来安 - Giancarlo Niccolai

Transcript

来安 - Giancarlo Niccolai
来安
Rai’an
Pace futura
Giancarlo Niccolai
© 2014 di Giancarlo Niccolai. Tutti i diritti riservati.
ISBN: 978-1-326-00061-5
È autorizzata la riproduzione di brevi estratti, lunghi al massimo
tre pagine del testo originale.
Sito web dell’autore: http://www.niccolai.cc
Quarta ristampa
Ringraziamenti
Un sentito ringraziamento al Prof. Corrado Molteni che mi ha insegnato
le basi della lingua Giapponese e l’amore per la cultura orientale.
Uno speciale ringraziamento anche al Prof. Fabio Rambelli, che ha
esaurientemente risposto ai miei dubbi sullo sviluppo delle religioni in
Giappone nell’epoca Hei’an, mi ha indirizzato verso le fonti più aggiornate
e mi ha indicato le ricerche più avanzate nel campo. E lo ringrazio anche
per il lavoro profuso nelle ricerche di frontiera che ha compiuto, e che
hanno permesso ad altri di penetrare questa area di studio affascinante
quanto ancora inesplorata.
Ringrazio Kurt Bell, escursionista che vive in Giappone, che avventu­
randosi in luoghi difficilmente raggiungibili, come santuari abbandonati,
villaggi isolati, dense foreste e montagne impervie, ha ispirato vari scenari
che compaiono in questo libro.
Ringrazio il mio amico Kiyoshi Kohara, che con i suoi racconti di vita
quotidiana dal Giappone, non edulcorati dai filtri naturalmente sovrim­
pressi ai prodotti della cultura di massa, mi ha consentito di comprendere
la realtà concreta della mentalità Giapponese.
Un ringraziamento speciale va ad Enrico Bo e Giovanni “Juhan” Pon­
zio, che mi hanno aiutato a revisionare la versione definitiva del testo. Un
lavoro certosino e impagabile, grazie al quale il libro che avete fra le mani
è molto migliore di come sarebbe stato senza il loro contributo.
Note
I nomi giapponesi sono resi con il sistema di traslitterazione Hepburn
tradizionale. In pratica, vanno letti come trascritti, con le seguenti ecce­
zioni:
• La g è sempre dura; quindi, i gruppi gi e ge si leggono come ghi e
ghe. La g dolce è resa con la lettera j (quindi ja si legge già e je si
legge ge).
• Il suono italiano della c dolce è reso col gruppo ch (quindi chi si
legge ci, che si legge ce, e cha si legge cià).
• Il dittongo ou si legge come una o lunga. Ad esempio, Toudai si
legge Toodai. I nomi scritti con una doppia o, come Oo­mono, si
leggono pronunciando due o ben scandite.
Le lettere fra parentesi accanto ai titoli dei paragrafi sono l’iniziale del
personaggio narrante.
Parte prima
Wakakusa
Caduto dal cielo (R)
Sono morto. Almeno credo.
Buio. Freddo. Se esiste il nulla, deve essere questo.
Qualcosa è andato storto. Cosa? – non lo so. E non importa.
Eppure, penso. Non sento nulla, ma penso. Si può essere morti così?
E se fosse questa l’eternità?
Un’onda di terrore. Sempre così. Io nel vuoto. È atroce.
D’improvviso una linea di luce squarcia l’oscurità. Un orizzonte, un
lampo sottile.
Il lampo si allarga. Era bianco, ma ora diventa azzurro.
Azzurro. Cosa può mai essere?
Ricordo una cosa grande, azzurra. L’ho vista, qualche volta. È … un
cielo?
Ah, se sono morto, questo dev’essere il paradiso. Almeno credo.
Freddo e azzurro. E che paradiso sarebbe? – tanto valeva fosse freddo e
nero.
Un’ombra di pensiero estende il mio io. C’è qualcosa attaccato a questo
pensiero. Un sordo, flebile pulsare che ha una forma. Uno e cinque; mi
protendo. Mi rendo conto che ho un corpo; sottile, forse uno spettro, ma è
meglio che essere solo un pensiero.
Assieme con questo pulsare, arriva qualcosa. Che cos’è? – è qualcosa
che si allarga come un onda. Suono. Io sento. È un fruscio. Il vento. Qual­
che volta l’ho sentito, qualche volta soltanto, quando avevo visto il cielo…
è il suono degli alberi. Giunge cupo, e aumenta col pulsare del mio corpo.
Dolore. Ecco che cos’è questo pulsare. Allora sono vivo. Almeno credo.
1
È il corpo che mi fa male. Sono sdraiato, e sto guardando il cielo. La
mia coscienza si desta dal torpore, odo, vedo, sento; l’aria entra pesante nei
miei polmoni. Cerco di muovermi. Mi accorgo che qualcosa cambia nella sensazione
che rappresenta in me i miei arti; forse li sto muovendo, ma è chiaro che il
mio corpo ancora non mi appartiene.
Lotto ancora; ma giunge un nuovo suono. Ritmico. Legno che batte
sulla terra. Il ritmo è familiare. Sono passi. Prima svelti, poi, mentre si
avvicinano, rallentano… poi si fermano. Appare una figura sul cielo che
vedo. Cerco di muovere gli occhi verso di lei; qualcosa cambia, devo
esserci riuscito.
Il volto è chiaro. Indossa una veste grande, bianca e rossa. I capelli; lun­
ghi, neri, sottili, una nube scura agitata dal vento. Muove elegante una
mano a scostarli. È una giovane donna. Gli occhi sono diversi, sottili.
Anche il naso. Perché questo dovrebbe essere importante? – perché
dovrebbe avere un significato speciale per me? – cerco di ricordare… dove
sono? – dove dovrei essere?
Leggo la sorpresa sul suo volto. Sorpresa, timore e compassione. Deve
aver compreso che sto male. La vita che credevo essere perduta, e che ho
appena ritrovato, mi grida che l’unica speranza è chiamarla. Con tutta la vita che ho, provo a parlare. Quanto è difficile! È come se
non lo avessi mai fatto. La mia bocca si apre, ed esce fiato; uscendo,
emette un suono, ma non è una parola. È un verso che non conosco. Sono
terrorizzato. La mia vita dipende da quella donna. Devo chiamarla, ma
continua ad uscire un verso, e non una parola. Sollevo un braccio. Quanto
è pesante. Tendo la mano verso di lei. Ci provo con tutto me stesso. Se non
ci riuscissi, cadrei in quell’abisso da cui solo lei può salvarmi. La chiamo
ancora. “Aaaaahhh”. La donna si gira, e inizia a correre. No! – No!!! – non lasciarmi qui.
“Aaaaaaagggghh”. Ma assieme al suono dei suoi passi sento una voce. –Kannushi! Kannushi­sama!–
Mentre la mia mente riprende a funzionare, e comprendo che quello è
un grido di aiuto. Non so cosa vuol dire, ma so che la donna sta cercando
aiuto. La sua voce continua a chiamare.
Il mio braccio cade pesantemente. Ho ancora paura, ma ora rimango
sull’abisso aggrappato ad un filo di speranza.
Molti legni che battono per terra. Molti passi che corrono. Stanno
venendo da me. Il filo diventa una fune. Se potessi, sorriderei.
2
Nel cielo si stagliano figure d’uomini con un alto copricapo e di donne
dai lunghi capelli fluenti. Sono orientali. Perché questa cosa è così impor­
tante per me? Dicono parole che non comprendo. Si chinano su di me. Scambiano
qualche secca parola e mi sollevano; ma il mio corpo non sopporta il
dolore, un lampo rosso mi copre la vista e il mondo si fa oscuro.
Lo straniero dai capelli d’oro (K)
Dorme ancora. Sospiro. Avvicino la mano per toccargli la fronte, ma mi fermo prima di
sfiorarlo. Mi sarà permesso?
Ripenso ai suoi occhi, alla sua mano tesa verso di me, alla paura sul suo
volto. Se è un Kamii, mi perdonerà. Se è un uomo, non c’è nessun peccato.
Se è un Oni… preoccuparsi non serve.
Gli scosto i capelli. La fronte non è calda; anzi, mi pare un po’ troppo
fredda. Prendo un’altra coperta. Chi sei, straniero? Non ho mai visto un uomo dai capelli d’oro; ne ho
solo sentito parlare nei racconti delle terre a occidente, al di là della Cina e
dell’India. E i tuoi occhi… è un colore assurdo. Azzurri e trasparenti come
il cielo. Il tuo volto è duro come la pietra dove ti abbiamo trovato. Le linee
del tuo viso sono forti, improvvise; non certo dolci. Perché mi sembri così
bello? – E anche le tue vesti sono così strane… Chi sei? –Kaori?– mi chiama il kannushi; mi giro di scatto per la sorpresa.
–Rokugane­sama?–
–Si è svegliato?–
–Non ancora…–
–Bene. Per precauzione, ho teso una corda sacra attorno a questa
stanza.–
Già da un po’ sentivo le voci dei sacerdoti e delle altre miko intonare i
norito della protezione. –Non percepisco alcuna aura malvagia attorno a lui, Kannushi­sama.–
–Nemmeno io. Ma abbiamo visto tutti l’impronta del suo corpo nella
roccia. Non è certo un uomo comune.–
Già. Sospiro. Quando l’ho visto, i suoi occhi del color del cielo erano
velati di dolore; il suo corpo era poggiato sul terreno, fra le pietre. La terra
su cui era sdraiato aveva impressa la sagoma del suo corpo, così come le
rocce che gli facevano da cuscino. Quasi come se fosse caduto dall’alto e,
colpendo forte la terra, vi avesse impresso un’orma. I suoi capelli, i suoi
occhi, sono la cosa meno strana di questo straniero.
3
–Quando si sveglia, chiamami.–
–Sì, Rokugane­sama.–
Il kannushi si allontana. Sospiro, guardo il suo volto, e attendo.
Il sole (R)
Apro gli occhi.
Ho una coperta addosso. Sopra di me non il cielo, ma un soffitto di pan­
nelli di legno. Ricordo le voci, i passi, i cappelli… e nient’altro. Cosa ci
faccio qui? – è importante, lo so, ma non me lo ricordo. Capisco di essere
sdraiato sul pavimento.
Un fruscio di stoffe a trame sottili, al mio fianco, attira il mio sguardo. È
la donna che mi ha trovato e che ha chiamato aiuto; e inginocchiata
accanto a me. Ha l’aria stanca – che mi abbia vegliato? – ma il suo volto si
illumina d’un sorriso profondo appena i suoi occhi incrociano i miei; le sue
gote si rilassano, come chi abbia appena appoggiato a terra un peso inso­
stenibile. Mi dice qualcosa. Non capisco; e non capisco nemmeno perché, ma mi
rendo conto che, invece, dovrei.
Ripete le stesse parole, scandendole piano. Scuoto la testa, cerco di farle
capire che non capisco. Provo ad alzarmi, ma le sue mani si posano deli­
cate, ma ferme sulle mie spalle, tenendomi giù. Del resto, il movimento mi
fa girare la testa; meglio restare sdraiati.
Chiudo gli occhi. D’improvviso, un triangolo rosso si proietta sulle mie
palpebre; anzi no, so di vederlo pur non attraverso gli occhi. Una voce mi
parla nella testa: –Riavvio modulo di emergenza.–
Spalanco gli occhi. Il mio cervello è percorso da luci e ricordi, si sveglia
contro la mia volontà, e con lui, la mente riassume unità. La missione;
ancora non ricordo bene, ma è importante. I miei impianti; i miei apparati
artificiali… appena li ricordo, il programma di emergenza è completo, ed
ho un minimo controllo su di me.
Vedo un indicatore con dei livelli; chiudo gli occhi, l’indicatore resta. Si
apre un altro pannello: rapporto danni. I livelli sono quelli di energia. Tutti
a zero, rimane solo l’energia di emergenza generata direttamente attraverso
il mio metabolismo corporeo. Le macchine stanno mangiando il mio
corpo.
Sudore freddo. Sono molto più vicino alla morte di quanto immaginassi.
Il solo pensiero apre un pannello con una stima del tempo che mi rimane:
cinque ore e… il resto non lo leggo.
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Guardo la donna. Deve aver visto la paura nei miei occhi, perché la sua
voce prima dolce si fa allarmata. Devo trovare il modo di parlarle. Sì so
che c’è un modo; fa parte della mia missione, quindi deve esserci un
modo… al pensiero, i miei impianti rispondono: –Modulo linguistico, atti­
vazione.–
Sgrano gli occhi. Lampi di luce, suoni, pensieri, il mio cervello cambia
molto, molto velocemente. Mentre accade questo, ricordo che è già suc­
cesso, già conoscevo la lingua, ma lo shock che ho subito deve aver can­
cellato quella conoscenza. Il programma è breve; forse ha fatto solo qual­
che riparazione. Guardo la donna, ora è quasi terrorizzata.
–Il sole…–
Quelle parole improvvise hanno l’effetto di sorprenderla e calmarla
insieme. –Eh!?–
–Ti prego… devo vedere il sole.–
–Ma…–
Mi alzo seduto sulla stuoia troppo in fretta per permetterle di fermarmi e
le afferro un avambraccio. Il mio sguardo è fermo e grave, abbastanza per
convincerla.
Il Kamii che mangia il sole (K)
Lo straniero mi stringe il polso. Mi fa male, ma la paura nei suoi occhi
rimane. Deve essere molto importante, e non ho motivo per rifiutare.
Lo aiuto ad alzarsi; deve avere ancora dolore, perché si appoggia a me.
È pesante. E alto. Più alto di qualsiasi uomo abbia mai visto; eppure si
appoggia a me. Il contatto mi turba, ma è un attimo; la paura sul suo volto
si insinua in me, non ho tempo per essere turbata.
Cerco di cingergli la schiena, ma è tanto larga che non ci riesco. Ci
rinuncio, lo aiuto a bilanciarsi prendendolo per le vesti. Che strana stoffa,
non ho mai sentito niente di simile. Non è lino, non è lana, e non è certo
seta. È sottile e robusta, morbida e rigida.
Ad ogni suo passo sento i suoi muscoli tendersi sotto la mia mano. Ho
conosciuto il corpo di molti uomini, ma la sua carne è dura come mai
avevo sentito. Alcuni passi e siamo alla porta. Faccio scorrere il pannello. Il sole, dritto
davanti a noi, ci abbaglia; facciamo ancora un passo sul corridoio del tem­
pio; la corda sacra di cui parlava il kannushi è tesa fra le colonne attorno
alla stanza. Lo stridio del pannello fa trasalire Nami e Rika, due miko
intente a purificare gli spiriti e rinforzare la corda sacra.
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Ma lo straniero sembra ignorare sia loro, che la corda, che la barriera.
Non so perché, ma me l’aspettavo.
–Allontanati.– mi dice, secco, ma in tono gentile.
–… Sì.– rispondo, e indietreggio di un passo.
–Ancora un po’, per favore.–
Indietreggio ancora di qualche passo. D’improvviso, ho paura che
voglia invocare qualche spirito, o usare qualche magia oscura, ma non c’è
malvagità nel suo sorriso; non posso credere che il suo sguardo gentile
menta.
Poi si gira a guardare il sole, e allarga le braccia.
Attorno al suo corpo, si forma un filo di luce iridescente. Improvvisa­
mente, sento freddo. Muovo un passo indietro, spaventata; il freddo mi
raggiunge ancora; e la luce del sole si fa fioca, come se stesse passando
una nuvola, ma il cielo è sgombro. Adesso ho davvero paura. E anche le
due giovani miko; corrono via spaventate, verso la sala centrale.
Il volto dello straniero è sereno, ma la luce del sole si fa sempre più
tenue, ed il mio fiato inizia a essere bianco come in inverno. Sono paraliz­
zata dal terrore… eppure, ancora non percepisco alcuna malvagità. Lo stra­
niero si gira verso di me e mi sorride.
–Scusa se ti ho spaventata; ho bisogno di un po’ di sole per guarire.–
Non so perché, ma nel mio cuore scende una pace innaturale. Sono
ancora paralizzata, ma non è più terrore quello che provo. Gli occhi di
cielo dello straniero mi inchiodano; vorrei arrossire, ma non riesco a girare
il volto. Istintivamente, mi porto le mani alla bocca e soffio per scaldare le
dita gelide; lo straniero si gira di nuovo verso il sole, ma io non riesco a
distogliere lo sguardo, che resta fisso sul suo sorriso.
L’urlo di Rokugane­sama mi fa trasalire.
–Che sta succedendo?–
–Non c’è nessuna malvagità in questo!– grido verso di lui. Anche lui,
certamente, sarà spaventato, ma anche lui, altrettanto certamente, vede
quello che vedo io. E la corda è intatta; uno spirito malvagio non potrebbe
attraversarla; non senza distruggerla. Quella strana magia, che ignora i
sigilli del santuario e le barriere che abbiamo eretto, per quanto spaven­
tosa, non può essere malvagia.
Lo straniero apre gli occhi e parla.
–Chiedo perdono. La mia vita era in pericolo, non potevo attendere
oltre. Vi valga il mio giuramento che quello che sto facendo non vi arre­
cherà alcun danno.–
6
–Ah…– Il kannushi rabbrividisce, ma è solo per il freddo. Le parole
dello straniero sono ferme, il suo cuore è puro.
Nel frattempo, sono accorse tutte le miko e tutti i sacerdoti. Guardando
la piccola folla, lo straniero sospira. Senza rendermene conto, sussurro: –Chi… cosa sei, straniero?–
Ryan (R)
Come inizio non c’è male. Sono appena arrivato ed ho già fatto un
danno. Beh, è già tanto che sia arrivato; e se fossi rimasto incosciente
ancora un po’, se il sole fosse tramontato, ora sarebbe tutto finito. Mi è
andata bene; se avessi ragionato più freddamente, magari sarei riuscito a
trovare una soluzione meno… appariscente, ma ero stordito dal riavvio
forzato dei sistemi di emergenza. E spaventato. Non posso farmene una
colpa; spero solo di non aver combinato un guaio troppo grosso.
Sono “atterrato” in un santuario dedicato al culto dei kami. Anche que­
sta è stata una discreta fortuna, fossi finito in un’area disabitata, le cose
sarebbero potute andare molto male; ed in una città, anche peggio. Il pen­
siero magico di questi sacerdoti, la loro fede nel sovrannaturale, è una vera
benedizione… Come bioantropologo so che, per loro, la mia apparizione
rientra in uno schema che non scardina, ma anzi conferma, una struttura
cognitiva preesistente. Altri, a quest’ora, mi avrebbero già bruciato o
sepolto vivo. Davanti a me, in ginocchio su un sottile cuscino, c’è il sacerdote a capo
di questo santuario; al suo fianco, a destra la giovane donna che mi ha …
salvato, potrei dire, e a sinistra una ragazza che ho intravisto prima.
Il silenzio è denso, mentre i tre sacerdoti mi osservano mangiare una
ciotola di riso; sul vassoio davanti a me verdure, alghe, e qualcosa di fritto,
credo pollo. Anche qualche fettina di pesce crudo. Non posso ignorare il
fatto che il cibo disposto su ogni piattino disegna un motivo geometrico. Mentre recuperavo un po’ di energia, ho avuto il tempo di fare un po’
mente locale su quello che mi è successo. Mi sono ricordato degli impianti
bionici, dei supporti corticali… dei generatori a soglia zero che ho nel
corpo... buona parte di me non esiste più. Ricordarmelo tutto d’un tratto,
dopo essermelo scordato, mi ha fatto come l’effetto di quando ci si risve­
glia dopo un brutto incubo… ma al contrario.
I miei ospiti attendono pazientemente che io abbia finito di mangiare.
Posate le bacchette, rompo il silenzio: –Vi ringrazio per il cibo… e per
quello che avete fatto per me.–
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Il kannushi si inchina ponendo le mani di fronte alle proprie ginocchia,
la punta del lungo cappello giù fino a toccare terra. –Ho il permesso di rivolgerti la parola, kamii­straniero?–
Kamii, è la pronuncia antica di kami, divinità. Non voglio farmi passare
per un dio… ma per il momento, meglio assecondare il sacerdote.
–Hai il mio permesso.–
–Il mio nome è Rokugane, kannushi del santuario di Koumon. La donna
alla mia destra – la nomina senza muovere un muscolo – è la miko più
anziana; il suo nome è Kaori. Alla mia sinistra, Midori, fra le nostre miko è
quella col potere spirituale più forte.–
Ricordo che l’uso dei nomi di famiglia non è ancora diffuso, se non per
distinguere i casati nobiliari. Osservo attentamente i tre che ho di fronte. Rokugane è un uomo di
mezza età, giovane per essere un kannushi in quest’epoca; il volto magro,
quasi scavato, e dai polsi posso dire che anche il resto del corpo è esile.
Indossa l’alto cappello nero che si lega sotto al mento, e un abito di seta a
motivi geometrici e floreali di varie tonalità verde e oro, con la tipica parte
anteriore piatta, che sembra un unico scudo appoggiato sul petto.
Midori è una ragazza sui vent’anni, credo; è difficile giudicare, non
avendo nessun termine di paragone. Indossa lo shiro­i, la larga camicia­
kimono bianca, e l’hakama, l’ampia gonna­pantalone rossa; l’abbiglia­
mento tipico delle miko. Ha labbra e occhi sottili, un volto ovale e un
nasino piccolo, i lunghi capelli sono raccolti in una coda tenuta ferma da
un fiocco di carta di riso dorata, tranne che per due ciocche lasciate libere a
scendere dalle tempie; un’acconciatura detta subeshi­gami. Gli angoli della
bocca disegnano una specie di sorriso… forse… e sotto le guance, due fos­
sette appena accennate le ingraziosiscono il viso.
Il mio sguardo si sofferma un attimo di più su Kaori; il suo volto cambia
posizione non appena lo faccio, ma non abbastanza in fretta. E’ una donna
probabilmente attorno ai trent’anni. Indossa anche lei lo shiro­i e
l’hakama. Ha due grandi occhi neri, vividi, la figura sottile ma non esile, e
porta i capelli raccolti in una lunga coda come Midori, ma al posto delle
ciocche, lascia scendere sulla fronte una frangetta arrotondata, che le sbatte
sulla pelle mentre china il capo. Le labbra sporgono un po’ in avanti, le
noto perché, mentre abbassa lo sguardo, vibrano impercettibilmente.
I miei ospiti non danno segni di nervosismo mentre attendono che parli,
ma ad ogni istante la tensione si fa più palpabile.
–Il mio nome è… – valuto per qualche istante cosa dire. Vorrei dire un
nome che non suoni alieno ai miei ospiti… ma ormai, mi rendo conto, che
importanza può avere?
8
–… Ryan.–
Kaori, quasi sovrappensiero, ripete le sillabe, ma adattandole alla sua
percezione dei suoni: –Rai… an… sama­ e accorgendosi di aver parlato
senza permesso, sgrana gli occhi e si porta una mano alla bocca, come a
voler riprendere indietro il fiato, e poi si inchina fino al pavimento sussur­
rando a mezza voce: –Chiedo perdono!–
–Non devi scusarti…–
Rai’an… sentendolo dire così da Kaori, comprendo che in Giapponese
suona inequivocabilmente come “Pace che viene dal futuro”. Alle volte, il
destino gioca strani scherzi. Il kannushi inizia a parlare in tono formale, scandendo ogni sillaba con
lo stesso ritmo, cantilenando, quasi il suo discorso fosse un canto antico.
–O kamii che riceve la benedizione della Divina Amaterasu…– Già, la Dea del Sole…
–…la nostra Via è quella di servire i kamii, e proteggere la terra dalle
influenze maligne. Ora parla, Rai’an­sama, se ci è concesso saperlo, come
possiamo ingraziarci il tuo favore e ricevere la tua benedizione?–
Rokugane è serissimo, ma gli angoli della bocca di Midori si piegano
ancora di più e le fossette si fanno più nitide. Quando si accorge che la
guardo, le sue labbra disegnano in silenzio la parola “kashikari”, dare e
avere. Faccio finta di non averla vista, ma è ovvio che la miko sa che ho
capito. Sforzandomi di imitare il tono del Kannushi, rispondo, e cerco una
via d’uscita dalla situazione in cui mi sono cacciato. –Ogni santuario è dedicato alla venerazione di molti kamii. Cercando la
mia benedizione, non recate loro offesa?–
–Touga­sama … è un kamii molto benevolo con noi…–
Gli occhi di Rokugane roteano alla ricerca di una risposta che non
offenda né me, né Touga­sama, casomai dovesse passare di lì in quel
momento.
–…Se le nostre continue suppliche cesseranno per un attimo di lordare
il suo augusto orecchio, lo riterrà certamente un gesto di profonda devo­
zione…–
Midori si sporge un poco avanti: –Ma allora, le nostre suppliche non
lorderanno l’augusto orecchio di Rai’an­sama?–
La voce della ragazza è musicale ed il suo sorriso è incantevole, ma
Rokugane si fa paonazzo, alla ricerca di una reprimenda da sbattere in fac­
cia all’impertinente miko; tira il fiato due o tre volte, ma si accorge che
qualsiasi cosa abbia in mente di dire, sarebbe anche peggio.
9
Rido di cuore, spezzando la tensione, e Rokugane si inchina nuova­
mente fino a toccare terra con la punta del naso.
–Rai’an­sama, perdonate l’impudenza di questa stupida miko!–
Ancora ridendo, rispondo: –È perdonata, Rokugane­san. Anzi… se
potessimo evitare tutti questi inchini te ne sarei grato.–
Guardando il kannushi col volto ancora piantato sul pavimento, capisco
che questo gioco è andato avanti troppo a lungo. Anche se potrebbe tor­
narmi utile, non voglio vendere loro una menzogna del genere.
–Rokugane­san, Kaori­san, Midori­san… io non sono un kamii. Sono un
uomo.–
Il sacerdote solleva il viso e mi guarda con occhi spalancati.
E adesso che fare? Con la devozione, o il timore, che questi sacerdoti
nutrono verso i kami, avrei potuto chiedere loro qualsiasi cosa. Ma no, è
un pensiero che allontano all’istante. Mentre penso cosa dire e come dirlo,
Rokugane si alza di scatto.
–È inaudito! Abbiamo visto tutti i prodigi che hai compiuto; non puoi
essere un uomo. Se sei un kamii, perché ci menti? E se non lo sei, allora sei
un Re dei Demoni, o forse un Demone dell’inganno!–
–Kannushi­sama!– Kaori grida con voce stridula, e lo afferra per la
gonna cercando di tirarlo giù, ma Rokugane sibila qualcosa e cerca di
divincolarsi.
–E va bene,– grido sopra di loro, –adesso calmatevi. Spiegarvi quello
che ho da dire non sarà facile… ma ho bisogno di voi. Ed ho bisogno che
mi ascoltiate.–
Rokugane si pietrifica. Lentamente, si siede sulle ginocchia, senza pro­
ferire parola. Midori mi osserva, con aria curiosa e Kaori è ancora tesa per
la reazione del sacerdote, ma quando il suo sguardo si posa su di me, si
calma all’istante.
La mia valutazione è stata precipitosa, ma credo corretta. Nonostante sia
la superstizione a guidare lo schema cognitivo di queste persone, forse
posso sfruttare la loro propensione a credere nell’assurdo per… far credere
loro anche la verità. –Ma prima… dovete giurare che ciò che dirò non uscirà da questa
stanza. Non importa quello che direte agli altri sacerdoti, non importa ciò
che direte a chiunque dovesse chiedervelo. Qualsiasi cosa, ma non ciò che
sto per dirvi.–
Kaori risponde con un semplice: –Sì…–. Midori si fa finalmente seria e
chinando il capo: –Lo giuro.–
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Guardo Rokugane, ma lui mi restituisce lo sguardo con una forte dose di
antagonismo. –Per quale ragione dovrei giurare a te? Se sei un kamii, ci menti dicendo
che non lo sei. Se sei un Re dei Demoni, o un Demone, giurare a te è pec­
cato…–
–Kannushi­sama, – interviene veemente Kaori, –nessuno di noi ha per­
cepito la minima ombra di malvagità in Rai’an­sama…–
Ma Rokugane continua, ignorandola: –…e se sei un uomo… allora per­
ché giurare?–
–Sono un uomo. E giurerai, Rokugane, per conoscere la verità.– però,
mi è venuta così, all’improvviso, e appena ho finito di pronunciarla, mi dà
una bella sensazione. Suona bene. E sembra avere qualche effetto sul
sacerdote, che risponde:
–E allora… giuro; ma prima giurerai tu, e se il tuo cuore avrà anche solo
un sussulto, ti combatteremo con tutte le nostre forze.–
Non posso certo tirarmi indietro ora; –Avanti, parla. Cosa devo
giurare?–
–Giura che non compirai alcun peccato contro i kamii, né ci costringerai
a compierli.–
–Lo giuro.– mi è facile, perché sono certo che ciò che sto per dire, e ciò
che devo fare, non offenderà la cultura dei miei ospiti. Mi sono preparato a
lungo per questo.
Rokugane sospira profondamente, mentre i suoi occhi sondano i miei.
Emesso l’ultimo fiato, inspira di nuovo, stavolta per parlare.
–Il tuo cuore non trema. Sei sincero. E allora, giuro: ciò che ci dici,
rimarrà sigillato nel mio cuore finché tu lo vorrai.–
Una bolla nel tempo (K)
Lo straniero prende fiato. Posso sentire ancora il corpo di Rokugane­
sama accanto a me vibrare di livore, ma resta in attesa delle parole di
Rai’an­sama.
