UNA FONTE NON SCRITTA DEL I CANTO DEL - NyME-SEK

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UNA FONTE NON SCRITTA DEL I CANTO DEL - NyME-SEK
LUDOVICO FULCI
UNA FONTE NON SCRITTA DEL I CANTO DEL PARADISO
1. La sepoltura di Pietro Leone
Si trova nel chiostro della Basilica di San Paolo sulla via Ostiense a Roma.
Né ingombrante, né tanto discreto da passare inosservato, si nota per
l’eleganza delle forme, che dovevano apparire ancora splendide quasi nove
secoli fa. A quell’epoca Pier Leone, potente patrizio della Roma
tardomedievale, da cui trasse il cognome la stirpe dei Pierleoni e che fu
padre dell’Antipapa Anacleto II, se ne innamorò al punto di sceglierlo come
propria sepoltura.
Come può notarsi dalla fotografia qui riprodotta, il sarcofago di marmo,
in cui nel giugno del 1128 furono deposti i resti mortali del singolare
personaggio, ha resistito molto bene alle ingiurie del tempo. Non solo le
figure che vi sono scolpite hanno mantenuto abbastanza intatta la loro
fisionomia, ma anche gli alettoni del coperchio che ai quattro angoli danno
slancio all’insieme e che si direbbe rappresentino maschere teatrali, sono
stranamente, quale più quale meno, tutti abbastanza integri e tali da
suggerire un bisogno di aerea levità, come se dai quattro angoli di quel
sepolcro partissero linee volte ai quattro angoli del mondo. A testimonianza
del fatto che Petrus Leonis volesse realmente una così originale sepoltura,
c’è tuttora posto lungo il lato frontale del sarcofago un cartiglio in marmo
recante la scritta:
«TE PETRUS ET PAULUS SERVENT PETRE LEONIS
DENT ANIMAM COELO QUOS TAM DEVOTUS AMASTI
ET QUIBUS EST IDEM TUMULUS SIT GLORIA TECUM»
che, tradotta in italiano, diventa: «Veglino su di te Pietro e Paolo, o Pietro di
Leone, portino la tua anima in cielo loro che tanto devotamente amasti, e ai
quali questa sepoltura è dedicata. La gloria sia con te »1.
1 ovvero: “Veglino su di te Pietro e Paolo, o Pietro di Leone, portino la tua anima in
cielo loro che tanto devotamente amasti, e questa stessa sepoltura ad essi dedicata sia
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gloria per te”. Noi propendiamo per la prima interpretazione e riteniamo che nella
scritta lapidaria la frase di commiato, talmente usuale, nel linguaggio rituale
nell’epoca in cui Pierleoni la concepì -“sit gloria tecum”- non si evidenziasse
facendola precedere da uno “stacco”, che indicassse una pausa, come del resto
frequentemente accadeva, tendendosi nell’incisione a risparmiare l’uso di segni
inutili.
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Vale la pena ricordare come, secondo varie testimonianze, Pietro
di Leone fosse suocero del duca Ruggero II di Sicilia (Gregorovius
1940:95), al quale ultimo il già ricordato Anacleto II (che del duca
sarebbe stato dunque cognato) conferì una dignità regale che i papi
successivamente eletti al trono di Roma confermarono a quei loro
feudatari. Questo influentissimo personaggio che aveva collocato i
propri figli ai massimi gradi della vita sociale e politica, volle dunque
che quel sarcofago pitagorico lo accogliesse nell’abbraccio estremo.
Può essere che il ricchissimo Petrus Leonis – che non senza qualche
esagerato disprezzo Gregorovius definisce crasso israelita
(Gregorovius 1940:ibidem) – risalisse, secondo esigenze spirituali che
la ricchezza talvolta contribuisce ad affinare, a vedere negli elementi
pitagorici ed orfici visibili in quell’opera, un’anticipazione di motivi
filosofico-contemplativi che in varia misura si rintracciano nel
cristianesimo primitivo, nell’ebraismo e nella cultura greca. Sta di
fatto che questa «grande arca di marmo […] che è ornata di figure
rappresentanti Apollo, Marsia e le Muse» (Gregorovius 1940:ibidem)
fu la tomba di Pier Leone.
Così il sarcofago è descritto in una guida della Basilica di San
Paolo curata dai monaci benedettini: «Grandioso sarcofago detto dei
Pierleoni. Le sculture dell’epoca imperiale rappresentano: di fronte le
muse che fanno corona a un personaggio seduto; a sinistra la sfida di
Apollo e Marsia; a destra il supplizio di Marsia; nel lato posteriore tre
navi con amorini e delfini. Questo sarcofago nel sec. XII divenne
tomba di un Pietro di Leone (Pierleone) di cui si legge l’epigrafe nel
cartello al centro del coperchio» (AA. VV. 1933:110).
