’autore
spiega i motivi dell’adesione dei segretari alla Sinistra
e dell’importanza vitale della loro funzione nell’Italia
appena unificata. Nel primo caso sia perché la Destra
li aveva abbandonati, sia per la loro oggettiva vicinanza ai cittadini, nel secondo perché riteneva i segretari
sentinelle e custodi della legalità e delle istituzioni:
Difatti noi osiamo affermare che la classe dei segretari comunali [...] presenta in Italia un apprezzabile contingente
al partito LIBERALE PROGRESSISTA, vuoi perché questi
funzionari s’affidano, auspice l’evoluzione politica, ad
un migliore avvenire, o vivendo in perenne contatto con
la classe popolare si assimilano ad essa di preferenza
per uniformità di bisogni e di aspirazioni, vuoi perché la
loro situazione sì trascurata e vilipesa non può, al certo,
avere guari inspirato attaccamento verso un partito che
li ha sino ad ora trattati con la minaccia e l’umiliazione.
Ci pensino i governanti a questi apostoli che
vivono là dove si radicano le idee politiche e s’afforzano i poteri - essi formano un sodalizio capace di dare
un giusto e potente indirizzo al novello ordine di cose
- sentinelle avanzate saprebbero dare la prima sveglia
all’appressarsi d’un nemico che pensasse perturbare
nei campi fecondi dell’intelligenza o in quelli dei principj prevalenti(73).
73 Pp. 593-4.
80
4.3. Il ruolo e i beni della Chiesa e la questione
anticlericale
Le radici della Chiesa nel tessuto economicosociale del Regno d’Italia, nei primi decenni all’indomani dell’Unità, erano così profonde e pervasive da
fornire una giustificazione all’acceso anticlericalismo
dei liberali dell’epoca, qual era Cima, tesi alla costruzione di un’Italia moderna. La prima voce del Dizionario
nella quale è possibile avvertire questi elementi è Asse
ecclesiastico, nella quale sono descritti gli obblighi dei
Comuni in materia di spese per il culto, sostentamento dei parroci e restauro di edifici religiosi “in base a
leggi speciali sulla materia e a secolari abitudini”(74). Poi c’è la voce Decime, analoga ad Asse ecclesiastico per complessità di interpretazione e applicazione in ciascuno dei territori dei diversi Stati preunitari, che riguardava “prestazioni stabilite sotto qualsiasi
denominazione e in qualunque modo corrisposte per
l’amministrazione dei sacramenti o per altri servizî spirituali ai vescovi, ai ministri del culto, alle chiese, alle
fabbricerie, o altri corpi morali che hanno per iscopo
un servizio religioso”. Fortunatamente, per le amministrazioni comunali, undici anni dopo la pubblicazione
del Dizionario, nel 1887, sarebbe stata emanata una
legge di sostanziale soppressione dell’istituto(75).
74 P. 74.
75 A. Cald., A. C. J., Decima, in Enciclopedia Italiana (1931); http://
www.treccani.it/enciclopedia/decima_(Enciclopedia_Italiana)/.
81
La voce Feste, funzioni religiose e civili - a sottolineare il sentimento anticlericale dell’autore - inizia
con la citazione di una sentenza del Consiglio di Stato
di condanna di amministratori che avevano contribuito con alimenti e somme allo svolgimento di solennità
religiose. Più avanti, le molte pagine dedicate a Opere
pie si concludono con una lunga nota nella quale l’autore sollecita la riforma dell’assistenza, “Una riforma
radicale di detta legge è urgente”(76), sulla base della
considerazione che uno Stato moderno non poteva
delegare le proprie competenze in una materia tanto
importante a un coacervo di istituti diversi per natura,
funzioni e competenze che derivavano le proprie risorse da altrettanto diverse fonti economiche e finanziarie. E la riforma sarebbe stata fatta dal Governo della
Sinistra ma, come nel caso della legge comunale e provinciale, molti anni dopo l’ascesa al potere, nel 1890, e
sempre dal Governo Crispi.
Un’altra voce dedicata ad un antico istituto
legato a pratiche religiose è Patroni, voce nella quale
vengono descritte le obbligazioni, in genere la celebrazione di messe per i defunti, connesse al reddito di una
determinata proprietà. La complessità della materia
era dovuta al fatto che tali obbligazioni continuavano
ad avere un qualche effetto anche dopo l’espropriazione, imposta dalle leggi del neonato Regno d’Italia,
delle grandi proprietà immobiliari ecclesiastiche, definite: manomorta. Il termine, tanto suggestivo quanto
76 P. 472.
82
erano negative le conseguenze sulle possibilità di sviluppo economico di molte aree, era tradizionalmente
attribuito a “beni che, per il fatto di appartenere a enti
perpetui [come la Chiesa], erano inalienabili, sfuggivano alla tassa di trasferimento per causa di morte e si
consideravano stretti nella mano di un morto senza la
possibilità di uscirne”(77).