–Io… vengo da molto lontano.–
–Ma davvero?– la voce di Midori mi fa trasalire. La fulmino con lo
sguardo ma lei mi ignora. Con quel suo incantevole, viscido sorriso si fa
beffe di Rai’an­sama, che le restituisce un sorriso per niente imbarazzato.
–Eh già, questo era ovvio. Ma il punto è che vengo da molto più lontano
di quanto possiate immaginare. E quando si viaggia molto, molto lontano,
si viaggia anche nel tempo.–
11
Non capisco… ma finalmente lo sguardo impertinente di Midori si rab­
buia. Non capisce nemmeno lei. Rokugane­sama rimane imperscrutabile. –Io vengo da un luogo e da un tempo molto lontani. Non è facile spie­
gare, ma cercherò di fare del mio meglio. La mia gente, che verrà dopo di
voi, imparerà a navigare distanze immense, e navigare queste distanze
significa anche solcare tempi immensi.–
Lo straniero ci guarda. Dopo aver valutato il volto inespressivo di Roku­
gane­sama, il suo sguardo si posa su di me. Mi fa una specie di cenno;
forse è il permesso di parlare. E allora chiedo:
–Se … il tuo tempo deve ancora arrivare… questo significa che non sei
ancora nato?–
Rai’an­sama è sorpreso. –Sì… è corretto.–
–Sciocchezze!– sibila Rokugane­sama, –se non sei ancora nato, non
puoi certo essere qui davanti a me in carne e ossa!–
–Ed è corretto anche questo, Rokugane. Perché ciò che dico abbia un
senso, devo spiegarti cosa è successo… e come faccio a essere qui.–
Rokugane­sama borbotta qualcosa.
–Dunque… cosa succede verso la fine del mese di Fumizuki?–
Risponde svelta Midori: –Cadono tante stelle!–
–Giusto. Sapete che alcune stelle cadenti arrivano fino a terra?–
L’espressione sul volto di Rokugane­sama cambia. La sua mascella si
distende, e i suoi occhi si aprono. Come mai? Non lo so, sembra quasi che
sappia qualcosa… mentre me lo chiedo, risponde piano: –Ne ho sentito
parlare…–
–Bene; il fatto è che verso quel periodo, ogni mese di Fumizuki, il
Mondo, girando e girando, passa per un luogo pieno di polvere di stelle.
Quando la polvere scende dal cielo, prende fuoco, e lascia quelle scie lumi­
nose.–
Già, il Mondo è una sfera; è facile scordarselo, ma è scritto anche
all’inizio del Nihongi, che quando venne creato, il mondo era come un
uovo, in cui galleggiavano i germogli della Terra, fluttuando come pesci
scherzosi…
Rokugane­sama deve pensare quello che sto pensando io, ma il suo tono
è interrogativo: –E questo ha qualcosa a che vedere con te?–
–Sì.– 12
Rai’an­sama sospira, pare cercare le parole… e le trova: –La mia gente
ha imparato a costruire navi che possono arrivare fino al cielo, fino a quel
posto dove c’è quella polvere che cade durante il mese di Fumizuki, e
oltre. Quella polvere è molto, molto vicina al Mondo, ma abbiamo impa­
rato ad andare ancora più lontano, fino alle stelle che brillano nella notte.–
Lo straniero si ferma. Mi guarda fisso; mi accorgo di avere la bocca
aperta e gli occhi spalancati. –Ah…– provo a dire, e questo sembra bastar­
gli per proseguire.
–Vicino alla polvere delle notti di Fumizuki, invece, ci sono rocce
grandi come montagne, e anche di più. Non si vedono, come non si vede la
polvere, finché non cadono dal cielo. Le più piccole bruciano scendendo,
ma altre arrivano fino a terra.–
Rai’an­sama guarda Rokugane­sama, che gli restituisce uno sguardo
sorpreso; sembra come aver compreso una risposta che gli sfuggiva da
molto tempo. Che conosca misteri che io non conosco?
–Quello che è successo, e che mi porta qui, è che la mia gente è in
guerra. Durante una battaglia che si è svolta fra quelle rocce vicino alla
polvere di Fumizuki, abbiamo affondato una nave nemica che stava ten­
tando di fuggire.–
Altra pausa. Da noi non esce un fiato.
–Prima… vi ho detto che abbiamo imparato a viaggiare fino alle stelle
del cielo; e attraversare quei grandi spazi significa attraversare il tempo. La
nave dei nostri nemici stava cercando di tornare alla sua stella, e per farlo,
stava iniziando ad avvolgere lo spazio e il tempo attorno a sé, come se fos­
sero un manto.–
Non capisco. Il tempo? Lo spazio? Come un manto? Lo straniero deve
leggere il dubbio sul mio volto, perché la sua espressione si fa turbata.
–Va bene, facciamo così. Adesso vi mostrerò alcuni disegni. Potrebbero
sembrarvi molto realistici ma… non abbiate nessun timore, quello che
state per vedere non può farvi alcun male.–
Non guardo più Midori, né il kannushi; non posso distogliere lo sguardo
dallo straniero. A quale nuovo prodigio ci farà assistere Rai’an­sama?
Solleva le mani e le pone di fronte al suo petto, col palmo rivolto verso
di noi, quasi come la statua del Budda Amida. Assieme ad un sibilo
improvviso, una luce tenue fluisce da fessure nella pelle delle sue dita, fes­
sure che non avevo mai visto prima. Subito, fra noi e lui, a mezz’aria, cala
un telo nero come la pece, alto e largo tanto da nascondere il suo busto alla
nostra vista. Appena il tempo di vederlo comparire, e sul telo si posano
delle stelle, ma non quelle che si vedono su un dipinto; sono quelle del
cielo notturno, tali e quali, vere!
13
Le stelle si muovono tutte in una direzione, come se stessimo girando la
testa, e guardassimo altrove, ma la nostra testa è ferma. Ora sono comparsi
dei sassi color cenere, sospesi nella notte!
–Queste sono le rocce grandi come montagne di cui vi parlavo; appena
un po’ più lontane della polvere che cade nelle notti di Fumizuki. Ora sta
per arrivare la nave dei nostri nemici.–
E qualcosa entra nel telo, ma non è certo una nave! Non ha né vele, né
remi, sembra solo una… punta di freccia. Una punta di freccia di ferro ben
lucidato, e piena di graffi e rughe, e di luci che brillano; dietro, due grandi
luci. D’improvviso, un fulmine, o un lampo, poi due, tre, colpiscono la
punta di freccia che si allontana verso le pietre sospese.
–Queste sono le nostre navi.–
Entrano delle cose simili a barili… anzi, a file di barili di ferro attaccati
fra di loro, e tirano quei lampi alla freccia; la freccia è ferita, perde scaglie
di metallo. La freccia cerca di nascondersi dietro una di quelle pietre
volanti, e d’improvviso, là dove è la freccia, compare una grande luce, e il
disegno si piega, come se la carta su cui è disegnato fosse accartocciata; un
fulmine blu centra in pieno la luce, un lampo bianco copre tutto il telo, è
così forte che quasi ci acceca… e quando svanisce… tornano le pietre
grige sospese nella notte. Ma quella più grande, dietro a cui la freccia stava
andando a nascondersi, è scomparsa!
Il telo svanisce. Non so che espressione ho sul volto.
–Proprio un attimo prima di essere distrutta, la nave dei nostri nemici
stava piegando lo spazio e il tempo per tentare di fuggire; quando
l’abbiamo colpita per l’ultima volta, la bolla di tempo che aveva creato è
scoppiata, ed ha urtato contro quella roccia, spingendola verso questo spa­
zio, e questo tempo. Io sono stato mandato qui per fermarla.–
Missione(R)
Lo so, è un tentativo disperato. Per quanto i miei ospiti siano inclini ad
accettare l’irrazionale con naturalezza, per quanto credano che cose ben
più incredibili di queste siano del tutto plausibili, sto chiedendo loro molto,
troppo.
Dopo un po’ Rokugane cerca di articolare un discorso.
–Cosa … succederebbe se questa… roccia grande come una
montagna… cadesse sulla terra?–
14
–L’aria brucerebbe ovunque, e ucciderebbe all’istante quasi tutti gli ani­
mali, uccelli, insetti, pesci, e sicuramente, anche tutti gli uomini. Dopo, il
mondo diventerebbe un deserto di ghiaccio, coperto da una perenne nube
nera, per centinaia di anni.–
Midori resta impassibile. Credo che non mi creda. Invece, Kaori
sbianca. Rokugane sembra accettare la consapevolezza di questa possibi­
lità, ma vedo bene il suo sforzo di mantenere il controllo.
–E… la vostra gente… è sicura che accadrà questo?–
–A essere sinceri, no. Innanzi tutto, lo scoppio di quella bolla è stato un
evento fortuito, e non sappiamo esattamente quanto è stata forte la spinta;
abbiamo solo delle previsioni. Potremmo essere fortunati, e la roccia
potrebbe finire per cadere sulla Luna, o per passarci solo vicino. Ora che
sono qui, potrò ripetere alcuni calcoli da questa parte, e avrò una previ­
sione più precisa.–
–E se dovessi scoprire che la roccia cadrà sul Mondo?–
–La mia gente ha già mandato qui una nave che sarebbe in grado di fer­
marla. Ed è qui che ho bisogno di voi.–
Rokugane non parla, ma mi guarda con aria interrogativa.
–Far arrivare una nostra nave sul Mondo da così lontano è un po’ come
colpire con una freccia il tappo di un fiasco sulla testa di un cavallo che
corre su un sentiero di montagna dall’altra parte di una vallata. E…
durante un terremoto. Bisogna essere molto precisi. Ora, immaginate di
dover dare una spinta ad una barca su un fiume, stando fermi su una riva,
in modo che raggiunga un approdo sicuro sull’altra sponda. Ecco, questa è
la situazione in cui ci trovavamo…–
Midori trova il modo di intervenire: –… solo che l’approdo è grande
come un tappo…–
–…esatto. Ora, se la barca fosse piena di barili, con le provviste che ser­
vono per un lungo viaggio, il peso potrebbe essere sbilanciato, e la barca
potrebbe sbandare. Se invece spingiamo la barca vuota, poi i barili uno per
uno, sarà più facile calcolare quanta forza ci vuole per far arrivare ogni sin­
gola provvista. Beh… io ero l’ultimo pezzo.–
Il volto di Rokugane si apre nell’aver afferrato una parte della mia sto­
ria: –Allora, hai scavato quell’orma dove ti abbiamo trovato perché la tua
gente ha spinto un po’ troppo forte!–
Rido: –Sì, deve essere andata proprio così. E’ impossibile, anche per
noi, essere precisi oltre un certo limite. Non so esattamente dove sono
finite le altre parti che abbiamo mandato qui, né quando sono arrivate, ma
so come trovarle; e so che devono essere da qualche parte nei dintorni
dello Yamato.–
15
Rokugane accenna un sorriso al pensiero di aver indovinato una dedu­
zione tanto difficile. Continuo: –Abbiamo scelto questo approdo per
diversi motivi. Primo, la terra contiene molti materiali diversi, ed è diffi­
cile calcolarne il peso, e il peso dell’approdo fa parte dei calcoli che dob­
biamo compiere. L’acqua, invece, ha un peso sempre uguale, quindi per
noi è più facile colpire il bersaglio se la destinazione è un’isola. Ma non
deve essere troppo piccola, né troppo grande. Inoltre, volevamo che
quest’isola fosse abitata, perché chi avesse compiuto la missione avrebbe
sicuramente avuto bisogno di aiuto per trovare cibo e riparo durante la
ricerca. Questo ha ridotto le scelte possibili a sette grandi isole. Ma alcune
di queste sono disabitate, altre appartengono a grandi imperi; là, il nostro
carico avrebbe potuto essere trovato e venduto come merce preziosa, e
finire chissà dove. –Di tutte le possibili destinazioni, l’isola maggiore del Giappone era la
più adatta.–
Rokugane sospira profondamente e guarda in basso. Credo stia cercando
di elaborare la situazione e prendere una decisione. Respira ancora. Tre,
quattro volte… mi ricordo di un antico proverbio giapponese, che dice che
una decisione deve essere presa nell’arco di sette sospiri; e infatti, dopo
aver espirato il fiato per la settima volta, Rokugane mi guarda negli occhi e
mi chiede:
–Di che cosa hai bisogno, Rai’an­sama?–
Adesso sono io che devo prendere una decisione. Se fossi sincero fino
in fondo, scoprirei le mie carte. Mi serve ancora energia per attivare i
generatori a soglia zero, e fino a quel momento sono vulnerabile. Cerco di
leggere il pensiero di Rokugane guardandolo fisso negli occhi, e non vi
scorgo nessuna aggressività. La sua domanda sembra una sincera offerta di
aiuto. Ma c’è qualcos’altro… già da un po’ la sua ostilità iniziale si è tra­
sformata in qualcosa… qualcosa che non riesco a comprendere, ma ho la
sensazione che non solo mi creda, ma che … veda in me … non so. Ad
ogni modo, non ho molta scelta se non quella di fidarmi; se fossi in peri­
colo, potrei bluffare e sostenere di possedere delle armi terribili, ma il bluff
non reggerebbe a lungo.
–Ho bisogno di altri due giorni di sole, dall’alba al tramonto. E di cibo;
più cibo di quanto ne mangia una persona normale. Fino ad allora dovrò
rimanere qui, e la mia presenza dovrebbe essere tenuta il più possibile
segreta.–
–Questo te lo posso concedere e garantire.– dice con voce ferma Roku­
gane.
16
–Bene… poi, ho bisogno di qualcuno che mi accompagni. Qualcuno che
possa interagire con la gente che incontreremo, e che mi possa fare da
guida. Sarebbe utile anche qualcuno che possa difendermi in caso di neces­
sità.–
In realtà, ho mezzi di difesa più che sufficienti, ma le precauzioni non
sono mai abbastanza, e inoltre non sono sicuro di poter difendere adegua­
tamente i miei compagni di viaggio. I sistemi di difesa di cui sono stato
dotato sono stati pensati per proteggere solo il mio corpo.
–Se questo è ciò che ti serve, ti accompagneranno Kaori e Midori.–
–Eh?– chiedono entrambe a una sol voce.
–Il rispetto della gente per una miko è la migliore garanzia che ti posso
offrire, e ti permetterà di trovare aiuto in ogni villaggio e città che attraver­
serai, senza dover dare ulteriori spiegazioni.
–I sacerdoti e le sacerdotesse sono legate ai santuari che servono; se ne
allontanano solo per motivi molti gravi, mentre le miko svolgono spesso
compiti di vario genere. Una miko in viaggio non desta sospetti, mentre un
sacerdote in viaggio è già un segnale d’allarme.
–Kaori è la miko più anziana, ed esperta, qui a Koumon; ha visitato
molti altri santuari, templi e monasteri, e attraversato molte città. Sarà la
guida migliore per te.
–Midori è la nostra miko più abile negli esorcismi, e ti proteggerà dagli
spiriti maligni e dagli ayakashi che potrebbero cercare di fermarti. La
Divina Izanami è sempre alla ricerca di un modo per sterminare gli uomini,
o per corromperli e precipitarli nella maledizione del peccato, e se questo
disastro che incombe su di noi può cancellare l’umanità, farà di tutto per
fermarti. Hai bisogno della protezione migliore possibile, e Midori è tanto
forte che, credo, potrebbe fermare la Divina Izanami stessa.–
Midori arrossisce, stavolta senza il minimo segno di sarcasmo risponde:
–Kannushi­sama, sei troppo buono… non sono così forte… addirittura la
Divina Izanami…–
Cerco di non sorridere al pensiero che non c’è nulla da cui questa
ragazza potrebbe proteggermi, ma mi guardo bene dal rifiutare. Comun­
que, la parte che riguarda il rispetto della gente per le miko è vera, e può
costituire un aiuto sostanziale.
Rokugane continua: –Per quanto riguarda i guerrieri, qui non ce ne
sono. Ma non molto distante, c’è un villaggio che si chiama Amagane …–
Decodifico il senso del nome dal giapponese antico: “campana del
cielo”, o forse, “metallo del cielo” (sono omofoni); mentre lo pronuncia,
Rokugane mi rivolge uno sguardo intenso, ma non mi dà il tempo di
pensarci su.
17
–…vorrai iniziare il tuo viaggio da lì, sono certo. E lì troverai sicura­
mente un guerriero che ti accompagnerà.–
Rokugane mi sorprende, al punto che riesco solo a dire: –Grazie…–
Ho la sensazione che sappia qualcosa, che ciò di cui l’ho messo a cono­
scenza stasera abbia fatto scattare qualcosa in lui … che dei pezzi di infor­
mazione che aveva siano andati ad incastrarsi. Ma al momento, non voglio
indagare oltre. Devo riposare ancora un paio di giorni, e avrò il tempo di
capire cosa mi sta nascondendo.
Continuo: –Ma… sappiate che non sarà una passeggiata. Il viaggio potrà
essere lungo, e… scomodo…–
Kaori, che sembrava sconvolta dall’idea di ricevere l’ordine di accom­
pagnarmi senza nemmeno essere consultata, è evidentemente punta nel
vivo, e mi risponde con orgoglio:
–Rai’an­sama, il fatto che io sia una donna non deve lasciarti pensare
che io sia debole. Non sono una cortigiana, né una nobile dama di compa­
gnia. Sono una miko, e servo i kamii. Quando è necessario, li combatto. E
sono io che mi occupo di portare le ambascerie e rappresentare il santuario
in tutto il Giappone.–
–Va bene, va bene…– le sorrido, – non volevo offenderti. Se le cose
stanno così…– uso l’espressione idiomatica giapponese con la quale si ini­
zia una conoscenza o un lavoro svolto insieme, –…ti chiedo di essere gen­
tile con me.–
Improvvisamente, Kaori sembra fulminata dall’idea di aver preso di
punta quello che fino a qualche minuto prima per lei era un kamii… e di
aver ricevuto una richiesta del genere da lui. Sorpresa e scossa, risponde
con la frase di rito: –reciprocamente, ti chiedo di essere gentile con me…–
Guardo Midori. Vedo sul suo volto un’espressione nuova. Sembra rapita
dall’idea di iniziare un luogo viaggio. La sveglio dal suo sogno a occhi
aperti: –Anche a te, chiedo di essere gentile con me.– –Reciprocamente… sii gentile!– si permette una piccola deviazione dal
protocollo e mi sorride grande.
Il sogno di un bambino (M)
La cosa più bella di tutto questo è il viaggio che sto per iniziare! Da
quando ho iniziato il mio lavoro qui a Koumon, ho sempre desiderato che
Kaori mi portasse con sé, poter vedere altri santuari, altri templi, altre città,
altra gente… non è per questo che ho intrapreso la via della miko, ma
18
quando vedevo partire Kaori, mi sono sempre detta che doveva essere
divertente. Lei è sempre così misurata, ma quando partiva per un viaggio
aveva sempre un’aria così… beh… meno misurata del solito.
Uhm… da quanto tempo lavoro come miko? Ho iniziato proprio il
primo giorno dell’anno, due anni fa… quindi fanno già quasi due anni e
mezzo!
Siamo appena usciti dalla stanza dello straniero… di questo Rai’an;
Kaori si è dileguata nella notte senza quasi salutare, ma Rokugane se ne sta
lì, appeso ad una colonna, a guardare la luna quasi piena. Ha qualcosa in
mano… sembra un sasso. Se lo sta rigirando fra le dita… ha un’aria così…
sognante… sono troppo curiosa, devo sapere cosa pensa.
–Rokugane­sama?–
–Dimmi, Midori.–
–Credi che quello che ci ha detto lo straniero possa essere vero? Sembra
così… assurdo!–
Rokugane osserva il sasso che ha in mano. Ora che gli sono accanto,
vedo che è un sasso stranissimo, nero, pieno di buchi, ha un’aria molto
pesante. Non ho mai visto nessun sasso così. Poi, lo sguardo del Kannushi
si sposta su di me. Mi guarda negli occhi. Sento che si sta chiedendo se
può parlarmi; e poi sento che sta cercando di trovare il modo di dirmi qual­
cosa. Non rinunciare, Rokugane, dimmi cosa vuoi dirmi!
–Avevo undici, forse dodici anni.– inizia il racconto. Che bello, una sto­
ria, io vado matta per le storie!
–Una sera di fine autunno, stavo raccogliendo la legna per l’inverno.
Avevo fatto tardi, e il sole era già calato, già si vedevano le prime stelle.
Mentre guardavo il celo per capire quanta luce mi restava, vedo scendere
una stella cadente. Mi fermo a osservarla, ma la stella non scompare come
al solito. Invece, mi sembra che sia sempre più vicina… non faccio in
tempo a pensarlo che mi sento sbattuto a terra, come se un gigante mi
avesse colpito.–
Il kannushi continua a rigirare quello strano sasso in mano; si ferma e lo
guarda fisso. Sto per chiedergli di continuare, quando riprende:
–Mi sveglio a notte fonda. La strada davanti a me non c’è più; al suo
posto c’è una buca fonda tre braccia. Vorrei scappare, ma invece sento
come una forza che mi chiama giù.–
Ora trattengo il fiato; mi rendo conto di avere la bocca aperta, vorrei dir­
gli di andare avanti ma non ci riesco.
–Quando arrivai in fondo alla buca, trovai questo.–
E mi mostra il sasso. Sgrano gli occhi.
–Quella… è una stella caduta dal cielo?– è… fortissimo!
19
–Se il racconto dello straniero è vero, direi proprio di sì. E se un sassetto
come questo ha scavato una buca come quella, e mi ha spazzato via… non
è difficile credere che una roccia più grande di una montagna, più grande
del monte Fuji, potrebbe distruggere il mondo intero.–
Vorrei dire un milione di cose, ma tutte insieme, e la mia lingua si
annoda, mentre prendo fiato mille volte. Gli voglio chiedere di farmi
vedere quella stella, ma il Kannushi la sta già mettendo via.
–Era un segno divino, pensai. E lo pensò anche la mia famiglia: da
tempo avevamo cessato di occuparci delle cose dei kamii, ma questo
evento spinse mio padre a rivolgere una petizione al Ministero Del Culto
dei Kamii.
–E così, al mio casato fu riconosciuto lo status di hafuribe, e io ricevetti
l’incarico di prendermi cura di Touga­sama, il kamii di questo lago. Ero
certo che, dopo questo segno, e la mia dedizione, Touga­sama, un giorno,
mi avrebbe mostrato il suo makoto, la sua vera natura.
–Ma poi… studiando gli scritti antichi, cercando tracce di stelle cadute
dal cielo, ho scoperto che nelle cronache cinesi ce ne sono molte.
Rokugane si gira verso la Luna, e la guarda fissa per un po’. Poi conti ­
nua.
–In una cronaca, è scritto che gli astronomi cinesi avevano visto un
lampo venire dalla Luna, e poi una nube di polvere lucente che era rimasta
in cielo per giorni.–
–Non… capisco… cosa c’entri…–
–Lo straniero ha detto che, se siamo fortunati, quel grande sasso
potrebbe cadere sulla Luna. Forse è già successo. Anzi… guarda la faccia
della Luna… non è piena di buche?–
Sono senza fiato. È vero! È incredibilmente, fantasticamente, stupenda­
mente vero! Inspiro per parlare ma non so cosa dire, tante volte e tanto
velocemente che subito mi gira la testa!
Mi arrendo, e appoggiandomi alla colonna non riesco a dire altro che ­
…Già!–
Il kannushi fa un profondo respiro e poi si gira verso di me.
–Midori, ascolta.–
–Sì, kannushi­sama.–
–Non so se quello che ci ha raccontato questo straniero è tutto vero. I
suoi prodigi sono strabilianti, ma potrebbe anche essere un inganno… non
so se possiamo credergli. Ma se è vero… se è vero, allora dobbiamo fare di
tutto per aiutarlo. Dobbiamo proteggerlo a costo della nostra stessa vita.–
20
Sì, sono d’accordo. Se questo Rai’an dice anche solo una briciola di
verità, dobbiamo aiutarlo! E poi… io sono brava in queste cose, lo stra­
niero mi è simpatico. È buono. La sua anima è pura. Non posso credere
che sappia ingannarmi così bene… insomma, non me!
–Sì, kannushi­sama, sono pronta.–
Rokugane mi afferra per le spalle. È come un bravo papà. Gli voglio
bene, è sempre stato buono con me.
–Potrebbe essere pericoloso. Davvero, la Divina Izanami stessa
potrebbe provare a fermarvi.–
I miei occhi diventano diamanti immobili.
–Non lo permetterò.–
–Brava, bambina mia… ma stai attenta. Stai attenta, figliola, cerca di …
cerca di …–
–Rokugane­sama, so badare a me stessa… e poi, ci accompagnerà anche
Kaori, no?–
Il Kannushi ride piano. –Eh, già. Cerca di badare un po’ anche a lei.–
Gli sorrido. –Andrà tutto bene, Rokugane­sama. I kamii ci protegge­
ranno, lo sento.–
Vedendo la certezza nel mio sguardo, Rokugane si calma un po’ e si
china a darmi un bacio sulla fronte.
–Noi invocheremo i kamii tutti i giorni affinché vi accompagnino e vi
proteggano nel viaggio.–
–Grazie, kannushi­sama!–
Notte bianca (K)
Touga­sama, ti scongiuro, concedimi la pace di un sonno tranquillo!
Ah, è inutile, come fare a dormire? – mi alzo, mentre mi vorticano in
testa i volti di Midori, del kannushi e… di… lui.
Apro il pannello della mia stanza. La luce silenziosa della Luna mi
avvolge; le stelle brillano tanto da fare quasi male, in questa notte del mese
di Yayoi.
Proprio ora che volevo starmene un po’ tranquilla con queste cose…
non sono più una ragazzina. Sorrido. Non capisco se sono più agitata per la
minaccia che incombe dal cielo, per il viaggio che sta per iniziare o per …
lui.
Oh, che idiozia. Sono una donna, una miko, non una bambina. Rido di
me.
21
Forse, immergendomi nella sorgente termale, troverò un po’ di pace. Ho
compiuto qualche veloce abluzione prima di mettermi a letto, nella spe­
ranza di prendere subito sonno. Speranza vana. Sì, quello che ci vuole è
una passeggiata, giù fino alla vasca, e l’acqua calda che lava via ogni
impurità, ogni pensiero.
Sospiro, e nella penombra della luce delle stelle e della Luna, cerco un
panno morbido per asciugarmi, ed esco dalla stanza. L’aria della sera è
ancora pungente, ma il legno del corridoio all’aperto è caldo, sotto ai miei
piedi.
Due giorni, ha detto Rai’an­sama. Deve riposare ancora due giorni e poi
partiremo. Per andare dove? – Ad Amagane, tanto per cominciare. Sono
due giorni di cammino; uno, a camminare di buona lena dall’alba al tra­
monto. Ma Midori non è allenata, e Rai’an­sama chissà… certo, non mi
aspetto che sia un peso morto, con quel corpo così possente…
Ecco! Ci risono! Touga­sama, concedimi una visione, o almeno un po’
di quiete!
Rokugane­sama dice che dobbiamo proteggerlo. Certo, i pericoli non
mancheranno. Più che gli ayakashi, mi spaventano i briganti. Kamii, oni e
ayakashi, possiamo tenerli a bada, ma i briganti… ho i brividi. Non hanno
rispetto per gli abiti di una miko. Sì, ci serve un guerriero, dovremo cer­
care di raggiungere Amagane in un giorno. Midori dovrà sforzarsi un po’.
Almeno avessimo dei cavalli…
I gradini di pietra che scendono verso la sorgente sono umidi di rugiada
della notte di primavera. Le dita dei miei piedi assaggiano la rugiada come
giovani fanciulle in cerca del primo amore. È freddo e piacevole insieme.
Giungo alla sorgente; da qui si vede il fianco della montagna digradare
verso il lago di Koumon, porta della luce, che dà il nome a questo santua­
rio. So che l’acqua non brucia, ma i piedi freddi, come vi entrano, mi tra ­
smettono quel dolore che non fa male, quella sensazione di caldo ecces­
sivo; la mia pelle si scalda subito, e scendo lentamente, molto lentamente;
quasi a sentire ogni poro sfiorare il pelo dell’acqua, e dirmi, sì, ecco, final­
mente! E quando immergo, piano, la nuca, mi esce senza rendermene
conto un sospiro di piacere, i brividi mi raggiungono in profondità
nell’anima. Ahhh, ecco cosa ci vuole per trovare il coraggio di dormire, e
di vivere. Se la vita mi riserva ancora notti di primavera in cui potrò
immergere il mio corpo in una calda sorgente cristallina, non importa quali
asprezze dovrò affrontare, ne sarà valsa la pena.
22
Già da un po’ mi sto facendo cullare dalla corrente che porta via l’acqua
che si rinnova senza posa ed ecco che, sopra al rumore dell’acqua che
scorre, sento dei passi pesanti sui gradini. Chi sarà mai? Certo, è un uomo;
non ha la minima grazia nel calpestare le pietre. Ma almeno, lo fa a piedi
nudi, e non mi tortura le orecchie col rumore di zoccoli. L’idea di coprirmi non mi sfiora. Invece, mi sposto appena, e mi metto
in un angolo, in un’ansa che mi permette di osservare i gradini in modo
discreto. Chi sarà mai a scendere qui a notte fonda?
Sgrano gli occhi. Alla luce della luna non vedo bene, ma non posso sba­
gliarmi; nessuno dei sacerdoti è così alto. Quello è Rai’an­sama!
