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PER VENT’ANNI L’EUROPA ANDRÀ A GAS di Donato Speroni BENVENUTI IN ITALIA di Paolo Scaroni LA MOSSA DELL’UNIONE IN DIFESA DELL’AMBIENTE di Antonio Villafranca UN PACCHETTO PER RISANARE IL CLIMA di Stefania Amorosi CLINI: BIOCOMBUSTIBILI VERSO LA COMMODITY di Antonio Barbangelo Fame d’energia Corbis DOSSIER IDOSSIER profondi cambiamenti nei mercati internazionali dell’energia e i rischi legati al riscaldamento globale stanno ridefinendo le agende politiche dei leader di tutto il mondo. Fino a qualche anno fa si trattava di temi affrontati principalmente da esperti del settore, che solo raramente riuscivano ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma gli aumenti del prezzo del petrolio – e quin- DOSSIER Per vent’anni l’Europa andrà a gas di Donato Speroni Secondo il più recente scenario di riferimento dell’Aie, il gas sarà l’unico combustibile fossile il cui impiego in Europa continuerà a crescere fino al 2030. Fino a coprire il 30% del fabbisogno di energia primaria rispetto al 24% di oggi. Entro il 2030 verranno bruciati dagli europei 733 chilometri cubi di gas, contro i 533 del 2005 Un periodo di transizione. È quello che ci aspetta, tra l’era dei combustibili fossili più inquinanti e quella delle energie alternative. Per gli esperti di energia, i prossimi due decenni saranno caratterizzati da una serie di fattori ormai prevedibili: ■ I consumi energetici continueranno a crescere: anche se si riuscirà a indurre i Paesi industrializzati a comportamenti più virtuosi nell’epoca del dopo Kyoto (cioè oltre il 2012) la fame di energia dei Paesi in via di sviluppo farà sì che i quantitativi consumati (e i gas serra immessi nell’atmosfera) continueranno ad aumentare. Per livellarsi, si spera, dopo il 2030. ■ Stiamo già raggiungendo il mitico picco di Hubbert, cioè il momento della massima produzione petrolifera, che le riserve esistenti non riusciranno più a sostenere in futuro. ■ Aumenterà nel mondo il ricorso al carbone, unico combustibile che può soddisfare il bisogno di energia della Cina, e si costruiranno nuove centrali nucleari. ■ Crescerà l’uso delle fonti rinnovabili e delle biomasse, ma partendo da livelli così bassi che una crescita anche esponenziale consentirà comunque nel 2030 di coprire una frazione ridotta dei consumi energetici. Per l’Europa questo quadro lascia scoperta una fetta importante di fabbisogni: il carbone è troppo inquinante, almeno con le attuali tecnologie, di centrali nucleari sarà assai difficile costruirne un numero sufficiente nel vecchio continente, né ci sono spazi significativi per le biomasse, che contenderebbero le aree coltivabili al crescente bisogno di cereali e di foraggio. E così il ruolo centrale nella copertura dei consumi verrà svolto dal gas naturale. Secondo il più recente scenario di riferimento dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, il gas sarà l’unico combustibile fossile il cui impiego in Europa continuerà a crescere da qui al 2030, fino a coprire il 30% dei fabbisogni di energia primaria, rispetto al 24% di oggi: quasi 733 chilometri cubi di gas che nel 2030 (nel 2005 erano 533) saranno bruciati nelle centrali e nei fornelli dell’Unione Europea. Sarà insomma il metano a darci una mano, trattandosi di un di di gas e benzina – hanno creato una nuova consapevolezza. E nel dopo Kyoto l’Unione Europea, forte del suo ruolo di più grande mercato del mondo capace di creare standard applicabili su scala globale, si schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. Ma non tutte le aree del mondo sono allineate, e se gli Usa temporeggiano e i Paesi asiatici accantonano il problema... LE REGOLE DEL GIOCO Il metano pone problemi politici non meno complessi di quelli del petrolio che ha dominato la geopolitica del Ventesimo secolo. L’Europa infatti dispone di quantità decrescenti di gas, perché i giacimenti più importanti, in Olanda e nel Mare del Nord, sono destinati a esaurirsi. Il gas deve essere quindi importato, ma trasportare metano è più complicato che caricare una petroliera e mandarla in giro per il mondo. Proprio per questa difficoltà, fino a qualche anno fa buona parte del metano che fuoriusciva insieme al petrolio da tutti i giacimenti lontani dai mercati di consumo veniva bruciato a bocca di pozzo. L’Eni ebbe il merito di realizzare alcuni dei primi gasdotti intercontinentali, collegando l’Europa all’Urss e successivamente l’Italia all’Algeria con metanodotti che suscitarono all’epoca grandi preoccupazioni politiche perché ci legavano indissolubilmente a Paesi profondamente diversi da noi, ma che si rilevarono indispensabili per il nostro approvvigionamento energetico. In alternativa ai metanodotti, il gas naturale può essere liquefatto all’origine a una temperatura di – 160°, trasformato in Lng (liquified natural gas) e trasportato in forma compressa in navi metaniere per essere poi rigasificato nei Paesi di destinazione. In questa forma il sistema di trasporto del gas viene ad avere una flessibilità paragonabile al sistema petrolifero internazionale, che consente alle petroliere di approvvigionarsi dove il greggio è disponibile o conveniente, senza la rigidità dei tubi. Le metaniere costano molto di più delle petroliere, e quindi il Lng presuppone investimenti importanti. Però la liquefazione non è una tecnologia particolarmente complicata: la Esso italiana, per esempio, varò il primo (e per ora unico) impianto destinato all’Italia, che portava a Panigaglia in Liguria il metano di Marsa el Brega (Libia) già nel 1968. Le opposizioni ambientaliste hanno finora bloccato la costruzione di nuovi rigasificatori. La mappa (Iea 4.4) mostra però quale importanza avrà il Lng in futuro: gli Stati Uniti, per esempio, prevedono di ricevere massiccie importazioni di Lng dal Medio Oriente, dal Sud America e dall’Africa. Il governo americano vorrebbe spingere anche l’Europa verso l’opzione Lng, che consente più flessibilità di approvvigionamento; nel vecchio continente, però, anche se numerosi rigasificatori sono in costruzione o in programma, consentendo per Corbis combustibile pochissimo inquinante (anche se contribuisce al riscaldamento globale), disponibile ancora in grandi quantità a prezzi competitivi e che senza complessi trattamenti può essere destinato a quasi tutti gli usi, dalle centrali termoelettriche ai consumi domestici, finanche all’autotrazione, anche se richiede bombole assai più voluminose del gpl, il gas di petrolio liquefatto che è invece un prodotto di raffineria. DOSSIER esempio di approvvigionarsi dalla lontana Nigeria, l’approvvigionamento via tubo sembra l’opzione prevalente. E si torna così alla domanda politica fondamentale per la politica energetica dei prossimi anni: quali tubi vogliamo, stringendo accordi con chi, passando per quali Paesi e a quali condizioni? È una partita complessa, che impegna tutti i protagonisti della scena mondiale: la Russia col ruolo di primattore, ma anche altri produttori più lontani, comunque chiamati in causa, dal Venezuela ai Paesi del Medio Oriente; l’Europa, tutt’altro che unita nelle sue strategie, gli Stati Uniti, preoccupati dall’eccessiva dipendenza europea della Russia e a loro volta in cerca di gas; i Paesi minori ex sovietici, che vorrebbero autonomia dall’orso del Cremlino, ma che per crescere hanno un disperato bisogno di valorizzare i loro giacimenti; infine i grandi giganti asiatici, alla cui fame energetica serve anche il gas naturale. _La politica energetica dei prossimi anni è una partita complessa cher impegna tutti i protagonisti della scena mondiale. In primis la Russia con il ruolo di primattore, ma anche produttori più lontani, l’Europa e gli Usa I PADRONI DEL GAS La scelta dipende poco dal libero mercato e molto dalla politica. Nell’immaginario collettivo, il sistema petrolifero internazionale è dominato dalle cosiddette “sette sorelle”, le grandi multinazionali che dominarono il mercato per gran parte del Ventesimo secolo. Negli anni Settanta, controllavano il 75% delle riserve e l’80% della produzione di greggio. Oggi le cosiddette Ioc (International oil companies) controllano rispettivamente il 6 e il 24 percento. Ha scritto “Limes”, nel suo numero del 2007 dedicato al “Clima dell’energia”: “dall’Aramco saudita alla Lnoc libica, passando per la Nioc iraniana, la Gazprom russa e la Petrochina, il 66% delle riserve mondiali appartiene alle prime dieci compagnie controllate dai Paesi produttori”. Il futuro, dunque, non è più delle Ioc, ma delle Noc, National oil companies, che gestiscono quasi tutto il gas naturale e i cui governi cercano di dettare le condizioni. Va anche aggiunto che i Paesi produttori tendono a rafforzare il loro controllo, rinegoziando gli accordi precedenti o addirittura rovesciando il tavolo: lo ha fatto Vladimir Putin silurando la Jukos, non solo perché il suo leader Mikhail Khodorkovskij (imprigionato) aveva progettato di entrare in politica, ma anche perché era il partner privilegiato delle major americane. Ma ne ha fatto le spese anche _La Russia a Occidente vuole rafforzare i rapporti con l’Europa, mentre in Siberia e nell’Artico punta ad accrescere la produzione per far fronte ai consumi interni e alla domanda di Cina, Corea e Giappone Corbis (2) l’Eni, che nel corso del 2007 ha dovuto accettare una revisione degli accordi precedenti in Kazakistan per lo sfruttamento del giacimento di Kashagan. Due situazioni totalmente diverse, ma che insieme a molte altre denotano la volontà dei governi dei Paesi ex Urss di rafforzare il proprio controllo sulla produzione e la vendita degli idrocarburi. La strategia russa si muove su due fronti. A occidente vuole rafforzare i rapporti con l’Europa: la Gazprom prevede di fornire entro il 2015 un terzo del fabbisogno europeo di gas e intende entrare anche nel business della distribuzione. In Siberia e nell’Artico punta ad accrescere sostanzialmente la produzione per far fronte a due esigenze: il forte aumento dei consumi interni, soprattutto nelle nuove regioni, e la domanda estera, da soddisfarsi con forniture alla Cina, alla Corea e al Giappone, ma anche attraverso la distribuzione di Lng su rotte più lunghe. La Gazprom ha cominciato a entrare sul mercato europeo, cedendo in cambio quote del suo azionariato. Possiede per esempio il 35% di Wingas, una società tedesca di distribuzione, ha il 10% del gasdotto che collega Gran Bretagna e Belgio e vuole partecipare a progetti europei nel campo dell’elettricità, del petrolio e del