La nuda descrizione delle immagini che corrono sui lati del
sarcofago, quale è data dai monaci benedettini, richiama
immediatamente alla memoria il primo canto del Paradiso di Dante,
con una invocazione ad Apollo che è così riassunta nei suoi tratti
fondamentali da Umberto Bosco: «se per le altre due cantiche era
stato sufficiente l’aiuto delle Muse, d’uno dei due gioghi di Parnaso,
ora gli [a Dante n.d.a] occorre l’aiuto di ambedue, quello sacro alle
Muse e l’altro sacro allo stesso dio della poesia. Apollo deve entrare
nel petto del poeta, e respirare e cantare in lui, con quella stessa
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pienezza di canto, con la quale aveva vinto il satiro Marsia, che aveva
osato sfidarlo» (Bosco 1988: 4).
2. Dante e il mito di Marsia
Ma quali sono gli elementi che inducono a ritenere che il sarcofago
Pierleoni costituisse per Dante uno stimolo per l’invocazione ad
Apollo che troviamo nel canto proemiale del Paradiso?
A questo proposito osserviamo che i commentatori sono
generalmente concordi nel sostenere che Dante conoscesse il mito di
Marsia attraverso la lettura delle Metamorfosi di Ovidio, che nel VI
libro narra la vicenda della sfida del fauno al dio2. In realtà «è assai
evidente la profonda differenza tra la rievocazione dantesca del mito
e la narrazione ovidiana, dove lo scorticamento del satiro è descritto
Dante conobbe e apprezzò la poesia di Ovidio. Ne fa fede il fatto che lo collocasse
con Omero, Virgilio, Orazio e Lucano tra i sommi poeti dell’antichità (cfr. Inf. IV, 90).
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con minuzie di particolari per lo più macabri e disgustosi» (Alighieri
1988:11). Ora osserviamo che il sarcofago di Pierleoni, e la scritta da
questi voluta quasi a commento della scelta di una tanto singolare
sepoltura, suggeriscono collegamenti e interpretazioni del mito assai
più vicini alla sensibilità di Dante. In essa si allude, come abbiamo
visto, alla gloria di Dio, all’anima che, separatasi dal corpo, si affida
alle cure dei santi, cose di cui Dante tenne certamente conto nel
prepararsi a quel “trasumanar” che non può spiegarsi a parole. Si
consideri anche come, nel contesto del canto proemiale del Paradiso,
proprio all’inizio dell’invocazione ad Apollo, la metafora “fammi del
tuo valor sì fatto vaso” «è suggerita dagli Atti degli Apostoli, 9,15, dove
San Paolo, protagonista a sua volta di un viaggio soprannaturale, è
detto vas electionis, “contenitore di ogni perfezione”: e con questo
appellativo è citato in Inferno II, 28» (Alighieri, Paradiso 1993:4) dove il
duplice riferimento a San Paolo e a Marsia sembra rimandare al
sarcofago Pierleoni, sia per la collocazione di questo nella basilica
dedicata alla memoria dell’Apostolo, sia per l’iscrizione pierleoniana
che a San Paolo fa riferimento, sia infine per il “vaso”, che è la tomba
nel quale lo spirito del “perfetto” (cristianamente del “beato”)
comunica la spiritualità che in vita aveva animato chi alla perfezione
morale aveva coraggiosamente guardato3. Inoltre è Dante che,
nell’epistola a Can Grande della Scala, ricorda, proprio riferendosi al
passo della Commedia di cui ragioniamo, un famoso passaggio della
lettera ai Corinzi di San Paolo: «Scio hominem, sive in corpore sive
extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium celum, et vidi
arcana Dei, que non licet homini loqui»4.(Epistola XIII, 79).
Tralasciamo la questione ben più dura e impegnativa sia per Dante
che per noi, circa l’ineffabile, per cui all’uomo non è lecito trattare
3
Nel commento all’ Inferno di Bianca Garavelli, leggiamo che «l’appellativo di vas
electionis si incontra negli Atti degli Apostoli, 9, 15 e significa “recipiente o strumento
della scelta”, naturalmente divina» (Alighieri Inferno 1993:22). Che dunque “Vas” si
proponga come termine neutro equidistante dal vaso propriamente detto e dalla
nave mandata in missione ci pare confermato.