4.4. La lunga attesa delle riforme
L’ultima voce del Dizionario è Votazione che
si conclude con un commento sulla questione se nei
consigli comunali fosse preferibile lo scrutinio a voto
palese oppure segreto, che era all’epoca il più diffuso
in Italia. L’autore si esprime, invece, sostanzialmente
in favore del voto palese ma, in conclusione, sostiene
l’opportunità che dovesse essere il consiglio stesso a
scegliere il metodo migliore da utilizzare in relazione
ad ogni specifico problema discusso e, quindi, in perfetta autonomia:
meglio per ora risponda il principio di lasciare che il
genere di votazione sia prescelto dall’intero consiglio
comunale medesimo e adottato a maggioranza assoluta di volta in volta(78).
77 Romualdo Trifone, Manomorta, in Enciclopedia Italiana, 1934;
http://www.treccani.it/enciclopedia/manomorta_(EnciclopediaItaliana)/.
78 P. 774.
83
Il fatto più importante, però, era che i politici
locali dovevano decidersi ad abbandonare vecchie abitudini frutto di una legislazione ormai superata, come
sarebbe senz’altro avvenuto in un prossimo futuro grazie alla vicina riforma delle legge comunale:
Un’era di vita affatto nuova sta per aprirsi ai comuni e
noi presentiamo che dinanzi al soffio d’un regime costituzionale ogn’ora più libero gli avanzi di una logora
legislazione non tarderanno a sparire(79).
L’agognata riforma, però, come sottolineato,
sarebbe arrivata solo nel 1889.
La seconda e ultima edizione de Il Nuovo Sindaco, pubblicata nel 1880, si apre con un’introduzione
che rivela la perdurante speranza di un rinnovamento
legislativo, un rinnovamento che avrebbe avuto bisogno, evidentemente, di una nuova pubblicazione che,
sottolineava Cima, avrebbe dovuto avere un orizzonte
europeo, magari forse anche, verrebbe da pensare, per
distinguersi dal ricordato Manuale Astengo:
Il pensiero poi delle imminenti riforme, che, malgrado
il tramestìo parlamentare odierno, dovranno rifondere,
quandochessia, il nostro organismo politico e amministrativo, ci ha suggerito l’opportunità di continuare
la Raccolta della giurisprudenza succeditura, e, perché
79 P. 772.
84
dessa meglio risponda alla situazione gravissima in
cui s’attroveranno i Comuni per il repentino disaccentramento delle competenze autonome pensiamo pubblicarla in fascicoli mensili con ricco corredo di note
illustrative e di studi di legislazione e di economia sociale, traendo importanti raffronti dalle evoluzioni del
gius amministrativo dei vari Stati d’Europa.
Collaboreranno all’impresa persone dottissime.
Le speranze di riforma - che si sarebbe dovuta realizzare nonostante la confusione che regnava
nel Parlamento (“il tramestìo parlamentare odierno”)
- servivano anche a nutrire quelle di una nuova pubblicazione con la quale Cima avrebbe potuto provare
ancora una volta ad arrotondare il proprio stipendio di
segretario comunale. Quella pubblicazione, però, non
avrebbe potuto vedere la luce se non si fosse raggiunto un numero sufficiente di abbonamenti, anticipati,
abbonamenti che, quindi, il nostro segretario comunale sollecitava con espressioni altisonanti:
- Si persuadano i Municipi italiani che la loro vita non
può, non deve durare solitaria e sterile e che il loro fine
dee essere come sangue che scorre per la scienza e
l’avviva; e che per il bene della Patria comune debbono rifarsi agili, acuti, riflessivi. (...)
La nostra vita municipale sinora fu vita di assurdi, strepito di fantasia e d’impossibilitá che condannano sé stessa all’amarezza del languore e al dissolvimento economico.
85
- Alla tavola rotonda delle nostre elucubrazioni, come
a fraterno simposio, noi vorremmo stringere concorde
lo spirito e l’intelligenza loro e nella solidarietà dei comuni intenti e del comune lavoro promuovere quell’effettuale miglioramento (altrimenti insperato) che solo
dal nostro individualismo dobbiamo attenderci ed in
tal modo ci sarebbe dato compiere almeno il dovere di
lavorare con tutte le nostre forze all’opera iniziata, legando alle generazioni future il compito di sviluppare
i germi preparati.
Parma, Giugno 1880
Jacopo Cima(80)
Certo le esortazioni di Cima a sindaci, dirigenti, segretari, funzionari e tecnici comunali, affinché si
riunissero e lavorassero insieme per il benessere e il
miglioramento della situazione delle rispettive amministrazioni, avevano come obiettivo finale quello di
ottenere la collaborazione al suo progetto, ma l’idea
che i municipi non potessero più condurre una vita
“solitaria” non doveva essere poi molto distante da
quella sulla quale in molti allora riflettevano. L’idea di
“stringere concorde lo spirito e l’intelligenza [...] e nella
solidarietà dei comuni intenti e del comune lavoro pro80 Jacopo Cima, Il Nuovo Sindaco. Dizionario di giurisprudenza amministrativa degli anni 1876-1877-1878-1879, Tip. G. Donati e Fratelli,
Parma 1880, pp. I-II.
86
muovere quell’effettuale miglioramento”, l’idea quindi
di concordia di intelligenze e di solidarietà di intenti,
sarebbe stata progressivamente condivisa anche da
molti sindaci di tutta Italia, come quelli che si riunirono a Torino nel 1879 e nel 1884, guidati dal sindaco
della città, per reclamare contro la carenza di risorse
finanziarie e chiedere, inutilmente, la riduzione delle
imposte statali e la possibilità di aumentare quelle municipali.