Lng. D’altra parte, la Ruhrgas tedesca possiede il 7% di Gazprom e ha un suo rappresentante nel consiglio d’amministrazione. L’Unione Europea ha visto con preoccupazione l’offensiva commerciale di Mosca, e ha cercato di porre paletti alla penetrazione nelle reti di distribuzione attraverso il principio dell’unbundling, cioè della separazione tra produttori e distributori, che dovrebbe assumere carattere stringente col cosiddetto terzo pacchetto di direttive energetiche, in vigore dopo il 2012. L’unbundling, oltre a rispondere a un principio generale di stampo liberista nel campo della forniture dei servizi, è considerato necessario per impedire a una società che è diretta espressione del Cremlino di assumere il controllo ancorché parziale di una rete vitale come quella del gas. La questione ha messo apertamente in conflitto la commissione di Bruxelles e i governanti russi. Al World Energy Congress di Roma, nel novembre scorso, il vice presidente di Gazprom Alexander Medvedev ha avvertito che l’applicazione del principio “comporterebbe cessioni obbligate di beni patrimoniali, incompatibili con la prote- DOSSIER zione della proprietà privata in un’economia di mercato”. Il richiamo può apparire curioso da parte di un russo, espressione di un Paese i cui governanti non si sono mai fatti troppi scrupoli a intervenire nell’economia, ma si basa su considerazioni storiche e giuridiche. La storia ci dice infatti che mai i sovietici o i russi, in cinquant’anni di forniture di gas all’Europa, hanno modificato i patti in essere; quindi hanno il diritto di chiedere altrettanto. Il diritto si riferisce agli accordi già conclusi con molte delle maggiori società europee, che sembrano poco disposte a tornare indietro e quindi si schierano contro Bruxelles, con l’appoggio dei rispettivi governi. Insomma, la questione dell’unbundling è una patata bollente che divide anche i Paesi europei. Il 1° febbraio di quest’anno il tema è stato discusso in un incontro presso la Commissione industria del Parlamento europeo, con la partecipazione di numerosi esperti, ma come dice anche il resoconto ufficiale, “consensus was hard to come by”: tutti sono rimasti della loro idea. LA GUERRA DEI TUBI Nella sua politica del gas verso l’Europa, la Russia vuole evitare il condizionamento delle sue ex province e Stati satelliti. Vuole cioè poter gestire direttamente le forniture agli stati della Csi senza mettere a repentaglio quelle all’Europa. Il perché di questa politica si è visto nel 2006, quando a seguito della vittoria nelle elezioni ucraine di Viktor Yuschenko, con il forte sostegno degli Stati Uniti e dell'Unione Europea, Gazprom ha quasi quintuplicato il prezzo del gas alla ex provincia sovietica. Il governo di Kiev ha minacciato di rivalersi sul gas in transito verso occidente, l’Europa ha rischiato un inverno al freddo e la Russia una violazione dei suoi obblighi di fornitura. Ora Mosca è vicina a un nuovo accordo con Kiev, ma per evitare che episodi di questo genere possano ripetersi progetta nuovi tubi che bypassano gli Stati ex satelliti. I più importanti di questi progetti sono i gasdotti North Stream e South Stream. Il North Stream, in fase avanzata di progettazione, si alimenterà dai giacimenti della Siberia Occidentale, arriverà a Vyborg sul Baltico, passerà sotto il mare e rifornirà l’Europa dalla Germania. Ha avuto una vita politica difficile (e non a caso i russi hanno voluto alla presidenza l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder) per le molte obiezioni che ha sollevato. Quelle ambientali provengono soprattutto da Finlandia e Svezia, preoccupate degli effetti su un ecosistema chiuso come quello del Baltico. Sono forse eccessive, quando per esempio paventano il rischio di andare a smuovere i depositi bellici affondati nel Baltico durante la Seconda guerra mondiale. Ma si saldano con le obiezioni politiche. Perché infatti si è voluto scegliere un costoso percorso sottomarino quando sarebbe stato più facile fornire il gas via terra, attraverso Bielorussia e Polonia? È chiara l’intenzione di evitare il rischio di coindizionamenti. E non è un caso che gli Stati Uniti osteggino fortemente il nuovo progetto e che i polacchi parlino addirittura di un nuovo patto Molotov Ribbentrop alle loro spalle. Il gasdotto South Stream è destinato invece ai Paesi balcanici per arrivare poi a Trieste. Il percorso è studiato per non toccare l’Ucraina, passando sotto il Mar Nero, dalla stazione russa di Beregovaya fino al porto bulgaro di Varna, avendo acquisito la disponibilità del governo di Sofia. Al progetto è interessato l’Eni, che nel novembre scorso ha creato una società mista con Gazprom per gli studi tecnici sul progetto. Anche questo tubo ha però i suoi avversari. La commissione di 88 Bruxelles, preoccupata dall’eccessiva dipendenza dal gas sovietico, ha infatti sovvenzionato lo studio di fattibilità del progetto Nabucco, un gasdotto al quale partecipano tra gli altri la OMV austriaca (capofila) e la RWE tedesca e la BOTAS turca, per portare in Europa il gas di Iran, Kazakistan, Turkmenistan, Egitto e Siria. Il Nabucco partirà da Erzurum, in Turchia, per entrare nella rete europea a Baumgarten in Austria. Sarà alimentato dal gasdotto che proviene da Tabriz in Iran che a sua volta dovrebbe essere collegato col gasdotto del Trans Caspio. Ma molti dubitano che verrà mai realizzato. “Sul mercato c’è posto sia per il South Stream che per il Nabucco”, ha dichiarato l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, rispecchiando l’esigenza dell’Eni di gestire i rapporti sia con i russi che con gli altri produttori asiatici. Ma i tubi virtuali si moltiplicano: esiste anche un progetto “White stream” che sotto il Mar Nero collegherebbe la Georgia alla Romania, tutti in concorrenza per distribuire il gas proveniente soprattutto dalll’Azerbijan. E molti altri. IL MERCATO DEL FUTURO Dietro a molti di questi progetti c’è uno zampino americano, perché il governo di Washington è preoccupato dell’eccessiva dipendenza europea da Mosca. Negli Usa si guarda anche come fumo negli occhi al possibile emergere di un “Opec del gas” in funzione antioccidentale. L’esperto di Medio Oriente della Heritage Foundation Ariel Cohen ha segnalato l’emergere di un “cartello segreto” che ha avuto un battesimo informale nel Qatar il 9 aprile 2007, alla quale hanno partecipato rappresentanti di Russia, Algeria,Venezuela e Iran. Anche se i leader russi dichiarano di essere contrari a una organizzazione “contro qualcuno”, riconoscono la necessità di un’azione concertata in un mercato che si va globalizzando. E nella riunione di Doha hanno tenuto a battesimo la creazione di un Gruppo di Alto Livello per condurre ricerche sui modelli di prezzo del gas. Ma siamo davvero alla vigilia della nascita dell’Ogec? Un Gas Exporting Countries Forum (Gecf) esiste in realtà dal 2001, ma ben difficilmente potrà diventare un vero e proprio cartello, perché il mercato del gas è profondamente diverso da quello del petrolio. Nel caso del greggio infatti i prezzi all’origine possono essere modificati continuamente, mentre quelli del gas sono solitamente fissati a lungo LE FONTI DI ENERGIA PER L’UNIONE EUROPEA (Le misure di quantità sono espresse in mtoe, milioni di tonnellate di equivalente petrolio. Un mtoe è equivalente a 1125 milioni di metri cubi di gas) SCENARIO DI RIFERIMENTO Domanda di energia Domanda totale di energia primaria Carbone Petrolio Gas naturale Nucleare Idro Biomasse e rifiuti Altre rinnovabili Fonte: World Energy Outlook 2007 SCENARIO ALTERNATIVO Quote % di crescita annuale 2030 2005- 20052015 2030 100 0,5 0,4 14 -0,8 -0,6 33 0,1 -0,0 30 1,4 1,3 8 -0,8 -2,0 2 2,8 1,4 9 4,3 3,2 4 10,0 7,2 1990 2005 2015 2030 2005 2015 1653 451 626 295 207 25 46 3 1814 317 671 444 260 26 83 13 1910 291 678 509 239 34 127 33 2006 275 670 610 159 37 182 72 100 17 37 24 14 1 5 1 100 15 35 27 13 2 7 2 Domanda di energia Quote 2015 2030 2015 1846 218 650 492 269 34 143 38 1844 142 595 529 230 39 213 97 100 12 35 27 15 2 8 2 % di crescita annuale 2030 2005- 20052015 2030 100 0,2 0,1 8 -3,7 -3,2 32 -0,3 -0,5 29 1,0 0,7 12 0,3 -0,5 2 2,8 1,6 12 5,5 3,8 5 11,5 8,5 BENVENUTI IN ITALIA di Paolo Scaroni * Forse non lo avrete notato, ma il vostro hotel a Roma è quasi sicuramente alimentato a gas, così come lo sono tre hotel italiani su quattro. Le luci di questa stanza e di ogni altra stanza sono accese grazie al gas. Infatti, il 60% della produzione termoelettrica italiana è alimentata a gas. In questo Paese, quando crediamo soltanto di premere un interruttore della luce, stiamo in realtà aprendo un gasdotto. È un fatto bizzarro per un Paese che produce sempre meno gas e ha ormai poche riserve. Quando ha scelto di andare a gas, l’Italia ha compiuto una scelta ardita: nel 2006 ogni cittadino italiano ha “importato” più di 1300 metri cubi di gas, circa il doppio della media dell’Unione Europea. Ma l’Europa ci sta raggiungendo in fretta. Pensate che la produzione di gas europea è soltanto l’8% di quella mondiale – un valore destinato a diminuire, se consideriamo che abbiamo solo l’1% delle riserve mondiali di gas. Nonostante questo, gli europei hanno scelto e continuano a scegliere di utilizzare il gas ovunque risulti possibile. Il settore elettrico ne è l’esempio più evidente: l’80% della nuova capacità termoelettrica installata in Europa negli ultimi 10 anni è alimentata a gas. Oggi l’Europa dipende dal gas per il 20% della sua produzione elettrica, rispetto al 7% degli anni ’80. Lo stesso è avvenuto nel settore residenziale. Negli anni Ottanta, nelle nostre case usavamo soprattutto prodotti petroliferi e, addirittura, in una casa su cinque, il carbone. Oggi nessuno brucia più carbone nelle caldaie condominali e una casa europea su due va a gas naturale. Anche nel settore industriale negli ultimi 25 90 termine o già indicizzati a quelli del petrolio. Inoltre, i grandi produttori fanno già ricorso ad accordi di oligopolio. Per esempio, a Doha i membri del Gefc secondo Cohen hanno già stipulato intese di spartizione: “Se la Russia accetta di non sfidare la posizione di mercato dell’Algeria in Spagna, l’Algeria non cercherà di raggiungere la Germania”. “I grandi esportatori non possono mettere nell’angolo il mercato globale del gas perché, purtroppo, questo mercato non esiste”, ha ironizzato l’”Economist”. In quel “purtroppo” del giornale liberista inglese c’è il senso della partita che si giocherà nei prossimi anni in Europa. Le posizioni sono sostanzialmente due. Da una