Mi acquatto dietro al bordo dell’ansa. Che ci fa qui a quest’ora?
Lascia cadere il panno che lo copre; nella notte, la sua figura è scura e
indistinta, e si immerge svelto, quasi si butta nell’acqua. Lo guardo con
sospetto. Un kamii che entra in una sorgente?
Certo, non è un kamii. Almeno lui sostiene di non esserlo. Lo guardo
con ancor più sospetto. Si distende e sussurra forte “ahhhh”. Sorrido;
kamii o no, non è immune al piacere dell’onsen.
All’improvviso, scatta in piedi e si gira verso di me. Non può avermi
vista, dal bordo spunta a malapena il mio naso, e lui aveva il volto girato
verso l’alto! Ma guarda dritto verso di me e grida: –Chi è là!–
L’acqua gli arriva appena a metà delle cosce, ben piantate sul fondo
della vasca come i pilastri di un tori­i. Nella penombra della Luna, non
distinguo i lineamenti del suo corpo, ma vedo bene che è nudo, e che,
certo, è un uomo…
–Ra… Rai’an­sama, è… è solo Kaori!– balbetto un po’, ma ecco che
alla fine mi escono le parole.
–Oh, scusa… temevo che… non importa.– Rai’an­sama si immerge
nuovamente lasciando fuori solo la testa.
Restiamo in silenzio per un po’. Non vorrei disturbarlo, ma … devo
sapere cosa è venuto a fare. Magari, solo un bagno a notte fonda, come me,
ma certo, è strano.
–Rai’an­sama, ho il permesso di rivolgerti la parola?–
–Certo Kaori…san?–
–Non devi avere questo riguardo per me. Non sono che un’umile miko,
Rai’an­sama.–
Non ricevo risposta. Dopo un po’ chiedo: –Se mi è permessa l’impu­
denza… è molto tardi per un bagno…–
–Effettivamente…–
23
Ancora silenzio. Sto per chiedergli chi lo ha indirizzato qui, insomma,
come fa a sapere dell’onsen, ma mi anticipa.
–… non riuscivo a prendere sonno, Kaori­san.– Il tono è basso, riesco a
malapena a udirlo. Mi avvicino un po’, comunque non può vedermi al
buio, sotto l’acqua.
–Un kamii che non riesce a prendere sonno… è buffo.– Subito mi
accordo dell’impudenza delle mie parole, ma la voce di Rai’an­sama mi
risponde gentile,
–Non sono un kamii.–
–La natura di kamii è in ogni persona, Rai’an­sama; e i prodigi di cui
siamo stati testimoni…–
–Non hanno nulla di divino! Sono frutto di macchine che la mia gente
ha imparato a costruire…–
–Macchine o no, i tuoi prodigi sono reali. La natura di Rai’an­sama è
più vicina alla natura dei kamii di quanto non lo sia la nostra.–
Intravedo che Rai’an­sama mi osserva fissa, ma non risponde. Forse la
sua gente non conosce più la natura dei kamii, ed ha perso la consapevo­
lezza della forza della propria essenza. Sarebbe interessante parlare con lui
di questo. Anzi, sarà interessante, nel nostro viaggio, sono certa che
Rai’an­sama avrà molte cose da insegnarmi. E anche io, per quel poco che
so della natura dei kamii, potrei avere qualcosa da insegnargli. Mi accorgo
che sorrido.
Adesso sono a un paio di braccia da lui; dall’acqua spunta solo la mia
testa, dal mento in su. Sono abbastanza vicina da distinguere bene i linea­
menti di Rai’an­sama; mi guarda, ma come mi avvicino, gira la testa e si
appoggia al bordo della vasca. Ora guarda il cielo.
–Osservando le stelle, posso stabilire che questo è l’anno 1006 del mio
calendario. È l’anno 3 dell’era Kankou, giusto?–
–Sì.–
–Quinto giorno del mese di Yayoi, giusto?–
–Sì.–
Rai’an­sama osserva in silenzio le stelle per un po’.
–Sai quello che vi ho detto prima a proposito della roccia in viaggio
verso questo tempo?–
–Sì…–
–Ho compiuto quei calcoli di cui vi ho parlato.–
Il tono di Rai’an­sama è molto grave. Ho già capito.
–È diretta qui?–
24
Rai’an­sama sospira, la sua voce esce strozzata: –Abbiamo poco meno
di dieci anni per fermarla.–
Non so cosa dire. Adesso che non esiste nemmeno la speranza di un
intervento divino… adesso che tutto dipende da lui, come si sentirà? E
quasi mi scordo che il tempo rimastoci è il limite delle nostre vite. Anche
della mia.
Nel silenzio, s’ode solo lo scorrere dell’acqua. Rai’an­sama, immobile,
osserva le stelle. Certo, starà pensando alla sua gente, lassù, lontana chissà
quanto, nello spazio… e, come lui dice, nel tempo. Il senso di queste
parole mi sfugge, ma osservando il volto di Rai’an­sama, scorgo
un’espressione di solitudine che non avevo mai visto prima. Più l’osservo,
più sento qualcosa muoversi in me. Non è la curiosità verso quel volto così
strano e fuori dall’ordinario, ruvido, forte, eppure bello. Non è l’attrazione
di una donna per uno straniero. No; è qualcosa di più basilare, di più
antico. Non so darle un nome… forse, se potessi chiamarla per nome, la
chiamerei compassione. O forse, empatia. No, non può essere empatia:
conosco la solitudine, ma la solitudine che conosco è una solitudine nor­
male, ordinaria, umana. La solitudine sul volto di Rai’an­sama, posso solo
immaginarla, e a malapena. La solitudine di un uomo che guarda la sua
casa brillare in cielo, la vedo, ma non posso che sfiorarla. So che non
posso capirla. E allora, il nome per la mia sensazione non può che essere…
struggimento. Sì, questa immensa, eterna, siderale solitudine mi strugge.
Le gocce che cadono dal mio volto non sono più l’acqua che scende dai
miei capelli; portandomi le mani alla bocca, mi rendo conto che sono
lacrime.
–Rai’an­sama…–
Guardo il cielo, cercando di indovinare quale sia la sua stella. –Rai’an­sama… da quale stella vieni?–
Lui alza un braccio e indica un punto in cielo, ma non riesco a vedere
bene; devo avvicinarmi ancora un po’. Ora le nostre spalle sono separate
da meno di un braccio d’acqua cristallina. Tendo il volto a cercare di
capire la direzione verso cui punta il suo dito…
–Kasei?–
–Noi lo chiamiamo Marte. Per i miei antenati, era il nome del dio della
guerra. Gli diedero questo nome perché brilla di una luce rossa, come il
sangue, e… nulla è più sanguinario, crudele, della guerra…–
25
–Ohhh…– Sono affascinata, e non so se mi rapisce di più l’idea dei
kamii stranieri che solcano il cielo, o che lo straniero che ho di fronte abbia
vissuto su altre stelle. Per noi quella è solo Kasei, la Stella di Fuoco, ma
per … gli antenati… di Rai’an­sama… quello era un kamii… che strana
idea.
Rai’an­sama continua: –Io sono nato su… una città volante, che solca il
cielo di Kasei. Da lassù il Mondo splende come…– il suo braccio si alza a
puntare la stella più splendente, Kinsei, la Stella d’Oro, che fa appena
capolino, quasi tramontata nella valle che si incunea ad ovest.
–Come Venere… la dea della bellezza… ma invece di essere un gelido
diamante bianco, è una meravigliosa gemma azzurra.–
Spalanco gli occhi. Il Mondo nel cielo di un altro Mondo… è una
gemma azzurra… è un’idea talmente bella che mi spezza il fiato, e ogni
pensiero si acquieta.
Passano i minuti, scorre l’acqua, scorre il tempo. Ecco, il tempo è acqua
che scorre, deve essere così. La gente di Rai’an­sama ha imparato a risalire
la corrente, a tornare verso la fonte, al paese dei fiori di pesco! E se ora è
qui… che sia questa la sorgente? Il pensiero mi colpisce quasi fisicamente,
e mi siedo sul fondo della vasca.
–Rai’an­sama, tu dici che la tua gente verrà dopo di noi, giusto?–
–Sì… la gente di questo Mondo imparerà a navigare fra le stelle e…–
–… e quindi, – lo interrompo, – voi non siete ancora nati!– –In un certo senso…–
–Ma se siete nati… vuol dire che la roccia non ci ha colpito!–
Rai’an­sama si siede a sua volta, e mi guarda fisso. L’espressione di
solitudine è scomparsa e ora sul suo volto leggo … sorpresa? Non sono
abituata a ricevere uno sguardo così intenso, arrostisco e mi volto.
–Sì, insomma, voglio dire… intendo che… se il tempo è come l’acqua
che scorre… e voi, nati a valle, siete tornati alla sorgente… allora, la sor­
gente non si è seccata… Vuol dire che certamente riusciremo a evitare il
disastro.–
Rai’an­sama continua a fissarmi; anche nella pallida luce di mezza luna,
i suoi occhi color cielo sereno mi guardano sorpresi. Sembra… stupito. Chino il volto. Non vedo il mio colore riflesso sull’acqua, e per fortuna
non lo vede nemmeno Rai’an­sama, ma deve essere rosso come una pesca
matura. Dovrei dirgli che ho solo fatto uscire dalla bocca la prima cosa che
mi è passata per la testa… ma sono immobilizzata e riesco a malapena a
respirare.
–Purtroppo, Kaori­san, il tempo non funziona in modo così semplice.–
26
–… ah… certo… io…–
–Non fraintendermi, la tua è una deduzione brillante, e ne sono colpito.
Solo, esistono molte cose che non si piegano alle nostre deduzioni. Il
tempo è una di quelle.–
Nonostante i complimenti di Rai’an­sama, sono profondamente delusa.
E poi, l’idea di essere già riusciti nel nostro compito prima ancora di ini­
ziare era rassicurante. Rai’an­sama si gira di nuovo a guardare le stelle.
–Il tempo non è solo e sempre una catena di cause ed effetti. Sotto al
peso dell’intero universo, può piegarsi fino al punto in cui è l’effetto che
genera la causa. Ciò che segue, ciò che viene dopo, fa accadere ciò che
viene prima. La roccia che sta viaggiando verso questo tempo sta attraver­
sando una di queste pieghe. Se colpirà, tutto il tempo che è trascorso sarà
piegato, si avvolgerà fino a svanire.–
Non capisco, ma forse, non posso capire. E Rai’an­sama lo sa. Si gira a
guardarmi. Ha sul volto un’espressione intensa come quella di prima, ma
stavolta non è solitudine. È tristezza.
–Se fallirò, tutto ciò che è accaduto, per me, o che accadrà, per te, ces­
serà di esistere. Noi, i vostri discendenti, saremo solo una possibilità non
realizzata… una promessa non mantenuta … Saremo solo un sogno dei
nostri ricordi, e anch’essi svaniranno nella notte, per sempre.–
Scoppio a piangere. Non so perché, forse è quell’immensa tristezza sul
volto di Rai’an­sama, o forse sono le sue parole. Me ne vergogno.
–Scusami, Rai’an­sama… scusami… io…–
–Scusa tu, Kaori­san. Non volevo… non avrei dovuto dirti queste cose.–
Rimaniamo in silenzio a guardare le stelle mentre il mio pianto si
acquieta. Dopo non so quanto, Rai’an­sama parla, senza voltarsi verso di
me.
–Cerchiamo di dormire un po’.–
Riesco solo a rispondere: –…Sì.–
Senza aggiungere altro, si alza, raccoglie il telo che ha lasciato accanto
alla vasca e sale sulle scale. Attendo di non sentire più i suoi passi e mi
alzo anche io.
Mi sdraio nuovamente sul tatami, e tiro su le coperte con un gesto lento.
Vedo appena il soffitto nella penombra. Stranamente, scivolo subito nel
sonno, serena; ma l’ultima cosa che vedo dietro alle mie palpebre chiuse è
il suo volto… così triste…
27
L’alba di un lungo viaggio (R)
Come previsto, dopo due giorni di ricarica sono riuscito ad attivare il
generatore a soglia zero ausiliario. Bastano circa sedici ore per accumulare
abbastanza energia nelle batterie a superconduttori per attivare uno dei
quattro generatori principali, ma siccome sto deviando parte dell’energia
alla batteria di riserva, prevedo di poterne attivare uno non prima di qua­
rantotto ore.
Ciò nonostante, stamane all’alba ci siamo messi in viaggio. È un rischio,
ma credo che la mia presenza al santuario di Koumon non potrà passare
inosservata a lungo, e preferisco far perdere le mie tracce il prima possi­
bile. Rokugane può fare tutto quello che è in suo potere per mantenere il
segreto, ma dubito che possa riuscire a controllare i suoi sacerdoti e le sue
miko a lungo. Una parola casuale, un commento anche innocente, anche
rivolto ai familiari intimi… e sarebbe già troppo tardi per fermare la voce. Rokugane mi ha parlato della sua esperienza col meteorite. Non è stato
un caso, come non è un caso che io sia atterrato qui: era stato previsto di
farmi arrivare il più vicino possibile alla carlinga della navicella, che ha la
strumentazione essenziale per trovare le altre componenti; ed in effetti,
l’ho individuata a pochi chilometri di distanza dalla località nota come
Amagane. La massa della navicella ha creato una distorsione spaziotempo­
rale che poteva facilmente attirare dei piccoli meteoriti dietro di se; Roku­
gane era semplicemente al posto giusto, ed al momento giusto, per vederne
cadere uno.
Ciò che mi ha colpito è la sua curiosità, potrei quasi dire, il suo spirito
scientifico. Certo, scampare per pochi metri alla caduta di un meteorite è
un’esperienza che lascerebbe il segno in chiunque, e ancor di più in una
persona proveniente da una cultura primitiva, ma il modo, la passione con
cui Rokugane ha cercato di capire cosa fosse realmente successo, la sua
ricerca fra i pochi, rarissimi testi di astronomia disponibili, per la maggior
parte cinesi, mi ha quasi commosso. Credo di poter dire di aver incontrato
davvero un uomo eccezionale, molto avanti rispetto alla sua epoca.
E ho anche capito che la carlinga della navicella non è passata inosser­
vata; per questo, Rokugane mi ha parlato di Amagane. Ha dedotto che le
leggende che vengono da quel villaggio devono avere qualcosa a che
vedere con me.
Ad ogni modo, sono in viaggio, ed è una sensazione piacevole. Davanti
a me camminano svelte Midori e Kaori. Midori è visibilmente elettrizzata,
mentre Kaori guarda nervosamente oltre ogni curva del sentiero di monta­
gna che scende dal tempio ad Amagane. 28
Oltre al tradizionale abito da miko, portano un lungo arco ed una faretra
colma di frecce. Non dubito che le sappiano usare. Io invece sono vestito
come un contadino, e porto tutte le provviste e le coperte. Secondo Roku­
gane, questo starebbe stato il travestimento più efficace; le miko in viaggio
si fanno spesso accompagnare da un popolano che porta i loro bagagli.
Inoltre, posso portare un peso di diverse centinaia di chili senza provare la
minima fatica, grazie agli impianti di cui sono stato dotato. Comunque, per
non destare sospetti, Midori e Kaori portano ognuna un fagotto a tracolla,
pressoché vuoto.
L’unica concessione al mio travestimento è un kasa, un ampio cappello
a forma di ombrello che nasconde quasi per intero il mio volto.
L’aria dell’alba di primavera è frizzante, il sentiero è docile, e mi abituo
presto alla sensazione delle suole di paglia sottili dei miei sandali, unica
barriera fra i miei piedi e le poche asperità della strada di terra ben battuta.
Non posso ignorare il sorriso che la giovane Midori rivolge a ogni arbu­
sto, a ogni fiore, a ogni nuovo bocciolo che la primavera dona agli alberi
che incastonano la strada che percorriamo. Io stesso sono eccitato: ho pas­
sato la maggior parte della mia vita su stazioni orbitali o su navi stellari.
Marte è stato terraformato da poco, e l’aria non è ancora respirabile. Sulla
Terra sono sceso solo una volta; è stata un’esperienza indimenticabile, ma
ora che sono qui, in questo Giappone selvaggio e primitivo... Certo, conosco queste piante, so dare loro un nome e ne conosco la
struttura biologica, conosco gli insetti che le impollinano e ho studiato la
biologia che ne regola l’esistenza ma… vederle vivere, qui, davanti a me…
è pura magia, puro incanto.
Camminiamo senza parlare; Kaori fa l’andatura, ed è un’andatura soste­
nuta anche per me, appena più lenta della corsa. Dopo mezz’ora di questo
passo, Midori ha il fiatone.
–Kaori­san, non possiamo rallentare appena un po’?– chiede.
Kaori la ignora.
–Kaori­san!–
Sprecando appena il fiato per farsi sentire, la miko risponde: –Dob­
biamo arrivare ad Amagane prima che scenda il sole. Ci riposeremo tre,
massimo quattro volte.–
Ora, Midori è meno elettrizzata.
–Ma uffa!– dice rallentando.
–Non sprecare fiato. E non cambiare passo.–
Kaori non aggiunge altro.
–Uffa.– ripete Midori più piano, ma recupera l’andatura.
29
I visori mi tengono informato della nostra posizione; dopo un’ora
abbiamo percorso più di sei chilometri. Amagane è a poco meno di trenta
chilometri dal tempio; sono sei ore di marcia. Ci sono circa nove ore di
luce, e se facciamo tre soste di mezz’ora l’una, arriveremo con un certo
anticipo. Ma è improbabile che le due miko, soprattutto Midori, possano
tenere questo passo per tutto il giorno, e se dovessimo fermarci una quarta
volta, arriveremmo giusti giusti. E una volta arrivati, dobbiamo trovare una
sistemazione per la notte… Devo ammettere che Kaori sa il fatto suo, deve
aver fatto tutti questi calcoli istintivamente. La sua esperienza è preziosa.
Kaori si ferma e ci intima di fare altrettanto con un secco gesto della
mano. Si guarda intorno. Il suo braccio si muove fluente verso la faretra,
mentre con la sinistra solleva l’arco fin sopra la testa. Incocca la freccia e
tende l’arco portandolo giù, di fronte ai suoi occhi, con l’eleganza di una
danzatrice. Non il tempo di contare fino a tre, e la freccia parte silenziosa,
svanendo nelle fronde di un cespuglio a pochi metri davanti a noi. Ne esce
un rumore che non riconosco, e le foglie si agitano per un istante. Kaori si
avvicina al cespuglio e solleva la freccia; vedo che ha infilzato un piccolo
roditore… un coniglio, già privo di vita. Non vedo bene, perché sono alle
spalle della donna, ma sembra fare un gesto; sussurra alcune parole che
non comprendo, e poi ancora un gesto, come a scuotere il piccolo animale. Dev’essere una specie di rito propiziatorio, o forse qualcosa legato al
culto animistico, secondo il quale ogni essere vivente, e non, ha un’anima;
ma non so nulla di questa usanza particolare. I dati storici su quest’epoca e
questo luogo sono frammentari, dal momento che la scrittura era poco dif­
fusa, e impiegata principalmente per l’amministrazione o per l’intratteni­
mento attraverso le arti della letteratura e della poesia. Al di fuori del culto
Buddista, la maggior parte delle tradizioni religiose erano tramandate oral­
mente, e soggette a mutazioni molto rapide. Eravamo certi di avere informazioni incomplete su quest’epoca. Tutta­
via, saperlo e vederlo è diverso. Per la prima volta mi rendo conto di
quanto siano approssimative le nostre conoscenze su questo periodo sto­
rico; molto, moltissimo è andato perduto. E allo stesso tempo, provo una
nuova eccitazione; se finisce tutto bene, con quante nuove scoperte potrò
tornare indietro! Finito il suo piccolo rito, Kaori si gira, ci mostra l’animale e annuncia
con un sorrisetto: –Il pranzo.–
Mi irrigidisco. Già. Pur onorandoli con riti e magie, la gente di questo
tempo mangia gli animali, e li uccide. Non che non lo sapessi, ma vederlo
fare mi fa male. Vederlo fare con questa noncuranza, anzi, con una punta
di soddisfazione… mi giro dall’altra parte; qualcosa, Kaori, deve averlo
letto sul mio volto, perché riprende la marcia senza aggiungere altro.
30
Il pranzo (K)
Il sole è alto e caldo; le fronde degli alti alberi proiettano un’ombra sulla
strada nella quale indugiamo volentieri. Siamo quasi arrivati al ruscelletto
dove mi fermo sempre per il pranzo, quando percorro questa strada. In
genere non vado così di fretta, e ci arrivo un po’ più tardi; mangeremo un
po’ prima. Dietro di me il passo di Midori si è fatto pesante. –Ci sarà presto la piena fioritura…– dice con un filo di voce. Mi
accorgo ora che siamo passati accanto ad un boschetto di ciliegi. Che belli!
Mi giro. È chiaro che Midori è stremata, e stiamo andando troppo piano.
Vabbeh, fermiamoci. Ci vorrà un po’ a pulire e cucinare il coniglio, ma
avevo previsto di fare una prima pausa più lunga, per affrontare la seconda
parte del viaggio con maggiore energia.
–Ci riposiamo qui; a pochi passi dalla strada c’è una piccola radura con
un torrente che in questo periodo scorre rigoglioso. È il posto ideale.–
Sento un sospiro di sollievo arrivare da dietro. Ci lasciamo la strada alle
spalle e ci addentriamo nel bosco; qui la pendenza è appena accennata, e
raggiungiamo facilmente la radura.
Midori si siede pesantemente sull’erba; Rai’an­sama posa il suo pesante
bagaglio, si toglie il kasa dalla testa e si guarda intorno. Sembra voler
penetrare ogni ramo, ogni foglia col suo sguardo attento. O… sembra un
bambino fra le bancarelle di un matsuri… non so decidere, ma lo guardo e
sorrido.
Ma non c’è tempo da perdere.
–Midori?–
–Sì, Kaori­san?– mi guarda, ma so che vorrebbe dire, “non chiedermi
nulla”.
–… Mentre pulisco il coniglio, puoi accendere il fuoco?–
–Sì, subito.– Si alza e si dirige verso il bagaglio; le esche per il fuoco
sono in una tasca avanti avanti. Io tiro fuori un coltello dal mio sacco e
vado verso il ruscello.
Meno di mezz’ora dopo, il coniglio cuoce allegramente sulle fiamme, e
Midori ha sistemato tre pani di riso attorno al fuoco per scaldarli un po’.
Rai’an­sama guarda altrove. Già da un po’ ho notato che non sembra avere
alcun interesse per il pranzo; è strano, so che ha bisogno di mangiare, e, lui
sostiene, più di un uomo della sua corporatura. Che già sarebbe tanto.
–Rai’an­sama…?–
–Dimmi?–
–C’è qualcosa che non va?–
31
–No…– ma vedo uno sguardo triste che si posa con insistenza sul coni­
glio.
–Forse… non gradisci questo cibo?–
–No, non è quello… è che noi… no, scusa, non importa.–
–Rai’an­sama, se ho fatto qualcosa che non ti aggrada, devo saperlo. Il
mio compito è sostenerti in questo viaggio, e se commetto qualche
errore…– attendo una risposta.
–No, non hai fatto niente di male; sono io che mi devo adattare.– dice
con la bocca, ma sento che il suo cuore è inquieto.
–Rai’an­sama, ti prego. Ho bisogno che tu sia sincero.–
Mi guarda negli occhi; il cielo del suo azzurro si spalanca in me. Vorrei
distogliere lo sguardo, ma non posso. Per fortuna, lo fa lui, e risponde: –
Noi… non uccidiamo più gli animali per nutrirci.–
–Eh?– piego il collo da una parte.
–Intendo… prendere una vita per sfamarci… no, scusa, davvero, mi
rendo conto che voi non potete farne a meno.–
–Rai’an­sama… ho accompagnato l’anima di questo coniglio nel suo
viaggio, e ora è con i suoi antenati. Non c’è alcun peccato…–
–Va bene!– mi interrompe, –Lo so, non c’è alcun peccato. Anzi, so che
io stesso ho bisogno di questo cibo per sostenermi. Più di quanto non ne
abbia bisogno chiunque altro. Lo so… ma mi dispiace lo stesso.–
Non aggiungo altro. Non avevo idea che Rai’an­sama fosse così…
avesse questa… non so come dire. In questo, è come i buddisti, che cre­
dono che gli animali abbiano un’anima che non potrà reincarnarsi in una
forma superiore, se viene uccisa prima del tempo. Ma non è solo la com­
passione a farli vegetariani: pensano che uccidendo altre creature, il loro
karma peggiori, e che questo li allontani dal Nirvana. Forse, anche la gente
di Rai’an­sama crede qualcosa del genere?
Nel frattempo il coniglio è cotto. Lo taglio in silenzio in quattro parti, e
le due migliori sono per Rai’an­sama. Lo osservo. Mangia, e in fretta, ma i
suoi occhi sono velati di lacrime. Finiamo il pranzo senza che nessuno
parli. D’ora in poi cercherò di cucinare qualcosa di più elaborato, così che
Rai’an­sama non debba soffrire troppo per il cibo di cui si nutre.
Ci resta ancora un po’ di tempo; voglio sfruttarlo per recuperare tutte le
forze. –Midori?–
–Sì, Kaori­san?–
–Non restare lì seduta. Ripartiamo fra poco, ma ora sdraiati un po’ e
riposa bene la schiena.–
32
–Oh… grazie, Kaori­san.–
Le sorrido, e mi giro verso Rai’an­sama.
–Anche Rai’an­sama dovrebbe approfittare di questo tempo per riposare
il suo corpo…–
–Oh…–
Senza aggiungere altro, si sdraia anche lui. Guardo il cielo fra le fronde che ci sovrastano. Le nuvole tingono di
bianco l’azzurro vivido del cielo di primavera, e corrono veloci sulle ali
del vento. Il suono dei rami è allegro, e arrivato da chissà dove, si posa
sulla mia guancia un petalo di ciliegio. Lo prendo con la punta delle dita. È
così delicato… ed è un segno che è ora di riprendere il cammino.
Gli occhi di Rai’an­sama sono aperti, fissi verso il cielo. Il volto è
quello di colui che ammira, in estasi, un’opera meravigliosa.
–Rai’an­sama… ?–
–… è così bello…–
–Il cielo?–
Lui annuisce. –Sul tuo mondo… su Kasei… non c’è il cielo?–
–È molto diverso.–
Un cielo diverso… guardo il cielo che ho sempre visto, e mi chiedo,
come può essere diverso? Un pensiero mi colpisce tanto forte da farmi male. Questo cielo, che è
sempre lì, per me, tutti i giorni… ci sono dei luoghi dove anche questo,
anche la cosa più sicura, anche il sole che sorge tutti i giorni, anche la luna
che illumina le notti… persino queste cose, persino queste certezze, non ci
sono. Sento come la terra tremare sotto le mie mani, mentre sono appoggiata
seduta; quali certezze sono vere? Se il cielo non è lo stesso ovunque…
cosa altro può essere sicuro? Chi può dirmi ciò che è certo…
Scuoto la testa. Ora non ha nessuna importanza. Ho una missione; è
come quando si viaggia di notte. Ho una strada da seguire, e per quanto
l’oscurità prema ai bordi della via, e nasconda i demoni più terribili, tutto
quello che bisogna fare è mettere un piede davanti all’altro, guardando solo
la terra, lì dove dovrà posarsi il prossimo passo. E allora, ecco il mio pros­
simo passo.
Mi alzo, e dico: –È tempo di ripartire.–
Rai’an­sama si siede e poi si mette in piedi. –Va bene.– dice, e va a rac­
cogliere il bagaglio. –Midori?–
33
Non risponde. Ha gli occhi chiusi. Sorrido. Si è addormentata.
Amagane (R)
Il resto del viaggio è quasi tutto in pianura, ed è più facile procedere
spediti. Kaori non ci costringe a tenere lo stesso ritmo del mattino, ma
comunque stiamo su una rispettabile media di poco più di quattro chilome­
tri all’ora. Facciamo due brevi soste, bevendo l’acqua fresca dei torrenti e
rifocillandoci con degli onigiri, semplici arancini di riso. In tutto, arri­
viamo ad Amagane poco più di un’ora prima del tramonto. Leggo chiara
sul volto di Kaori la soddisfazione per aver centrato esattamente il suo
obiettivo.
Raggiunte le prime casette, o meglio capanne, Kaori si avvicina e
chiama una donna intenta a ritirare i panni stesi.
–Oi, zia!–
So perfettamente che gli orientali, e soprattutto i Giapponesi, da tempo
immemore, si rivolgono agli estranei usando nomi che normalmente indi­
cano un grado di parentela. Tutti quelli più giovani sono figli o figlie, tutti
gli anziani sono nonni o nonne, e le persone un po’ più anziane di chi parla
sono zii e zie. Lo so, ma sorrido lo stesso.
–Oh, guarda, una miko! Vieni da Morito?– risponde la zia.
–No, da Koumon.–
–Koumon? È lontano…–
–Eh sì. Abbiamo bisogno di un posto per passare la notte, sai mica chi
potrebbe darci ospitalità?–
–Oh… beh… il capo villaggio… Giusto, ora che ci penso, la moglie del
capo si è ammalata…–
–Davvero?–
–Sì… e a dirla tutta…–
–A dirla tutta…?–
La zia si avvicina alla staccionata che circonda la capanna. Ci avvici­
niamo anche noi. Dopo essersi guardata intorno un paio di volte…
–Dicono che sia stata maledetta!– quasi sussurra. Midori sgrana gli
occhi e tende il collo.