Fu però solo con i nuovi sindaci, dal 1889 finalmente eletti dai rispettivi consigli, che il movimento
comunale raggiunse una continuità tale da permettere, nel nuovo secolo, la nascita dell’Associazione dei Comuni italiani, avvenuta nel 1901 proprio nella stessa città
nella quale Cima aveva
pubblicato la seconda
edizione del suo Nuovo
sindaco: Parma(81).
Giuseppe Mussi, Sindaco di Milano,
primo Presidente ANCI nel 1901
81 Oscar Gaspari, L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età
liberale, 1879-1906, Donzelli, Roma 1998.
87
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92
Indice dei nomi
Luigi Ambrosoli, 46, 62.
Carlo Astengo, 47.
Lorenzo Bedeschi, 52.
Giulio Belinzaghi, 78.
Camillo Benso Conte di Cavour, 15, 18.
Giovanni Berchet, 13, 50.
Isaiah Berlin, 11.
Ruggero Bonghi, 15-6.
Alberto Buvoli, 55.
Raffaele Cadorna, 24.
Girolamo Cantelli, 37.
Antonello Capurso, 27.
Giosuè Carducci, 13, 27.
Giampiero Carocci, 18-9.
Gabrio Casati, 62.
Carlo Cattaneo, 24.
Enrico Cernuschi, 25.
Giulio Cianferotti, 48.
93
Elisabetta Colombo, 41.
Ornella Confessore, 15.
Cesare Correnti, 46.
Andrea Costa, 52.
Francesco Crispi, 38-9, 82.
Benedetto Croce, 51.
Massimo D’Azeglio, 14.
Andreina De Clementi, 52.
Marco De Nicolò, 38, 49.
Agostino Depretis, 17, 19, 21, 26-7, 41-2, 63-4.
Francesco De Sanctis, 15, 18.
Antonio De Viti De Marco, 24.
Luigi Ferraris, 7, 57.
Fausto Fonzi, 38.
Léon Gambetta, 12.
Giuseppe Garibaldi, 13, 50-1, 54.
Oscar Gaspari, 35, 64, 87.
Vincenzo Gioberti, 59.
Antonio Giolitti, 15.
Victor Hugo, 50.
Federico Lucarini, 49.
Denis Mack Smith, 26, 51.
Pasquale Stanislao Mancini, 46.
Fernando Manzotti, 16, 21.
Giacomo Margotti, 16.
Alberto Mario, 25.
Giuseppe Mazzini, 13, 50.
Ugo Mazzola, 24.
Guido Melis, 44-5, 48.
Maria Grazia Meriggi, 10, 51.
Jules Michelet, 59.
94
Marco Minghetti, 14, 17, 25-6.
Giorgio Montecchi, 51-2.
Giovanni Montemartini, 49.
Niccolò Montenegro, 51.
Augusto Monti, 47-8.
Giuseppe Monsagrati, 51.
Romolo Murri, 52, 60, 68.
Giuseppe Mussi, 87.
Napoleone III, 50.
Francesco Saverio Nitti, 20.
Giovanni Nicotera, 37-8.
Georg Barthold Niebuhr, 53-4.
Giuliana Nobili Schiera, 30.
Adolfo Omodeo, 19.
Vittorio Emanuele Orlando, 48.
Maffeo Pantaleoni, 24.
Claudio Pavone, 25.
Luigi Gerolamo Pelloux, 20.
Francesco Piccolo, 16.
Sandra Pileri, 57.
Giuseppe Pisanelli, 15.
Edgar Quinet, 10, 12-3, 48, 50-1, 54-5, 59.
Urbano Rattazzi, 26.
Raffaele Romanelli, 37, 41, 47, 64.
Roberto Ruffilli, 30.
Giovanni Sabatucci, 26.
Giuseppe Santonastaso, 50.
Stefano Sepe, 64.
Quintino Sella, 14.
Luigi Sturzo, 23, 60, 68.
Silvio Spaventa, 15, 26.
95
Antonio Starabba, marchese di Rudinì, 20.
Giuseppe Talamo, 37.
Francesco Traniello, 59.
Romualdo Trifone, 83.
Pacifico Valussi, 55.
Charles Vasserot, 75.
Giuseppe Vignuzzi, 51.
Vittorio Emanuele II, 26.
96
SECONDA PARTE
DEL CARATTERE E DELLE QUALITÀ
DEL
NUOVO SINDACO
Confions la vie nouvelle à des esprits nouveaux
(E. Quinet)
Chi è chiamato a sostenere l’ufficio di Sindaco deve anzi
tutto esaminare sé stesso nelle sue virtù e ne’ suoi vizi, nella portata delle sue cognizioni e delle sue attitudini, nella indipendenza
o servilità del suo carattere, nello stato della pubblica opinione a
suo riguardo, ne’ suoi rapporti sociali e ne’ suoi privati interessi, e
quando da tutte queste intrinseche considerazioni, poste a riscontro degli attributi difficili e delicati che la legge gli assegna, si sentirà tanto forte di sé da sobbarcarsi impavido alla grave missione,
allora preferirà avere una conseguente responsabilità personale
de’ suoi atti ed essere eletto dal proprio Consiglio municipale, o
dagli elettori, a quella guisa che vengono eletti il Maire e gli Aldermen in Inghilterra, i Stadt-Verordneten in Prussia, il Borgomastro
in Austria, i Maires in Svizzera, i Starchina e i Starosta in Russia,
presso le quali nazioni le riforme amministrative sono già avanti
nell’applicazione del decentramento e nel principio di rendere ai
comuni la loro indipendenza e autonomia.