parte c’è la tesi del libero mercato, favorita dalla Commissione europea, dagli americani (almeno quando si parla di Europa) e dall’Ocse. Sostiene che la dimensione raggiunta dal business del gas impone regole nuove, con molta maggiore flessibilità. Per esempio, collegando tutte le reti europee e sfruttando ampiamente le opportunità di approvvigionamenti alternativi offerte dai rigasificatori di Lng. È appunto la logica dell’unbundling: come nelle telecomunicazioni, anche nei gasdotti, il prodotto che circola in rete non deve essere di un solo produttore e in tal modo l’utente può scegliere il fornitore più conveniente. La posizione alternativa è quella del business as usual, sostenuta dalle grandi compagnie di bandiera europee col supporto della Russia, che considera la liberalizzazione del gas “l’idea più assurda nella storia dell’economia mondiale”. Secondo questa tesi, le reti del gas comportano investimenti a lungo termine alle quali deve corrispondere un sistema di prezzi stabile. I contratti poliennali che legano i fornitori e le società di distribuzione sono l’unico modo certo di assicurare all’Europa il metano di cui avrà bisogno nei prossimi vent’anni. Anche lo spauracchio dell’insufficienza del gas russo può giocare a favore dell’una o dell’altra tesi. È sicuro che la Russia nei prossimi anni dovrà far fronte a una forte crescita dei suoi consumi interni e che finora gli investimenti per lo sviluppo di nuovi giacimenti sono andati a rilento. Per far fronte ai futuri fabbisogni la Russia si è assicurata anche il gas del Turkmenistan, ma ci sono analisti che sostengono che questo Paese ha già venduto il doppio del metano che sarà in grado di produrre dopo il 2009. Mosca ripone anche grandi speranze nei giacimenti dell’Artico, nel mare di Barents e addirittura sui fondali verso il Polo Nord. Ci vogliono però tecnologie complesse e ingenti capitali prima che questie risorse siano messe in produzione. E nel frattempo? “Non leghiamoci troppo le mani con i russi e cerchiamo altre fonti”, rispondono i liberalizzatori. “Tutt’altro: dobbiamo essere noi a legare le mani ai russi con accordi di lungo termine, perché nella stretta non ci tolgano il gas”, ribattono i fautori degli accordi diretti. È difficile dire come andrà a finire il dibattito ed è arduo affermare con certezza che la ragione stia tutta dall’una o dall’altra parte. Una cosa è certa: questa partita determinerà il nostro futuro energetico, la sicurezza deille riserve, il prezzo a cui pagheremo il gas nelle nostre case. Vale anche la pena di cercare alternative energetiche alla eccessiva dipendenza da una fonte esterna al nostro continente. La stessa Iea propone al 2030 per l’Unione Europea uno scenario alternativo, basato su un più rapido sviluppo del nucleare e delle rinnovabili: ne deriverebbe una diminuzione delle emissioni di CO2 di oltre il 20%. Quanto al gas, ne basterebbero in questa ipotesi “soltanto” 635 km3. La mossa dell’EU in difesa dell’ambiente di Antonio Villafranca In una situazione in cui appare del tutto incerta la negoziazione internazionale sul dopo Kyoto, cioè dal 2013 in poi, l’Unione Europea si schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici ponendosi non solo obiettivi più ambiziosi ma anche di più lunga durata rispetto a Kyoto. Lo strumento principale per raggiungere la riduzione dei gas serra è rappresentato dall’ETS I profondi cambiamenti nei mercati internazionali dell’energia e i rischi legati al riscaldamento globale stanno ridefinendo le agende politiche dei leader di tutto il mondo. Fino a qualche anno fa si trattava di temi affrontati principalmente da tecnici ed esperti del settore che solo sporadicamente riuscivano ad attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica. I continui aumenti del prezzo del petrolio – e conseguentemente del prezzo della benzina e delle bollette – uniti ai moniti degli scienziati sui disastri naturali che le emissioni nocive potrebbero causare già nei prossimi decenni, hanno cambiato radicalmente le cose creando una nuova e diffusa consapevolezza nell’opinione pubblica mondiale. Eppure le reazioni da parte delle singole aree del mondo sono notevolmente diverse. Se da un lato gli USA prendono tempo, restando addirittura fuori dal Protocollo di Kyoto, e i Paesi asiatici accantonano il problema, impegnati come sono a sostenere i propri elevati ritmi di crescita, dall’altro l’Unione Europea decide di perseguire propri obiettivi indipendentemente (o quasi, come vedremo in seguito) da quello che fanno gli altri. Si tratta di una scelta coraggiosa che si basa su un approccio lungimirante. L’Unione Europea può infatti far pesare di essere il più grande mercato del mondo capace di creare standard che poi vengono applicati su scala globale. Porre dei piani di riduzione unilaterale delle emissioni nocive e stimolare gli investimenti in fonti di energia rinnovabile rispondono alla duplice esigenza di sganciarsi dalla dipendenza dall’approvvigionamento extraeuropeo delle risorse energetiche (soprattutto di origine fossile) e stimolare processi produttivi innovativi che possano costituire in futuro standard mondiali. Che la sfida dei cambiamenti climatici rappresenti quindi non solo un rischio ma anche una grande opportunità sembra ormai chiaro in buona parte dell’Europa. Non è un caso infatti che la Commissione europea nel giro di pochi mesi – da settembre 2007 a gennaio 2008 – abbia presentato un Pacchetto sull’energia e uno sull’ambiente che avranno un grosso impatto sul sistema delle imprese e, in generale, su tutti i cittadini. L’AZIONE EUROPEA Volendo focalizzarci sulle questioni ambientali il punto di partenza non può che essere rappresentato dalla decisione del Consiglio del 1993 in cui sono stati approvati gli obiettivi della “United Nations Framework Convention on Climate Change” (UNFCCC), che avrebbe contribuito nel 1997 alla firma, da parte anni, il consumo di gas è cresciuto drasticamente, a spese dell’olio combustibile e del carbone. L’effetto combinato di queste scelte è stato che il consumo europeo di gas è raddoppiato negli ultimi 25 anni, mentre quello di olio combustibile e carbone è diminuito del 20 percento. Oggi, circa un quarto del fabbisogno di energia primaria in Europa è soddisfatto dal gas. Perché ritengo che puntare sul gas sia stata una scelta ardita? Perché una volta che si decide di “andare a gas” è molto difficile, nel medio termine, tornare sui propri passi. Le centrali a gas non bruceranno mai carbone. Le caldaie a gas non funzioneranno se alimentate a olio combustibile. L’esplosione dei consumi di gas, in un contesto di produzioni europee declinanti e riserve modeste, ci ha portato inevitabilmente a una massiccia dipendenza dalle importazioni. Oggi, infatti, il 60% del gas utilizzato nell’Unione Europea è importato. Naturalmente, la decisione di andare a gas ha enormi implicazioni. Ma, allora, chi ha deciso di imboccare questa strada a tutta velocità? La risposta è nessuno. Non è stata una decisione politica, presa collettivamente a Bruxelles o in un’altra capitale europea. È stata semplicemente il risultato spontaneo di un insieme di decisioni di investimento autonomamente assunte da singoli investitori e consumatori. Dal punto di vista del singolo investitore, la scelta del gas ha avuto un senso. Era un combustibile pulito, efficiente e anche economico. Inoltre, le alternative erano difficili da percorrere. Dopo tutto, nessuno vuole una centrale a carbone o nucleare nel cortile di casa. Tuttavia, la somma di tutte le scelte dei singoli ha prodotto una rimodulazione del mix energetico europeo, che ha importanti implicazioni economiche e politiche. A pensarci oggi, sembra incredibile che l’Unione Europea, che discute e legifera su ogni aspetto della nostra esistenza – inclusa la forma delle banane – non abbia colto il senso della trasformazione che avveniva in un settore di così vitale importanza per i cittadini. Ma è esattamente ciò che è accaduto. Di fatto, l’Unione Europea ha concentrato i suoi sforzi nella definizione di 91 dettaglio delle regole di funzionamento del mercato interno, senza contrastare le minacce esterne. Questa visione limitata, tra l’altro, non è nemmeno stata efficace. La liberalizzazione del mercato interno, infatti, non determina di per sé prezzi più bassi per i consumatori, se i fornitori si trovano al di fuori del mercato liberalizzato, specie se sono molto pochi. L’Europa è riuscita a dormire sonni tranquilli per molti anni, prima che qualche campanello d’allarme iniziasse a suonare. Fino a quando, però – precisamente il 1 gennaio 2006 – tutto è cambiato. Con l’inizio della crisi fra Russia e Ucraina, l’Europa si è svegliata improvvisamente e si è trovata nel mezzo di un campo di battaglia – e in una posizione per niente buona. È stato un brusco risveglio. In un momento, è stato chiaro che eravamo esposti a un equilibrio molto fragile. Abbiamo capito che la gran parte delle nostre forniture di gas ci arriva da un numero piuttosto limitato di paesi produttori, attraverso una manciata di gasdotti. E abbiamo scoperto a nostre spese che questi gasdotti attraversano altri Paesi, e che ciascuno di questi paesi di transito può, nel perseguire i propri scopi, minare seriamente la sicurezza delle nostre forniture. E tutto in un solo giorno, fra l’altro dopo il veglione di San Silvestro! Da quel giorno fatidico in poi, il problema della sicurezza è stato al centro dell’attenzione dei media e all’ordine del giorno del dibattito politico. Ma purtroppo, siamo ancora lontani dalla soluzione. Da allora, si è molto discusso sulle contromisure da mettere in campo, in particolare puntando sullo sviluppo di fonti alternative al gas, prima di tutto il nucleare e le rinnovabili. Ma se è vero che sia il nucleare che le rinnovabili potranno essere parte della soluzione, è ingenuo pensare che possano risolvere il problema per intero. Partiamo dalla nuclear renaissance. È vero, il nucleare ha grandi potenzialità, poiché fornisce energia sicura, abbondante e pulita. Ma, se volessimo alimentare anche soltanto la domanda incrementale di energia elettrica europea interamente da nucleare, avremmo bisogno di costruire 70 nuove centrali, in altri termini 115 GW di nuova capacita da qui al 2020. E dato che negli ultimi dieci anni, nell’intera Unione Europea, siamo 92 Corbis DOSSIER di oltre 160 Paesi, del Protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas a effetto serra. In questo Protocollo i Paesi industrializzati