4 Io so che, uomo, o col corpo o senza corpo lo sa Dio, fui rapito fino al terzo cielo e
vidi arcani divini di cui all’uomo non è consentito parlare.
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certi argomenti e attiriamo l’attenzione sul punto del «sive in corpore,
sive extra corpus», dove l’Apostolo sostiene che solo Dio sa se alla
visione che egli aveva avuto rapito nel terzo cielo, fosse stato
chiamato con il corpo o senza il corpo. È evidente che qui si adombra
la questione del rapporto anima-corpo, in modo assai vicino a quello
usato dall’artista che figurativamente allude alla materialità e alla
spiritualità, che nel sarcofago sono la pelle e il corpo, la persona e il
carattere costitutivo di essa, cioè, in termini più rigorosamente
filosofici, apparenza ed essenza. Ci pare importante osservare che
tutto questo in Ovidio manca, cioè manca assolutamente nel passo
che riguarda il mito di Marsia, mentre è chiarissimamente presente
nel sarcofago Pierleoni.
Per noi il cartiglio che campeggia sul sarcofago e i motivi
decorativi che si svolgono lungo i quattro lati hanno un riscontro nel
testo dantesco. Ci pare anzi che, proprio per queste ragioni il
sarcofago Pierleoni si proponga a maggior titolo di altre opere
scultoree quale fonte del canto proemiale del Paradiso. Confrontato
infatti col gruppo che si conserva al Louvre o con l’altro degli Uffizi
di Firenze, o ancora al forse più celebre Marsia appeso dei Musei
Capitolini, quello raffigurato nel sarcofago Pierleoni appare collocato
in uno scenario particolarmente ricco di simboli. Tra questi non
ultimo c’è un agnello, che è ben evidenziato nella figura che per noi
ha realizzato Augusto Balossino.
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Nel disegno di Balossino le immagini poste sul lato destro del
sarcofago sono state restituite nella loro interezza sulla base di una
lettura filologica che l’artista ha dato del bassorilievo, la cui superficie
abrasa in vari punti è qua e là mutila. L’agnello ci pare veramente un
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elemento tutt’altro che trascurabile e aiuta a meglio comprendere
l’utilizzo che del personaggio Marsia intende fare Dante.
A noi pare credibilissimo che il poeta rimanesse colpito dalla
bellezza dell’opera, che la “leggesse” in una chiave allegorica, forse
ripercorrendo gli stessi passi che avevano portato Pierleoni alla scelta
di un sepolcro così singolare. Certamente l’interpretazione dei rilievi
che ornano il sarcofago non è del tutto coerente all’intento che guidò
la mano dell’artefice di quell’opera, ad essa sovrapponendosi, per via
dell’iscrizione sul cartiglio, una tradizione paolina che ci pare deformi
alquanto la verità storica. Tuttavia le decorazioni della tomba di
Pierleoni sono “interpretate” da Dante secondo un approccio che in
senso ampio può dirsi filologico. In questo senso un ruolo non
secondario ci pare abbia assunto agli occhi del poeta il cartiglio di
marmo che certo della tradizione paolina aveva tenuto conto.
Insomma il dato della collocazione storica poco preoccupa Dante, che
delle ricostruzioni dei fatti remoti non ha il tipico gusto dei moderni.
Tuttavia l’attenzione ai significati dei simboli e soprattutto un utilizzo
che di essi sia legittimo ci sembrano due tratti non secondari di una
“lettura” che sia vera e propria ricognizione che lo scrittore compie
sul sistema dei simboli impiegati dall’artista nel raffigurare le scene
che si trovano sulle pareti del sarcofago. Nel che si realizza poi quella
modestia, che, come osservano i commentatori più attenti del luogo
dantesco che stiamo esaminando, è obiettivo, se non primario,
comunque scoperto e immediatamente individuabile del poeta, il
quale si impegna a non incorrere nell’errore di Marsia, che, superbo
del proprio valore, ardisce sfidare il dio della poesia. Modestia, che
peraltro si ridimensiona, almeno sul piano dei riferimenti al mondo
umano e a quelle che sono le ragioni del secolo, allorquando si
consideri che lo scrittore entra idealmente in competizione con lo
scultore ponendo implicitamente il problema serissimo del rapporto
della poesia con le arti figurative. È la poesia come la pittura e vale il
motto classico uti pictura poesis (dove il pictor è, stando all’origine
della parola, chi incide) o la poesia è arte che tutte le altre supera e
sintetizza, come pure l’autore del sarcofago sembra sostenere?