I
- Cercherà di mettere in chiaro più d’ogni altra la sua
qualità di Amministratore capo; non impugnerà con spavalderia
il brando dell’autorità politica, e quando in causa di questo speciale mandato si trovasse costretto adempiere i doveri di Ufficiale
del Governo, avrà cura che ogni suo atto sia sempre subordinato al potere giudiziario avanti il quale dovrà un giorno sparire
ogni irresponsabilità ed istituirsi il redde rationem del cittadino e dello Stato a misura che i miglioramenti toglieranno dalle
amministrazioni comunali quell’accentramento che domina
presentemente.
Così quando gli avvenga di dover porgere informazioni
di persone alle Autorità, dalle quali fosse interpellato, andrà sempre cauto di non confondere i rapporti della politica con quelli
morali e sociali, e sdegnerà mai sempre di formare tema di censura la particolare opinione politica degli individui quando questa non tenda al sovvertimento degli ordini civili o alla sicurezza
dello Stato.
- Il Nuovo Sindaco essendo la personificazione della
massa degli abitanti dovrà motivarsi democratico nelle forme e
nei principj, poiché i tempi hanno oggimai segnato il bando ai
privilegi del blasone e del denaro e vogliono tolta, nei riguardi
della Civiltà, della Morale e della Politica quella odiosa demarcazione fra le classi sociali che tiene sparte le forze della nazione
e impedisce tra gli abitanti d’una medesima terra la immediata
comunicazione delle proprie idee, dei propri desideri e bisogni.
Dacché venne proclamata l’eguaglianza del cittadino in faccia
alla legge, il moderno Diritto Pubblico sollevossi in Europa a car-
dine delle nuove evoluzioni politiche e sociali, inspirandosi alle
fonti della Democrazia.
La Democrazia adunque è oggimai un principio sanzionato dalla legge. Lo contraddice il pregiudizio, le passioni e le
caste, ma ancora per poco, avvegnaché il Popolo italiano proceda alacremente in sostituirsi alla varie classi aristocratiche, che
scompajono, e a sviluppare gli elementi d’una Vita Nuova.
Le leggi della fatalità cominciano a rivelarsi come
nell’antica così nella storia politica contemporanea.
Alla prisca aristocrazia romana si sostituirono i plebei.
Aspre guerre essi fecero coi patrizi per ottenere l’uguaglianza civile, e l’ottennero e salirono reggitori dello Stato.
L’Antico patriziato di Berna in cui Niebuhr credette di
scorgervi l’analogia del patriziato romano si atrofizza e da luogo
alla Democrazia svizzera de’ giorni nostri.
Non è guari vedemmo l’aristocrazia inglese, plaudire a
tale principio, quando salutò in Garibaldi la grandezza del popolo italiano e dappertutto la vita nazionale si va raccogliendo più
o meno palesemente, nel concetto della nuova Democrazia.
Tutto si trasforma quaggiù, siccome negli ordini fisici
così negli ordini politici e sociali.
Le forme adunque e i privilegi della Civiltà che declina
non lasceranno a’ vegnenti più che un sentimento di contemplazione retrospettiva.
Già la Civiltà progressiva mira a ripudiare tra gli uomini ogni fittizia disuguaglianza e allor quando l’Istruzione - come
le fecondatrici onde del Nilo pei campi egizi - manderà in fra le
masse i benefici frutti e le avrà rinnovellate nella vita dell’intelligenza, allora noi vedremo sciolto felicemente il problema sociale
che agita oggigiorno la mente del filosofo e turba i governi.
Rammenterà ad ognuno essere duopo gli uomini
si convincano che il più grande bene che possa la fortuna loro
elargire si è quello di esercitare la libertà del pensiero; - che la
ricchezza non deve essere che un instrumento dello spirito; - che
non vi è bene al mondo senza la felicità dell’animo la quale risiede nel possedimento dei lumi - che infine non devesi soltanto
accumulare per godere, ma eziandio accumulare per servire alla
scienza, alle arti, alla verità, al culto del bello, al progresso(1).
Amerà avere corrispondenza diretta con l’autorità provinciale cui farà capo senza appoggiarsi ad Uffici intermedi, e
ciò perché la vita del comune autonomo e quella della provincia
autonoma possano nella mutua operosità del concetto amministrativo svolgersi a vicenda senza remore e in relazione al proprio
rinnovamento, alla loro prosperità economica, al progresso della
civiltà e alla educazione nazionale. E tale massima gli tornerà
famigliare meditando quanto più naturale e più efficace d’ogni
altra sarebbe la forza iniziatrice e correttiva del Governo della
provincia quando fosse chiamato a sostituirsi alla forza insufficiente e manchevole del Comune giuridico(2).