e i maggiori Paesi in transizione verso economie di mercato si sono complessivamente impegnati a ridurre sei tipi di gas a effetto serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo di piena applicazione del Protocollo (dal 2008 al 2012). Dopo il ritiro degli Usa (che pure avevano firmato il documento) il Protocollo è entrato in vigore nel 2005, grazie alla fondamentale ratifica da parte della Russia. Per perseguire gli obiettivi di Kyoto l’Unione ha predisposto nel 2003 una direttiva che introduce lo “European Emission Trading System” (ETS), che analizzeremo meglio in seguito. Un decisivo passo avanti è stato compiuto dal Consiglio europeo di Bruxelles di marzo 2007 in cui è stata lanciata – su iniziativa della Presidenza tedesca – la formula del “20, 20, 20 entro il 2020”, ovvero la riduzione del 20% delle emissioni di CO2, l’utilizzo di risorse rinnovabili per almeno il 20% dei consumi di energia e l’incremento del 20% dell’efficienza energetica. Lo scorso 23 gennaio la Commissione ha presentato un Pacchetto ambiente – costituito da due Direttive e una Decisione – che indica gli strumenti da utilizzare e il contributo di ogni Stato membro al raggiungimento degli obiettivi posti dal Consiglio. Corbis _La sfida imposta dai cambiamenti climatici rappresenta non solo un rischio, ma anche una grande opportunità. In grado di stimolare processi produttivi innovativi che in futuro costituiranno standard mondiali ETS E NUOVO “PACCHETTO AMBIENTE” In una situazione in cui appare del tutto incerta la negoziazione internazionale sul dopo Kyoto (ovvero il periodo dal 2013 in poi), l’Unione Europea si schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici ponendosi non solo obiettivi più ambiziosi ma anche di più lunga durata rispetto a Kyoto. Lo strumento principale che l’Ue ha predisposto – già dal 2003 – per raggiungere l’obiettivo di tagliare le emissioni dei gas a effetto serra è rappresentato dall’ETS. Si tratta di un meccanismo che prevede l’assegnazione di crediti di inquinamento alle imprese (secondo la logica del “grandfathering”) che al momento avviene a titolo gratuito in oltre il 90% dei casi. Il funzionamento dell’ETS si basa sul meccanismo del “cap and trade”, secondo il quale dopo aver posto un vincolo massimo alle emissioni (“cap”), le aziende che inquinano meno rispetto al passato possono vendere alle aziende che invece emettono più agenti inquinanti i propri crediti (“trade”). Nello specifico la Commissione identifica gli riusciti a installare solamente 9 GW di nuova capacità, è facile capire come l’impresa sia quasi disperata. Passando alle rinnovabili, la prospettiva è ancora più fosca. Se volessimo utilizzare soltanto energia eolica e fotovoltaica per soddisfare il fabbisogno europeo incrementale di energia elettrica, dovremmo installare fino a quindicimila pale eoliche – una fila di turbine da Roma a Pechino – e 50.000 campi di calcio di pannelli fotovoltaici. E tutto questo ogni anno! C’è in realtà una terza opzione: il carbone. Ma qui, noi europei ci siamo legati le mani, sulla scia del Protocollo di Kyoto, noncuranti del trade-off esistente tra obiettivi ambientali e sicurezza energetica. In sintesi, sembra chiaro che queste alternative non potranno coprire neppure la domanda incrementale di energia elettrica da qui al 2020. Una gran parte di questa crescita sarà inevitabilmente soddisfatta dal gas. Ma attenzione, non dovremo soltanto preoccuparci di alimentare la domanda incrementale. In realtà, nel prossimo decennio, circa il 25% della attuale capacità installata europea potrà essere dismesso; si tratta soprattutto di impianti ormai obsoleti a carbone e a olio combustibile e di qualche vecchio impianto nucleare. Con cosa verranno rimpiazzati questi impianti? Date le politiche ambientali europee, la difficoltà di realizzare nuova capacità nucleare e i limiti delle rinnovabili, è molto probabile che una buona fetta di queste nuove centrali sarà a gas. Tuttavia, rimpiazzare la produzione di un quarto dell’attuale capacità produttiva con impianti gas-fired significherà consumare oltre 130 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno. Pertanto, se sommiamo alla crescita attesa della domanda anche la maggiore domanda che deriverebbe dal rimpiazzo delle centrali più vecchie con impianti alimentati a gas, la domanda europea complessiva nel 2020 rischia di essere del 40% più alta di quella attuale. Nello stesso periodo, è previsto che la produzione di gas dell’Unione Europea si dimezzi. Ne deriverebbe una drammatica crescita del fabbisogno di importazioni: dagli attuali 300 bcm a oltre 600 bcm nel 2020. Un’impresa veramente ardua. Tanto più se consideriamo che la concorrenza per assicurarsi le forniture di gas è destinata a inasprirsi. In alcuni tradizionali Paesi 93 DOSSIER consumatori, come il Nord America, la produzione interna è in declino mentre la domanda continua a crescere costantemente. Inoltre, nuovi Paesi consumatori si stanno affacciando sul mercato internazionale del gas. La Cina è un esempio particolarmente significativo, poiché può rappresentare per la Russia – nostro fornitore chiave – un mercato alternativo all’Europa. Infine, anche i consumi dei Paesi produttori di gas stanno crescendo a dismisura, con l’ovvio effetto di ridurre le quantità disponibili per l’esportazione. Il Medio Oriente, per esempio, utilizzerà 200 mld mc di gas in più nel 2020 rispetto a oggi, sotto la spinta della crescita demografica e industriale, ma anche a causa della reiniezione del gas nei giacimenti petroliferi per aumentarne il tasso di recupero. E con il prezzo del petrolio che oscilla intorno ai 100$ a barile, questo rimane uno degli usi più profittevoli del gas. Unendo la nostra crescente domanda, alla nostra dipendenza dalle importazioni alla aspra competizione per le forniture, appare evidente che potremmo correre il rischio di una carenza di gas nel prossimo futuro. Ma una shortage di gas rappresenta davvero un rischio troppo serio. Per l’Europa il gas significa luce, riscaldamento, produzione industriale. Restare senza gas è un pericolo che non ci possiamo permettere di correre. Non c’è un’unica soluzione magica per affrontare tale minaccia. Ma ci sono alcune contromisure che possiamo adottare. 1. La prima è assicurare che l’Europa abbia accesso a quanto più gas possibile, e che questo sia disponibile dove e quando serve Questo obiettivo si può conseguire accrescendo e diversificando le fonti d’approvvigionamento, sia via gasdotto che via GNL. Ma occorre anche minimizzare i rischi di transito, diversificando le rotte d’importazione. In questa ottica vanno inquadrati i progetti di gasdotti come il North Stream e il South Stream che consentono di far giungere il gas russo direttamente in Europa. Infine, dobbiamo migliorare le interconnessioni all’interno dell’Europa, per assicurare che il gas arrivi dove ce n’è bisogno, e investire in nuova capacità di stoccaggio che consenta di far fronte alla 94 obiettivi per ciascun Paese e i settori industriali per i quali applicare l’ETS , ma spetta poi ai singoli Paesi la scelta sulla più opportuna suddivisione dell’onore tra i vari settori mediante la predisposizione di Piani nazionali annuali. Nel 2005, ovvero il primo anno della cosiddetta “warm-up phase” dell’ETS (2005-2007), sono stati negoziati crediti pari a 362 milioni di tonnellate di CO2 valutati in oltre 7 miliardi di euro. Tali crediti sono stati negoziati per il 57% da broker specializzati, per il 15% tramite mercati ad hoc (il più importante è il Climate Exchange) e per il restante 28% mediante negoziazioni bilaterali. Il prezzo medio di ogni credito di inquinamento (pari a 1 tonnellata di CO2) è stato pari a 19,9 euro e si è caratterizzato per una elevata volatilità (come peraltro spesso accade in mercati non ancora maturi che scambiamo quantità relativamente modeste) . Gli elementi che sembrano contribuire maggiormente a tale volatilità riguardano aspetti regolamentari (per esempio i ritardi nell’approvazione dei piani nazionali), gli eventi climatici e il prezzo delle risorse energetiche impiegate nella produzione dell’energia elettrica. L’ETS ha coinvolto nel 2005 poco meno di 1.000 siti industriali italiani che rientrano tra gli oltre 11.500 siti interessati in tutta Europa (responsabili di circa il 45% delle emissioni di CO2). In Italia emergono ritardi e inadempienze che rischiano di far scattare le sanzioni (pari a 40 euro per tonnellata di CO2 in eccesso nel primo periodo e 100 euro per il periodo 2008-2012). Il pagamento delle sanzioni peraltro non esonererà le imprese dall’obbligo di acquisire i crediti entro l’anno successivo e sono previsti anche meccanismi di “naming and shaming”. L’ETS viene ulteriormente sviluppato dal nuovo Pacchetto della Commissione secondo il quale – a partire dal 2013 – l’assegnazione dei crediti (fino a due terzi) avverrà attraverso aste a pagamento. Si stima che in questo modo potranno ricavarsi entro il 2020 fino a 75 miliardi di euro (circa lo 0,5% del Pil europeo) che, almeno in parte, potrebbero essere investiti in iniziative a difesa dell’ambiente. Viene inoltre ulteriormente estesa rispetto a oggi la lista delle imprese per le quali verrà applicato l’ETS, includendo anche il settore dell’aviazione, la chimica, l’alluminio, le centrali elettriche (si coprirà così fino al 50% dell’intera economia europea). La Commissione è comunque conscia dei rischi che soprattutto le aziende energivore installate in Europa corrono (spostamento della produzione verso Paesi senza vincoli di inquinamento e minor costo di prodotti importati da Paesi senza tali vincoli) e ha previsto la possibilità – se non verrà raggiunto un accordo post-Kyoto – di concedere loro crediti gratuiti o di obbligare le imprese extra-europee ad acquistare dei crediti per i prodotti che vogliono immettere sul territorio europeo. Si tratta di misure che vanno incontro alle richieste degli imprenditori europei (come Eurofer, lobby europea del ferro e dell’acciaio, che ha però bocciato l’intero Pacchetto), ma che non hanno mancato di suscitare aspre critiche anche in vista della loro compatibilità con le regole del WTO. Specifica attenzione dovrà essere assegnata ai cosiddetti “windfall profits”, dovuti al fatto che le aziende riescono a scaricare sui cittadini i “costi” dei permessi di inquinamento, che oggi però in gran parte ricevono gratuitamente e che – secondo la “power company” britannica Centrica – tra il 2008 e il 2012 ammonteranno a circa 110 miliardi