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Sul piano della storia sociale e politica della Firenze del Due e
Trecento questo fatto non è per nulla da sottovalutare. La cerchia
stessa degli scrittori a cui il giovane Dante aveva guardato nel
compiere i suoi primi passi aveva un carattere esclusivo,
rivendicando per sé quel ruolo di “aristocrazia intellettuale” che fino
all’età dell’Umanesimo i letterati contendono ai maestri d’arte, anche
quando operino con loro e stabiliscano, a livello personale, rapporti
di amicizia e di stima come sembra accadesse tra Dante e Giotto.
3. Dante e il tempio all’apostolo Paolo
Da quanto fin qui detto risulta plausibile, ma non certo, che Dante
abbia visto il sarcofago del quale stiamo ragionando. Può infatti
ritenersi che la corrispondenza, pur così evidente, fra le immagini che
corrono lungo le pareti del sarcofago e la dantesca invocazione ad
Apollo siano casuali. Tuttavia noi sappiamo che Dante fu a Roma,
probabilmente nel 1300, il primo anno santo della storia della
Cristianità, ovvero l’anno successivo5 quando ancora erano vivi gli
echi del grande pellegrinaggio, che già allora includeva la visita della
basilica di San Paolo tra le mete utili ad ottenere l’indulgenza dei
peccati. Sappiamo infatti che «fin dal primo Anno Santo del 1300 fu
inserita nell’itinerario giubilare per l’ottenimento delle indulgenze ed
è una delle basiliche dove nell’occasione si celebra l’apertura della
Porta Santa». (Cerioni – Del Signore 1991:5) Per quanto Dante fosse
critico nei confronti dell’allora pontefice romano, Bonifacio VIII, ciò
nulla toglie alla sua devozione e soprattutto all’importanza che nella
sua formazione spirituale e intellettuale ebbe la tradizione paolina, di
cui esistono segni evidenti così nel Monarchia che nella Commedia, testi
in base ai quali si può notare l’importanza che nella vicenda culturale
di Dante hanno soprattutto le Epistole di San Paolo. E’ un fatto che in
5
. Che Dante visitasse Roma non ci sono dubbi. Qualche disaccordo tra i biografi del
poeta riguarda la data del suo viaggio a Roma che alcuni collocano nel 1300, anno del
primo giubileo della storia della cristianità, evento a cui Dante fa riferimento; altri
all’anno successivo. Noi non abbiamo ragione per difendere l’una o l’altra delle due
tesi. Ci basta sapere che Dante fu realmente a Roma.
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tutti i passi danteschi in cui si fa menzione dell’apostolo Paolo è stato
da sempre rilevato un profondo, compunto rispetto per il
personaggio al quale sembra che Dante rivolgesse una particolare
devozione.
Nel Trecento il tempio eretto a memoria dell’Apostolo era una
meta quasi obbligata per chiunque visitasse Roma, anche per le opere
d’arte che raccoglieva, e ciò basterebbe a ritenere che Dante vi si
recasse nel suo soggiorno romano. Noi tuttavia vogliamo dare tutta
una serie di ragioni, che aggiungendosi a quella di una personale
devozione che, a quanto pare Dante aveva per l’Apostolo Paolo,
gentium predicator - come lui stesso lo chiama (Epistola XI Cardinalibus
Ytalicis, 3) –, autorizzano a pensare che lo scrittore abbia conosciuto
quel luogo.
Cominciamo col dire qualcosa di più preciso circa alcune opere
d’arte, conservate nella basilica romana e che potevano
legittimamente richiamare l’attenzione del poeta e spingerlo a visitare
San Paolo con un intento che andasse al di là del semplice atto di
religiosa pietà. Ricordiamo innanzitutto l’ancora recente ciborio
innalzato, come avverte una scritta nel timpano, da Arnolfo di
Cambio6 nel 1285 e che certo costituiva per Dante un’attrattiva, data
la notorietà dell’artista negli ambienti fiorentini. Recente era anche il
chiostro, «i cui lavori, dopo un’interruzione di dieci anni, furono
ripresi e portati a compimento nel 1240» ( Pericoli-Ridolfini 1994:5). Si
tratta di un luogo così ricco di memorie romane che è impossibile non
immaginare un Dante che vi si aggira ammirato, guardando,
notando, leggendo e interrogando simboli, figure, allegorie e scritte
che si trovano tuttora lungo il muro perimetrale che cinge l’area di
quel chiostro dove è oggi situato il sarcofago Pierleoni. Erano infatti
trascorsi circa sessant’anni da che quell’area aveva assunto l’assetto,
che nelle vicissitudini dei tempi (crolli, incendi, guasti inevitabili) e
fra i molti mutamenti conosciuti dall’intero complesso architettonico,
essa ha tuttavia tendenzialmente conservato, preservata da particolari
L’opera fu commissionata dall’abate Bartolomeo che «resse il monastero tra il 1282 e
il 1297» (A. M. Cerioni – R. De Signore 1991:42).