1 E. Quinet.
2 P. Valussi, Caratteri della civiltà novella.
In tali condizioni di esistenza che lo rendono emancipato da ogni servilismo governativo e quando la di lui elezione, o deposizione, procedesse dal Corpo elettivo del suo comune,
non intenderà a vane onorificenze esterne o a privati vantaggi,
ma sibbene agli interessi del suo comune e a conseguire l’amore dei suoi concittadini, la loro aperta e confidenziale riverenza.
- Porrà in esecuzione gli ordini del Potere centrale e
quelli emanati da altre autorità superiori con la possibile mitezza; - diffonderà il principio dell’Autorità e della Contribuzione
come i più importanti dogmi per un libero reggimento nazionale
facendo considerare che il peso del pubblico contributo deve
sopportarsi da ognuno per comune sicurezza e garanzia in
proporzione delle proprie forze. - Si asterrà da ogni indizio che
possa far supporre il partito, o la scuola, a cui le sue convinzioni
si ascrivono e si studierà far credere per il bene dello Stato che il
Ministero militante, quand’è militante, non può avere per obiettivo che il benessere della Nazione.
- Sorveglierà l’andamento generale delle amministrazioni che gli sono dipendenti con ogni riguardo e deferenza accompagnando gli atti di sua autorità con modi dignitosi e civili.
All’uso dei mezzi coercitivi e alle solennità del comando non farà appello che nei casi estremi e propriamente quando
ogni possa morale vedesse esaurita e venuta meno quella spontanea e docile ubbidienza ch’Egli avrà saputo instillare negli animi
con la confidenza e simpatia di sé stesso, che è il più attraente
prestigio che il Capo d’un comune possa rivestire.
- Il Nuovo Sindaco non si occuperà soltanto della parte ordinativa
del suo mandato, né si serberà sconfinato nel campo della brulla
legalità, ma il suo pensiero diffonderassi in tutte le parti morali,
civili ed economiche che possano dare per risultante il benessere
pubblico e privato, e si proverà cattivarsi con titoli validi e diretti
la pubblica considerazione.
Per riuscirvi farà in modo che la sua condotta non sia
mai sospetta - che le abitudini della sua vita privata sieno regolari,
decorose, morali e non perderà mai di vista la contraddizione in cui
potrebbe cadere, con disdoro della sua persona, quand’Egli, chiamato dal suo Ministro ad esercitare i poteri, fosse costretto a riprendere,
o punire, in altrui atti o vizi di cui egli stesso potesse essere tacciato.
- Sarà ne’ i suoi discorsi riservato e prudente senza
imporsi restrizioni alla libertà del pensare, e rivolgerà ogni cura
all’intento di aprire l’animo suo in maniera che rimanga escluso
ogni sospetto di partigianeria; sospetto che suole comunemente
trascinare i più a qualificare per tale le schiette e leali manifestazioni dei propri pensamenti.
Non farà pompa di filosofiche disquisizioni - schiverà qualsiasi declamazione, e si adopererà in quella vece a
proteggere e far rispettare tutte le opinioni, vivendo in uno stato perfettamente neutrale per non creare a sé stesso inimicizie
- difficoltà e imbarazzi all’amministrazione del suo comune.
Se gare, dissidi e contestazioni insorgessero ad affliggere il suo paese, Egli si presterà a ristabilire la concordia facendosi
campione di pace; ricorderà a tutti la storia patria e le civili scissure che tennero per tanti secoli prostrata l’Italia; userà d’ogni
suo potere per riconciliare le parti e lo farà in nome di quella
fratellanza universale che è la dottrina del Cristo e aspirazione e
voto della civiltà progrediente.
Al postutto non vorrà mai essere partigiano e molto
meno tollerare che un partito amico si serri a lui intorno.
- Quando sovrasterà al suo comune un qualche pericolo o troverassi colto da calamità, il Nuovo Sindaco sarà primo ad
affrontarla. La pusillanimità non si farà mai superiore alla ferma
coscienza del suo dovere. Prima d’ogni altra dovrà concorrervi
l’opera del suo braccio e quella della sua mente onde con la prima ingagliardire in altri l’emulazione e con la seconda applicare
prontamente quelle provvidenze che stimerà utili e convenienti.
- Il Nuovo Sindaco non si preoccuperà dei soli interessi
del suo comune, o questi trascurando, vorrà reputarsi funzionario meramente governativo, né si farà pedissequo della burocrazia; non s’accontenterà di attendere al materiale eseguimento di
quanto le leggi prescrivono, ma si studierà eziandio di richiamare
l’attenzione dei Poteri centrali sulle condizioni generali del suo
comune in corrispondenza ai desideri, ai bisogni dell’agricoltura,
delle arti, delle industrie e del commercio locale. «Di resecare i
rampolli malefici delle liti interminabili; allettare le intelligenze
ai campi paterni; attirare i capitali alle industrie del suo paese;
promuovere i risparmi con cui si forma il capitale, liberare i suoi
concittadini dalla schiavitù dell’usura e le intelligenze elette dal
servilismo della penna d’amanuense».(3)
3 Ferraris.
- Avanti le magistrature che gli sono superiori conserverà carattere mite, subordinato e nondimeno indipendente e
fermo; - sarà arrendevole e condiscendente ma tetragono nelle
massime del Diritto e del Dovere.