di euro. L’auspicio è che durante il passaggio al Parlamento e al Consiglio si introducano opportuni meccanismi di monitoraggio di tali pratiche. Corbis variabilità della domanda e a temporanee interruzioni nell’offerta. Riguardo ai settori invece esclusi dall’ETS (trasporti, rifiuti, agricoltura, climatizzazione degli edifici), il Pacchetto pone l’obiettivo della riduzione del 20% (rispetto al 1990) dei gas a effetto serra da loro originati. Ciascun Paese membro contribuirà al raggiungimento di tale obiettivo in maniera diversa nel rispetto di un principio solidaristico. Se infatti un Paese membro – come tutti i Paesi di nuova adesione - ha un Pil pro-capite piuttosto basso (e di conseguenza un tasso di crescita atteso elevato), esso contribuirà proporzionalmente di meno al raggiungimento dell’obiettivo complessivo. Per il conseguimento dei singoli obiettivi nazionali si possono anche utilizzare (fino a un terzo dell’intero sforzo di riduzione entro il 2020) i crediti ottenuti per nuovi progetti di riduzione di gas serra realizzati da imprese europee sia presso Paesi in via di sviluppo che presso altri Paesi industrializzati (meccanismi già previsti dal Protocollo di Kyoto, ma per i quali bisognerà verificare cosa accadrà per il periodo post-Kyoto) . Sarà anche in questo caso auspicabile un monitoraggio costante della Commissione sulla validità di questi crediti, per evitare di includere progetti in Paesi extra-Ue che avrebbero comunque dovuto essere realizzati (a prescindere cioè dall’obiettivo di riduzione delle emissioni), rappresentando così un escamotage per inquinare di più in casa (il cosiddetto “false positive”). Infine va segnalato il forte impegno nei confronti delle energie rinnovabili, con l’obiettivo che esse rappresentino il 20% dei consumi energetici nei settori dei trasporti, dell’elettricità e del condizionamento delle abitazioni entro il 2020 (il dato medio di partenza della Ue nel 2005 è l’8,5% e per l’Italia, in particolare, il 5,2%). Per il settore dei trasporti si stabilisce inoltre che il 10% dell’aumento debba derivare dall’utilizzo dei biocarburanti. Si tratta senza dubbio di una presa di posizione molto forte su cui però è auspicabile che Parlamento e Consiglio facciano ulteriori riflessioni, soprattutto nella parte in cui si definiscono i biocarburanti, verificando peraltro la concreta capacità del mercato di fornire nei prossimi anni, a prezzi ragionevoli, biocarburanti di seconda generazione che non utilizzano risorse destinabili all’alimentazione (anche per evitare effetti distorsivi sui prezzi dei prodotti agricoli). UNA SCELTA CORAGGIOSA Gli interventi della Commissione, seppur lacunosi in alcuni punti, possono essere definiti “coraggiosi” nella misura in cui pongono degli obiettivi che prescindono dall’esito delle negoziazioni internazionali sul dopo Kyoto. Ma proprio tale coraggio può intral- 2. La seconda cosa di cui abbiamo bisogno è ridurre l’importanza del gas nel nostro mix energetico Questo significa tornare a scommettere sul nucleare e rilanciare la ricerca nelle rinnovabili. Sebbene nessuna di queste misure possa da sola risolvere nel breve termine i nostri problemi, si tratta comunque di pezzi importanti di un unico puzzle. Le rinnovabili, in particolare, potranno rappresentare una risorsa inestimabile nel lungo termine. Pensate alle potenzialità del solare: riuscire a catturare una quota maggiore dell’energia che proviene dal sole potrebbe fornirci un’alternativa concreta all’utilizzo delle fonti fossili. Analizzando le alternative al gas, non dobbiamo dimenticarci del carbone, che è abbondante e ampiamente disponibile. Qui la sfida sarà di mettere a punto un sistema efficiente ed efficace di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica che ci consentirebbe di far affidamento sul carbone senza mettere a rischio il nostro pianeta. 3. La terza cosa da fare è risparmiare energia L’efficienza energetica è la migliore fonte “alternativa” di cui disponiamo: riduce immediatamente la domanda di energia, le importazioni, gli investimenti e le emissioni di CO2. È immediata, pulita e generalmente non costa niente. Anzi, si traduce in un vantaggio economico per il consumatore. E le sue potenzialità sono immense. Nel solo settore residenziale, secondo la Commissione Europea, potremmo risparmiare l’equivalente di 100 mld mc di gas all’anno. In altre parole, semplicemente adottando alcuni accorgimenti potremmo risparmiare un terzo delle nostre importazioni incrementali di gas da oggi al 2020. E alcuni di questi accorgimenti sono davvero di piccola portata: semplicemente spegnendo lo stand-by dei nostri apparecchi potremmo risparmiare fino a 30 TWh l’anno, l’equivalente della produzione annuale di due centrali nucleari. In definitiva, per affrontare il problema della sicurezza degli approvvigionamenti di gas dovremo fare leva su tre linee di azione: massimizzare la disponibilità di gas, sviluppare fonti energetiche alternative e 95 DOSSIER risparmiare quanta più energia possibile. Non si tratta di opzioni alternative. Abbiamo bisogno di tutte e tre le cose insieme. Ma dobbiamo sapere che anche se faremo tutto questo, resteremo comunque ancora fortemente dipendenti da un ristretto numero di fornitori di gas. L’Algeria e, in particolare la Russia, continueranno a essere i pilastri della nostra sicurezza energetica nei prossimi anni. Solo per dare un’idea della dipendenza dell’Unione Europea dal gas russo, la Russia attualmente fornisce il 100% del gas importato in Finlandia, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia, Bulgaria, Romania e Ungheria. Fornisce l’80% del gas importato in Austria, Repubblica Ceca, Polonia e Grecia, il 40% di quello importato in Germania – e la dipendenza aumenterà al 60% – e il 30% di quello importato in Italia e Francia. La situazione non cambierà nel breve termine. Anzi, la nostra dipendenza potrebbe anche aumentare. Date queste circostanze, è importante che l’Unione Europea instauri e salvaguardi rapporti di collaborazione e cooperazione con i suoi principali fornitori e, in particolare, con la Russia a cui è naturalmente legata da fattori geografici, storici e culturali, un legame reso ancora più profondo da decenni di relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose. È precisamente sulla base di questo principio di cooperazione reciproca che l’Unione Europea, i Paesi membri e le compagnie energetiche europee devono lavorare per creare forti e durature relazioni commerciali con questi Paesi. A questo scopo, i Paesi membri devono fornire ai Commissari Piebalgs e Solana gli strumenti che consentano all’Unione Europea di adottare e perseguire una vera politica estera energetica comune. Rinsaldare le basi della nostra sicurezza energetica è, infatti, una delle sfide più importanti che dobbiamo affrontare, sia individualmente che – e forse è ancora più importante – collettivamente. Per concludere, sappiamo cosa c’è da fare perché la prossima volta che avremo l’opportunità di ospitare il Congresso Mondiale dell’Energia in Europa, quelli di voi che si troveranno in hotel alimentati a gas non abbiano nulla di cui preoccuparsi. * presidente dell’Eni 96 ciare l’approvazione del Pacchetto da parte del Consiglio e del Parlamento. La discussione non mancherà certamente di essere molto accesa nella seconda parte del 2008, ovvero durante il semestre di presidenza della Francia, la quale ha già affermato di voler rivedere il proprio obiettivo (il 23% dei consumi energetici entro il 2020) per l’utilizzo delle risorse rinnovabili (critiche ancora più aspre sono state riservate al Pacchetto energia). Un altro elemento che merita grande attenzione è rappresentato dal costo del Pacchetto ambiente. Il presidente Barroso nel presentare tale Pacchetto ha affermato che il costo per persona a settimana sarà pari a 3 euro, ovvero circa 60 miliardi di euro all’anno fino al 2020. Ciò potrebbe comportare un aumento delle tariffe elettriche del 10-15% e un taglio del Pil europeo dello 0,4-0,6%. Si tratta di cifre sicuramente considerevoli ma che, nelle intenzioni della Commissione, sono modeste se comparate con il costo potenziale dell’inazione (1.500-3.000 euro pro-capite all’anno). Andranno inoltre considerati i benefici derivanti dal taglio della fattura petrolifera europea e la minore dipendenza da paesi extra-europei (la cui affidabilità nel tempo non è certamente elevata). Sarebbe però interessante inserire tali valutazioni sui costi nell’attuale dibattito relativo alla revisione delle Prospettive finanziarie dell’Unione 2007-2013. Rispetto a questi ambiziosi obiettivi europei si potrebbe infatti auspicare l’attivazione di nuove e consistenti linee di bilancio (per esempio per il finanziamento di progetti potenzialmente benefici a più Paesi europei); cosa che tuttavia appare oggi del tutto improbabile stante l’esiguità del bilancio stesso. Destinare al bilancio comunitario una parte degli introiti derivanti dall’asta dei crediti di emissione potrebbe rappresentare un valido aiuto, ma è evidente che in questo caso più che il “coraggio” della Commissione conta la volontà dei leader politici europei. Va infine rilevato che malgrado, in linea di principio, sia assolutamente apprezzabile lo sforzo compiuto dalla Commissione per perseguire unilateralmente gli obiettivi in campo ambientale, troppe incognite (che dal punto di vista economico si traducono in maggiore incertezza e, quindi, minori investimenti) permangono in merito al loro perseguimento, data la necessità di attendere l’esito delle negoziazioni sul post-Kyoto (si pensi per esempio alle deroghe all’ETS prospettate dalla Commissione per le aziende energivore in caso di fallimento dei negoziati internazionali). In questo clima di incertezza un punto comunque appare chiaro: affinchè l’Ue trasmetta fermezza nel perseguimento dei propri obiettivi per il 2020 deve rispettare appieno gli obiettivi di Kyoto già nel 2012. A questo riguardo va evidenziato che malgrado l’ETS abbia appena iniziato a funzionare, l’ingresso nella Ue dei nuovi Paesi membri (che hanno ridotto le proprie emissioni nocive rispetto al 1990 di circa il 22% in poco più di 10 anni) spinge a un moderato ottimismo. Questi ultimi Paesi potranno infatti rendere facilmente disponibili quantità significative di crediti (peraltro al momento in gran parte gratuiti) per i Paesi della vecchia Ue a 15. Nonostante dunque le tanti luci e ombre del Pacchetto ambiente, esso va accolto positivamente. Bisogna tuttavia