–Oh, è terribile! Come è successo?– chiede con aria preoccupata Kaori.
–Un giorno, qualche mese fa, si è recata al Tempietto delle Volpi, sai,
quello poco fuori il villaggio, lungo la vecchia strada per andare a Naga­
kawa…–
–Ah, la lastra votiva dedicata agli spiriti volpe…–
34
–Sì, sì, quella lì. Ci sei stata?–
–Oh, sì, ci sono passata un paio di volte… è un posto oscuro…–
–Già, vero? Io quando ci passo cerco sempre di girare a largo. Se ne
dicono tante, su quel posto…–
–Eh sì, e poi gli spiriti volpe sono più pericolosi di quello che si crede,
pensa che…–
–Ehm, Kaori­san…?– la stanchezza di Midori vince sulla sua curiosità.
–Oh, sì, giusto. E insomma, che è successo alla moglie del capo villag­
gio?–
–Beh, non si sa, ma è tornata dopo il tramonto. Da allora ha iniziato ad
ammalarsi ed è andata sempre peggiorando, poverina. Dicono che sia stata
aggredita dai demoni lungo la strada del ritorno, o forse ha offeso gli spiriti
volpe in qualche modo…–
–Oh… sarebbe grave… dobbiamo andare a vedere.–
–Tutto il villaggio ve ne sarebbe grato, è una donna tanto buona…–
–Sì, andiamo subito lì. Grazie, zia.–
–Grazie a te, giovane miko.–
Kaori cammina già svelta lungo la strada, ma si volta a salutare la pae­
sana; –Eh, ahimè, non sono più così giovane, zietta.– –Ma va, sei quasi una bambina.–
–Eh, sì, come no…– si gira Kaori, ma i suoi occhi sorridono.
Maaya (M)
Uffa, sono stremata! Kaori è spietata. E instancabile. Ma come fa? Io mi
butterei per terra a dormire. Riesco appena a tenere gli occhi aperti; e pen­
sare che il sole sta tramontando adesso. Il capo villaggio è un anziano, ma non poi così tanto, e si chiama Nono­
suke. La testa è così pelata e rotonda che sembra un bonzo, e gli mancano
un paio di denti, ma ha una faccia buona e ci ha accolti in casa con sincero
piacere. Kaori gli ha subito detto di aver sentito parlare della malattia di
sua moglie, e di voler provare a purificarla, e Nonosuke non ha ancora
smesso di ringraziarci. Noi due siamo sedute davanti al focolare, e lui sta dall’altra parte; qual­
cosa già bolle nella pentola sospesa sulle braci. Lo straniero è seduto dietro
di noi e cerca di farsi piccolo piccolo; quando ha tolto il kasa, i suoi capelli
d’oro hanno attirato lo sguardo del capo villaggio, ma subito Kaori ha ini­
ziato a chiedere di sua moglie, e Nonosuke si è completamente dimenticato
di lui.
35
–E dunque, cosa è successo quella sera, esattamente?– gli chiede Kaori.
–Ecco… Maaya era andata a pregare lo spirito volpe.–
–Oh, è strano… come mai?–
–Beh, da qualche giorno non si sentiva bene… sapete, noi non siamo
riusciti ad avere figli, e lei pregava spesso gli spiriti volpe perché da bam­
bina l’hanno salvata quando era caduta in un burrone…–
–Oh, davvero?–
–Sì, un bambino che nessuno aveva mai visto prima aveva chiamato
alcuni contadini del villaggio che stavano lavorando lì vicino, e così sono
riusciti a salvarla. Lei ha sempre pensato che fosse uno spirito volpe che si
era trasformato in un bimbo per aiutarla…–
–Beh, è una cosa che uno spirito volpe potrebbe fare…–
–Già… insomma, era andata a pregare gli spiriti perché in quel periodo
si sentiva spesso male di stomaco.–
–Oh, poverina…–
–Mi ha raccontato che come aveva finito di pregare era svenuta, e
quando si era svegliata il sole era basso. È rincasata che già era buio. Sape­
ste quanta paura…–
–Oh, immagino.–
–Da quella sera è stata sempre peggio, e ora quasi non riesce più ad
alzarsi. Mangia pochissimo, e quando mangia spesso vomita.–
–Midori… cosa ne pensi?–
–Eh?– quasi mi stavo addormentando, ma mi sveglio subito e cerco di
rispondere. –Oh, non so, dovrei vederla…–
–Prego, venite, nobili miko, da questa parte…– Nonosuke si alza e apre
un pannello, rivelando la stanza dove giace Maaya. È magra e pallida;
sembra molto più giovane di suo marito. Nonosuke le si avvicina piano,
come per vedere se sta dormendo, ma lei apre gli occhi appannati.
–Marito…–
–Maaya, guarda, sono venute delle miko…– si china e le prende tenera­
mente la mano che sbuca dalla coperta. –Ti aiuteranno…–
–Oh…– la donna ci guarda, –perdonatemi per avervi accolte con questo
aspetto…–
–Ma no…– le sorride Kaori. Mi alzo e le vado vicino. Vedo su di lei le
ombre dell’oscurità farsi più dense. Il maleficio che la possiede è forte.
Guardo Kaori e cerco di farle capire che non possiamo fare molto, ma lei
mi risponde con uno sguardo perentorio: qualcosa dobbiamo farlo. Dietro
36
di lei, lo straniero guarda Maaya intensamente. Si alza e, passando oltre
Kaori, si avvicina un po’. Nonosuke, accanto a me, si china su Maaya e le
bacia teneramente la fronte.
–Vedrai, Maaya, adesso starai meglio.–
Lei gli sorride senza rispondergli, ma allunga la mano ad accarezzargli
una guancia.
Mi alzo e vado a prendere il mio oonusa. Sgarbuglio i filamenti e le liste
di carta di riso, e verifico che sia ancora puro.
–Nonosuke­san, allontanati un po’.– gli dico piano.
–Sì…– mi risponde, e si ritira oltre la soglia.
Lo straniero è ancora accanto al giaciglio. –Ehm…–
–Oh… scusa.– e si allontana anche lui.
E adesso, demoni, state in guardia, è arrivata Midori!
Purificazione (R)
Dalla descrizione dei sintomi, posso intuire che si tratti di un’infezione
intestinale, o peggio, di un tumore allo stomaco. In ogni caso, senza un
trattamento adeguato, questa donna è spacciata. Non credo le rimanga più
di un mese.
Midori solleva la sua bacchetta magica dalla quale pendono strisce di
carta di riso piegata, l’oonusa. Il gesto della sua mano è elegante. Segue la
sua cantilena.
–Oh spiriti maligni, ascoltate il mio richiamo!–
La sua bacchetta magica si abbassa con un fruscio repentino.
–Voi che lordate questo corpo, io vi comando!–
Fruscio a destra.
–Voi che succhiate la vita dei vivi, io vi ordino!–
Fruscio a sinistra.
–Siate cacciati! Siate dispersi! Siate purificati!–
La bacchetta si solleva, e Midori la regge con entrambe le mani. Con
gesto rapido la abbassa come fosse l’elsa di una spada, poi un colpo a
destra, uno a sinistra e poi il suo braccio si tende, elegante, verso il soffitto.
Ora Midori danza, sventolando le fluenti strisce sopra la donna; persino
l’arco disegnato dal suo indice nel reggere la bacchetta è espressione di
eleganza e femminilità. Midori ruota su sé stessa, tracciando ampi cerchi, e
poi ancora agita la bacchetta a destra e a sinistra, e in alto e in basso.
–Via!–
E ancora un giro, e ancora un fendente immaginario.
37
–Siate dispersi!–
E ancora un colpo a destra, e ancora un colpo a sinistra.
–Siate purificati!– grida, e insieme agita la bacchetta come fosse un
sonaglio.
Già da un po’ ho attivato i monitor diagnostici, anche se a questa
distanza posso raccogliere solo dei dati generici. Ma sono abbastanza pre­
cisi da rilevare un aumento della produzione ormonale, in particolare della
serotonina, nel corpo di Maaya. Non posso dire che la magia di Midori sia
del tutto priva di effetti; non guarirà quella donna, ma la sta facendo sen­
tire meglio. E infatti il suo volto si distende, le contrazioni involontarie
provocate dal dolore si riducono.
Il kagura, la danza sacra di Midori, è affascinante; ne sono ipnotizzato.
In ogni gesto c’è la sua anima, il suo desiderio di salvare questa donna, la
sua gioia di vivere, il suo odio per la morte. La sua fronte si imperla di
sudore, le sue tempie si gonfiano, i suoi livelli ormonali schizzano quasi
fuori scala, l’estasi che emerge sul suo volto, e che ci trasmette, è reale,
sublime, tremenda.
–Svanite!– un ultimo grido, e si accascia sul corpo di Maaya. I miei
monitor illuminano Midori come una città di notte, la sovrastimolazione
sensoriale deve averle dato un brivido intenso, che del resto ben si vede nel
tremore delle sue dita e delle sue labbra. Dagli indicatori, leggo che qualcosa di molto simile deve averlo provato
anche Maaya. La mano smagrita sguscia da sotto le coperte a cercare
quella della giovane miko.
–Grazie.– Maaya sorride dolcemente a Midori.
–Di niente.– le risponde semplicemente lei, spossata.
Nonosuke si alza piano. –È … riuscita?–
Midori si gira verso l’anziano e gli sorride appena. –I demoni… sono
molto forti…–
–Maaya…– piange il vecchio e corre al giaciglio della moglie.
–Sto meglio, marito mio, davvero…–
–Maaya… moglie mia…– piange l’uomo e le accarezza i capelli. –Com­
batti. Non lasciarmi…–
Lei gli sorride debolmente e gli accarezza una guancia tonda. –Perdo­
nami, mio amato… sono così stanca…–
–Maaya…–
38
Ho fatto un giuramento. Come medico, come bioantropologo, ho un
dovere che trascende qualsiasi altro. Io posso salvare questa donna. La
missione ha la priorità su tutto… ma fin tanto che non metto in pericolo
l’obiettivo finale, non c’è motivo per cui non debba fare qualcosa per sal­
varla. No, anzi. Sarebbe degna di essere salvata un’umanità che non provi
pietà per il dolore altrui?
Mi alzo. Kaori mi guarda, pur con gli occhi lucidi mi chiede –Rai’an­
sama…?– So che non sa cosa posso fare, ma so anche che intuisce che intendo fare
qualcosa. E ne ha paura.
–Nonosuke­san, Maaya­san…–
I due mi guardano sorpresi.
–Permettetemi di curare il suo male.–
Midori, Kaori, Nonosuke e Maaya mi guardano fisso, dimenticando di
respirare.
Mi avvicino sorridendo al giaciglio e poggio una mano sulla spalla
dell’anziano capo villaggio. –Come vedi, io vengo da lontano. La mia gente ha trovato da tempo una
cura per questo male. Lascia che la aiuti.–
Nonosuke si prostra a terra. –Oh ti prego, ti prego, farò qualsiasi cosa,
qualsiasi!–
–Ti chiedo solo di fare un giuramento.–
–Qualunque cosa, qualsiasi cosa tu vorrai!–
–Non rivelare a nessuno quello che vedrai.–
–Te lo giuro!–
Gli sorrido. Maaya mi guarda inespressiva. Mi chino su di lei.
–Ti prometto che non sentirai alcun male. Ma dovrò tirare fuori degli
strumenti molto strani, strumenti che non avete mai visto. Non abbiate
paura, sono macchine fatte per guarire la gente.–
Nonosuke mi guarda sgranando gli occhi, ma io allargo il mio sorriso. –
Ti prego, fidati di me.–
Kaori interviene: –Nonosuke­san, Rai’an­sama è in viaggio con noi,
vergini sacre dedicate a servire i kamii. Se vi fosse in lui la minima malva­
gità, credi che non lo avremmo sterminato?–
Alla parola “sterminato” sollevo un sopracciglio, ma Nonosuke sembra
soddisfatto delle parole della miko.
–Ora, Maaya, devo scoprire il tuo corpo. Alcuni dei miei strumenti
devono posarsi sulla tua pelle.–
39
So che per la civiltà Giapponese del tempo, e in questa classe sociale, la
nudità non è un tabù particolarmente forte, ma voglio comunque essere
sicuro che non ci siano fraintendimenti.
Lei annuisce debolmente.
Scosto la coperta e apro il suo kimono scoprendo l’addome. Ora viene
la parte difficile; fra gli impianti che mi sono stati istallati, gli strumenti di
diagnostica e cura sono in appendici mobili dietro al collo e nella parte
anteriore delle braccia. Sono certo che vederli spuntare dal mio corpo sarà
un’esperienza piuttosto impressionante per tutti, ma non c’è altro che possa
fare per prepararli, e chiedere loro di abbandonare la stanza potrebbe
essere anche peggio.
Si comincia. Stendo le mani davanti a me ed entro in modalità assistita. Le mie dita e
i palmi delle mie mani si aprono rivelando proiettori e sensori. Produco
una scansione tridimensionale del corpo di Maaya direttamente sopra di
lei. Come sospettavo, c’è un tumore allo stadio terminale allo stomaco, che
ha prodotto una serie di metastasi in altre parti del corpo. Le aree colpite
dal tumore sono marchiate in rosso. Sono vagamente consapevole del fatto che le persone attorno a me
stanno vedendo le stesse figure tridimensionali che vedo io. So che non
possono capire di cosa si tratta, ma il fatto che quell’immagine rappresenta
il corpo di Maaya deve essere evidente anche a loro.
Ad ogni modo, i sistemi linfatici sono ancora sani, e le condizioni degli
altri organi sono buone. Rimosso il tumore, le metastasi e le cellule tumo­
rali libere, Maaya può guarire naturalmente.
Da dietro il collo spuntano due laser coassiali con i quali posso bombar­
dare il tumore anche attraverso il corpo intatto, con una precisione al
decimo di micron. Un terzo tentacolo porta un sensore che genera una
radiazione risonante ad alta frequenza e individua le cellule staminali,
quelle che, impazzendo, hanno dato vita alla massa tumorale.
Il sensore radiodoppler effettua una scansione in cerca di cellule col
DNA alterato lungo tutto il corpo, emettendo un raggio appena visibile,
alla velocità di tre centimetri al secondo. Nel giro di un minuto, ho una
mappa completa delle cellule tumorali libere e di quelle che già hanno dato
origine a metastasi.
–Nonosuke­san…–
–E… eh?– chiede tremante l’uomo.
–Ho scoperto solo l’addome, ma ora vedo che devo curare anche il resto
del corpo. Ti dispiace aprire il kimono? Ora non posso muovere le
mani…–
40
–Oh… sì…– la sua mano trema visibilmente, mentre si allunga a spo­
stare il kimono, ma Maaya è tranquilla e mi guarda inespressiva… anzi,
quasi incuriosita.
Il corpo di Maaya è terribilmente magro, ma so che i suoi organi sono in
condizioni migliori di quanto non appaia. Proseguo. Fulmino le staminali fuori controllo delle metastasi secondarie nel giro
di un paio di minuti; un lampo di luce che scende dai laser sui tentacoli che
spuntano dal mio collo, e la radiazione entra in risonanza esattamente nella
cellula impazzita, distruggendola. Le altre cellule del tumore che non sono
in grado di replicarsi, sono destinate a morire in poche ore.
Il problema è la massa che ha aggredito lo stomaco; quella va rimossa,
perché il corpo di Maaya, così debilitato, non potrebbe liberarsene da solo;
l’infezione necrotica sarebbe sufficiente a ucciderla.
–Il più è fatto. Adesso devo rimuovere il male che hai nella pancia,
Maaya.–
L’immagine che ho proiettato si amplia sul dettaglio dell’addome, e
ruota per darmi le coordinate precise di dove intervenire.
–Non sentirai alcun dolore, ma non sarà bello da vedere. Vorrei che tu
chiudessi gli occhi. Questo vale anche per voi…– Ma sia le miko che Nonosuke non sembrano avere alcuna intenzione di
distogliere lo sguardo, o forse non ci riescono. Sospiro.
Se avessi già attivato i quattro generatori a soglia zero principali potrei
usare un campo di stasi per tenere Maaya in animazione sospesa il tempo
necessario all’operazione, ma ho solo a disposizione il generatore ausilia­
rio. E non voglio usare un anestetico generale. Dovrò ricorrere ad un inibi­
tore dell’attività cerebrale per essere sicuro che Maaya non si faccia pren­
dere dal panico. Dal mio braccio spunta un’appendice che raggiunge rapi­
damente il collo di lei e inietta una piccola quantità di neuro inibitore. È il momento di operare. Dal mio collo spuntano i laser chirurgici; con
le mani genero un campo di stasi limitato alla zona dell’intervento, bloc­
cando l’afflusso di sangue e la trasmissione di impulsi nervosi. I laser inci­
dono in profondità il corpo di Maaya, ma grazie al campo di stasi locale
non esce una goccia di sangue. Con i risonatori coassiali spezzo una a una
le cellule che tengono il tumore legato ai tessuti circostanti; il campo di
stasi impedisce ai succhi gastrici di fuoriuscire dallo stomaco. È un’opera­
zione lunga, e resa più complessa dal movimento dell’addome dovuto alla
respirazione, ma i miei computer sono in grado di compensare i calcoli in
tempo reale. 41
Dal mio braccio destro faccio uscire una piccola appendice meccanica
che estrae la massa tumorale. Su un’altra appendice, che scende dall’avam­
braccio sinistro, si trova lo stimolatore cellulare che riproduce abbastanza
tessuto da chiudere il buco lasciato dal tumore nello stomaco. Variando la
frequenza dei laser chirurgici, saldo le pareti dello stomaco, i tessuti
muscolari e infine la pelle. Una ultima scansione, per sicurezza, mi con­
ferma che è tutto a posto. Rimuovo il campo di stasi. Le appendici sulle mie braccia e i tentacoli
sul mio collo rientrano, le mani e le dita si richiudono; resta solo il brac ­
cetto che tiene la massa tumorale estratta.
–È fatta.– Annuncio.
Maaya si mette seduta sui gomiti e si sfiora l’addome. Poi preme con la
punta delle dita un paio di volte.
–Non c’è… è… andato via!– mi guarda con gli occhi lucidi pieni di
tudine.
Le sorrido. –Ora sei guarita.–
Gratitudine (K)
Rai’an­sama tiene ancora quella palla di carne purulenta appesa a una
delle sue macchine, mentre Nonosuke si getta ad abbracciare Maaya, pian­
gendo. Rai’an­sama si alza e si dirige verso l’ingresso; si rinfila i sandali e
apre la porta. Non vedo bene cosa stia facendo, ma sento un sibilo, seguito
da un lampo di luce, e quando rientra la palla di carne non c’è più.
A che incredibile prodigio abbiamo appena assistito? La danza di
Midori era perfetta e sublime, ma non ha potuto nulla, o quasi, contro il
male di Maaya. E come avrebbe potuto? Se il male che si stava imposses­
sando di Maaya era quella mostruosità che Rai’an­sama ha tirato fuori dal
suo corpo…
Mi gira la testa. Come quando ho pensato al cielo diverso, stamane.
Scuoto la testa, non riesco a pensarci, e comunque sono troppo confusa.
Quando Rai’an­sama rientra, Nonosuke si getta a terra.
–Oh, grazie, Rai’an­sama, grazie! Come posso mostrarti la mia gratitu­
dine, dimmi come posso ricambiare, ti prego!–
–Non fare mai parola con nessuno di quello che hai visto. Ti chiedo solo
questo. E…–
–E…?–
–…Abbi riguardo per Maaya; le servirà tempo per tornare in forze.–
–Sì, certo, sicuro! Oh, grazie… grazie!–
–Ehm… a dirla tutta…–
42
–Sì…?–
–Ti abbiamo già chiesto ospitalità per stanotte?–
Nonosuke lo guarda sgranando gli occhi. Rai’an­sama gli sorride, quel
sorriso dolce che mi ha inchiodata la prima volta che l’ho visto… Il sorriso
è una malattia contagiosa, e Nonosuke si asciuga le lacrime e scoppia in
una grande risata.
Pochi minuti dopo siamo tutti attorno al focolare, anche Maaya, che
sembra avere un grande appetito.
Non abbiamo ancora finito di mangiare, ma il capo villaggio sta già ver­
sando il saké, caldo tanto da fumare. Maaya è debole, ma si capisce chiara­
mente che più di ogni altra cosa vuole restare lì a ridere insieme a tutti noi,
per assaggiare quella vita, pur semplice, che si era già rassegnata a dover
abbandonare. –È squisito…– commenta Rai’an­sama dopo aver sorseggiato il saké.
–Hehe, questo arriva da Hei’an. L’ho comprato quando sono andato alla
capitale per vedere di vendere del riso che ci era avanzato… era stato un
anno abbondante! Questo è il saké che servono a corte!–
–Marito! Ti sei fatto prendere in giro, secondo te si vende al mercato il
saké dell’Imperatore?–
–Oh, beh, non so, ma comunque il prezzo era buono e sono riuscito pure
ad abbassarlo! Su, bevi, bevi!– Nonosuke incita Rai’an­sama riempiendo­
gli di nuovo il piattino. Poi si alza e si assicura che abbiamo tutte del saké,
e quando torna al suo posto fa partire il brindisi.
–Alla gente di Rai’an­sama!–
E tutte noi dietro: –Kanpai!– e, così come abbiamo detto, i piattini si
svuotano.
Nonosuke, che sembra avere l’energia di un ragazzino, si rialza e fa di
nuovo il giro; ma nel piattino della moglie si assicura di aver versato solo
qualche goccia.
–Alle miko di Koumon!–
E tutti: –Kanpai!– e via, i piattini si asciugano.
Altro giro: –A mia moglie Maaya, la donna più meravigliosa che abbia
mai incontrato!–
–Oh, marito! Non essere sciocco, mi fai arrossire…!–
Ma noi tre non glielo permettiamo: –Kanpai!– e via, il saké sparisce!
Già al secondo kanpai, sembrava che Rai’an­sama non fosse affatto
immune agli effetti del saké, ma al terzo, il modo con il quale dice –Uh…
proprio squisito, questo saké…–, e il modo con il quale guarda la tazza
vuota, mi fanno capire che, in questo, Rai’an­sama è assolutamente umano.
43
Qualche Kanpai più tardi, e dopo alcuni buffissimi racconti di Nono­
suke sulla gente del villaggio…
–Ma… Rai’an­sama… le nostre storielle devono essere nulla rispetto ai
racconti della tua gente.–
–No, no, le tue storie sono davvero interessanti, più di quanto tu possa
pensare.–
–Eh?–
–Vedi, a noi piace studiare gli usi degli altri popoli. Ci sono degli sco­
lari che vivono solo di questo.–
–Davvero?–
–Sì, davvero! Anzi, io sono uno di quelli. Il mio lavoro è proprio quello
di studiare le usanze degli altri popoli, e di raccontarle alla mia gente.–
–Ohh… io pensavo… ecco… che tu fossi un … guaritore…– –Ah, beh, sì: in realtà, per noi le due cose sono abbastanza vicine. Il
nome del mio mestiere è “bioantropologo”. Nella mia lingua significa,
“colui che studia le abitudini e la vita degli uomini”. Quello che faccio è
studiare la relazione fra le abitudini degli uomini ed il loro corpo.–
Pieghiamo tutti la testa da un lato.
–Ad esempio… voi mangiate molto riso. C’è un’altra gente, dall’altra
parte del mondo, che mangia molte patate, non proprio come quelle che
avete qui in Giappone… ma simili. Col passare delle generazioni, il corpo
si abitua a mangiare più riso o più patate… io studio queste differenze. E
poi, studio l’effetto di altre abitudini, come ad esempio l’età preferita per
sposarsi e fare figli, o i tipi di lavoro che svolge la gente…–
–E questo ti aiuta a guarire le persone?– gli chiedo.
–Sì. Sapendo come funziona il corpo, posso guarirlo dalle malattie.–
Rimango senza fiato. Le sue parole mi rimbombano nella testa, non rie­
sco a fermarle. È un pensiero tanto semplice, tanto naturale, eppure così
fantastico. Cosa so io di come funziona il mio corpo? So che devo mangiare e bere,
e quello che mangio e bevo esce impuro; so che ogni mese il mio corpo
perde sangue, e che se accetto il seme di un uomo posso far crescere un
figlio dentro di me. So che invecchio e con l’età la pelle si farà secca e
rugosa, e i capelli bianchi e radi. Ma non so molto altro. È il mio corpo,
eppure per me è un mistero.
E se conoscere il corpo significa poterlo curare, allora … conoscere la
terra significa poterne trarre più frutti, conoscere l’aria significa poter
volare, conoscere il mare significa poter pescare qualsiasi cosa… cono­
scere tutto significa… potere tutto.
44
Mi sdraio lì sul posto, con gli occhi spalancati. Non so se è il saké o
quest’idea che mi ha fatto girare la testa.
–E quindi…– sento Rai’an­sama che prosegue, –raccontatemi come vi
siete conosciuti voi due.–
Non ascolto più; sonnecchio un po’, stesa lì sul tatami. Quando riapro gli occhi, tre stuoie sono state poste vicino al focolare; su
una, dorme serena Midori. È così carina, quando tiene la sua lingua
tagliente fra i denti. Le altre due sono vuote. Nonosuke e Maaya staranno
dormendo nell’altra stanza. Il pannello che dà sull’esterno è socchiuso; scendo dal tatami infilan­
domi gli zouri ai piedi e sguscio fuori. Rai’an­sama è lì in piedi, immobile
a guardare dritto verso Kasei, la Stella di Fuoco, casa sua.
–Rai’an­sama…– non lo sto chiamando; solo, mi escono naturalmente
queste parole. Ma lui si gira sorpreso a guardarmi.
–Oh, Kaori­san…–
La luna illumina il suo volto triste. Istintivamente sollevo la mano verso
di lui, ma per fortuna me ne rendo conto e la fermo a mezz’aria. Lui mi
sorride e torna a guardare Kasei.
Vorrei dire tante cose, e forse è per questo che non riesco a dirne nean­
che una. Resto in silenzio ad osservarlo osservare le stelle. Più per dire qualcosa, qualsiasi cosa, che per un vero motivo, gli dico: –
Dovresti riposare, domani dovremo camminare ancora.–
–Sì, hai ragione.– Sospira e si gira per rientrare.
–Rai’an­sama!– lo fermo; stavolta la mia mano gli ha già afferrato una
manica prima che io possa rendermene conto.
–Sì?… dimmi Kaori­san.– mi guarda un po’ sorpreso. –Ecco… io…– balbetto qualcosa, –vorrei che tu… mi spiegassi.–
–Spiegarti… cosa?–
–Quello che ho visto… quello che sai sui corpi… come guarire la
gente… insomma…–
–Beh … posso raccontarti qualcosa ma… non saprei da dove comin­
ciare.–
–Oh… certo… capisco… la tua sarà un’arte segreta…– abbasso lo
sguardo delusa.
–Ma no, niente affatto. Solo che ci sono davvero tante cose da sapere.
Oltre duemila anni di studi… ma credo, se sei disposta ad ascoltare, posso
almeno aiutarti a capire meglio alcune cose.–
45
Alzo lo sguardo, e incontro il sorriso di Rai’an­sama. Oh… avrei fatto
meglio a tenere gli occhi bassi, il suo sguardo è come un chiodo piantato
dritto dentro al mio cuore. Arrossisco come si conviene, e guardo altrove,
ma sento il suo braccio muoversi. Mi rendo conto ora che lo sto ancora
tenendo! Scatto indietro.
–Oh, scusa Rai’an­sama… perdono…–
Ride piano, ma di cuore. –Dai, ora andiamo a riposare. Avremo tempo
tutto il tempo di chiacchierare domani; fra l’altro il viaggio è più breve,
potremo camminare più tranquillamente.–
Rai’an­sama sposta una stuoia dall’altra parte del focolare, e si infila
dentro.
–Buona notte, Kaori­san.–
Lo guardo un ultimo istante prima di fare altrettanto.
–Buona notte, Rai’an­sama.–
Piccola mocciosetta (M)
Ahi… ahia, provo ad alzarmi, ma che male alle gambe! La marcia di ieri
mi ha fatta a pezzi.
Il sole si è alzato da poco, e ci stiamo preparando a partire. Kaori è fre­
sca come una rosa e si china fluente a raccogliere le sue cose. Come acci­
denti fa? Deve essere abitata da un demone. Quasi quasi la purifico, così fa
fatica anche lei…
–Tutto a posto, Midori­san?– mi chiede lo straniero.
–Sì, tutto a … ahi!– muovere anche solo un passo mi uccide.
Lo straniero ride. Eh, facile con quelle gambe grosse come alberi, eh?
–Dai, siediti qui.– e mi fa cenno di raggiungere la soglia dell’hiroma; il
tatami è rialzato giusto giusto quanto le mie gambe dal ginocchio in giù;
sedendo sulla soglia, la punta dei miei piedi sfiora il terreno. Rai’an si
china e sembra voler fare qualcosa, ma non capisco. Da dietro la nuca
sento arrivare lo sguardo pungente di Kaori. –Scopri le gambe.–
–…Eh?–
–Ho qualcosa che ti farà passare il dolore.–
–…Oh… ah, sì… ehm… certo…!– Uff, per un attimo ho pensato che …
oh, non lo so neanche io quel che ho pensato. Mi slaccio la fascia
dell’hakama, e abbasso la parte anteriore. Il nagajuban copre le mie parti
intime, e scostandolo appena le cosce restano fuori. Lo sguardo pungente
alle mie spalle si fa tagliente. Quasi quasi le faccio un dispetto… ma no,
Kaori se lo meriterebbe, ma lui no.