E qui avvertirà di ben distinguere la Magistratura dalla
Burocrazia, la quale ultima consiste in un agglomerato di uomini pratici, accentrati in un corpo e destinati a maneggiare e rimaneggiare la materia non sempre a seconda dei principj giuridici e
politici; la cui azione è quasi sempre in contrasto con gli sforzi e
le tendenze della libertà individuale. Dinnanzi a questa compatta
falange di empirici Egli non dovrà mai subordinare la propria
azione e tanto meno i privilegi della sua potestà autonoma, altrimenti la vita politica ed economica del suo comune s’arresterebbe alle iniziative del suo incremento e della sua prosperità.
- Nelle funzioni di Ufficiale di Polizia giudiziaria il
Nuovo Sindaco sarà avveduto, prudente, risolutamente energico e
coraggioso. Non perdonerà a fatiche e a sacrifici per combattere
i violatori della legge. Perseguiterà il delitto senza posa e quando
gli fosse dato scoprire o sorprendere l’Autore in flagrante se ne
impadronirà in qualunque modo onde assicurare alla Giustizia
le traccie della verità.
Chi viola la legge è un nemico della società che tenta
di scomporre i suoi ordinamenti ed in cotesto assioma Egli farà
consistere la sintesi di tutte le sue risoluzioni.
I pravi disegni dei malevoli, le minacce alla di lui persona, i danni recati alla proprietà per isfogo di vendetta o per
intimidazione, non varranno ad arrestarlo nell’adempimento dei
suoi doveri - dovrà stimarsi soldato alla difesa delle leggi e della
società, non si sgomenterà quindi dell’oltraggio e nella applicazione dei mezzi che crederà opportuni si farà coscienziosamente
audace per scombujare i rii progetti e le clandestine perpetrazioni
contro l’ordine pubblico.
Nell’operare non si mostrerà perplesso, non farà questioni di competenza, non si lascierà piegare a’ sensi di compassione
verso una rea sventura né da riguardi d’amicizia o di affinità; sarà
energico, reciso, non pigro e pauroso. Quando fosse tale non indugierà a deporre il carico, di cui lo volle rivestito la pubblica fiducia, per non essere spettatore della propria esautorazione morale.
- Il Nuovo Sindaco terrà ben distinto il principio politico
dal religioso, cortese di rapporti col Clero, senza punto restringere
la sua libertà di coscienza e il principio della tolleranza, ne intrinsicarsi troppo visibilmente colle cerimonie del culto esterno.
Tra sé e i ministri del culto vorrà bene definiti i termini
di corrispondenza per evitare ogni collisione tra le due potestà. Il
Potere ecclesiastico è per sé stesso espansivo e tende ad uscire facilmente dai confini naturali per entrare nel campo delle temporalità e della politica. Su questo suolo è sempre fomite di conflitti
o di agitazioni e tende a prendere una corriva ingerenza nella cosa
pubblica. Allora il comune riproduce in sé la storia delle lotte fra il
sacerdozio e l’impero nei tempi di mezzo; si confondono gli interessi civili con i religiosi e il Culto è fatto istrumento della politica,
dell’ambizione e del privato interesse. La concordia tra cittadini
sparisce; Spada e Pastorale combattono a vicenda; sono divise le
città, divisi i villaggi, divise le famiglie stesse; l’elemento della società si dissolve e vengono gettati i germi di quelle lotte religiose
che sono le più terribili e nocive di quanto la storia rammenti.
Si farà propugnatore della tolleranza in materia di opinioni religiose e avverserà il fanatismo comunque s’ammanti.
Osserverà attentamente che nelle questioni religiose
non s’inoculi il gesuitismo, il quale particolarmente nelle campagne, tende ad infiltrarsi nelle vene del popolo, a produrre uno
snervamento generale a paralizzare ogni fibra, ed atrofizzarne
ogni generosa volontà.
Avrà presenti gli sforzi fatti ai nostri tempi per difendere
la civilizzazione contro questo flagello: in Svizzera l’espulsione dei
gesuiti e delle Congregazioni affini; in Prussia il diritto di espellerli
unitamente a tutte le affigliazioni attaccate al loro ordine; in Austria l’abolizione del Concordato; in Olanda la separazione della
Chiesa e dell’insegnamento; in Irlanda la separazione della Chiesa
e dello Stato; in Ispagna la soppressione di tutti gli ordini religiosi;
in Italia la secolarizzazione dei beni del Clero e l’abolizione del
potere temporale del Papa; negli Stati Uniti, infine, la separazione
della Chiesa e dello Stato e la soppressione del bilancio dei culti.
Il principio cavouriano «LIBERA CHIESA IN LIBERO
STATO» sia la divisa del Nuovo Sindaco, ma intesa però nel senso che
la Chiesa non sia già uno Stato nello Stato, sibbene un corpo unicamente morale, con intenti spirituali e soggetto alle leggi comuni.
Si conserverà sempre fermo nel proposito di voler evitare nel suo comune scissure religiose e lo farà con mezzi e resistenze morali, avvegnaché l’influenza dei ministri della Religione sia
indefinitamente estesa e indiscutibile e potrebbe di leggieri turbare non solo gli interessi spirituali e laicali, ma ancora l’ordine
pubblico e sociale del suo comune.