avere piena consapevolezza che su temi strategici e delicati come l’energia e l’ambiente la mossa della Commissione dovrà essere supportata da un impegno collettivo di tutti gli Stati membri che si basi su risultati concreti e non su altisonanti dichiarazioni di intenti. Olycom Clima: un pacchetto per risalire la china di Stefania Amorosi _Con il nuovo ETS i diritti annuali di emissione saranno via via ridotti fino a raggiungere l’obiettivo di un -21% di emissioni nel 2020. Ciò significherebbe immettere nell’atmosfera 1.720 milioni in meno di tonnellate equivalenti di CO2 La Commissione Europea indica la strada per concretizzare gli impegni assunti dal Consiglio Europeo di Berlino nella primavera del 2007: un pacchetto di misure contro il cambiamento climatico e a favore del nostro Pianeta, ma anche a favore dell’economia europea e dei cittadini dell’Unione “Sono molto soddisfatto, anzi sono felice, perché oggi la Commissione Europea ha preso decisioni veramente storiche con un ampio consenso”. Con queste parole il presidente José Manuel Durão Barroso ha salutato l’adozione di un pacchetto integrato di proposte normative per l’energia e la lotta ai cambiamenti climatici. Un pacchetto che, ci tiene a sottolineare Barroso, non deve essere percepito solo come un importante strumento per la salvaguardia dell’ambiente, ma anche come un volano per lo sviluppo di un mercato energetico europeo più sicuro negli approvvigionamenti, più competitivo a livello globale e più sostenibile nel lungo periodo, con un indubbio vantaggio anche per i cittadini e i consumatori. Le misure proposte dalla Commissione (vedere anche articolo precedente) traducono in azioni concrete gli ambiziosi obiettivi condivisi lo scorso 9 marzo, a Berlino, dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione Europea. Obiettivi che possono riassumersi nella ormai nota formula “20, 20, 20 entro il 2020”, ossia: il taglio delle emissioni di gas a effetto serra nella misura del 20%, con un pari aumento dell’efficienza energetica e della quota di energie rinnovabili sul totale della produzione energetica, entro il 2020. Le misure proposte dalla Commissione saranno ora valutate dal Parlamento Europeo e dal Consiglio e se ne prevede l’adozione entro un anno. Il pacchetto include: una revisione del sistema che regola gli scambi delle quote di emissione (Emissions Trading Scheme), obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni per i settori attualmente esclusi da tale sistema, una nuova direttiva sulle energie rinnovali, una direttiva sulla cattura e lo stoccaggio geologico della CO2, nonché nuovi orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità ambientale. 97 DOSSIER UN NUOVO EMISSIONS TRADING SCHEME La proposta di revisione dell’Emissions Trading Scheme (ETS) prevede un sistema centralizzato a livello europeo per l’assegnazione delle quote di emissione: ossia dei diritti conferiti ad alcune categorie di impianti industriali – tra cui cartiere, raffinerie e fabbriche metallurgiche – di emettere, nell’ambito del proprio ciclo produttivo, un certo quantitativo di CO2. Introdotto con la Direttiva 2003/87/CE, il metodo del cap and trade attualmente in vigore (e valido fino al 2012) impone a ogni Stato membro di sottoporre a Bruxelles un Piano Nazionale di Assegnazione nel quale viene fissato il quantitativo massimo di emissioni consentito su base annuale. I gestori degli impianti interessati dall’ETS possono operare solo se muniti di autorizzazione, ma, se virtuosi, hanno la facoltà di vendere sul mercato le quote non utilizzate, creando così una vera e propria Borsa delle emissioni. A partire dal 2013, le quote saranno invece concesse a livello comunitario, secondo regole uniche valide per tutti e stabilite dalla Commissione Europea in un apposito regolamento la cui adozione è prevista entro il 2010. L’UE spera così di superare quello che si è dimostrato essere il principale limite dell’attuale sistema: la maggior parte degli Stati, fra cui l’Italia, ha infatti sovrastimato i potenziali di emissione, con il risultato che gli impianti soggetti a controllo non hanno avuto grandi difficoltà a “risparmiare” le quote loro assegnate e a riversarne un gran numero sul mercato. Il valore delle quote si è, conseguentemente, ridotto, con un inevitabile effetto negativo sugli obiettivi finali di incentivare l’impiego di tecnologie pulite e di ridurre le emissioni. Con il nuovo ETS, inoltre, i diritti annuali di emissione saranno via via ridotti fino a raggiungere l’obiettivo di un -21% di emissioni nel 2020 rispetto ai livelli del 2005. Secondo le stime della Commissione, ciò significherebbe immettere nell’atmosfera 1.720 milioni in meno di tonnellate equivalenti di CO2. Un sistema d’asta per la vendita delle quote agli impianti verrà poi creato a partire dal settore energetico, per poi essere gradualmente esteso anche agli altri settori industriali, compreso quello aereo che sempre di più è oggetto di particolare attenzione da parte della commissione per l’impatto negativo che ha sull’ambiente. Polemiche, specie tra gli ambientalisti, ha invece suscitato la decisione di continuare, per il momento, ad asseEMISSIONS TRADING SCHEME (ETS) gnare gratuitamente quote di emissione alle industrie energivore. Il commisSISTEMA OPERATIVO OGGI (DAL 2005) SISTEMA PREVISTO DAL 2013 sario europeo per l’ambiente, Stavros Quote fissate da ogni Stato membro nel proprio Quote distribuite dalla Commissione Europea Dimas, ha però ricordato che l’Europa Piano Nazionale di Assegnazione (approvato ai Paesi membri sulla base delle emissioni è l’unico attore internazionale a essersi poi dalla Commissione Europea). Quote distri- registrate nel 2005 e del PIL pro capite imposto obiettivi tanto ambiziosi e che buite dalla Commissione Europea ai Paesi membri sulla base delle emissioni registrate la finalità perseguita con l’adozione di nel 2005 e del PIL pro capite questo pacchetto è una riduzione delle emissioni di gas climalteranti a livello Attribuzione gratuita delle quote agli impianti Progressiva cessione tramite procedure d’asta Progressiva cessione tramite procedure d’asta planetario, senza pregiudicare la competitività dell’economia europea. Iscrizione dei diritti di emissione (EUAS) in un Iscrizione delle EUAS in un registro europeo e registro nazionale e loro commercializzazione a creazione di una borsa delle emissioni unica Secondo Dimas, la cessione onerosa di livello domestico. Iscrizione delle EUAS in un per tutta la UE quote alle grandi imprese avrebbe, in registro europeo e creazione di una borsa delle questo momento, l’unico risultato di emissioni unica per tutta la UE spingerle a delocalizzare la loro produ98 zione là dove non esistono particolari vincoli ambientali. Continuerebbero pertanto a inquinare l’atmosfera danneggiando, al contempo, il mercato europeo, che si vedrebbe privato di importanti produzioni e, quindi, di posti di lavoro. Il nuovo ETS verrà infine esteso ad altri due gas a effetto serra: l’ossido di azoto (N2O) derivante dalla produzione di alcuni acidi e i perfluorocarburi (PFC) dell’alluminio. Rimarranno ancora esclusi gas climalteranti quali il metano, gli idrofluorocarburi e l’esafluoro di zolfo e, quindi, interi comparti produttivi, così come gli impianti industriali che emettono meno di 10.000 tonnellate di CO2 equivalente all’anno e la cui potenza calorifica di combustione è inferiore a 20 MW. SEMPRE PIÙ ENERGIE RINNOVALI La prima novità della direttiva proposta in tema di energie rinnovabili consiste nel riunire l’intero settore sotto un unico cappello normativo, superando l’attuale divisione tra energie verdi e biocombustibili e disciplinando, per la prima volta, la produzione di calore da biomassa, la geotermia e il solare termico. Per raggiungere gli obiettivi prefissati, l’uso di energie rinnovabili nei consumi finali dovrà essere incrementato mediamente dell’11,5 percento. L’Italia, in particolare, è chiamata a passare dal 5,2% del 2005 al 17% nel 2020. Ogni Stato sarà libero di scegliere il proprio mix energetico, ma dovrà presentare un piano nazionale d’azione che consentirà di dare maggiore stabilità al mercato, nonché di verificare, per tappe intermedie, i risultati conseguiti. È anche prevista la creazione di un mercato telematico delle energie rinnovabili a livello europeo e a partecipazione volontaria. Sull’esempio dei certificati verdi, ai produttori di energia pulita verranno rilasciati dei titoli (garanzia di origine) commerciabili su tutto il territorio comunitario. Nel settore dei trasporti, la nuova direttiva impone poi un incremento del 10% del consumo di biocombustibili rispetto ai carburanti fossili. L’effetto domino scatenato sul mercato internazionale dalla produzione industriale di agroenergie ha però indotto l’UE a stabilire dei criteri minimi di sostenibilità. Innanzitutto, viene fissato al 35% il tasso minimo di miglioramento delle performance di riduzione delle emissioni rispetto a benzina e diesel. Inoltre non potranno essere qualificati come “bio” quei combustibili la cui produzione abbia cau- Corbis OBBLIGHI DI RIDUZIONE ANCHE FUORI DALL’ETS Diversamente dal passato, le misure proposte dalla Commissione imporranno anche ai settori esonerati dall’ETS – come l’edilizia, i trasporti, l’agricoltura e quello dei rifiuti – una riduzione delle emissioni pari al 10% rispetto ai valori del 2005. L’attribuzione delle quote ai singoli Paesi sarà ispirata ai principi di equità e solidarietà per tutelare le economie meno solide e tecnologicamente più arretrate, ma anche per premiare gli Stati che più si sono impegnati in politiche a favore del clima. I diritti di emissione saranno calcolati in proporzione al PIL pro capite, oscillando tra un potenziale +20% per i nuovi Stati membri e per il Portogallo e un -20% per gli altri Paesi. Per l’Italia, ciò si tradurrà in un taglio del 13% rispetto al 2005, cui andranno ad aggiungersi gli impegni assunti in ambito Kyoto di un -6,5% rispetto al 1990. 