46
Lo straniero avvicina il braccio sinistro alla mia coscia destra, e lo tiene
ad un palmo di distanza. Si ode un sibilo, come il verso di un serpente, ma
me lo ricordo da ieri sera, e non mi spavento. Sento un tocco delicato sulla
pelle e subito una sensazione di calore che si va espandendo. Rai’an fa la
stessa cosa sull’altra gamba. Poi mi guarda e mi sorride.
–Ecco fatto. Fra un po’ non sentirai più male.–
–Oh… grazie.–
–Di niente.–
–Ecco, Kaori­san, – inizia lo straniero mentre mi riallaccio la fascia, –
riguardo a quello che ci siamo detti ieri notte…– e poi, una sfilza di parole
che non sono sicura di capire. Anzi, non le capisco affatto, ma riguardano
il dolore che stavo provando, un “latte” qualcosa nelle mie gambe, e la
medicina che mi ha messo nel corpo.
Mi ha messo una medicina nel corpo?!?! Ma io non ho bevuto nulla!?!?
–Ohh, capisco…– risponde Kaori. Io no, e lo so, nemmeno lei, ma…
adesso che ci penso, lo straniero, non ha parlato di qualcosa che si sono
detti stanotte?
Ah, che occasione da non perdere!
–Quello che vi siete detti ieri notte…? Kaori­san, che avete fatto mentre
dormivo?–
–Midori!– Kaori mi incenerisce con lo sguardo. –Oh, scusa, Kaori­san, – le sorrido innocente, –capisco, sono cose pri­
vate…–
Kaori si china su di me e mi sorride melliflua: –Ti maledico a morte!– Mi porto la mano davanti alla bocca e rido, ma lo sguardo di Rai’an è
sconcertato. Capisco … è uno straniero…
–Oh, Rai’an­sama, non preoccuparti, è solo un modo di dire. Kaori­san
non intendeva dirlo per davvero, non è così?– le sorrido.
–Mah… chissà… piccola mocciosetta impertinente…–
–Ehm… anche questo è un modo di dire?– chiede lo straniero.
–No, questo è proprio vero.– risponde cinguettando Kaori. Non gliela
posso dare vinta. Non sono affatto una mocciosa! Alzo la posta.
–Dai, zietta, non devi prendertela così, che non sta bene alla tua età…–
Kaori è paonazza. Colpita e affondata! Si alza e finisce di preparare le
sue cose, borbottando qualcosa tipo –Ma guarda che sfacciata…–
Il mio sorriso si rivolge allo straniero, che mi restituisce uno sguardo un
po’ perplesso, e poi si alza per finire i suoi preparativi.
47
Provo ad infilare gli zouri ed alzarmi a mia volta… il dolore è sparito!
Saltello un po’, faccio qualche passo e niente. Uh, che strana sensazione,
sono così sorpresa che mi sento quasi delusa dalla sparizione improvvisa di
tutto quel dolore.
Nel frattempo, sono usciti anche Nonosuke e Maaya. Lei ha già ripreso
un po’ di colorito, e sembra aver riacquistato un po’ di quella bellezza che
doveva avere prima di ammalarsi. Il suo sorriso è solare. –Grazie ancora.– dice, e porge un fagotto a Rai’an. –Oh, grazie, ma non posso accettare.–
–Su, su!– lo esorta Nonosuke, –soltanto pensare che mangerete questo
cibo ci fa un immenso piacere!–
–Oh… allora… vi ringrazio.– accetta infine Rai’an, con un piccolo
inchino. Non so, vedere la sua testa dorata chinarsi in quel modo… non
capisco perché, ma mi sembra strano. Chissà se si rende conto dell’onore
che ha regalato a Nonosuke e Maaya accettando il loro dono.
Maaya saluta a sua volta. –Se passerete di nuovo da queste parti, venite
da noi. Non potremo mai ripagare quello che avete fatto, ma… se almeno
potremo condividere quello che abbiamo con voi, ne saremo onorati.–
–Senz’altro. Grazie per l’ospitalità e addio.–
–Addio!– ci salutano in coro marito e moglie, mentre ci incamminiamo
verso la prossima destinazione.
C’è qualcosa in Rai’an che mi piace molto. Credo che sia… il fatto
che… ecco, un nobile, o anche solo un guerriero, normalmente non
avrebbe accettato il dono di quella coppia. Men che meno avrebbe ringra­
ziato per l’ospitalità offerta. Questo straniero sembra così gentile… sembra
davvero che… gli importi qualcosa degli altri. Ecco, credo sia questo che
mi piace. Ho visto quello che può fare, e non c’è nessuno che possa fare
altrettanto. Anche l’Imperatore dovrebbe inchinarsi di fronte ad un potere
simile. E invece, lui lo ha impiegato per una perfetta sconosciuta… una
contadina, per di più. E dopo… sì, sono certa… dopo, era felice. Ascoltare
quelle storie buffe che ha raccontato Nonosuke… vedere il sorriso di
Maaya… bere tutto quel saké e ridere… sì, sono certa. Più di qualsiasi
altra cosa, quella è la moneta che può pagarlo.
Sono contenta che Rokugane mi abbia scelta per questo viaggio. Non
credo che sarò molto utile, ma sono contenta lo stesso.
48
Sulla strada per Nara (K)
Secondo il piano originale, avremmo dovuto chiedere informazioni sul
vascello alla gente di Amagane, ma Rai’an­sama mi ha detto che non era
necessario, e ha preferito non “disturbare oltre i nostri ospiti”. Come se
guarire quella donna da un male inguaribile fosse un disturbo. Mah, le sue
ragioni, ancora, mi sfuggono. Ma non mi è stato chiesto di comprenderle.
Da quanto mi ha raccontato il kannushi, la gente dei villaggi di questa
zona protegge il vascello da generazioni. Naturalmente nessuno sa di cosa
si tratti; e come potrebbero? Io stessa non riesco ancora a credere del tutto
a questa storia. Ma comunque, lo venerano come un mikoshi, un vettore
divino, e scelgono i giovani più forti per affidare loro il compito di proteg­
gerlo. Un tempo, c’era un piccolo esercito. Adesso, ne scelgono solo uno.
Rai’an­sama ha disegnato nell’aria la mappa del luogo che dobbiamo
raggiungere; è a meno di un’ora di cammino. Non conosco bene quella
zona, ma credo che il terreno dovrebbe essere abbastanza facile. Certo, che strumenti meravigliosi che possiede Rai’an­sama! Poter dise­
gnare una mappa nell’aria, e ingrandirla tanto da mostrarmi anche le curve
dei sentieri… con uno strumento simile, chi potrebbe mai perdersi?
Chissà fra quali meraviglie ha vissuto. Una città volante nei cieli di
Kasei… istintivamente guardo in su. Ecco; siamo usciti dal sentiero e abbiamo incrociato la strada principale.
A questo punto, dobbiamo girare nella foresta.
–È di là.– annuncio e punto il bosco con un dito.
–Kaori­san…– piagnucola la mocciosetta. La guardo cercare di ripren­
dere fiato, e poi guardo Rai’an­sama.
–Manca poco, e il sole è ancora basso… fra l’altro devo prendere ancora
un po’ di forze. Riposiamoci un attimo.–
Sospiro. –Come desidera Rai’an­sama.–, ma mentre ci sediamo gli sus­
surro, –la stai viziando troppo…– Però, non ricevo risposta.
Il vento fresco del mattino accarezza le fronde; da queste parti, la foresta
cresce densa e confusa, gli alberi diversi gli uni addosso agli altri, a lottare
per quel palmo di terra che dà loro la vita. Eppure, al primo alito di vento,
eccoli accarezzarsi le foglie, delicati eppure veementi.
Respiro il profumo della primavera, ma col vento arriva il suono degli
zoccoli di un cavallo, e lo stridio di ruote male oliate. E da dietro la curva,
spunta presto un carretto tirato da un cavallo dall’aria dimessa, e sul carro,
un ometto con la faccia buffa.
49
–Oh, tu guarda, delle miko!– ci saluta col braccio. Rai’an­sama china
bene il kasa sul volto, e Midori si desta dal torpore.
–Salve, zio!– Midori risponde al saluto; io accenno giusto un inchino
col capo.
Arrivato davanti a noi, –Ohhh– tira le redini e si ferma.
–Figliola, – mi guarda, –non è che avresti un mamori da vendermi?–
–Eh… no, siamo in viaggio…–
–Ti pago bene. Se non hai un mamori, allora ti pago anche per un rito di
purificazione! C’ho una sfortuna… avervi trovate qui sulla strada
dev’essere un segno.–
–Un segno?–
–Sì, – l’ometto salta giù dal carro, –vengo ora da Nara. I Fujiwara hanno
appena alzato il dazio delle stoffe in ingresso alla città, e se provo a ven­
derle lì, non avrò nessun margine! I mercanti che già erano in città
potranno tenere i prezzi bassi ancora per un po’, giusto abbastanza per
mandarmi in rovina!–
–Ah sì?– rispondo; Nara è appena qualche miglio più a valle lungo la
strada, e avere delle notizie fresche può esserci utile.
–Sto andando di corsa a Iga per cercare di piazzare il mio carico in
paese; se sono fortunato, arriverò prima degli altri. Certo, la gente di Iga è
di bocca buona e non è disposta a pagare lo stesso prezzo della gente di
Nara… per questo ho bisogno di un po’ di buona sorte. O almeno, che mi
abbandoni questa sfortuna!–
–Oh… capisco…– Con la coda dell’occhio vedo Midori già intenta a cercare il suo oonusa.
Devo spiegare un paio di cose a quella ragazza, prima o poi; cercando di
batterla sul tempo, chiedo al mercante: –E… cosa sei disposto a offrirci?–
–Oh… vediamo…– si gira e fruga nel carro, –… delle fanciulle graziose
come voi potrebbero fare buon uso di questa fine stoffa cinese!– e tira
fuori un piccolo rotolo di panno rosso. Non so se è cinese, ma non credo
che nessuno in Cina comprerebbe quella roba. O oserebbe provare a ven­
derla. –No?–
Scuoto il capo.
–Allora… che ne dite di questo bel nagajuban, le miko me lo chiedono
sempre…–
Sarà, ma se glielo chiedono, lo vogliono bianco, non ocra. E poi, quello
sembra più un haori…
–No, eh?–
50
Scuoto ancora il capo.
–Certo che sei una cliente difficile da accontentare, sorellina…
vediamo…–
Scuoto il capo.
–Eh?… ma non ho ancora detto nulla…–
Lo guardo fisso.
–Va bene, ho capito. Tre monete di rame.–
Sbuffo e abbasso la testa. Per quanto l’haori fosse orrendo, valeva certo
di più di tre monete di rame.
–Ho, capito, ho capito, con una figliola sveglia come te non posso spun­
tarla. Una moneta d’argento. È la mia ultima offerta.–
Mah, se ci mettiamo qualche altra informazione che intendo chiedergli
dopo, il prezzo potrebbe anche andare. Vabbeh, dai.
–Midori… fai del tuo meglio!–
–Come Kaori­san desidera!– canta Midori tutta felice.
–Che devo fare?– chiede il mercante.
–Stai fermo lì, zietto. Faccio tutto io.– gli risponde Midori. E inizia a
sollevare, lentamente, il suo Ooonusa frusciante sopra alla buffa testa del
nostro cliente.
–Kamii del cielo…– e fruscio in alto.
Non ci credo.
–…Kamii della terra…– e fruscio in basso.
Non voglio crederci.
–…e tutti gli ottantamila kamii assisi in assemblea…– fruscio tutto
intorno.
Mi abbraccio le ginocchia e ci affondo la faccia. –Oh, no…–
–…attraversando nubi di alte cime e nubi di basse valli, vengo a porvi la
mia supplica…–
Il corpo di Midori si tende e fruscia come un arco, supplicante.
–…e vi dico che il peccato chiamato peccato, qui più non dimora!–
Midori gira e fruscia senza più dimora. –Come il vento da occidente che spazza via le nubi pesanti dai cieli…–
Midori fruscia da occidente e spazza via le nubi.
–…come la rugiada del mattino, e la rugiada della sera, sono soffiate via
dai venti del mattino e dai venti e della sera…–
L’oonusa di Midori fruscia da mattina a sera.
–… così io soffio via il peccato del mondo terreno!–
51
Midori soffia via i peccati frusciando. E io vorrei scavare una buca e
seppellirmici. Allungo un braccio in cerca di Rai’an­sama e quando lo
trovo lo scongiuro: –Dimmi quando finisce.–
Dopo un po’ di fruscii e di altre frasi tirate fuori a caso dal Norito della
Grande Purificazione, sento toccarmi la spalla: –Ha finito.–
–Yokatta!– esclamo a bassa voce.
–Ohhh, – dice il mercante, –ma che benedizione meravigliosa! Già mi
sento molto più fortunato! Da quale tempio venite, figliole? O venite da un
santuario?–
–Koumon– rispondo, e mi alzo in piedi per riscuotere la moneta
d’argento.
–Oh, Koumon… gran bel santuario… quando ci passo, ringrazierò il
kannushi per avervi mandate da me!–
In silenzio, prego Touga­sama che questo mercante sbagli sempre
strada.
–Beh, è stato un piacere fare affari con voi! La moneta d’argento meglio
spesa della mia vita!– dice allegro, e mi allunga una moneta. Peso, colore e
dimensione sembrano giusti. Mentre la prendo, riscuoto la seconda parte
del pagamento:
–Zio, hai detto che a Nara i Fujiwara hanno imposto dazi più alti ai mer­
canti.–
–Già. Una vera iattura, sorellina.–
–E chiedono un pedaggio anche ai viandanti?–
–No, non sono arrivati a tanto. Non ancora, almeno.–
–Ho capito… e sai mica se hanno aperto qualche nuovo tempio in
città?–
–Tu vuoi sapere se stanno favorendo i monaci, eh sorellina?–
–Più che altro, mi interessa sapere se siamo ancora le benvenute.–
–Nessun cambiamento. La vita per i monaci è sempre facile, ma ci ten­
gono a tenerli sul chi vive.–
–Bene. Grazie per le informazioni.–
–Grazie per la benedizione. Addio figliole!–
–Addio zio, fai buon viaggio!– lo saluta Midori, agitando la manina.
Aspetto che si allontani un po’ e mi giro verso Midori.
–Ma come ti è saltato in testa di usare il Norito della Grande Purifica­
zione per questo!–
–Beh… per una moneta d’argento mi sembrava che meritasse qualcosa
di grande… e pensando a qualcosa di grande…–
–Quelle parole non sono un gioco!–
52
–Non stavo giocando, Kaori­san!–
–E poi, almeno, cerca di metterle in fila bene, hai fatto un pasticcio!–
–Ho pensato di usare solo le parti che riguardavano i peccati…–
–Quella è una preghiera a tutti i kamii, capisci, a tutti! Cosa penseranno
i kamii che hai scomodato per quel… mercante?–
–…scusa, Kaori­san…– mi guarda con occhietti innocenti.
–Scusa un corno! Non si invoca mai un kamii per aiutarti con una bene­
dizione data così, per strada… non uno! Figuriamoci tutti!–
–Scusa… non lo faccio più…– è quasi sul punto di piangere.
–Lo spero bene! Da non credere… su, rimettiamoci in cammino.–
Da sotto il suo kasa, non riesco a leggere l’espressione di Rai’an­sama,
ma ho come l’impressione che si stia divertendo un sacco alle nostre
spalle.
La foresta di Amagane (M)
Che cattiva, Kaori! Insomma, ho fatto un bellissimo kagura… e anche
quello zietto ha sentito la fortuna che si posava su di lui. Vabbeh, lo
sapevo che una preghiera come quella della Grande Purificazione era dav­
vero troppo… insomma, è un po’ la nostra arma finale, l’invocazione più
potente che conosciamo, ma pensavo che usarne giusto qualche parola…
Oh beh. Mi sa che ha ragione lei. Come sempre. La odio quando ha
ragione. E siccome ha sempre ragione, la odio sempre.
Le faccio la linguaccia da dietro le spalle; ma si è già infilata fra i cespu­
gli.
–Vai avanti, Midori­san, così stai nel mezzo della fila.– lo straniero mi
sorprende con la lingua ancora fuori. Arrossisco, gli rispondo: –Oh… sì,
certo…– e mi incammino.
Il sentiero nel bosco è appena tracciato, e la vegetazione è molto densa;
le vesti si impigliano spesso agli arbusti. La pendenza sale ripida, il terreno
è polveroso e poco compatto. Insomma, procedere è davvero difficile.
Fra rami densi, la luce del sole filtra appena. L’oscurità è opprimente,
innaturale. Anche gli uccelli, da un po’, hanno smesso di cantare. Non mi
piace. Raggiungo la mia sacca e con la mano frugo in cerca dell’oonusa.
L’arco continua ad impigliarsi fra i rami bassi, e sono costretta a tirare
fuori la mano per liberarlo. Kaori è già dieci passi avanti, ma dietro di me
Rai’an arranca. 53
A un certo punto, un rumore strusciato mi fa trasalire. Mi giro di scatto;
giusto in tempo per vedere lo straniero piombare a terra come un polipo
bollito. Istintivamente vorrei andare ad aiutarlo, ma anche la mia posizione
è assai precaria, e cerco di muovermi verso il basso con cautela.
–Tutto bene?– lo chiamo. Kaori, che ormai si intravede appena fra gli
arbusti più in alto, si gira a guardarci.
Lo straniero dice alcune parole dal suono buffo che non comprendo;
probabilmente è qualcosa nella sua lingua. Si solleva in ginocchio e cerca
di scuotersi il terriccio dai vestiti.
–Sì, grazie, tutto a posto.– ma mi rendo conto che l’enorme fagotto che
porta, oltre alla sua corporatura, sono nemici formidabili in questa mac­
chia.
–Va tutto bene, lì sotto?– chiama dall’alto Kaori.
–Sì, – le rispondo io.
–Forza, siamo quasi sul pianoro.– ci incita lei, ma adesso si è fermata e
sta aspettando che la raggiungiamo. Quella zietta deve avere una magia
segreta, come fa a passare attraverso al bosco in quel modo?
Finalmente sbuchiamo fuori dal sentiero stretto; la boscaglia si dirada e
lascia posto ad una foresta di abeti; per di più, la pendenza cessa quasi del
tutto. –È questo il pianoro?– chiedo a Kaori. Lei annuisce ma poi guarda
Rai’an, come a chiedere conferma. Lui si guarda intorno, ed è chiaro che
sta vedendo cose che noi non possiamo vedere, perché fissa il suo sguardo
su cose all’apparenza insignificanti. Dopo poco, alza un braccio ed indica
il fianco della montagna, che torna a salire oltre il pianoro.
–È là dentro.–
Kaori lo guarda con aria interrogativa.
–Sotto la montagna?– gli chiede, e Rai’an annuisce.
Sembra volergli chiedere come possiamo fare a raggiungerla, ma lo stra­
niero deve aver capito il suo dubbio, perché anticipa la risposta: –Lo scafo è piuttosto ingombrante; difficilmente sarebbe passato inos­
servato, quindi è l’unica cosa che abbiamo appositamente cercato di
nascondere. Quando è stato fatto partire, gli è stata impressa abbastanza
forza per infilarsi in profondità nella roccia; ma da qualche parte ci deve
essere il foro dal quale è entrato…–
Non finisce la frase che scatta ad afferrare il polso di Kaori e si porta un
dito alla bocca; poi si gira subito verso di me per assicurarsi che l’abbia
visto. Il suo sguardo è allarmato e vigile. Sto per guardarmi intorno in
cerca del pericolo, ma lui mi afferra per un braccio, una morsa dolorosa, e
scuote piano il capo. Capisco, devo far finta di nulla.
54
Dagli alberi alle nostre spalle sento il sibilo di una spada che struscia
contro il fodero, e un grido lo segue.
–Fermi! Non muovetevi!–
Ah, sì, io non mi muovo. Manco respiro. Sto ferma ferma.
–Mi hai tolto le parole di bocca…– è la voce di Kaori. Rai’an, che ancora mi tiene per il braccio, si volta piano, e io seguo il
suo sguardo.
Un giovane possente stringe una spada con la punta a un braccio dalla
nostra schiena. Ma a un braccio da lui c’è la punta della freccia di Kaori,
già incoccata nell’arco.
Il giovane, enorme, persino più alto dello straniero, si gira lentamente a
guardare la freccia puntata dritta verso i suoi occhi.
–Getta la spada.– gli intima Kaori. Uwaaa, è fantastica! Come ha fatto a
prenderlo così di sorpresa?
Il giovane rimane impietrito.
–Kamii del cielo, kamii della terra, accogliete l’anima di questo gio…–
inizia ad intonare lei, ma il ragazzo capisce che la mia amica fa sul serio, e
lascia cadere la spada senza muovere altro muscolo se non quelli delle dita.
Ovviamente, sbiancando.
–… grazie;– gli sorride la mia zietta, –oggi abbiamo già disturbato i
kamii abbastanza, e mi spiaceva seccarli ancora mandando dalle loro parti
un’anima puzzolente come la tua.–
Uwaaaa… che forza, la mia amica Kaori!
Se possibile, il ragazzo sbianca ancora di più.
–Salve…– saluta Rai’an, –… tu devi essere il guardiano del mikoshi di
Amagane, giusto?–
–Sì…– risponde il giovane, ancora immobile, con lo sguardo fisso sulla
freccia.
–Kaori­san, puoi lasciarlo andare.–
–Come Rai’an­sama desidera…– ma aggiunge rivolta al ragazzo, –Ti
chiedo di perdonarmi in anticipo: se ci riprovi, non farò in tempo ad
accompagnare la tua anima con una preghiera…– e così dicendo abbassa
lentamente, molto lentamente l’arco. Senza posare la freccia. E senza
distogliere lo sguardo.
–Oh… sì… ho capito.–
Rai’an si avvicina, e saluta chinando appena il kasa che ha sulla testa.
–Il mio nome è Ryan. Come ti chiami, giovane guerriero?–
–Io… sono Jirou.–
Mi scappa una risatina. Che nome banale!
55
–Piacere di conoscerti, Jirou­san. Io sono venuto da… molto, molto lon­
tano…– e mentre lo dice, si slaccia il kasa, –…per vedere il mikoshi.–
Dal movimento della testa, capisco che il giovane sgrana gli occhi nel
vedere il volto dello straniero.
Jirou è almeno un palmo più alto di Rai’an; è veramente enorme. Ha
lunghi capelli nerissimi, spettinati e arruffati, un’armatura fatta di pezzi
raccolti chissà dove, e mani grosse come pale. Non vedo bene il suo volto
perché i cappelli arruffati e spettinati gliene coprono gran parte. I cortis­
simi capelli d’oro, gli occhi del color del cielo e la figura solenne dello
straniero sembrano una copia al contrario, riflessa da uno specchio magico,
che torreggia sul giovane nonostante sia più piccola. O… meno enorme.
Rai’an continua: –So che i vostri villaggi hanno fatto buona guardia al
mikoshi per molto tempo, in attesa che il suo kamii si rivelasse.–
Rokugane ci aveva accennato qualcosa di questo la sera prima della par­
tenza.
Jirou annuisce.
–Io sono venuto qui perché è giunto questo momento.–
La grotta (R)
Spero di non aver scosso troppo Jirou; ma non riuscivo a trovare altre
parole. Tuttavia, dopo il primo impatto, credo che si sia sentito
addirittura… sollevato. Fare la guardia a un pezzo di ferro incastrato in un
buco nella roccia per la maggior parte della propria vita non dev’essere una
prospettiva particolarmente eccitante.
–Ecco, è qui.– ci indica. Come previsto, c’è una profonda fenditura sul fianco della montagna;
oltre all’energia cinetica, lo scafo era stato dotato di uno scudo ad alta
energia per penetrare nella roccia e incastrarvisi, in modo da rimanere
nascosto per secoli. Questa gente l’ha trovato lo stesso, ma grazie al fatto
che ne hanno fatto una specie di oggetto di culto segreto, la cosa non
dovrebbe causarci alcun problema.
Il passaggio è un po’ scomodo, ma si riesce a camminare senza troppa
difficoltà. Jirou ci fa strada con una torcia; la luce che filtra non basta a
capire bene dove mettere i piedi.
Arrivati in fondo alla piccola grotta, lo scafo giace in posizione quasi
orizzontale. Lo scudo era programmato per generare un ultima scarica di
energia alla fine della discesa, in modo da formare una camera abbastanza
ampia da permettere di accedere agevolmente a tutti gli ingressi. 56
La gente di questi villaggi ha agghindato la camera dove giace lo scafo
con ogni sorta di decorazione sacra a sua disposizione. La navicella è com­
pletamente avvolta in tre giri di corde consacrate, alle quali sono appese i
pendagli di carta di riso piegata. Alla base sono posati fiori, cibo, bambole
e vari doni votivi. La navicella è lunga una decina di metri, larga sei e alta meno di tre; ha
una forma affusolata e compatta. Dall’esterno non si può scorgere nessuna
apertura se non quella per lo scarico dei motori al plasma. La parte supe­
riore è arrotondata, e questo può aver confermato l’idea dei nativi che si
tratti di una specie di carro celeste. La parte anteriore è appuntita, ed è
rivolta verso l’esterno: le armi principali serviranno ad allargare legger­
mente il passaggio per facilitarne l’uscita.
La camera che ha scavato è larga circa trenta metri di diametro e alta
sei. La luce della torcia non ne illumina che una piccola parte. L’impulso
ad altissima energia che ha disintegrato la roccia, l’ha anche vetrificata e
cristallizzata. Non c’è da meravigliarsi se questa gente ha pensato che que­
sto fosse un luogo magico: ogni anfratto brilla lucido come ossidiana.
Jirou si avvicina al vascello con reverenza religiosa. Arrivato a un passo
dallo scafo, posa la torcia, batte le mani due volte, si inchina, sempre due
volte, e batte le mani una volta sola. Le miko lottano per non fare altret ­
tanto: sanno di cosa si tratta, ma ciò nonostante, questo luogo e questo
oggetto alieno devono inspirare in loro lo stesso sentimento che, normal­
mente, acquietano con questo rito. Mi avvicino allo scafo. La batteria ausiliaria, che serve ad alimentare i
computer essenziali della navicella, è carica. Si trova poco sotto la mia
ultima costola sinistra, ha forma cilindrica ed è lunga poco meno di dieci
centimetri. Più o meno, ha la dimensione di un dito. Lo scompartimento
dove va inserita è dove l’ho visto prima che la navicella fosse mandata qui,
a circa metà altezza della parete destra.
Mi scopro il fianco tirando su il kimono. Attivo la sonda con il laser chi­
rurgico che esce dal mio collo. Jirou grida, e balzando indietro, incespica e
cade; mi sono dimenticato di avvisarlo.
–Oh, scusa, non volevo spaventarti… – gli sorrido. Mi giro in modo che
le miko e Jirou non vedano il mio fianco, e incido la pelle dietro alla quale
si trova la batteria. Questa esce facilmente dalla camera costruita apposta
per contenerla. Richiudo l’incisione, sistemo il kimono e ritiro il laser.
Basta avvicinare la batteria alla piccola nicchia, che i circuiti circostanti
si attivano automaticamente. La batteria viene caricata all’interno e lo
sportello della nicchia si chiude, facendola svanire.
57
Un quadrato evidenziato da un filo di luce pulsa di fronte a me. Il com­
puter mi chiede con una voce femminile dal tono neutro:
–Identificazione.–
–Ryan Sullivan.–
Dalla parte superiore del quadrato scende una lama di luce che scan­
siona il mio corpo.
–Ryan Sullivan, identificazione verificata. Accesso autorizzato.–
La voce del computer ha fatto trasalire gli altri, ma ormai non ho più
intenzione di avvertirli di volta in volta.
Il quadrato sottolineato dal filo di luce scivola via rientrando a destra
nella parete, rivelando l’interno, illuminato fiocamente dalle luci di emer­
genza. Per entrare, devo scostare le tre corde consacrate che passano
attorno allo scafo. Per me sono passati pochi giorni, ma per questa nave sono passati
secoli; non so neanche quanti. Con un passo, salgo dentro, do un colpetto
alla parete e saluto: –Ciao, vecchia mia…–
Il carro dei cieli (K)
Rai’an­sama sale sullo “scafo”. Mi aspettavo qualcosa di simile a una
“barca”, ma questa cosa sembra più un “carro”. Ero pronta a qualche stranezza, ma quella voce uscita dall’aria mi ha
dato i brividi. Accanto a me, Midori trema come una foglia. Il ragazzotto,
invece, trema anche lui come una foglia, ma sdraiato ai miei piedi.
Rai’an­sama si gira e mi sorride. –Su, salite.–
–Eh?–
–State tranquilli, non andiamo da nessuna parte, devo solo consultare gli
strumenti.–
–Credo che… preferirei stare qui…– non so perché mi escono queste
parole.
–Veramente… ho bisogno del vostro aiuto per consultare le mappe.– Ho come la sensazione che non sia del tutto vero, ma il suo sorriso ha il
potere di muovere i miei piedi contro la mia volontà.
Sentendomi muovere, si scuote anche Midori.
–Jirou­san, anche tu.–
Ma Jirou è paralizzato. Sto per girarmi, ma Midori si china e lo prende
per un braccio dicendogli: –Su su, grande, grosso e fifone!–
–Eh… ma…– balbetta il ragazzo, ma punto sul vivo si mette in piedi e
si lascia spingere.