Salva sempre ed inattaccabile la libertà individuale
nelle opinioni religiose; rispettato il culto esterno nelle sue forme e nelle sue tradizioni; astensioni da interventi officiali in
cerimonie chiesastiche, libertà politica, civile, amministrativa,
di pensiero e di coscienza, ecco le principali curve che devono
restringere e circoscrivere i due poteri.
In quanto alla sua personalità, il Nuovo Sindaco userà la
maggiore riservatezza nell’esplicare in pubblico giudizi in materia
di religione e di culto; farà uso assai prudente della sua parola in
cosiffatto argomento, imperocché dovrà ognora rammentarsi che la
sua vita privata non può correre disgiunta dalla pubblica, ma che in
questa confondesi formando un sol tutto, laonde i di lui pensamenti, la di lui fede, le di lui simpatie e convinzioni istesse non debbono
farsi palesi, appunto perché siccome il Sindaco è il principale obbiettivo delle comuni osservazioni, Egli non potrà sortire illeso dai
morsi della critica e della censura.
Col Clero non si mostrerà ostile, ma quando per ristabilire l’ordine perturbato da’ sacerdotali trasmodamenti, come per
esempio dall’uso incontinente nelle sacre concioni, fosse costretto
servirsi dei mezzi che la legge ha riposto in sua mano, si guarderà
bene di non agire con troppa moderazione e perseguirà con prontezza ed energia qualunque offesa o attentato, anche perché una
visibile debolezza nell’operare non venga intesa da parte dei suoi
concittadini come un’adesione alle esorbitanze clericali.
- Nei comizi elettorali il Nuovo Sindaco sarà seguace del
principio d’astensione. Nullameno, dove richiesto, non ricuserà,
il suo consiglio ed il suo parere informandoli sempre a’ criteri di
un esame spassionato di uomini e cose; ad un giudizio rigoroso
sulla filosofia dei tempi e delle idee preponderanti.
Si limiterà del resto a sorvegliare l’ordine pubblico, a
favorire la massima libertà d’azione legale, a scuotere l’apatia di
coloro che si mostrano indifferenti di questo diritto, a stenebrare
1’ignoranza di quelli che tale diritto mercanteggiano, a rimuovere le gelosie e gli odi, a fare in modo. finalmente che le operazioni
seguano calme e tranquille.
Nemico di quelle agitazioni provocate da partiti, che
nelle pieghe del loro vessillo nascondono sempre una nebbia, d’egoismo, d’ambizione e peggio, Egli stimerà dover suo disperderne
le fila, tese da compri agitatori.
Se officiali o extra officiali istruzioni o sollecitazioni lo
esortassero a proteggere nei pronunciamenti dell’urna il partito
oscurantista o quello pertinace d’una ribelle minoranza, non seguita dalla pubblica opinione, rifiuterà d’assecondarvi, perocché
dovrà reputare sempre empio e antipatriottico tutto quello che cooperasse a rendere immobilizzati il Progresso, la Nazione e i Tempi.
Il ritorno al passato è morte - noi dobbiamo allearci con
le cose viventi; esse infondono la speranza, dell’ avvenire, la forza
del presente e rendono alla patria la giovinezza immortale(4).
4 E. Quinet.
- Favorirà lo sviluppo e l’incremento delle industrie e del commercio; caldeggerà sovratutto la pubblica istruzione dappoichè
con essa si svolgono più efficacemente i germi della comune prosperità.
Non v’ha condizione peggiore per un paese che il trovarsi
nella notte dell’intelligenza che è l’ignoranza irrimediabile.
- Il Nuovo Sindaco provvederà adunque che le scuole
vengano istituite in conformità alle leggi e ai regolamenti che le
prescrivono, o non permetterà istituti di privata educazione non
riconosciuti, oppure riconosciuti, ma portanti nel loro seno gli
elementi della dissoluzione o del cattivo indirizzo.
Vigilerà che l’istruzione si mantenga nel suo comune
emancipata dagli agenti del clericalismo, nemico delle libertà civili, e che le lettere e la storia particolarmente non vengano per
niun modo apprese da uomini ecclesiastici.
Il clericalismo è multiforme.
Come in Germania anche in Italia evvi il legittimismo
clericale, il liberalismo clericale, il militarismo clericale, il repubblicanismo clericale, ed è pur forza confessarlo la scienza stessa ricoperta non infrequente da questo nero indumento - tutte emanazioni
d’uno spirito retrivista che tende a collocare il Sacerdote in luogo del
Dio, il falso e l’apparente in luogo della verità, la finzione in luogo
dell’ uomo, il militarismo in luogo dell’ eroismo.
- Coopererà perché la viabilità del suo comune si mantenga sempre in buon assetto; perché sia osservata la politezza
delle abitazioni, riedificate e sgombrate quelle rese malsane dalla
indecenza e dalla mancanza di arieggiamento.
- Si farà iniziatore nel proprio comune delle istituzioni
di mutuo soccorso, di risparmio e di previdenza, mezzi possenti
che influiscono beneficamente sulla condizione delle classi povere; favorirà la fondazione di biblioteche popolari, permanenti
e circolanti e sopravveglierà che il teatro sia scuola continua di
miglioramento morale e di educazione.