99 DOSSIER sato perdita di biodiversità o disboscamento forestale. Infine, la Commissione si è impegnata a monitorare costantemente gli effetti sociali delle proprie politiche a sostegno dei biocombustibili, specialmente in rapporto al prezzo dei cereali. CATTURARE E STOCCARE CO2 La grande novità tra le misure varate dalla Commissione è però rappresentata dalla promozione di tecnologie per la cattura e lo stoccaggio di CO2 nel sottosuolo e nei fondali marini, dove, con il tempo, il gas si autosigilla diventando roccia. L’esempio di paesi come la Cina, l’India o il Brasile ha infatti dimostrato che, nonostante gli sforzi profusi nella diversificazione energetica, le economie mondiali continueranno a basarsi essenzialmente sui carburanti fossili. Per questo, non si può prescindere dalla ricerca di soluzioni ambientalmente sostenibili per confinare la CO2 di origine industriale in appositi “pozzi” evitandone, così, la dispersione nell’atmosfera. In questo ambito, l’obiettivo della Commissione è quello di realizzare fino a 12 impianti pilota, di cui uno a Marghera, entro il 2015. Sulla base del principio di complementarietà dell’azione tra organi comunitari e nazionali (la c.d. sussidiarietà), la direttiva relativa a questo tema fissa competenze e responsabilità per lo stoccaggio della CO2. Spetterà infatti agli Stati membri individuare i siti, rilasciare – sentita la Commissione – le necessarie autorizzazioni e vigilare sul rispetto degli standard minimi di sicurezza e sulla tenuta dei registri attestanti, per ogni sito, i quantitativi di CO2 immagazzinati, nonché le caratteristiche, l’origine, il produttore e il trasportatore della stessa. La Commissione vigilerà, dal canto suo, sulla corretta applicazione della direttiva sulla base dei rapporti triennali presentati dai singoli Stati. AIUTI DI STATO “AMBIENTALI” Completano il pacchetto i nuovi orientamenti in materia di aiuti di Stato, braccio finanziario delle misure introdotte. Sempre nel rispetto della libera concorrenza, i Paesi membri potranno erogare incentivi a favore dell’efficienza energetica, dell’utilizzo di fonti rinnovabili e di tecnologie pulite e per la “cattura” e lo stoccaggio di CO2. Tali aiuti sono destinati a correggere le distorsioni del mercato e potranno coprire i sovraccosti derivanti dall’adozione di standard ambientali più elevati rispetto a quelli imposti dalla legge. UNA SCELTA SCONTATA L’attuazione di queste misure richiederà certamente grandi sforzi da parte dell’Europa e un investimento complessivo stimato in 60 miliardi di euro, ma, d’altro canto, non sembrano profilarsi reali alternative se si considera che un atteggiamento passivo nei confronti di questo fenomeno avrebbe conseguenze funeste non solo sull’ambiente e sulla salute umana, ma anche sulla competitività del sistema economico europeo. Si prevede infatti che, in caso di inazione, le attuali politiche di adattamento ai cambiamenti climatici avranno un’incidenza sul PIL dei 27 Paesi membri compresa tra i 5 e i 20 punti percentuali. Per intenderci, ogni anno il singolo cittadino europeo si troverebbe a dover pagare tra i 1.500 e i 3.000 euro, laddove l’applicazione del pacchetto costerebbe, invece, solo come tre pieni di benzina in un anno. Se questi sono i numeri, la scelta sulla strada da intraprendere appare scontata. 100 Clini: biocombustibili verso la commodity a cura di Antonio Barbangelo Il pieno sviluppo delle potenzialità dei biocombustibili richiede il superamento di limiti ambientali e sociali e la rimozione di barriere commerciali, che ostacolano lo sviluppo di un mercato globale. Va affrontato il conflitto potenziale tra produzione di biocombustibili, protezione dell’ambiente, sviluppo sostenibile e sicurezza alimentare delle popolazioni più povere. È quanto sostiene Corrado Clini, direttore generale del ministero dell’Ambiente e presidente del Global Bioenergy Partnership “La Russia non può semplicemente essere un leader energetico. Deve ritagliarsi un posto speciale anche tra i produttori di biocarburanti”. è quanto ha affermato l’11 marzo scorso il presidente russo uscente, Vladimir Putin. Su 20 milioni di ettari di terreni agricoli attualmente inattivi nella Federazione, 10 milioni dovrebbero essere utilizzati per la produzione di combustibile biologico. Un nuovo player che si prepara a giocare sul terreno delle bioenergie. E si aggiunge a Stati Uniti, Brasile, Canada, Australia e pochi altri attori veramente di rango. "Sul fatto che la Russia intenda essere uno dei grandi fornitori mondiali di biocarburanti, la dice lunga sulla prospettiva che cominciano ad avere questi prodotti nel mercato mondiale dell'energia, come combustibili che integrano i combustibli fossili", osserva Corrado Clini, direttore generale del ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, e presidente della Global Bioenergy Partnership (Gbep, vedere box a pagina 105). Tra i maggiori esperti della materia, Clini negli ultimi anni ha coordinato e presieduto vari organismi internazionali sui temi dei cambiamenti climatici e delle energie rinnovabili. Di mercato delle bioenergie si parla molto. È un tema dove non mancano gli aspetti controversi e le polemiche (danni ambientali provocati dalla deforestazione per produrre piante da olio, certificazioni di qualità, competizione tra le colture “fuel” e i terreni destinati all’alimentazione); ma è un mercato che presenta anche diversi benefici (alternativa al petrolio a costi minori, abbattimento delle emissioni nocive di anidride carbonica). Con l'aiuto del presidente della Gbep, osserviamo da vicino questo mondo composito. E cerchiamo di capire in quale direzione si sta andando. Dottor Clini, cominciamo a guardare la situazione in Italia e in Europa. Come stanno di salute i biocarburanti? Consideriamo le due tipologie: biodiesel ed etanolo. Il primo è prodotto in vari Paesi d'Europa, soprattutto in Germania, con le materie prime vegetali possibili: olio di colza o di girasole. In Italia il biodiesel ha una certa tradizione, ma la quantità prodotta è modesta. È un carburante utilizzato per i servizi pubblici, però nella Penisola non abbiamo mai visto un’effettiva promozione dal punto di vista industriale del biodiesel. Anche perché ci sono state molte difficoltà da parte dei costruttori di automobili e di autobus, per problemi imputati alla compatibilità e all'efficienza dei motori. Inoltre, la disponibilità di materia prima in Italia non è elevata. E poi – paralle101 Corbis (2) _Biodiesel ed etanolo sono a oggi le due principali tipologie di biocarburanti. Il primo è prodotto in vari Paesi europei con materie prime vegetali quali olio di colza e girasole. Il bioetanolo, invece, che non ha mercato in Italia, può essere sostitutivo della benzina fino all’85 percento lamente al periodo in cui doveva essere sperimentato il biodiesel – l’Italia ha messo in campo un’altra soluzione, chiamata Gecam (vedere il box a pag. 104), che viene utilizzata ancora oggi nei servizi pubblici. Il Gecam non è biodiesel, ma un’emulsione di acqua e gasolio, che riduce le emissioni di particolato. E il bioetanolo? Il bioetanolo è l'altro biocarburante. Può essere sostitutivo della benzina fino all'85 percento. Non ha mercato in Italia, ma questa è una situazione tendenzialmente europea. Perché in Italia e in Europa non abbiamo assistito a un decollo dei due carburanti biologici? Sul biodiesel e sul bioetanolo vanno fatte due considerazioni. La prima riguarda un dato molto evidente, legato all'esperienza di questi anni: immaginare che il biocarburante sia un prodotto che può essere generato a livello nazionale per il consumo nazionale è un errore. Perché c'è un problema di disponibilità di aree. E l'obiettivo europeo di avere entro il 2020 il 10% di biocombustibile nel portafoglio energetico richiederebbe, per esempio, che l'Italia avesse a disposizione 5 milioni di ettari da destinare a produzione di biocombustibile. Però la disponibilità e solo del 15-20 percento. Quindi in Europa c’è un primo gap tra l’obiettivo – auspicabile – di aumentare il ruolo dei biocombustibili nel portafoglio energetico e la disponibiità fisica nel territorio Diceva due considerazioni... Il secondo punto è che, necessariamente, per avere sul mercato interno europeo una quantità di bioconbustbile pari al 10% dei consumi, il biocombustibile va importato. Cioè va slegata l'ulitizzazione dei biocombustibili dalla produzione locale degli stessi. Questo è un aspetto controverso. Perché, invece, secondo l'opinione di molti – che forse non avevano fatto bene i conti – il biocombustibile doveva 102 essere inserito all'interno di quella che viene chiamata la filiera corta delle bioenergie. Cosa vuol dire filiera corta nelle bioenergie? La cosiddetta filiera corta immagina che la bioenergia debba essere consumata là dove viene prodotta. Per evitare lunghi trasporti che contribuiscono a inquinare? Una delle motivazioni è che così si evitano i trasporti lunghi. Ma questa è una motivazione ridicola. Se abbiamo un combustibile alternativo ai prodotti fossili – che è di fatto alternativo, perché ha emissioni di ossido di carbonio più basse – e poi applichiamo un criterio che non viene richiesto ai combustibili fossili... è evidente che c'è una contraddizione. Oggi sono i combustibili fossili che viaggiano sulle lunghe distanze. Non si capisce perché i biocombustibili dovrebbero avere un vincolo che non hanno i prodotti fossili. Che senso ha allora la “filosofia” della filiera corta? Questo aspetto della filiera corta nasconde molti interessi. Che sono tutt'altro che ambientali. Il primo è quello di mantenere alti i sussidi all'agricoltura, sia in Europa come negli Usa. Il ragionamento che si fa è analogo da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Quando si dice: le bioenergie vanno usate là dove vengono prodotte, si dice che il passaggio da produzioni agricole-alimentari ad agricole-energetiche mantiene intatto il sistema di sussidi oggi in vigore nell'agricoltura europea e americana. In altre parole, questa è una misura protezionistica. D'accordo. Ma intanto non abbiamo forse una serie di vantaggi? Per esempio sulle minori emissioni nocive nell'aria... Guardi che l'esperienza degli americani sulla produzione di bioetanolo dal mais – che molti vorrebbero riprendere anche in Europa – 103 DOSSIER I BIOCOMBUSTIBILI PULITI Biodiesel Il biodiesel è un biocombustibile ottenuto interamente da olio vegetale (colza, girasole o altri). Ha una viscosità simile a quella del gasolio per autotrazione. Il biodiesel puro può essere utilizzato in un motore diesel predisposto, anche se viene più comunemente utilizzato in concentrazioni inferiori. Usato come additivo al gasolio, ne migliora il potere lubrificante. Per l'utilizzo del biodiesel in un motore è necessario che gran parte delle sue componenti siano compatibili. Bioetanolo Il bioetanolo è etanolo prodotto mediante un processo di fermentazione dei prodotti agricoli ricchi di zucchero (cereali, colture zuccherine, amidacei). Può