58
Ridacchio; per una volta la lingua affilata di Midori ci torna utile.
Dentro, sulla sinistra c’è un corridoio che scende subito nell’oscurità e
sulla destra si allarga in una stanzetta con sei … troni … sedie come quelle
cinesi, con un supporto per appoggiare la schiena, due di fronte, due a
destra e due a sinistra; davanti a ogni trono c’è un tavolo inclinato, e su
ognuno di essi, migliaia di disegni variopinti e luminosi come quelli che
Rai’an­sama sa disegnare nell’aria. È un festa di allegri e morbidi colori e
luci, che mi accarezza mentre vado verso di lui.
Rai’an­sama si siede sul trono rivolto verso la punta, a destra, e dice
qualcosa che non capisco. La parete di fronte si illumina e compare la
mappa dello Yamato! Ma non avevo mai visto una mappa così dettagliata.
–Purtroppo…– si gira Rai’an­sama facendo cenno di avvicinarmi – …
non abbiamo dati precisi. Questa mappa è ricostruita sulle informazioni
che siamo riusciti a raccogliere, e su come questa terra diventerà, non su
come è ora.–
–Ah…–
–Per questo ho bisogno della tua esperienza per decidere dove andare, e
come andarci. Ad esempio, non sappiamo se in una certa zona c’è una
foresta troppo densa, o una palude che è meglio evitare… o se una zona è
disabitata.–
–… perché quando avete disegnato questa mappa, le cose sono diverse
da come sono ora…– concludo.
–Esatto. Ad esempio, noi non sapevamo nulla del villaggio di Ama­
gane.–
–Ma era nella mappa che mi hai mostrato stamattina…–
–Sono in grado di fare una mappa molto precisa del territorio che mi
circonda, ma solo per circa un miglio. E richiede tempo.–
–Oh… capisco…–
–Ora la nave sta chiamando le parti che abbiamo mandato qui. Ci vorrà
ancora un po’ prima che rispondano tutte. Ecco, vedi? Come rispondono,
sulla mappa compare un puntino rosso.–
–Ohh…– è appena apparso un puntino che sembra essere dalle parti di
Nara, e uno proprio là dove la mappa dice che si trova Hei’an. E poi, uno
più in basso, sembra Sakurai…
Midori e Jirou, accanto a me, guardano immobili la mappa, respirando
appena, come se stessero contemplando l’apparizione del Budda Kanon.
Credo di avere la stessa espressione.
La voce di donna continua a dire cose misteriose ogni volta che com­
pare un punto rosso; ma fra le cose che dice, riconosco i nomi dei luoghi.
59
–Rai’an­sama, chi è che parla?– –È la macchina per contare.–
–Eh?–
–È una macchina che conta. Una specie di pallottoliere, ma molto,
molto veloce.–
–E… sa parlare?–
–Sì. Vedi, quei puntini rossi, in realtà, sono un numero. O meglio, la
macchina conta la distanza fra noi e quel punto, e così lo può disegnare.–
–Ah, la macchina sa anche disegnare?–
–Sì; perché non solo i puntini rossi; tutto quello che vedi è un numero.
Per esempio, lì dove c’è il mare, dove c’è il colore blu, la macchina conta
mille. Dove c’è verde conta duemila. Dove c’è un po’ blu e un po’ verde,
conta mille e cinquecento. Ogni piccolo puntino è un numero.–
–E… le parole?–
–La macchina conta anche quelle, come fossero numeri. Ad esempio,
Rai è mille, e An è duemila, e così Rai’an diventa dieci milioni e duemila.–
–È un numero molto grande… se una piccola parola diventa un numero
così grande, un libro…–
–Eh sì, diventa un numero davvero molto, molto grande. Ma come ti ho
detto, questo pallottoliere è molto, molto veloce, e può contare, sommare e
sottrarre numeri immensi molto in fretta. E pensa che, in realtà, la mac­
china per contare che sta parlando adesso è molto semplice. Assieme allo
scafo, abbiamo potuto inviare solo la macchina più semplice che potesse
svolgere questo compito. La vera macchina per contare è finita qui.–
Rai’an­sama indica un puntino che brilla poco a nord di Sakurai. –Questa è la prima cosa che dobbiamo andare a prendere: la macchina
per i calcoli principale e la sua memoria.–
–Memoria? I pallottolieri hanno dei ricordi?–
Rai’an­sama ride. –Già, non l’avevo mai pensata così. Ma in effetti, le
macchine per il calcolo hanno bisogno di ricordare i calcoli che hanno già
finito, per poterli usare nuovamente in altri calcoli.–
La mappa si rimpicciolisce, come se si stesse allontanando; nel vedere
quel movimento improvviso perdo l’equilibrio. Un nuovo puntino appare
così lontano che se la mappa non si fosse rimpicciolita, non si sarebbe
visto. –Dov’è quello?–
Rai’an­sama pronuncia delle parole nella lingua sconosciuta, ed accanto
ai luoghi apparsi compare il loro nome. Il nuovo punto è a Ise!
–Sarà difficile arrivarci…– commento.
60
–Già. Chissà come è finito lì.–
–Che cos’è?–
–Uno dei … – credo che Rai’an­sama cerchi di trovare le parole –…
pozzi di forza…–
–Eh?–
–Per muovere le cose c’è bisogno di forza. Per muovere un carro, si usa
la forza del cavallo. Per tirare un sasso devi usare la forza nel tuo braccio;
come per tendere un arco. Noi abbiamo trovato un modo di prendere la
forza da… uhm… è un po’ difficile spiegarlo… è come prendere l’acqua
dalla terra scavando un pozzo. L’acqua è già lì sotto, ma devi scavare un
buco e poi usare un secchio per tirarla su. Allo stesso modo, la forza è
tutt’intorno a noi, ma c’è bisogno di… scavare un buco… e tirarla su.–
–Ah…– credo di capire, e allo stesso tempo so che non ho capito. Le parole della macchina per contare sono accompagnate da un suono
che mai avevo udito prima.
Rai’an­sama annuncia: –Finito. Abbiamo la posizione di tutte le parti
che ci servono. Un paio sono in posti un po’ scomodi da raggiungere, ma
poteva andarci peggio. Almeno, nessuna ha lasciato queste isole. Prima di
tutto, ci serve la macchina per i calcoli a Sakurai.–
Con altri gesti della mano, Rai’an­sama inquadra la regione di Nara. La
mappa si fa più grande, ma non riconosco più i segni. –Puoi portarci qui?– si gira a chiedermi.
–Non capisco bene dove sia…–
–È normale; quel posto deve essere molto diverso da come si vede su
questa mappa. Ma è un posto che si dovrebbe addirittura vedere se sali su
un tetto di una casa qualsiasi a Sakurai, quindi basta che ci porti lì.–
–Per quello, non c’è problema. Conosco bene la strada.–
–Bene.–
Rai’an­sama si gira di nuovo verso la mappa; qualcosa sembra attirare la
sua attenzione.
–Aspetta un attimo… non posso crederci…–
La mappa si fa ancora più grande; ora si vede solo un gruppo di cespu­
gli, vicino a quella che sembra una pozza azzurra, in mezzo a righe che
parrebbero i segni di un aratro. Quella forma, quella pozza… mi ricordano
qualcosa. Rai’an­sama ha detto che è un posto che si può vedere dai tetti
delle case di Sakurai… che sia…
–È forse quel grande kofun poco fuori Sakurai, la tomba della Divina
Yamato­to­tohi­momoso­hime?– chiedo.
–Sì, proprio quello.– conferma.
61
Nella regione dello Yamato ci sono tantissime di queste antiche tombe
in cui sono stati sepolti gli antenati di nobile stirpe. Quella di Sakurai è
immensa, è una piccola montagna, e si tramanda che sia la tomba della
Divina Yamato­to­tohi­momoso­hime. È un kamii misterioso, al punto che
nessuno sa perché le sia stata dedicata una sepoltura tanto imponente. E la
gente del posto la rispetta, e la teme.
Jirou (R)
Non ho la più pallida idea di come il nucleo della memoria centrale sia
finito sotto la tomba della regina Himiko. Certo, il nucleo poteva arrivare
da queste parti anche prima dell’anno zero, e la tomba è stata realizzata
attorno al 250. Il nucleo ha le sembianze di un diamante grosso come un
pugno, e anche se contiene dei sottili filamenti e quelle che possono sem­
brare fratture, non è impossibile che sia finito nel corredo funebre della
regina più importante dell’era preistorica del Giappone. Se si considera poi
che è praticamente indistruttibile, sarà sicuramente stato considerato un
oggetto dalle proprietà magiche. Un dono degno di una regina sciamana
quale fu Himiko, a ben pensarci.
Ma questo mi crea due problemi. Il primo è entrare là sotto. Il secondo è
evitare di dare troppe spiegazioni a Kaori e Midori; in quest’epoca,
l’esistenza del regno Yamatai e di Himiko è stata completamente cancel­
lata dalla storia. Se ne parla nelle Cronache Cinesi; ma gli hafuribe, sacer­
doti appuntati dalla corte imperiale, o alle volte anche i monaci buddisti,
insegnano alle miko giusto alcune parti del Nihongi; le più fortunate rie­
scono a leggerne alcuni frammenti. Il testo più antico, il Kojiki, sarà rele­
gato all’oblio ancora per almeno quattro secoli…
Ad ogni modo, adesso ho un problema più pressante: Jirou.
In pochi minuti ho cambiato il suo mondo. Era stato scelto come protet­
tore di un segreto sacro, di una rivelazione attesa per centinaia di anni; e
ora quella rivelazione è giunta. Da un lato, dedicare la vita a questo com­
pito deve aver perso perso ogni significato. Dall’altro, la rivelazione è
sicuramente qualcosa di molto diverso da quello che Jirou si aspettava.
Il sole è alto nel cielo quando usciamo dalla grotta. Prima di uscire dalla
nave, mi sono assicurato di raccogliere l’unico materiale che è stato inviato
con essa, perché troppo delicato: il kit medico, un piccolo ospedale porta­
tile, molto più sofisticato degli strumenti che ho negli impianti bionici. Da
fuori sembra un cilindro metallico poco più lungo e largo di un avambrac­
cio, che sistemo delicatamente in cima al bagaglio. E adesso, concentria­
moci sul problema di cui sopra.
62
–Jirou­san…– chiamo. Lui mi rivolge lo sguardo ma non parla. Ha la
stessa espressione stordita del momento in cui è entrato nella navicella.
­Jirou­san… Sono davvero grato e onorato per ciò che avete fatto. Pro­
teggere il mikoshi ha avuto un’importanza che non potete nemmeno imma­
ginare.–
Kaori e Midori capiscono a cosa alludo, e il loro sguardo si posa su
Jirou finalmente in modo diverso. Il ragazzo le guarda a sua volta; i loro
occhi pieni di sincera gratitudine hanno più effetto delle mie parole.
–Oh… io ho solo… fatto quello che dovevo…– dice imbarazzato.
–Jirou­san… adesso ho un’ulteriore richiesta da farti, e chiederti tanto
dopo tutto quello che la tua gente ha già fatto per me è davvero difficile.–
–Rai’an… Rai’an­sama… ti abbiamo atteso da prima che io nascessi, –
e mentre lo dice si mette in ginocchio, –non c’è onore più grande per me
che esaudire la tua richiesta.–
Lo guardo sconcertato: –Jirou­san, io…– sto per dirgli, non sono un
kami, ma Kaori mi prende il braccio che ho sollevato in un gesto di rifiuto,
e mi guarda con aria di rimprovero, scuotendo piano il capo. Midori non
scuote il capo, ma lo sguardo è lo stesso.
Capisco. Rokugane, e le miko, hanno accettato questa cosa… beh, in
parte, almeno. Ma Jirou non è pronto. E per oggi, ha già avuto abbastanza
sorprese.
–… il nostro compito non è ancora terminato. Ci aspetta ancora un
lungo viaggio. Forse ci vorrà un anno. Forse anche di più. Abbiamo biso­
gno di un guerriero che ci protegga lungo il cammino.–
Il grande volto del ragazzo si alza, e da sotto i suoi capelli arruffati vedo
i grandi occhi neri brillare vividi.
–Io … voi … volete che io sia il vostro saburahi?– è il suono antico
della parola samurai.
–Chi meglio di te, che eri pronto a dedicare la vita a questo santuario?–
–Ma io… sono solo un figlio di contadini… non sono … non sono
degno di questo onore…–
Mi chino in ginocchio fino a che i miei occhi sono alla stessa altezza dei
suoi; gli poso una mano sulla spalla e gli chiedo: –La sai usare quella
spada?– e indico la spada che giace fra le foglie dove è stata lasciata prima.
–Sì.– risponde con lo sguardo fermo.
–Sei pronto a scommetterci molto più della tua vita?–
–Sì.– dice con voce d’acciaio.
Gli sorrido: –E allora, sii il mio saburahi.–
63
Col volto colmo di uno strano miscuglio di modestia e orgoglio, Jirou
stende la gamba destra dietro, e si china sulla sinistra piegata in ginocchio,
appoggiando le mani a terra ed abbassando lo sguardo.
Un solo colpo di voce è il suo perfetto giuramento da samurai: –Ho!–
Kusamoto (M)
Ma quant’è grosso questo Jirou? Ha delle spalle che non finiscono mai.
Per non parlare delle mani. E delle gambe. Oh, beh di tutto.
Ora camminiamo così: Jirou e Kaori davanti, io al centro e Rai’an die­
tro. Jirou voleva assolutamente portare il bagaglio, ma Rai’an ha detto di
no. Per tre motivi ha detto… qualsiasi cosa dica, Rai’an conta. Tutto quel
discorso che ha fatto prima a Kaori sulle macchine che contano mi ha fatto
venire mal di testa; io è già tanto se conto fino a cento. E a dieci già mi
annoio.
Mah, insomma, i tre motivi: primo, Jirou deve avere le mani libere per
usare la spada, se serve. Secondo, fa parte del travestimento, dobbiamo
muoverci con discrezione. Terzo, Jirou ha provato a sollevare il pacco e
non c’è riuscito… Rai’an può fare cose che noi semplicemente non pos­
siamo.
Però mi sono stancata di camminare in mezzo. Mi sembra di essere io
quella che deve essere protetta, mentre dovrei essere io a proteggere
Rai’an. Lo straniero. Già da un po’, quando ragiono così a ruota libera, non
lo chiamo più così. Eppure è uno straniero. E neanche poco… vabbeh.
Ci stiamo dirigendo a Kusamoto, un piccolo villaggio alle pendici del
monte Wakakusa, da cui viene il nostro Jirou. Rai’an ha detto che ora che
la “nave è attiva”, qualsiasi cosa voglia dire, è meglio che non si avvicini
più nessuno finché non avremo finito; dobbiamo farlo sapere alla gente di
questi villaggi. La strada è ripida, ma stiamo tenendo un passo abbastanza lento; e la
medicina che mi ha dato Rai’an stamattina sembra aiutarmi ancora, sto
camminando senza fare nessuna fatica. Jirou dice che saremo a Kusamoto
per metà pomeriggio. Bene, perché abbiamo saltato il pranzo e comincio a
sentire la pancia che reclama…
–Kaori­san…– chiama da dietro Rai’an. Questo suo vizio di chiamare
chiunque con san comincia a darmi un po’ sui nervi… quando lo fa con
me, mi fa sentire terribilmente vecchia.
–Sì, Rai’an­sama?– si volta Kaori, senza fermarsi.
64
–Ho pensato che è meglio non fermarci a Kusamoto per la notte. Credo
che la notizia che stiamo portando accenderà abbastanza gli animi e la
curiosità, e voglio evitare processioni di gente che arriva da altri villaggi.
Voglio tenere la mia posizione il più possibile riservata.–
–Sì, giusto…– risponde Kaori, –… ma non credo che potremo trovare
altro alloggio prima di notte.–
–Pensi che sia un problema accamparci?–
Sì, sì che è un problema, non voglio dormire in mezzo a un bosco!
–No… conosco una radura abbastanza appartata proprio un po’ più in
alto sul Wakakusa. Per stanotte possiamo fermarci lì.–
Oh no… lo sapevo che prima o poi doveva succedere! Ma era meglio
poi! Di fronte a questo dramma non riesco a dire niente di spiritoso, e così
me ne sto zitta. Il piccolo villaggio, giusto una dozzina di casette, appare all’improvviso
dietro una curva, incuneato in una valle stretta come il filo di una spada. Il
sole deve essere ancora alto, ma, nella valle, l’ombra incombe umida.
–Jirou!?– una vecchia seduta su una panca e intenta a cucire dei panni lo
riconosce. E lo vede seguito da due miko e da un contadino sconosciuto.
–Jirou! Ma che succede? Che ci fai qui?–
–Ho una notizia per Gosaburou.–
–Oh…– la faccia della vecchia racconta che ha già capito che è successo
qualcosa di grosso.
Gosaburou è un uomo di mezza età, magro magro, col volto bruciato dal
sole, che sta rientrando in casa portandosi sulla spalla una pesante zappa.
Zoppica vistosamente. –Gosaburou!–
–Jirou!? Che stai facendo qui? Chi sono questi?–
Senti, zio, “questi” non me l’aveva ancora detto nessuno…
–Entriamo un momento, devo dirti una cosa.–
–Oh… sì… prego, prego… – il tono secco di Jirou pare convincere lo
zio a cambiare registro. È un ragazzo col quale nessuno vorrebbe avere da
discutere.
Gosaburou spalanca il pannello, molla giù sandali e zappa e sale sul
tatami, trascinandosi dietro la gamba zoppa, e chiamando: –Moglie!–
La moglie spunta fuori da dietro una tenda, con aria sorpresa. Nel frat­
tempo, un bimbetto corre in casa e resta in piedi nell’ingresso, a guardarci
fisso.
–Moglie, c’è gente!–
65
–Oh… prego, salite, nobili miko…–
Il focolare al centro del tatami non è ancora acceso, e la stanza è fredda
e umida proprio come fuori. –Goro, saluta le miko!– dice la mamma al bimbetto.
–Kon’chi wa, miko­san!–
–Konnichi wa, Goro!– risponde sorridendo Kaori. Io saluto scuotendo la
manina.
Appena Jirou salta su mi levo gli zouri e salgo anche io; Kaori mi segue,
e anche Rai’an, dopo aver posato il bagaglio all’ingresso. Goro ci zompetta
dietro e va a nascondersi dalla mamma.
–Allora, Jirou, che succede?– chiede Gosaburou sedendosi vicino al
focolare. Incrocia la gamba buona e lascia quella zoppa stesa lunga. Ma
Jirou non si siede.
–Rai’an­sama…– chiama, e si inchina.
Rai’an si sfila finalmente il kasa. Mi copro la bocca con una manica per
non mostrare il sorriso nel vedere Gosaburou e la moglie schizzare indietro
per la sorpresa.
–Rai’an­sama è venuto a reclamare il mikoshi.– dice Jirou. Bello diretto,
il ragazzotto.
Gosaburo si lascia uscire un grosso –Eh?!?–
–Rai’an­sama è il kamii del mikoshi, ed è venuto a prenderlo.– ripete
cambiando le parole.
Stavolta Gosaburou non fiata; il suo sguardo si muove incredulo lento
su Rai’an.
Dopo aver preso un gran respiro, Rai’an fa un breve inchino.
–Sono venuto a esprimervi la mia gratitudine. La cura che avete avuto
nel proteggere la mia nave… il mikoshi, mi ha commosso. Quello che
avete fatto è molto importante. La mia gente ve ne sarà per sempre grata.–
–Eh…– Gosaburou scambia uno sguardo nervoso con la moglie ­…
ma… tu chi sei?–
Mi giro e sghignazzo sotto la manica. Passi tutta la vita ad adorare un
kamii e non lo riconosci quando lo vedi!
Rai’an sospira. Si siede sul tatami e solleva le mani con i palmi rivolti a
Gosaburou; riconosco questa posizione, è la stessa di quando ci ha fatto
vedere le pietre sospese al di là delle notti di Fumizuki. –Adesso vi mostrerò cosa è successo questa mattina. Non abbiate
timore.–
66
E detto questo, nelle sue mani si aprono quelle fessure da cui escono le
stesse lame di luce che ho già visto, e davanti a lui si stende quel manto
oscuro, dove si rivede quello che è già successo.
Papà e mamma schizzano indietro lasciandosi uscire un grido spaven­
tato, ma Goro resta fermo con gli occhi spalancati.
Rivedo il cammino lungo la grotta, e in fondo la grande stanza lucci­
cante… solo che non rivedo quello che ho visto io; arrivato davanti al
carro, tutto gira e ci siamo noi tre, Kaori, Jirou, in terra che trema, e quella
graziosa miko devo essere io! Ma allora, sto vedendo tutto quello che è
successo con gli occhi di Rai’an! Mi esce un –Ohhhh– di sorpresa.
Rivedo Rai’an tirare fuori dalle sue costole quella specie di candela, e
metterla sul fianco del carro, che si illumina; risento le sue parole e la voce
che esce da chissà dove, la lama di luce che scende dall’alto e la porta che
si apre. Una mano che scosta le corde sacre, è quella di Rai’an, e poi
l’interno del carro, con tutte quelle luci, e i sei troni…
Rai’an abbassa le mani, e la visione scompare. Papà, mamma e bimbo
sono immobili.
Rai’an sembra cercare le parole, ma ci mette davvero tanto a trovarle.
–Vi sono molto grato per aver protetto la mia nave. Senza di essa… beh,
ci sarebbero state conseguenze molto gravi per tutti. Tutti quanti…– e fa
un inchino; è appena un cenno, ma è molto lento.
–E… adesso…– balbetta qualcosa Gosaburou, –e adesso che
facciamo?–
–Se posso fare qualcosa per voi…–
–Qualcosa? Io, mio padre, mio nonno, e il nonno del mio nonno
abbiamo portato doni e preghiere al tuo mikoshi per tutta la vita, e mi
chiedi se puoi fare qualcosa!?–
–Gosaburou!– grida Jirou, la sua mano già corre alla spada. Il capo vil­
laggio trema come una foglia e trascina via la sua gamba zoppa, ma Rai’an
alza la mano per fermare il suo saburahi.
–Gosaburou­san, fammi vedere un attimo quella gamba.–
Ricompensa (K)
Non si comporta come un kamii, non si comporta per niente come un
kamii!
Devo fare un discorso anche a Rai’an­sama. Ho capito che dice di non
essere un kamii, ma potrebbe almeno provare a non essere così… così…
modesto. Che figura ci facciamo? 67
E Midori continua a tirarsi la manica sulla bocca per far vedere meglio
quanto sghignazza. Oh, Touga­sama, dammi la forza di stare calma.
Rai’an­sama punta le luci che gli escono dal collo sul ginocchio di
Gosaburou. La prima volta che ho visto quelle “macchine”, come le
chiama, uscirgli dal collo e dalle braccia quasi grido, ma ora non mi fanno
nessun effetto. Quasi. Beh insomma. Sono un po’ brutte. Ma sapendo che
servono per guarire…
Fra le sue mani, si vede un disegno della gamba, e dell’osso dentro.
Comincio a capire come funziona la cosa; con le sue macchine, Rai’an­
sama riesce a vedere dentro i corpi senza aprirli. L’osso del ginocchio è
gonfio e saldato male, lo capisco persino io.
In tutto, a Rai’an­sama basta il tempo di un kagura per guarirlo.
Le macchine di Rai’an­sama rientrano nel suo corpo, e le luci fra le sue
mani scompaiono.
–Prova a muovere la gamba.– dice a Gosaburou.
Lui piega il ginocchio, piano piano, e la gamba docile si alza. Con l’aria
di chi crede di stare dormendo e di sognare, si tocca la gamba, e prova a
tirarla su ancora un po’. No, non è un sogno.
A bocca aperta, guarda Rai’an­sama, con gli occhi lucidi. Lui gli resti­
tuisce quel sorriso… oh… mi costringo a guardare Midori. Finalmente ha
smesso di sghignazzare, sorride e basta. –Padre… la tua gamba è guarita!– grida Goro.
Gosaburou non sa se ridere o piangere e nell’indecisione fa entrambe le
cose.
–Gosaburou­san, adesso però dovrai fare attenzione: l’osso è guarito,
ma la tua gamba ancora non sa camminare bene. Dovrai camminare piano
per qualche giorno, perché se fai dei movimenti nuovi, potresti farti male.–
–Sì, sì, grazie kamii … del mikoshi…–
–Il suo nome è Rai’an­sama!– tuona Jirou.
–Grazie, Rai’an­sama!–
–Però, – continua Rai’an­sama, –io ho un debito non solo verso di te,
ma con tutta la tua gente. Dimmi, quanti sono i villaggi che hanno fatto la
guardia alla nave?–
–Dodici villaggi e qualche altra famiglia.–
–Sai quante persone sono in tutto?–
–Oh… vediamo… qui noi siamo …– Gosaburou conta nell’aria, – ses­
santasette. Mah in totale saremo poco più di mille.–
–E… quanti bambini ci sono, sai dirmelo?–
–Oh… saranno due o trecento. O forse qualcosa di più.–
68
–Va bene. Ora, non posso aiutarvi tutti, ma per il momento, quello che
posso fare è questo.–
Rai’an­sama si alza e va a prendere dal bagaglio il rotolo di metallo che
ha portato via dalla nave. Lo tocca, e questo si riempie di un mosaico di
colori splendenti, come quelli che abbiamo visto stamane. Il tubo si apre in
due metà, e l’aria si riempie di luci e disegni. Rai’an­sama tocca i disegni
nell’aria, le sue dita danzano come dieci oonusa, e ogni tocco è accompa­
gnato da un suono melodioso, che mi ipnotizza come fino ad ora solo la
danza di Midori aveva saputo fare. Dopo un po’, tira fuori dal cilindro un cilindro più piccolo… come un
dito… ho visto una volta una bottiglia di essenza profumata che veniva
dalla Cina, vetro, lo chiamano; l’ho osservato su quella bancarella per
un’ora; ma non era così trasparente. E il liquido dentro brilla come fosse
una candela.
–Goro, vieni qui.– chiama Rai’an­sama.
Il bimbo si avvicina un po’ titubante.
–Gosaburou­san, guarda bene. Vedi questa parte, dove c’è il tappo di
metallo?–
–Sì.–
–Ecco bisogna avvicinarla al polso, così.– Rai’an­sama prende la
manina di Goro e la gira delicatamente. Poi tocca appena la pelle del dorso
del suo braccio; “sht”, si sente un sibilo rapido, e Goro spalanca la bocca,
ma quando Rai’an­sama lo lascia andare, sul suo braccio non c’è nessun
segno.
–Questa è una medicina che aiuterà i bambini a non ammalarsi. Non può
curare tutti i mali, ma impedirà che prendano le malattie più pericolose.
Portalo in tutti i villaggi e fai la stessa cosa a tutti i bambini; la medicina
basterà.–
Porge la medicina a Gosaburou. Lui la raccoglie con ambo le mani.
–Ora, però, ho bisogno di un altro favore.–
–Dimmi…– riesce appena a dire Gosaburou.
–Ora che ho … reclamato il mikoshi … è meglio che nessuno si avvi­
cini. La nave… il mikoshi… può fare del male a chi tenta di avvicinarsi
senza permesso. Dovrai dirlo agli altri capi villaggio.–
–Oh… sì…–
–Noi dobbiamo andare… a trovare delle cose che ci servono; di tanto in
tanto, torneremo da queste parti. Cercherò di aiutarvi ogni volta che potrò.
Ma nel frattempo, ho bisogno che non facciate avvicinare nessuno al miko­
shi, e che manteniate il segreto come avete fatto fino ad oggi.–
69
Gosaburou siede incrociando la gamba che gli funzionava anche prima,
e tenendo lunga l’altra. Si inchina più che può e dice: –Farò come desideri,
Rai’an­sama. Gli altri capi mi crederanno, vedendo la mia gamba guarita e
la tua medicina, e faremo quello che ci chiedi…–
–Quasi dimenticavo; ho anche già conosciuto Nonosuke­san, sarete in
due a parlare di me.–
–Oh, sei stato ad Amagane! Sua moglie…–
Rai’an­sama sorride. –Ora sta bene.–
La mamma parla per la prima volta: –Oh, grazie, che bella notizia! Ero
tanto in pena, poverina…–
–Moglie!– la sgrida secco Gosaburou per aver parlato senza che le fosse
stato chiesto, ma Rai’an­sama ride di cuore. Oh, no, è peggio del suo sor­
riso! Non riesco neanche a distogliere lo sguardo.
–Va tutto bene, Gosaburou­san, non devi preoccuparti per queste cose.–
Rai’an­sama prende un respiro dopo aver riso e ricomincia a parlare.
–Devo chiedervi di un ultimo favore: Jirou verrà con me.–
Gosaburou spalanca gli occhi. –Uno del nostro villaggio ti accompa­
gnerà? Che onore! Che grande onore che ci fai!–
Rai’an­sama si alza: –Bene, adesso dobbiamo andare. Fai come ti ho
detto; è più importante di quanto tu possa immaginare.–
–Sì… lo farò. Quando tornerai?–
–Ancora non lo so. Entro la prossima luna, credo; ma potrei fermarmi in
un altro villaggio.–
–Sarai sempre il benvenuto! Grazie! Grazie…– e va avanti a ringraziare
e a inchinarsi finché non scompariamo oltre la curva lungo la strada.