- Nell’interno del suo ufficio il Nuovo Sindaco mostrerà di
tenere in buona considerazione i propri impiegati e quando questa
considerazione non potesse esistere, ricorrerà a’ radicali provvedimenti, ma con ogni riguardo alle convenienze personali e sociali.
Con essi loro avrà le più delicate riserve, finché non
vengano credute persone addette ai di lui privati servigi.
Dovrà convincersi che Senza la loro morale e materiale
coadjuvazione, il valore della sua opera ridurebbesi a ben poca
cosa e che il potere rivestito di smodata severità non è mai il mezzo più acconcio per cattivarsi il loro affetto.
È un fatto costante che la buona opinione e l’attaccamento degli impiegati sono per il Sindaco un valido sostegno,
tanto più che le sue funzioni lo portano quasi sempre ad un
perenne contatto con essi e ad essere esposto a far palesi con le
proprie virtù anche le proprie debolezze.
E tra gli impiegati il Nuovo Sindaco cercherà di poter
avere una particolare deferenza per il suo segretario in cui riporrà
ogni riposto pensiero. Lo farà compartecipe d’ogni divisamento e
lo terrà o come consigliere delle sue determinazioni, o come un
appoggio nella attivazione de’ suoi progetti, o come sostenitore
delle sue iniziative.
È sempre a deplorarsi che un Sindaco si mantenga inaccessibile ad ogni sentimento di convenienza, ingiusto, arbitrario,
intollerante, capriccioso. La corrispondenza troppo discordante tra
essi crea ineluttabilmente per il Sindaco una situazione incerta,
penosa e sempre sfavorevole di fronte a’ suoi concittadini; dappoiché Egli trovisi ben presto nella spiacevole contingenza di dover eccitare le suscettività dei partiti col rassegnare le dimissioni del suo
ufficio o coll’adottare misure avversive verso il proprio segretario.
- Con la Giunta municipale di cui è preside sarà sempre geloso della competenza degli affari.
Qual capo dell’amministrazione comunale non si arro
gherà diritti di priorità, fermo il concetto che ogni opinione devesi
fondere nel crogiuolo della collettività per produrre un giudizio o
una deliberazione impersonale; quindi nessuna preponderanza sopra i membri della Giunta, e nello sorvegliare il disimpegno delle
materie ad essi affidate, non darà mai a tale sorveglianza il colore
di una superiorità burocratica o di controllo - che se talvolta le di
lui vedute sembrassero più conformi all’interesse della pubblica
cosa, Egli cercherà sempre, per il buon andamento amministrativo, ch’esse vengano adottate per convincimento di ognuno e come
defluite dallo studio e dalla meditazione comune.
- Nelle gravi circostanze nelle quali il pubblico interesse
morale, civile ed economico si trovasse per avventura compromesso vorrà associare a sé ed alla Giunta i lumi di altri concittadini
cui il capriccio elettorale tiene momentaneamente lontani dal far
parte della rappresentanze del comune, onde con la loro scienza
contribuiscono a rischiarare l’orizzonte degli affari.
Ciò varrà anche a porre al riparo dalle censure il di lui
operato ed accrescergli la pubblica fiducia.
- Nel Consiglio generale terrà la presidenza sempre intenta a far osservare le regole parlamentari, gli usi e i costumi civili e non a prediligere od appoggiare una parte delle discussioni.
Attenderà a prevenire il pericolo che la vivacità del dire
trascenda ad espressioni di offesa; a proteggere la libertà delle
opinioni e a sorvegliare attentamente che non fuorviino dal loro
circolo logico dietro la speciosità delle incidenze.
- Ponendo fine a questi profili aggiungeremmo che
quando si pensa al poco splendore che lasciano coteste funzioni
di Sindaco, d’altronde così onorabili; al tempo prezioso ch’esse
assorbono; alla dipendenza che richiedono; al pericolo personale
cui talvolta sospingono, perfino al sacrificio della vita, si stupisce
di trovare un cittadino coraggioso sempre disposto ad accettare
gratuitamente questa penosa missione.
Se non che una tale abnegazione è soventi volte più
che del patriottismo figlia dell’amor proprio e dell’irresistibile
piacere della supremazia.
La sciarpa di Sindaco, è uopo asserirlo, viene desiderata da ognuno, perfino da coloro i quali si mostrano in apparenza
più ripugnanti a recingerla e più incapaci.
Ma devesi in pari tempo pure affermare che si rendono
talvolta necessari lunghi sforzi a decidere un felice proprietario
ad abbandonare la sua calma e le sue private delizie per gettarsi
in questo cammino di lotte, di dispute e di perigli.
Noi vorremmo all’incontro che ognuno sapesse com-
prendere che a questo così difficile e delicato ufficio non dovrebbesi accedere che quando si sente di avere l’animo rinvigorito
da una forte e sicura coscienza del dovere; inspirato dal vero ed
unico bene della patria e della società; spoglio da quelle passioni
che fanno inerte e rovello lo spirito e rendono infeconde le nobili
iniziative, le utili imprese.
Ottobre 1876.
J. CIMA.
Centro Documentazione e Studi
Comuni Italiani ANCI-IFEL
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