essere miscelato alle benzine fino al 20% senza modificare il motore, o anche puro nel Motore Flex. In Brasile viene utilizzato alla pompa come alternativa alla benzina. La produzione nel Paese sudamericano è di 5 miliardi di litri, copre il 20% dei consumi di carburante dei trasporti interni. Gecam Il Gecam è detto anche gasolio bianco. È un'emulsione composta per l’88% da gasolio, il 10,3% da acqua demineralizzata e l’1,7% da uno specifico mix di additivi, che ne garantisce la stabilità nel tempo. Può essere utilizzato per la trazione e il riscaldamento civile. La sua formula si basa sul concetto che l'aggiunta di acqua nei prodotti petroliferi ne migliora la combustione con una riduzione delle principali emissioni inquinanti (le polveri sottili). non è positiva. Prima di tutto dal punto di vista energetico: a parità di chilometri percorsi, il bioetanolo da mais consente di ridurre la benzina solo tra il 10-15 percento. In secondo luogo, il bioetanolo da mais richiede un considerevole uso del territorio, con forti consumi di acqua per l'irrigazione e un vasto consumo di fertilizzanti. Quindi c'è un effetto ambientale non positivo. E in terzo luogo, la produzione di bioetanolo da mais in Paesi come gli Usa mette il mais energetico in competizione con il mais alimentare. Riduce la disponiblità di mais per le produzioni alimentari e ne fa aumentare il prezzo. Come è già avvenuto, per esempio, in Messico, dove il prezzo del mais è aumentato di tre volte. Quanto accade in Usa cosa vuol dire? Che c’è una politica protezionistica messa in atto negli Usa, in vigore anche in Europa. Che è alla base della “filolsofia” della filiera corta. Quale indirizzo dovrebbe prendere il mercato? Se l’obiettivo è quello di ridurre il consumo di combustibili fossili (benzina, gas naturale, gasolio), e di ridurlo attraverso l’uso di prodotti alternativi. Che sono alternativi, intanto, perché non sono prodotti fossili; e che sono alternativi perché – come nel caso nelle bioenergie – sono in qualche misura “carbon neutral”. Se questo è l'obiettivo, la prospettiva non può che essere quella di una commodity globale dei biocombusibili. Cioè, un mercato globale dove i biombustibili sono disponibili così come oggi lo è il petrolio. Che sono generati laddove è più facile produrli. E dove, soprattutto, sono più efficienti. Come accade, per esempio, in Brasile? Ecco, prendiamo il Brasile. Dove la produzione di biocombustibile da canna da zucchero consente di ottenere un'efficienza molto alta. Se l'efficienza del bioetanolo da mais è del 10-15%, quella del bioetanolo da canna da zucchero è del 90 percento. Cioè a parità di chilometri percorsi, utilizzando un litro di bioetanolo da canna da zucchero, si può ridurre il consumo di benzina di circa il 90 percento. Una differenza enorme. Parliamo di prezzi. Quanto è competitivo il bioetanolo? L'altro tema interessante del bioetanolo brasiliano è che la canna da zucchero è competitiva con un prezzo del petrolio pari a circa 30 dollari al barile; mentre il bioetanolo da mais è competitivo con un costo del barile superiore a 85 dollari. Quindi, da tempo – non solo con con gli attuali prezzi del petrolio – il bioetanolo da canna da zucchero è altamente competitivo. Tanto che in Brasile gran parte del mercato è coperto dai biocarburanti. Si trova regolarmente il bioetanolo alla pompa dal distributore di benzina. Il Brasile si trova nella fascia tropicale. Quali sono gli altri Paesi dove è possibile produrre bioetanolo altrettanto competitivo? Certo. L'altro aspetto da considerare riguarda i luoghi di produzione, nel senso che la canna da zucchero è un tipico prodotto delle zone tropicali. Sono aree che hanno il più basso consumo procapite di energia del mondo. Questo fatto ci dice che ottenere bioetanolo nelle zone tropicali significa pensare all'esportazione. 104 Il carburante, infatti, serve solo in minima parte al consumo locale. E siccome nelle zone tropicali ci sono anche i Paesi con le economie più povere del pianeta, la possibilità di far crescere la produzione di bioetanolo – per esportazione – in questi Paesi, rappresenta anche una grande opportunità per il loro sviluppo economico. Ma questo fatto sposterebbe il baricentro della produzione di energia nel mondo... Esatto. In questo modo si avrebbe anche la possibilità di cambiare la geografia della produzione dell'energia a livello globale. Il potenziale di generazione di biocombustibile nelle zone tropicali è tale da coprire il 25% della domanda globale: è chiaro che questo diventa un fattore di competizione molto elevato. Il potenziale è del 25%. Oggi quanto lo sfruttiamo? Oggi siamo molto al di sotto: tra il 2,5 e il 3 percento. Quali sono i più importanti Paesi produttori di biocarburanti? I grandi produttori sono Brasile e Usa con il bioetanolo. Poi molto meno l'Europa, con il biodiesel. Come si muove l'Opec di fronte al mercato dei biocombustibili? L'Opec si è scagliata contro tutte le politiche che tendono a incentivare la produzione di biocombustibile. LA GBEP, PARTNERSHIP MONDIALE SULLE BIOENERGIE La Global Bionergy Partnership (Gbep) è un’iniziativa internazionale tra governi e istituzioni promossa dai Paesi G8 +5 (Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Italia, Messico, Russia, Stati Uniti d'America, Sud Africa) in occasione del vertice di Gleneagles nel 2005 per “sostenere un più ampio ed efficiente uso delle biomasse e dei biocombustibili, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, dove l’uso delle biomasse è prevalente”. Il vertice G8 di Heiligendamm del 2007 ha rinnovato il mandato alla Gbep per “continuare il suo lavoro sui biocarburanti e garantire uno sviluppo sostenibile delle bioenergie”. La Partnership è presieduta da Corrado Clini, direttore generale del ministero dell'Ambiente. E adesso anche Putin pensa ai biocarburanti... Putin è stato l'ultimo, finora, in ordine di tempo a manifestare il suo interesse. Ma non è l'unico. Ci sono grandi gruppi, come per esempio la BP, che sta investendo molto sui biocarburanti. Come anche la Shell. Ma è necessario l'abbattimento delle politiche protezionistiche americane ed europee. Vediamo che allora questi temi si legano: sviluppo dei biocombustibili, crescita economica dei Paesi più poveri, apertura dei mercati a questi prodotti. Cosa sta facendo l'Europa per arrivare al 10% entro il 2020? L’Europa potrà raggiungere l'obiettivo del 10% entro il 2020 solo aprendo il mercato alle importazioni da Paesi terzi. Oggi questo è un tema all’attenzione dell'Unione Europea. Ci sono due elementi interessanti. Prima di tutto, a livello europeo comincia essere presente – soprattutto presso le imprese energetiche del Vecchio Continente – la grande opportunità derivante dalla produzione di biocombustibili nei mercati terzi. Cioè, attori europei che investono nelle zone tropicali – a cominciare da quelle africane – per generare biocombustibili da esportare in Europa. Che troveranno un mercato molto interessante. L’altro punto? È questo: l’Ue comincia giustamente a preoccuparsi della modalità di produzione di biocombustibili. Non c’è dubbio, infatti, che ci sono molti rischi ambientali connessi alla produzione dei carburanti biologici. A parte quelli già noti negli Usa con il mais, sono presenti tutti i problemi connessi all’utilizzo di aree che vengono sottratte alla forestazione. Il rischio di deforestazione nelle zone tropicali per produrre biocombustibili è alto. 105 Ma non si può avere biocombustibile senza tagliare alberi? Certo che si può. Nelle zone tropicali il 75% del territorio è disponibile per produzioni agricole finalizzate alla generazione di biocombustibile, senza mettere a rischio il patrimonio forestale. Perché sono zone marginali, non utilizzate. È ovvio che se vengono utilizzate zone coperte dalle foresete si crea un grave danno ambientale. Come è accaduto in Indonesia, dove hanno abbattuto gran parte della foresta pluviale e piantato palme per avere olio di palma. Quindi in Europa possiamo essere abbastanza ottimisti... In parallelo alle iniziative che si stanno prendendo per abbattere le barriere commerciali, stiamo lavorando sulla definizione degli standard di produzione sostenibile di biocombustibili. Nelle zone temperate, ma soprattutto in quelle tropicali. Cosa sono i biocombustibili di seconda generazione? Entro i prossimi 15/20 anni ci aspettiamo che siano disponibili sul mercato globale i cosiddetti biocombustibili di seconda generazione. Su questi “nuovi” biocombustibili c’è oggi un grande interesse. Per esempio negli Usa, con programmi di ricerca sostenuti da fondi pubblici e con la partecipazione di grandi impese private. E comincia a manifestarsi un notevole interesse in Europa; oltreché in Brasile, dove hanno capito che si dovrà andare oltre questa fase inziale. Qual è il principio dei biocombustibili di seconda generazione? Il principio è dato dal fatto che si può ottenere biocarburante da tutte le specie vegetali che hanno cellulosa. Perciò da tutte le biomasse, utilizzando la lignina che è presente nella cellulosa. Ma anche dai rifiuti che contengono cellulosa o lignina. Significa che si possono utilizzare produzioni agricole marginali – o residui di produzioni agricole – per ottenere biocarburanti di seconda generazione. È la prospettiva sulla quale oggi si concentra la ricerca sui nuovi biocombustibili. Ed è una sfida che l'industria europea dovrebbe cogliere con attenzione. Chi si sta muovendo concretamente in Italia su questo terreno? In Italia vediamo diversi attori interessati. Tra le aziende più attive c’è la Mossi & Ghisolfi (M&G, Ndr), in provincia di Alessandria. È un’impresa chimica che opera sui mercati internazionali, che sta avviando un progetto innovativo da realizzare in Piemonte per il primo impianto su scala industriale italiano – ma credo europeo – per generare biocarburanti di seconda generazione. Vengono utilizzati prodotti agricoli locali, perché nel caso di biocombustibili di seconda generazione la filiera corta è più facile rispetto a quelli nati nella prima fase. La M&G sta lanciando il progetto con un grande investimento privato. Chi altro se ne sta occupando al di fuori dell'Italia? Le grandi compagnie internazionali stanno investendo parecchio nei combustibili di seconda generazione. Per esempio, Dupont, Bp, Shell. Ma anche in Russia e in Giappone. Siamo in una fase iniziale. Questi combustibili sono oggetto, per ora, di progetti di ricerca, che utilizzano tutte le componenti. Comprese le alghe.