Addiaccio (R)
Un vaccino. Che idea idiota che ho avuto. Non so darmi pace; cerco di
valutare le conseguenze sullo sviluppo genetico di questa gente, gli effetti
a lungo termine sulla struttura del loro sistema immunitario, gli effetti sulla
resistenza delle malattie alle cure successive… e sulle conseguenze che
tutto questo avrà sulla storia come la conosco. Forse nessuna. I sistemi
complessi sono isterici: può darsi che l’effetto sarà diluito fino a diventare
insignificante. Ma può anche darsi che questo inneschi una reazione fuori
controllo e destabilizzi il sistema. Ma non sapevo che altro fare. Quella
gente si meritava una grande ricompensa; e ricompensa a parte, avrò
ancora bisogno di loro. Non potevo permettere che si diffondesse un senti­
mento di delusione e rabbia come quello che ha mostrato Gosaburou. 70
Ma sono preoccupato lo stesso; razionalizzare su questo errore non
serve.
Mi chiedo se sono la persona adatta a per questa missione. Me lo sono
chiesto da quando sono stato scelto. Già l’idea di scegliere un bioantropo­
logo mi lasciava perplesso; certo, da un lato lo studio delle culture antiche
e dall’altro la conoscenza delle tecniche mediche di base sembrano perfette
per questa missione, e la mia specializzazione di ricerca sulla storia del
Giappone ha fatto il resto… ma ora che sono sul campo, vedo confermati i
miei dubbi; forse, un militare sarebbe stato più adatto. Ma anche se non
credo di essere tagliato per questo lavoro, non l’ho mai creduto, la respon­
sabilità che ho è troppo grande. Devo arrivare fino in fondo, non importa
quanti errori combinerò. Cerchiamo solo di stare un po’ più attenti…
Ecco la radura di cui ci ha parlato Kaori. È assai piccola, ma è pianeg­
giante e c’è un bel tappeto di aghi di pino, è lontana dalla strada ma non
troppo, protetta dal vento ma non opprimente. Il sole si sta abbassando;
non appena sbuchiamo dagli alberi, i suoi raggi ci accarezzano assieme ad
una brezza tiepida e profumata che sale da valle.
–Arrivati!– annuncia felice Kaori.
Cominciamo a prepararci per la sera. Le provviste che ci ha dato Nono­
suke sono riso, latte, uova e carne salata; decidiamo di cucinare tutto
subito; ci basterà per stasera e domattina. Mentre Kaori organizza il
campo, io raccolgo un po’ di sterpi e rami secchi per il fuoco. Un albero
caduto poco distante fornisce anche qualche ciocco più grosso per la notte;
usando il laser chirurgico rimodulato, tagliarlo è uno scherzo. Midori e
Jirou “montano il campo”. Non abbiamo tende, e a questo dovremo prov­
vedere prima o poi, ma stendono un po’ di stuoie e le fermano con dei
grossi sassi, cercando anche di pulire il terreno intorno per evitare che ci
assalgano troppi insetti, e che il fuoco vada fuori controllo.
Finiti i preparativi, il sole ci regala ancora quasi un’ora di luce. Secondo
i miei monitor, mancano trentacinque minuti al tramonto, e siamo esposti a
sud­ovest; avremo anche altri venti minuti di crepuscolo.
–Siccome è presto, che ne dite di un bagno?– chiede Kaori con un
mezzo sorriso.
–Eeeh… non farmici pensare, ne ho una voglia…– risponde Midori.
–Guarda che non scherzo mica. A meno di cento passi c’è una sorgente
calda che sgorga fra le rocce.–
–Oh, Kaori­san, ti adoro!– esclama estasiata la miko più giovane. Il
mezzo sorriso di Kaori si tinge di una nota di autosoddisfazione.
71
–Andiamo prima noi!– scatta Midori, e aggiunge: –Fate buona guardia,
eh!–
–Tranquilla, Midori­san, il tuo oonusa è in buone mani.– scherzo. Jirou osserva il dialogo incredulo. –Rai’an­sama… perché permetti loro di rivolgersi a te con siffatto
tono?–
Per essere un “figlio di contadini”, come si definisce, conosce delle
parole molto cortesi. Nel senso che fanno parte di un registro linguistico
usato solo a corte. Anche durante il periodo Hei’an, era possibile che qual­
che bambino scelto dai villaggi fosse inviato in un tempio buddista per
ricevere una minima istruzione, Jirou deve essere uno di loro.
–Jirou­san… siediti. Credo che sia giusto che tu sappia tutto di questa
storia. Dall’inizio.–
Un bagno insperato (M)
Kaori è una donna piena di risorse. Un bagno caldo qui nel mezzo di un
bosco! Non ci avrei mai sperato.
La osservo mentre si spoglia. È ancora giovane, e sembra anche più gio­
vane di quanto non sia in realtà; la sua pelle è ancora liscia e i suoi linea­
menti sono morbidi; ma non è particolarmente bella. Ha gli occhi profondi
ma un po’ troppo grandi, la bocca sottile ma un po’ troppo sporgente, il
naso un po’ troppo lungo, le gote un po’ troppo tonde per essere davvero
bella. E le sue gambe sono un po’ corte e grosse, sarà tutto quel cammi­
nare… e il sedere è un po’ troppo piatto. Però, ha due seni piccoli e ben
tondi, e i suoi fianchi sono morbidi e sinuosi come quelli di un’amante per­
fetta. Insomma, ha qualcosa bello e qualcosa no.
–…Che hai da guardare?–
–Eh… oh, no, nulla…– mi affretto a spogliarmi.
L’acqua sgorga da una cascatella alta poco più delle nostre teste, e
forma una piccola polla che arriva appena sopra alle ginocchia. È appena
tiepida, ma con l’aria non troppo fredda degli ultimi raggi del tramonto di
primavera, è molto piacevole. Mi tuffo per prima sotto l’acqua; mi colpisce
la testa con forza, ma non fa male. Provo a gustare questa sensazione
lasciando che mi cada sulle spalle – un dolce ma energico massaggio che
mi fa stare subito bene – e poi mi sposto e lascio che mi cada sui seni – mi
sale un’ombra di sorriso sulle labbra – e poi mi sporgo all’indietro per
lasciare che l’acqua mi massaggi la pancia e scivoli giù, accarezzandomi le
gambe. 72
Kaori prova ad avvicinarsi, ma non glielo permetterò! Raccolgo l’acqua
dalla polla con ambo le mani e la schizzo tutta!
–Ma dai, smettila!– grida mentre il nuovo turgore della sua pelle mi
mostra il brivido che le passa dentro, ma rido troppo per fermarmi.
–Ah è così, eh?– mi guarda con quel suo sorriso di sbieco che mi fa
capire che ho già perso; con lo scatto di una gatta raccoglie l’acqua alla
fine della polla, dove è più fredda, e me la fa arrivare dritta dritta sulla
schiena.
Mi esce un grido soffocato, mentre assaggio lo stesso turgore e lo stesso
brivido. –Tregua, tregua!– scongiuro.
Lei mi guarda sospettosa. –Dici davvero?– mi chiede.
–Sì, sì!– faccio con la testa e con le labbra. Ma il mio braccio si
abbassa… dai, vieni un po’ più vicina… e … schaf! Eccoti servita! … oh
no, aveva capito tutto, non l’ho presa neanche con una goc­
ciaaaaaaaaaahhhh!
Lei invece mi gela!
–Mi arrendo, hai vintoooooo!–
–Ehehe, io facevo gare di schizzi che tu ancora non eri nata!–
–Ah, ecco perché sei così brava, ziett…aaaaaaaaahhhhrgh, no, scusa,
non volevo, non volevooooo!–
Per farmi perdonare, mi lascio lavare i capelli e la schiena. Con le sue
dita sapienti scioglie i nodi senza che quasi me ne accorga; poi mi acca­
rezza con un panno appena bagnato la pelle. Quando passa dietro al collo
mi massaggia delicatamente le ossa, e sento la pelle del mio viso, fino agli
occhi, fino alle tempie, rilassarsi e rigenerarsi.
–Kaori­san, hai un tocco magico.–
Si avvicina al mio orecchio e mi dice piano: –Impara in fretta, perché
dopo tocca a me.–
–Farò del mio meglio…–
Ci scambiamo di posto. Le altre miko dicono che i miei capelli sono sot­
tili e lucenti come fili di seta nera, ma i capelli di Kaori sono così morbidi!
Non sono brava come lei a sciogliere i nodi, ma cerco di fare piano. È un
piacere accarezzare quella nuvola morbida…
–Dai, può bastare…– mi sorride.
–No… ancora un po’…–
Cerco qualche altro nodo da sciogliere, ma con grande disappunto non
ne trovo più. Però…
–Oh, tu guarda!– esclamo.
73
–Che c’è?–
–Un capello bianco!–
–Midori, cara…–
–Sì, Kaori­san?–
–Stai zitta.–
Taccio.
Approfittiamo dell’occasione per lavare un po’ anche i nostri abiti, e
torniamo all’accampamento con addosso un nagajuban asciutto, che copre
tutto il necessario. Il sole sta tramontando in quel momento, alle spalle di Rai’an, in piedi,
e in fronte a Jirou, seduto a gambe incrociate, con la testa bassa. I due non
parlano. Se ha fatto vedere a Jirou quello che ha fatto vedere a noi, quei
lampi di luce fra le stelle… insomma, noi siamo miko, ce la vediamo tutti i
giorni con oni e kamii, ma Jirou… è normale che sia sconvolto.
–Forza, voi due, sbrigatevi; il sole sta tramontando.– li esorta Kaori.
Jirou si alza e cammina meccanicamente a testa bassa. Kaori ferma
Rai’an e gli dice: –È dritto da quella parte, non potete sbagliare.–
–Grazie.– risponde lui, e raggiunge Jirou.
Li guardiamo sparire nel bosco.
–Che ne pensi?– le chiedo.
–Di cosa?–
–Beh… di tutta questa storia…–
–Non penso. Faccio quello che devo.–
Che razza di risposta. Non so esserne affascinata o sconcertata. Ma
Kaori non mi dà il tempo di rifletterci.
–Dai, dammi una mano ad accendere il fuoco, avranno freddo, quando
tornano.–
E ci mettono poco, a tornare. Evidentemente non hanno giocato con gli
schizzi. Rai’an è davanti, con un panno avvolto attorno alla vita, e gli abiti
da contadino lavati, sotto al braccio. Non ho mai visto un corpo del genere;
sembra come avere un’armatura di carne, ogni curva è dura e squadrata. Ma quel gigante dietro chi è? Jirou coi capelli in ordine!?! Sembra una
statua di Yamato Takeru che cammina. Ma che dico? Takeru è un pro­
cione, in confronto. Sente il mio sguardo su di lui e si gira verso di me.
Perché mi guarda così? Ahh… capisco dev’essere perché ho la bocca
aperta…. oh no! Arrossisco e mi copro con la manica.
–Cosa c’è?– mi chiede brusco.
–Nulla…– rispondo, ma non riesco a distogliere lo sguardo.
Lui grugnisce qualcosa e si siede a gambe incrociate accanto al fuoco.
74
San e sama (K)
È una bella sensazione essere riuscita a sfamare tutti avendo a disposi­
zione solo un fuoco da campo. Soprattutto, quei due bestioni che sono
Rai’an­sama e Jirou. Midori mangia come un passerotto… un altro giorno
di marcia e mangerà come una faina, ne sono certa.
Venendomi in mente questo pensiero poco rispettoso per Rai’an­sama,
mi ricordo del discorso che volevo fargli questo pomeriggio. Mi sembra il
momento giusto, anche perché il silenzio è pesante.
–Rai’an­sama… c’è una cosa di cui volevo parlarti.–
–Dimmi, Kaori­san…–
–Ecco… questa cosa del san…–
–Eh?–
–Dovresti smettere di chiamare tutti aggiungendo san. È imbarazzante.–
–Non capisco… non è un modo per mostrare rispetto?–
–Non so come si usi fra la tua gente… ma il fatto è che se ci chiami col
san, ci alzi troppo. Tu sei un sama: se chiami con san una miko, o un con­
tadino, gli dai troppa importanza.–
Rai’an­sama sembra un po’ contrariato dalle mie parole. Risponde un
po’ seccato. –Beh, non so come usate qui, ma dalle mie parti le persone sono tutte
importanti.–
–Oh, questo è molto bello… ma non è quello che intendevo. Forse la
parola importanza non è esattamente la cosa che credi tu… ecco, se tu, che
sei un sama, chiami una persona con san, gli dai un peso, una fatica da
sopportare. Ora quella persona deve cercare di salire… deve cercare di
venire incontro alle tue aspettative. Deve cercare di essere almeno un po’
come te, e questa è una fatica, è un impegno; oppure deve cercare di abbas­
sarsi, per rimettere a posto quella distanza che è necessaria. Vero, Jirou?–
–Eh…?– il ragazzo sembra svegliarsi in quel momento. –Oh… ecco…
io…–
–Dimmi, Jirou, – lo esorto io, –cosa penseresti se ti chiamassi Jirou­
san?–
–Nobile miko… ecco… io dovrei cercare di … trovare il modo … tro­
vare le parole … per restituirti la tua nobiltà…–
–Ecco, vedi? Se io lo chiamo Jirou, lui può chiamarmi Kaori­san, e que­
sto basta. Ma se io lo chiamo Jirou­san, lui come può chiamarmi? Lo metto
in difficoltà, vero Jirou?–
–In effetti… non osavo dirlo a Rai’an­sama, ma… se ora mi è
concesso…–
75
–Rai’an­sama, pensa a come si è sentito Gosaburou. Cosa avrebbe
dovuto fare per mostrarti il dovuto rispetto, dopo che l’hai chiamato san?
Bucare il tatami e infilare la testa sotto la terra?–
Lo sguardo che mi rivolge Rai’an­sama è ostile. Non ha forse detto che
è uno studioso delle abitudini delle genti? Allora dovrebbe capire una cosa
semplice come questa. Ma ancora c’è molto dubbio nei suoi occhi.
–Beh, tutto questo si potrebbe sistemare se la smetteste di chiamarmi col
sama.–
Sto per rispondere, ma Midori mi anticipa: –Ma tu sei un kamii, non
possiamo non chiamarti col sama.–
–Midori­san, io non sono un kamii!– risponde gelandola. Sospiro e
cerco di spiegargli.
–Rai’an­sama… tu sei un uomo… un umano, lo abbiamo capito bene.
Ma questo non significa che tu non sia un kamii. L’essere kamii non
c’entra niente con l’essere spirito, o con l’essere divino. Il Budda Amida è
divino. La divina Amaterasu è divina. Essi sono anche kamii…–
Rai’an­sama fa fatica, ma sembra seguirmi. Continuo: –L’Imperatore è
un uomo, eppure è divino, ed è anche un kamii. La tua nave, il mikoshi, è
una cosa, e non è divina, ma anch’essa è un kamii. Questa montagna, essa
è un kamii.–
Ora non mi segue più. Cerchiamo di farla più facile.
–Kamii è lo spirito del fare e del divenire. È l’essere in movimento. È
quella parte dell’essere che può agire così da creare dei cambiamenti.–
Rai’an­sama si piega indietro, sorpreso. Uhm… proviamo con un esem­
pio. –Vi è un kamii in un albero, poiché esso cresce sulla terra e la scava con
le sue radici, la copre con le sue foglie, e le fa ombra coi suoi rami. È il suo
kamii che permette questo, ed è questo che costituisce il suo kamii…–
Rai’an­sama annuisce. E mi sembra che sia un ottimo ripasso anche per
Midori. Proseguo.
–Vi è un kamii in una roccia, perché quella roccia non è sempre stata
così e non sarà sempre così. Può essere scesa lungo un fiume con la piena,
può essere stata sputata fuori dalla bocca di un vulcano, può essere rotolata
giù da una frana, può essere stata spaccata dal freddo e dal caldo.
–Vi è un kamii in una montagna, perché da essa scenderanno rocce e
frane, su essa cresceranno alberi e fiori; non è una divinità, poiché essa non
partecipa alla vita come gli dei, ma è un kamii potente, madre di innumere­
voli altri kamii.–
76
–… è… affascinante…– dice piano Rai’an­sama. Dentro, sorrido soddi­
sfatta, ma il mio volto mantiene la solennità che hanno le mie parole.
–Vi è un kamii, e molto potente, negli uomini, poiché con le loro mani
posso erigere palazzi e templi, possono coltivare la terra e da essa trarre il
loro nutrimento; e possono uccidere, e distruggere altri kamii. E vi è un
kamii ancora più grande nelle donne, che oltre a poter fare tutto ciò, pos­
sono portare nel grembo una nuova vita, e con essa un nuovo kamii.
–Noi veneriamo il kamii; noi veneriamo lo spirito che è esso stesso ciò
che muta e ciò che conduce alla mutazione, ciò che c’è di impermanente e
ciò che questa impermanenza permette, o causa.
–Ma alle volte, il kamii è così grande che non si può più dire che in que­
sta o quella cosa vi sia un kamii. È così grande che tutta quella cosa ne è
piena, ne trabocca. E allora dobbiamo dire che quella cosa è più kamii che
altro. Dobbiamo dire che essa stessa è un kamii. Per questo gli esseri divini
sono kamii. Per questo, alcuni uomini sono kamii. Mi capisci?–
Rai’an­sama annuisce.
–Ciò che tu puoi fare è così grande che non possiamo semplicemente
dire che tu hai un kamii; tu non puoi che essere un kamii. Se per la tua
gente ciò che tu puoi fare è normale, se fra la tua gente sono cose che pos­
sono fare tutti, allora tutti voi siete kamii. E… se tu non ci permetti di chia­
marti kamii, se tu non ci permetti di riverire, di venerare ciò che in te è
kamii, allora, noi che possiamo molto meno di te, noi che abbiamo un
kamii così piccolo, una candela tremolante, sempre sul punto di spegnersi,
in una fredda, immensa oscurità… noi cosa saremmo?–
Rai’an­sama mi guarda immobile.
–Permettici di avere rispetto per quella candela, permettici di dare
importanza alla nostra vita, alla nostra esistenza, al solco che l’aratro del
nostro kamii incide nel tempo. –Se ti chiamiamo kamii, se aggiungiamo sama al tuo nome, è perché
riconoscendo il kamii che è in te, veneriamo anche quello che è in noi.–
Divenire (R)
Allora, è questo il senso più antico della parola kamii, o “kami”. Non
una divinità, ma una proprietà, una forza separata da essa, distinta da qual­
siasi altra cosa, ma compenetrante ogni cosa. Che il senso originale della
parola kami si fosse perso lo si sapeva; già alla fine del 1700, Motoori
Norinaga, massimo esponente del movimento di restaurazione scintoista,
scriveva: “Io non comprendo ancora a fondo il significato della parola
kami”. Mille anni di sincretismo con una religione millenaria e mondiale
77
come il Buddismo, hanno caricato questo termine di nuovi significati, al
punto tale da renderlo irriconoscibile. Ma una miko di quest’era, come
Kaori, ancora lo conosce nella sua forma originaria, anche se l’ideo­
gramma cinese usato per trascrivere questa parola significa “divinità”, e
anche se questa parola è da sempre usata per indicare le divinità indivi­
duate da altre religioni.
Già in quest’epoca, il verbo kamu vuol dire senza nessuna ambiguità
“mordere”, ma in Giapponese antico, anzi, preistorico, kamu aveva certa­
mente un senso molto diverso. Se ne trova traccia negli epiteti degli impe­
ratori leggendari descritti nel Kojiki, come nel caso di Kamu­yamato­
iwarehiko­no­mikoto, dove kamu è scritto con l’ideogramma usato oggi
per kami. In Giapponese, i verbi si sostantivizzano cambiando la u finale in
i. Come odoru, danzare, diventa odori, danza… allora, kamu deve avere
qualche attinenza col divenire di cui mi parla Kaori.
Kamu… venire … in Norvegese antico si dice koma, e in Inglese come
(e si pronuncia kam). È una somiglianza troppo evidente per essere igno­
rata, e non è l’unico segno di un passaggio di popolazioni nordiche attra­
verso il Polo, verso l’Asia superiore, poi giù lungo la penisola coreana, o
attraverso il mare, passando per isole più settentrionali, fino a giungere in
Giappone; basta pensare a “osso”, che si dice “hone” in Giapponese,
“bone” in Inglese e “pone” in Ainu. E in Ainu, la parola kamui indica pro­
prio uno spirito divino, e ci sono tracce in Giapponese antico di usi simili
di sostantivizzazioni in “ui” diventate, per eufonia, “ii”, come in kamii.
Il kamu antico e il kamu moderno … venire … divenire … maturare …
crescere … nutrirsi… mangiare e infine mordere… è una strada lunga, ma
ci sono evoluzioni di significato non meno spettacolari di alcune parole fra
il Latino e le lingue che lo sostituirono. Del resto, se kamu si intende come
mordere, l’epiteto del leggendario primo imperatore, Jinmu, Kamu­
yamato­iwarehiko­no­mikoto si traduce letteralmente come “Il dio­principe
(hiko­no­mikoto) a cui fu ordinato (iware) di mordere lo Yamato”. Ma se
si intende come “divenire”, il nome si traduce come: “il dio a cui fu ordi­
nato: diventa lo Yamato”.
Quindi, se kamu è mutare, tramutare, divenire, allora kamui, e poi
kamii, e infine kami, è la cosa che muta, tramuta, diviene; ma in senso
attivo. È la cosa che causa il mutare, il tramutare, il divenire. E il fatto che il concetto di avere e essere, nelle lingue orientali, sia
molto sfumato, permette alle proprietà di diventare essenza; così, quella
proprietà posseduta, la capacità di mutare, di generare un cambiamento, si
confonde e poi diviene l’essenza stessa del cambiamento.
Kami significa “ciò che causa il divenire”… il kami è “il diventore”.
78
Il sorriso soddisfatto di Kaori mi spiega l’espressione che ho sul volto
meglio di come potrebbe fare uno specchio.
–Allora, Rai’an­sama, facciamo una prova?–
–… Eh?–
–Prova a chiamarci per nome, senza usare il san.–
–Oh… beh… Kaori?–
–Sì?– Mi sorride.
–Midori?– –Sì, sono qui!– –Jirou?–
–Ho!–
–Hahaha, allora ci siamo tutti!–
Kaori mi guarda sorridente e dice con voce gentile: –Sì, Rai’an­sama,
adesso ci siamo tutti.–
Verso Nara (M)
È mattina quando apro gli occhi. Mi svegliano con delicatezza il suono
di un fruscio, e un sottile sibilo. Il fruscio è quello di Kaori che sta racco­
gliendo le stuoie, e il sibilo è quello di Jirou che rotea la spada nell’aria.
Capisco, si sta allenando. A giudicare dalla fluidità dei suoi movimenti,
deve essere un rito quotidiano.
–Buongiorno, Midori.– Mi saluta Rai’an. Oh, finalmente, non ne potevo
più di sentire quel san dietro al mio nome. È seduto su un sasso accanto
alla mia stuoia, e sembra intento a osservare Jirou.
–Buongiorno, Rai’an­sama…– inizio a dire, ma mi scappa uno sbadi­
glio. Lui ride mentre mi stropiccio gli occhi.
–Dormito bene?–
–Oh, benone…– faccio per dire, ma il solo cercare di mettermi seduta
mi fa scoppiare la testa dal male alla schiena. Quando finalmente ci riesco,
mi scappa uno starnuto… mi sento tutta intorpidita e appesantita.
–Su, su, – mi fa Kaori, –una bella camminata è quello che ci vuole per
rimetterti in forma.–
Sei una strega. Lo penso forte mentre la guardo muoversi leggiadra
come rugiada del mattino. Anche se Rai’an ci ha detto che potevamo dormire tranquilli, perché le
sue macchine ci avrebbero avvisato se si fosse avvicinato qualche pericolo,
ho fatto lo stesso fatica a prendere sonno. Non credo che scorderò mai la
voce del bosco di notte. Jirou si è addormentato come un sasso appena si è
79
sdraiato. Ho sentito Kaori e Rai’an che parlavano piano per qualche
minuto, ma non sono riuscita a sentire cosa si dicessero. Ho fatto finta di
dormire per cercare di cogliere qualche particolare con cui punzecchiare
Kaori, ma non ho capito niente. Ho sentito che parlavano di Kasei, e delle
stelle che brillavano ieri notte in cielo, ma niente di compromettente. Pec­
cato.
Poi Kaori si è addormentata. Rai’an non so; non sono riuscita a sentire
quando il suo respiro si è fatto più calmo. So solo che quando tutti hanno
taciuto, lo stormire delle fronde agitate dal freddo vento della notte, lo
scoppiettare degli ultimi ciocchi nel fuoco, il richiamo dei gufi… e persino
un ululato lontano… e le stelle per tetto… e la faccia che si faceva
gelata… la punta del naso che pungeva per il freddo… insomma, no, non
ho dormito bene.
–Jirou, – chiama dopo un po’ Rai’an, –posso vedere un attimo quella
spada?–
Il ragazzo si avvicina. Eh sì, nelle luci dell’alba sembra proprio Yamato
Takeru. Non che abbia mai visto Takeru per davvero… ma doveva essere
bello almeno quanto lui… quasi quanto lui. Arrivato davanti a Rai’an, si inginocchia e china il capo, mentre gli
porge l’elsa della spada.
Rai’an l’osserva attentamente. Sui due fili della spada dritta, si vedono
crepe e tacche persino da qui, e qualche segno di ruggine macchia la super­
ficie del metallo.
–Penso… che tu sia degno di una spada migliore. Kaori, credi che
potremo comprare una spada a Nara?–
–Potrebbe non essere facile.– Risponde Kaori.
–Hai idea di quanto possa costare?–
–Uhm… una buona spada può arrivare a costare due monete d’oro.
Dovremmo vendere mamori per almeno un anno per racimolare una cifra
simile.–
–Per quello, non c’è problema: a Nara è finita una certa quantità d’oro,
insieme ad altre componenti, che abbiamo inviato per queste evenienze.
Non so a quante monete corrisponda, ma penso che basterà.–
–Beh, allora dobbiamo trovare solo un maestro spadaio disposto a ven­
dercene una… Allora, ci dirigiamo a Nara?–
–Sì; anche se voglio recuperare il prima possibile l’oggetto che è finito
nel tumulo di Sakurai.–
–Beh, Nara è di strada. È proprio in fondo a questa vallata…–
Kaori sembra voler aggiungere qualcosa, ma è titubante.
80
–Dimmi, Kaori, c’è qualcosa che non va?– la esorta Rai’an.
–Riguardo alla tomba della Divina Yamato­to­tohi­momoso­hime…–
–Sì?–
–Girano strane voci…–
–Eh?–
–Dicono che… ecco… ci sia uno spirito che tutte le notti esce da quella
tomba e infesta le terre circostanti. La gente del posto crede che lo spettro
della dea si aggiri per le campagne… –
Uno spettro che esce da una tomba antica? Ho i brividi!
–Uh… davvero?– La risposta di Rai’an­sama è un po’ piatta.
–Davvero! Non mi credi?–
–Certo che ti credo! Insomma... mi stai dicendo che c’è della gente che
dice che ha visto uno spettro…–
–Io ho parlato con due contadini che l’hanno visto!–
–E… tu l’hai visto?–
–Io no… ma non mi sono neanche mai avvicinata. E non mi sono avvi­
cinata perché già da lontano, e di giorno, ho percepito una forza maligna
che cercava di nascondersi… senza riuscirci.–
–Beh… nella peggiore delle ipotesi, abbiamo qui le due miko più brave
di tutto il Giappone, giusto?–
–Oh, io non sono così brava con gli esorcismi… quella davvero brava è
Midori…–
Kaori mi guarda; nei suoi occhi leggo finalmente un certo rispetto. Beh,
se posso tornare utile in questo viaggio, e rubare la scena a Kaori, per una
volta, allora ben venga pure lo spettro!
–Ti ringrazio, Kaori­san… farò del mio meglio.– rispondo con mode­
stia. Kaori sembra più tranquilla, ora che le ho fatto vedere che il mio
cuore non trema. Aggiungo: –Sarò il vostro scudo contro ogni forza mali­
gna.–
Jirou, che fino a quel momento era rimasto in silenzio e in disparte, si
volta verso di me. Ecco perché se ne stava zitto zitto, ha proprio lo sguardo
di un bimbo spaventato.
Gli sorrido: –Di spettri malvagi, ne ho già purificati tre. Più un sacco di
altri spiriti maligni e di ayakashi. Tu pensa a proteggere il mio corpo, che
alla tua anima ci penso io.–
–Oh… ecco…– balbetta Jirou, ma la paura nel suo sguardo è già scom­
parsa, –farò come dici.–
–Bene,– si alza in piedi Kaori, –e allora, prima che il sole sia alto, met­
tiamoci in cammino.–
81
E siamo in marcia. Quasi quasi chiedo a Rai’an un po’ di quella medi­
cina di ieri… ma no, l’orgoglio me lo impedisce. Non voglio dare a Kaori
questa soddisfazione. Il mattino è giovane e l’aria è lattiginosa sulla strada che percorre il
fondo valle. Tutto è avvolto in una foschia dorata dai primi raggi del sole,
così abbacinante che, quando Nara compare davanti ai miei occhi, lo fa
mostrandosi all’improvviso, quasi volesse farmi una sorpresa.
82
Parte seconda
Yamato
Nara (R)
–Non potete entrare in città armati!– Al grido della guardia, chino il mio kasa stando attento a nascondere
bene il volto.