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danni, di cui ha invece sofferto soprattutto l’area interna dell’intero
edificio.
Tuttavia, se la devozione al santo a cui è intitolata la basilica, gli
interessi culturali e artistici inducono a pensare che Dante varcasse la
soglia della chiesa eretta sul luogo in cui secondo la tradizione si
sarebbe trovato il sepolcro di Paolo Apostolo, che ne è di tutto il
complesso monumentale della basilica? Può mai essere che, di tutto
quel che in essa vide, soltanto una suppellettile attirasse la sua
attenzione? A fugare ogni dubbio a riguardo soccorre un altro passo
della Commedia, sul quale ha attirato l’attenzione uno studioso attento
e documentato come Giovanni Fallani nel suo Dante e la cultura
figurativa medievale. Ci riferiamo ai versi 82-87 del XXIX canto del
Purgatorio: Sotto così bel ciel com’io diviso,/ ventiquattro seniori. a
due a due,/ coronati venien di fiordaliso./ Tutti cantavan: “Benedicta
tue/ ne le figlie d’Adamo, e benedette/sieno in etterno le bellezze
tue!” Come nota Fallani, «l’apparizione dei ventiquattro seniori, con
le corone, esattamente come nella visione dantesca è nell’antico
mosaico, tuttora visibile, della Basilica romana di San Paolo sulla via
Ostiense » (Fallani 1976:99)
Se si dà uno sguardo alla fotografia qui accanto riprodotta, si vede
che i seniori sono, tanto nel passo dantesco quanto nel mosaico posto
al di sopra dell’abside della basilica, esattamente ventiquattro e
nell’atto di procedere a due a due, cantando. È vero che si tratta di
un’iconografia ricorrente e la cui fonte si trova nella Bibbia, ma è vero
pure che la corrispondenza tra la rappresentazione musiva e il testo
dantesco è tanto puntuale da far sospettare che Dante effettivamente
visitasse la Basilica di San Paolo nel suo soggiorno romano. Il fatto
che anche nel mosaico i seniori rechino corone quasi certamente di
fiori è un dettaglio per noi significativo. A questo punto dunque sono
due i passi della Commedia che concorrono ad avvisarci della
plausibilità del fatto e ciascuno dei due, come in questi casi avviene,
comprova quel che dall’altro è lecito supporre. Sicché, come Dante
vide il mosaico, vide pure il sarcofago.
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Può essere che il sarcofago Pierleoni, che nel contesto della nostra
ricerca è il “pezzo” più interessante, fosse già stato trasferito all’epoca
del soggiorno di Dante nella città eterna dall’interno della chiesa al
chiostro, che per le memorie romane che contiene, pareva forse più
adatto dello spazio interno consacrato al culto delle cerimonie
religiose, ad accogliere un’opera d’arte pagana sia pure utilizzata
come tomba cristiana. Da quanto ci è stato riferito i sarcofaghi
presenti nel chiostro si distinguono in pagani e cristiani a seconda
delle scene che vi sono raffigurate. Mentre quelli pagani si trovavano
nell’area dell’antico sepolcreto fin da epoca anteriore all’edificazione
della Basilica, quelli cristiani, di più recente fattura, furono
commissionati successivamente e disposti in un’area a parte del
chiostro. Che almeno fin dal momento della morte di Pierleoni il
sarcofago fosse collocato nella basilica intitolata alla memoria di
Paolo Apostolo ce lo fa ritenere una naturale destinazione a quel
luogo implicita nella scritta sul cartiglio marmoreo, inserita
evidentemente per volontà di Pierleoni, che, come abbiamo visto, ai
santi Pietro e Paolo affida la propria anima.
Gli elementi che abbiamo fornito ci sembrano perciò sufficienti a
concludere che il sarcofago Pierleoni possa essere senz’altro indicato
quale fonte non scritta del I canto del Paradiso dantesco.
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Pericoli Ridolfini 1994
C. Pericoli Ridolfini San Paolo fuori le Mura.
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Per quanto riguarda i passi delle opere di Dante riprodotti, si è
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Dante Alighieri Le opere, testo critico della società dantesca italiana a
cura di M. Barbi, E. G. Parodi, F. Pellegrini, E. Pistelli, P. Rajna, E.
Rostagno, G. Randelli, Firenze 1921.
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