La guardia regge una lunga picca e indossa un’armatura fatta con strisce
di cuoio e placche di bronzo ossidato. Nel periodo Hei’an, non esisteva
una milizia nazionale. Questi soldati sono solo mercenari al soldo del
governatore locale.
Siamo giunti al cancello ovest di Nara già di buon mattino, ma le guar­
die non intendono farci passare. Quella con cui sta discutendo Kaori è
uscita da una tenda sotto la quale altre due stanno sonnecchiando. Accanto
al cancello, fuori dalle mura, c’è un soldato armato anche peggio; e due
picche si intravedono stagliarsi contro il cielo oltre la porta.
Nara occupa un’ampia pianura; ha basse e strette mura che non hanno
scopo difensivo, ma servono principalmente a delimitare l’area della città,
ed un fossato che protegge esclusivamente il lato a sud e la porta princi­
pale, più con la funzione di arredo urbano che non di fortificazione. La città è stata progettata secondo principi ispirati al confucianesimo e
alla geomanzia cinese, allo scopo essere la capitale dell’impero dello
Yamato. Fu completata nell’anno 710; ma solo settantaquattro anni dopo,
nel 784, la capitale fu spostata a Nagaoka, e quindi, nel 794, a Hei’an, che
sarebbe poi stata rinominata Kyoto. Forse grazie a questo, ancora adesso,
nell’anno 1006, Nara è rimasta una città “ideale”, nel senso che lo sviluppo
si è arrestato, ed il progetto iniziale si è rivelato adeguato a servire la città
per quasi trecento anni.
Nara è strutturata come un quadrato di quattro chilometri, perfettamente
orientato lungo gli assi cardinali; si sviluppa attorno ad un larghissimo
viale, ampio circa cinquanta metri, che corre esattamente in direzione
85
nord­sud e l’attraversa per tutta la sua lunghezza. All’estremità settentrio­
nale del viale si trova l’antico palazzo imperiale, ora sede del governatore
e dei suoi amministratori, una città nella città che occupa un quadrato dal
lato di circa un chilometro. Attorno al palazzo, quelle che furono le resi­
denze dei nobili di corte sono collocate ognuna in un’area delimitata da
mura quadrate o rettangolari, la cui dimensione rifletteva il rango degli
occupanti. Adesso, quasi tutti i dignitari si sono spostati a Hei’an, e le abi­
tazioni sono occupate dalla nobiltà locale o da ricchi mercanti. Accanto ai
giardini del Palazzo Imperiale, a nord­ovest, giacciono tre grandi kofun,
tumuli simili a piccole colline, circondati da fossati tanto ampi da formare
dei veri e propri laghetti artificiali, che ospitano le spoglie dei primi impe­
ratori della dinastia Yamato. Altri tumuli più modesti si intravedono qua e
là, nella campagna a nord della città.
Più lontano dal palazzo, a sud, si trovano le abitazioni dei cittadini
comuni, allocate in quartieri sempre murati, ma che, diversamente da
quelli dell’alta nobiltà, sono ulteriormente suddivisi in appezzamenti più
piccoli. Dai modelli tridimensionali che ho studiato, passeggiare lungo le lar­
ghissime strade di Nara, tutte in terra battuta e ghiaia bianca, significa
camminare lungo file interminabili di mura, anch’esse bianche, che delimi­
tano i quartieri, in ogni direzione, dietro ai quali spuntano i tetti decorati
delle abitazioni più imponenti, e svettano le pagode dei templi. E poi,
all’interno della città si trovano alcune piccole collinette naturali, ampi
parchi, laghi e fiumi i cui argini ospitano giardini che attraversano la città
in tutta la sua lunghezza. I cervi, animali sacri ai primi imperatori e alla
dea Amaterasu, pascolano liberi nei giardini e si avventurano spesso fino
ai cortili dei templi e delle grandi case private, che sorgono un po’ ovun­
que.
Nella parte nord­ovest, sorge la città dei templi; un rettangolo alto circa
due chilometri e largo quasi altrettanto che si protende come un’appendice
dal corpo della città quadrata, dove trovano posto la maggior parte dei luo­
ghi di culto, quasi tutti dedicati alla fede buddista. Il cancello ovest, che
guarda verso Iga e la regione montuosa da cui veniamo, si apre su
quest’area. La pagoda a cinque piani del Tempio di Koufuku torreggia
poco oltre le mura. A circa un chilometro a nord, invece, subito fuori le
mura cittadine, si intravede il Tempio di Toudai, che già adesso ospita la
statua del Budda più grande del mondo, e che, nelle intenzioni dell’impera­
trice Genmei, era destinato a esercitare il ruolo di centro della fede buddi­
sta in tutto l’impero.
La risposta di Kaori interrompe il filo dei miei pensieri.
–Senti, ti ho già detto che lui è la nostra guardia del corpo…–
86
–In città non c’è bisogno di guardie del corpo. E comunque, non potete
andare in giro con quegli archi.–
–Ma noi siamo miko! L’arco fa parte dei nostri strumenti rituali!–
–Senti, sorellina, a Nara ci sono già abbastanza bonzi, ci sono strumenti
rituali fin sopra i capelli…–
–Prima di tutto, io non sono tua sorellina. Sono una miko ed esigo il
rispetto che mi è dovuto.–
Non vedo gli occhi di Kaori, ma immagino perfettamente il suo sguardo
infuocato, e lo vedo riflesso nell’espressione sconcertata della guardia.
–Oh… sì, scusa, nobile miko.–
–Già meglio; mi spiaceva iniziare la giornata con una maledizione.–
La guarda sbianca, e Kaori ne approfitta.
–E poi i bonzi hanno i loro rosari, e noi abbiamo i nostri archi. E i nostri
oonusa. E i nostri mamori. E un sacco di cose che i bonzi non hanno.–
–Beh, visto che avete tutte queste cose, potete lasciarci i vostri archi…–
–Io non ti lascio un bel niente, brutta faccia da scimmia incrociata
con…–
–C’è qualche problema?– una voce sconosciuta da dietro le mie spalle
mi fa trasalire. Mi giro di scatto, tanto che quasi mi vola via il kasa dalla testa. Un
anziano monaco e due giovani bonzi sono in piedi dietro di noi. Come me,
indossano un kasa, ma i giovani hanno un corto kimono nero su pantaloni
e veste bianchi, mentre l’anziano indossa un ricco kimono dorato a ricami
rossi, con sopra una specie di grembiule color prugna con bianche fantasie
floreali geometriche, allacciato a tracolla, solo da un lato. Un pesante rosa­
rio con grani di legno grossi come prugne gira attorno al suo collo, la sua
mano poggia su un bastone alla cui estremità si trova un cerchio da cui
pendono sei anelli tintinnanti, mentre i due giovani monaci stringono un
rosario a grani fini.
Come i tre si tolgono il kasa, la guardia cade in ginocchio, quasi gri­
dando: –Geika!–
Geika!? È un titolo onorifico che si usa per i monaci di altissimo rango;
ad esempio, per gli abati dei templi maggiori. Le altre guardie escono da sotto la tenda e corrono a inginocchiarsi.
Io cerco di prendere un po’ di distanza, e faccio un profondo inchino.
–Dicevo, c’è qualche problema, guardia?–
La guardia prende fiato e cerca di rispondere senza più inspirare: –Sì;
queste miko vogliono entrare in città con le armi.–
87
–Oh…– il sacerdote saluta Kaori con un cenno del capo. Lei si fa avanti
e mi supera, e dopo aver eseguito un inchino profondo ma rapido, inizia:
–Douzen­geika, il mio nome è Kaori, miko anziana del santuario di
Koumon. Stiamo solo cercando di entrare in città, ma queste guardie ce lo
vogliono impedire.–
Evidentemente, Kaori conosce questo abate.
–Oh, ma le guardie non vogliono certo impedire a delle miko in cam­
mino di entrare in città. Solo, un guerriero armato non può girare per le
strade di Nara, sarebbe un fastidio per gli abitanti.–
Interviene la guardia: –Nessuno ha il permesso di entrare armato in
città, Douzen­geika. Devo requisire tutte le loro armi.–
–Su, andiamo, guardia, non vorrete prendere alle miko il loro arco.
Sarebbe come togliermi il mio bastone…–
–Geika, il vostro bastone non è un arma…–
–Eppure, se te lo spacco in testa, sono certo che non ti alzi più.–
La guardia tace, e Douzen continua: –Ora, per la spada di questo
figliolo, basta che non entri in città armato, giusto?–
–Beh, ecco…–
–Allora, se questo giovane protettore ripone la sua spada e le miko
ripongono le loro frecce, è tutto a posto, giusto?–
–Sì, ma… chi ce lo dice che non le riprenderanno appena entrate?–
–Non ti basta il giuramento di una vergine sacra?– chiede il monaco.
Kaori ha un’espressione che non riesco a decifrare. Sembra… a disagio.
Spaventata, forse. Non capisco, a me pare che questo sacerdote ci stia aiu­
tando.
–Sì, certo che… mi basta…–
–Giovane Kaori, se riponete le vostre frecce e la spada del giovanotto, e
promettete di non tirarle fuori appena entrate, potete passare.–
Kaori si inchina, ma è un movimento teso. –Lo prometto.– dice a mezza
voce.
Io poso il bagaglio, e Kaori si sfila la faretra; Midori si avvicina e fa
altrettanto. Jirou resta immobile finché non gli faccio un cenno con la
testa. Mentre apro il grosso pacco e cerco un po’ di spazio per infilare le
armi, Douzen si avvicina di un passo.
–Certo che quel… bagaglio… ha l’aria molto pesante. Riuscirete a por­
tarlo se aggiungete il peso di una spada?–
Kaori è girata verso di me, e Douzen non la vede. Il suo volto si fa di
marmo, e noto che le labbra le tremano. Sembra non voler alzare lo
sguardo, nemmeno per cercare di dirmi qualcosa con gli occhi.
88
Rispondo mentre infilo nel bagaglio la spada che mi passa Jirou.
–Sono molto forte, Douzen­geika.–
Douzen si avvicina ancora; chiudo in fretta il bagaglio, e sto per rimet­
termelo in spalla, ma il sacerdote allunga una mano e prova a sollevarlo.
Ovviamente, non riesce a muoverlo nemmeno di un dito. Allora afferra la
tracolla con ambo le mani, e fa un altro timido tentativo, che lascia a metà.
–Devi essere davvero molto forte. Quale potrà mai essere il volto di un
uomo tanto forte?–
Kaori sta stringendo l’arco che ha in spalla tanto forte che le sue nocche
diventano bianche. A me non resta che slacciare il kasa e sfilarlo.
I due novizi si lasciano sfuggire un verso di sorpresa.
–Oh… sei uno straniero… sei forse un Alemanno?–
Chino la testa mentre rispondo: –Irlandese, geika. Il mio nome è Ryan.–
–Irlandese… dov’è l’Irlanda?–
–È una bellissima isola verde nel mare a nord dell’Alemagna, a fianco
dell’isola chiamata Gran Bretagna. Le sue colline sono dolci come il corpo
di una madre, ed il suo cielo è volubile come il carattere di una donna
capricciosa.–
Anche se nato sulla stazione orbitale Beta di Marte, il mio sangue Irlan­
dese non fu immune al richiamo della terra madre, quell’unica volta che
potei visitarla.
Il sacerdote mi sorride: –Vedo bene il tuo amore per il tuo paese natìo.
Essere così lontano da casa deve essere doloroso. E dimmi, Ryan
dell’Irlanda, cosa ti porta tanto lontano?–
Scacco. Al terzo battito di cuore della mia indecisione, Kaori scatta: –Geika, la
sua nave è naufragata, e avendo bisogno di un lavoro, vista la sua notevole
forza, gli abbiamo offerto di portare il nostro bagaglio in questo viaggio.–
–Koumon è piuttosto lontano dalla costa…– Scacco matto. Il sacerdote sorride a Kaori con occhi privi di malizia, ma questo rende
la situazione ancora più imbarazzante. Cerco di rispondere io.
–Beh, in effetti… ho girovagato un po’ prima di arrivare da quelle parti;
poi la gente del posto mi ha indirizzato verso il santuario di Koumon… ed
eccomi qui!–
89
Il sacerdote mi sorride come un nonno a un nipote che non vede da tanto
tempo. –Ah, davvero? Bene, bene… mi piacerebbe sentire il racconto del
tuo girovagare, ma adesso abbiamo affari un po’ urgenti da sbrigare. Ma
forse, potete venirmi a trovare al Toudaiji. A proposito, – si rivolge a
Kaori, –dove siete diretti?–
C’è qualcosa dopo lo scacco matto?
Kaori ha la prontezza di rispondere: –A… al santuario di… Yuuga.–
–Ohhh, al santuario di Yuuga… chissà come se la passa il vecchio Sen­
bei. Beh, portategli i miei saluti.–
Kaori china profondamente il capo senza rispondere.
–Allora, ci tengo; voglio assolutamente sentire le storie che vengono da
questa terra morbida come il corpo di una madre…– il tono fino ad ora
caldo e paterno si fa perentorio, eppure non minaccioso: –Passate dal Tou­
daiji mentre siete qui a Nara.–
Senza altri saluti, i tre monaci ci superano ed entrano nel cancello. Mi rimetto il kasa e riprendo in spalla il bagaglio; le guardie ci lasciano
sfilare all’interno della città senza dire una parola. Kaori resta al mio fianco; poco oltre le mura la vedo stringersi nelle
spalle.
–Tutto bene?– le chiedo.
–Quel bonzo mi dà i brividi.–
Midori saltella un paio di passi e ci raggiunge: –Ma va, a me sembrava
un nonnetto tanto buono!–
Il volto di Kaori si distorce in una smorfia di disgusto: –È una serpe tra­
vestita da procione.–
–Serpe o procione, – concludo, –ci ha aiutati a entrare.–
–Quella gente non fa nulla in cambio di nulla. Si aspettano sempre una
sorta di ricompensa, in un modo o nell’altro… in questa vita o nella pros­
sima.–
Che si riferisca al karma? Lascio cadere il discorso, ma Kaori va avanti.
–Quello che non sopporto è la loro ipocrisia. Loro l’hanno eletta persino
a dottrina: “i mezzi abili”. Convincere la gente a qualsiasi costo, anche con
l’uso di qualsiasi menzogna, che la loro è la via giusta.– Continuo a lasciare cadere il discorso, e Kaori continua ad andare
avanti.
–E non solo questo… l’idea stessa che tutto il mondo, tutta l’esistenza
sia un’illusione… è un insulto al makoto… al cuore della realtà delle
cose.–
90
Mah, non è che andare in giro a caccia di spettri e mostri invisibili agi­
tando sonagli e strisce di carta sia più in sintonia col cuore della realtà
delle cose… ma anche questo, me lo tengo per me.
–Menzogne su menzogne che tengono in piedi altre menzogne…– sibila
piano fra i denti.
–Kaori, dove andiamo ora?– cerco di costringerla a pensare ad altro.
–…facciamo una visita al tempio di Yuuga.–
–Uh… non dovremmo cercare un alloggio?–
–Sì ma… hai sentito il procione. Vuole che portiamo i suoi saluti al
kannushi. Se non lo faremo, stai certo che lo verrà a sapere, e questo com­
prometterebbe il nostro travestimento ancora più di così. Comunque, è pro­
prio qua dietro.– Così dicendo, si incammina verso una strada laterale.
Tre notti in anticipo (K)
Il kannushi di nome Senbei ci ha accolte molto cordialmente. È sem­
brato molto felice di ricevere i saluti di Douzen­geika; naturalmente,
stando a un tiro di freccia dal Toudaiji, non può non intrattenere rapporti
cordiali con l’alta gerarchia buddista. Ad ogni modo, portare Midori al
santuario di Yuuga per farle conoscere i kamii locali è una copertura più
che credibile per il nostro viaggio, quindi, anche se è stata una trovata
dell’ultimo minuto, ci è tornata utile.
Abbiamo lasciato Rai’an­sama e Jirou al tori­i del tempio; quando
siamo andate a riprenderli era mezzogiorno, e Jirou sonnecchiava seduto
con la schiena appoggiata a una colonna, mentre Rai’an­sama era immo­
bile; da sotto il kasa non si vedeva la sua espressione, ma poi mi ha detto
di aver… beh, non ho capito bene le parole che ha usato, ma il succo è che
ha recuperato un’altra porzione delle forze che gli mancavano. Dobbiamo attraversare quasi tutta la città per raggiungere la zona degli
heimin, la gente comune; voglio prendere alloggio in una locanda per vian­
danti. In genere, le miko chiedono ospitalità nei templi o presso i sacerdoti
che accudiscono i santuari, ma Nara è grande, e passare da un quartiere
all’altro richiede buona parte della giornata; per una miko, non è raro farsi
vedere nei quartieri popolari per racimolare un po’ di offerte, fermandosi
in una locanda in quelle zone. In altre parole non dovremmo destare troppi
sospetti. Saremo da quelle parti prima che il sole passi la metà del ponente,
verso l’Ora della Scimmia.
91
Camminiamo tutti e quattro in fila; alla mia destra c’è Midori, alla mia
sinistra Rai’an­sama e accanto a lui Jirou. La gente per le strade ci rivolge
qualche occhiata curiosa, ma nulla che la naturale curiosità per una miko in
viaggio non possa spiegare… anche se la maggior parte di occhiate sono
per il bagaglio che porta Rai’an­sama, che ora è diventato davvero volumi­
noso; la disinvoltura con la quale cammina sotto quel peso è qualcosa che
attira l’attenzione ben oltre la statura di Jirou. Dovremo provvedere, in
qualche modo.
–Rai’an­sama…– voglio accennargli l’argomento.
–Kaori, chiamare con sama il contadino che porta il bagaglio potrebbe
essere sospetto.–
–Non quanto il bagaglio stesso.–
Rai’an­sama si guarda attorno, e nota finalmente alcuni sguardi intensi
che si posano su di lui.
–…capisco…–
–Dobbiamo renderlo meno evidente. Forse Jirou ne può portare una
parte.–
–Molto volentieri.– interviene il ragazzo.
–Ma non qui; ci sono cose nel bagaglio che non possiamo metterci a
tirare fuori nel mezzo di una strada.– taglia corto Rai’an­sama.
–Va bene… come desidera Rai’an­sama. Quanto ci vorrà ancora prima
che recuperi in pieno le tue forze?– cambio discorso.
–Circa tre giorni; dipende molto da quanta forza uso nel frattempo.–
–Tre giorni?… dovrebbero bastarci.–
–Per fare cosa?–
–Fare quello che dobbiamo fare a Nara: recuperare il carico, acquistare
una spada per Jirou, raccogliere informazioni sullo spettro della hime… e
fare visita al Todaiji.–
–…Vuoi andare da Douzen?–
–Certo che no. Ma dobbiamo. Se non lo facciamo avremo alle calcagna
tutti i monaci del Giappone.–
Rai’an­sama mi guarda intensamente da sotto il kasa.
–Non stai esagerando, Kaori?–
–No.–
Il kasa di Rai’an­sama si gira verso la strada.
–Beh… non è che avere alle spalle un’orda di bonzi vegetariani armati
di rosario sia la mia prima preoccupazione.–
–Non avremo addosso bonzi vegetariani armati di rosario, ma i souhei, i
guerrieri agli ordini dei monaci.–
92
Rai’an­sama si immobilizza all’improvviso. –Ah… già… i souhei…–
Evidentemente la parola almeno gli è nota. Chissà se sa che sua maestà
l’imperatore Kanmu fu costretto a spostare la capitale a Hei’an proprio a
causa della potenza degli eserciti dei monasteri buddisti. Torno sui miei
passi verso Rai’an­sama e lo sbircio da sotto il kasa.
–Comunque, sono vegetariani anche quelli…– scherzo, e Midori rilan­
cia: –…E credo anche abbiano dei grossi rosari, vero Kaori­san?–
–Oh, sì, grossi rosari. E quando ti affettano, ti danno anche un po’ di
karma da spendere nella prossima reincarnazione.–
–E fanno anche voto di celibato! Magari potremmo convincerli a rinun­
ciare almeno a quello…–
–Midori…– Ma lei si nasconde la bocca sotto una manica.
–Ho capito… va bene, ora ho una preoccupazione in più.– Rai’an­sama
riprende a camminare. Io ho celiato a sazietà, ma Midori a quanto pare ha
ancora appetito.
–Eh, già Rai’an­sama, la vita è tutta una preoccupazione dopo l’altra.
Come dicono i bonzi? Questa vita è …una casa infuocata? O era una ruota
di dolore? O… un’illusione maligna?–
–Tutte e tre.– rispondo.
–Tutte e tre?! Oh, sono allegri, questi bonzi!–
–Già… e se per caso tua vita non fosse un’illusoria ruota infuocata di
dolore…–
–… ci pensano loro a rendertela tale.–
Da sotto il kasa di Rai’an­sama escono alcune parole dette a mezza
voce: –Alla faccia del sincretismo…–
–Eh?–
–No nulla, nulla… solo sono giunte a noi storie sull’armonia di questo
regno…–
–Eh, già… capisco. L’altra parte del palcoscenico racconta un’altra
storia…– recito il proverbio con aria falsamente saggia.
Midori mi fa il verso, imitando il mio tono alla perfezione: –E… se
prendi a testate un ponte di pietra invece di attraversarlo, farai prima a
tirarlo giù che ad andare dall’altra parte…–
–E che c’entra?–
–Oh, nulla, ma è il mio proverbio preferito.–
Jirou sbotta, seccato: –Certo che voi due siete proprio delle gran chiac­
cherone!–
93
1. Midori gli corre dietro e gli dà una spinta che lo fa incespicare,
mentre gli risponde ridendo: –E tu sei un gran musone!–
Sotto il kasa, la bocca di Rai’an­sama risplende del suo sorriso più sin­
cero, che, come sempre, ha il potere di scaldarmi il cuore.
E così, senza neanche rendercene conto, arriviamo alla locanda dove
intendo alloggiare. È una delle poche ricavate da una vecchia casa della
piccola nobiltà di Nara, che ormai si trova nel pieno della zona abitata
dalla gente comune. Grazie a questo fatto, anche se l’alloggio è abbastanza
economico, il posto è grazioso, dotato di un muro di cinta e di un piccolo
giardino tutto attorno. È una specie di incrocio fra taverna e ryoukan,
albergo per viandanti, discreto e meno pulcioso degli altri; è esattamente
quello che fa per noi.
Attraversato il vialetto di ghiaia bianca che porta alla sala grande, mi
levo gli zouri e salgo sul davanzale; gli altri mi seguono. A quest’ora la
sala è spalancata, ed una trentina di avventori sono seduti ad una decina di
tavoli, intenti a consumare una zuppa dall’aria appetitosa. Come entro, mi
accorgo che io e Midori siamo le uniche donne. Se ne accorgono anche la trentina di avventori. Li ignoro e mi dirigo dritta al bancone.
–Oste, siamo in quattro e vogliamo mangiare e dormire per tre giorni e
tre notti.–
L’oste si gira e mi squadra. Ha la faccia da lottatore di sumo, solo, più
unta e grassa. E più arcigna.
–Una moneta per mangiare e una per dormire, per ogni persona e per
ogni giorno.–
–Eh? Stai scherzando?–
–Ho la faccia di uno che scherza?–
–No, hai la faccia di uno che vuole fregarmi.–
–Questo è il prezzo.– Il lottatore di sumo si mette a strofinare il banco con uno straccio lercio.
Sporcandolo. Nervosamente. Grave errore.
–Senti; prendiamo una sola stanza. Ti do una moneta d’argento. In anti­
cipo.–
Il grasso che chiude le fessure degli occhi dell’oste si sposta un po’, e la
sua mano si ferma. Gli sto offrendo un prezzo fin troppo buono, ma mi
trovo una moneta d’argento fra le mani, e non credo che l’oste abbia molta
voglia di darmi il resto.
Ma invece grugnisce, e si rimette a strofinare il banco davanti a me.
Tiro fuori la moneta e la sbatto rumorosamente sul tavolo.
94
–Una moneta d’argento… ti pago in anticipo.– Ripeto guardandolo con
aria di sfida. Lui si alza su tutta la sua statura e mi squadra dall’alto verso
il basso. Sono contenta che le mie frecce siano chiuse al sicuro nel baga­
glio… ma un po’ mi spiace.
–Affare fatto…–
Lascio andare la moneta e faccio per sedermi a un tavolo vuoto, ma
l’oste mi chiama.
–A patto che…–
–… a patto che?–
La sua faccia sballonzola verso la parte più interna della sala. Vedo che
è sollevata su due gradini e libera da tavoli… come un palcoscenico.
–Stai scherzando?– ripeto.
–Ho la faccia di uno che scherza?– ripete.
Mi giro a guardare i miei compagni. Jirou è abituato a dormire dove
capita, credo, e per quanto riguarda Rai’an­sama, è pronto a tutto… ma
non voglio portare Midori in un posto ancora peggiore di questo. Sospiro.
–E va bene. Ma un solo kagura. E senza benedizioni, esorcismi o purifi­
cazioni. Se qualcuno le chiede, ce le facciamo pagare a parte.–
–Ci sto,– grugnisce l’oste, e il suo volto si squarcia in una smorfia sub ­
dola, –qualsiasi altro servizio vendiate, l’incasso è vostro.–
Mi appunto mentalmente di tornare a sgozzarlo appena possibile, e mi
dirigo verso il tavolo che ho adocchiato prima.
Midori sembra quasi divertita dall’idea di ballare per questa gente.
–Cosa facciamo? La danza delle fanciulle?– mi chiede canticchiando.
Sospiro.
–Kaori…– mi prende delicatamente per un braccio Rai’an­sama, con
ancora addosso il kasa, –…non devi sentirti costretta a farlo; appena recu­
perato il carico, possiamo pagare in altro modo…–
–Grazie, Rai’an­sama… non preoccuparti, è una cosa normale.–
–Davvero?–
–Sì… anzi, magari riusciamo a tirarne fuori un po’ di soldi. Rai’an­
sama…–
–Sì?–
–Adesso dovresti levarlo…– indico il suo kasa.
–Dici?–
–Desterai più sospetti cercando di mangiare con quello in testa.–
–Magari dovremmo farci portare il pranzo in camera…–
–No, questo sarebbe anche peggio.–
95
–Già, – interviene Midori, –ti prenderebbero per un ayakashi al nostro
servizio, che divora chissà quali mostruosità… e noi saremmo prese per
streghe.–
–Forse Midori esagera, – continuo, –ma non molto. Togliendoti il kasa
adesso, la gente penserà che non volevi ostentare il tuo essere straniero e la
cosa finirà lì; se mangi col kasa, o peggio, se ci nascondiamo, inizierà ad
inventare storie…–
Rai’an­sama non obietta più nulla e si sfila il copricapo.
L’idea di ballare per questa gente non mi riempie di entusiasmo; ma
almeno la zuppa è davvero buona quanto il profumo e l’aspetto lasciavano
sperare. Tre giorni di questa zuppa, un ballo, ben lo valgono. La cassetta del tesoro (R)
Gli avventori di questa taverna mi lanciano qualche occhiata curiosa, ma
in sostanza temevo peggio. Certo, nell’era Hei’an, non era ancora stata isti­
tuita la politica dell’isolazionismo, che sarebbe stata adottata solo verso il
’400, in forma blanda, e in modo rigido solo dopo l’istituzione dello sho­
gunato, attorno alla seconda metà del ’600. Ma non solo questa gente,
molto probabilmente, non ha mai visto nessuno con tratti somatici simili ai
miei; penso addirittura che non conoscano l’esistenza esseri umani così
diversi.
Eppure, come diceva Kaori, la gente del posto non sembra particolar­
mente turbata dalla mia presenza. Sì, sono conscio di essere guardato
molto più di chiunque altro, qui dentro, ma questo è tutto. Finito di mangiare, ci facciamo indicare la nostra stanza dall’oste, parti­
colarmente corpulento. Ricordo che il sumo è già uno sport molto diffuso,
e mi chiedo se questo oste non sia un ex­lottatore. La stanzetta che abbiamo pagato è larga poco più dello spazio necessa­
rio a stendere quattro stuoie e posare i nostri bagagli. Ma Kaori non se ne
lamenta. Chiuso il pannello mi guarda e, come per giustificarsi, mi dice:
–Più piccola è, meno freddo fa di notte.–
Già. Non sembra esserci nulla che possa scaldare l’aria, a parte un
minuscolo braciere, per di più vuoto.
Ci sediamo sulle stuoie appena stese, e decidiamo le prossime mosse.
–Allora, – inizia Kaori, –per quanto riguarda lo spettro, ormai la sala
grande è vuota; se l’oste sa fare il suo mestiere, stasera chiamerà un po’ di
gente a vedere la nostra danza. Potremo approfittarne subito dopo. Quando
il saké scorre, le bocce si sciolgono…–
–…Davvero, non ci sono problemi per voi?–
96
Kaori mi sorride timidamente, ma Midori risponde entusiasta: –Vuoi
scherzare, Rai’an­sama? Io adoro ballare!–
–Beh, quand’è così…–
Ma Kaori aggiunge a mezza voce: –… anche se questo non è proprio il
tipo di pubblico che ci piace intrattenere nei matsuri…– Jirou, stranamente, prende la parola: –Mi assicurerò che nessuno si fac­
cia idee sbagliate.–
Vedendo il suo sguardo fermo, Kaori sembra tranquillizzarsi. Cam­
biando discorso, mi chiede:
–Possiamo recuperare l’oggetto già questo pomeriggio?–
–Dunque… Il carico che si trova a Nara è una cassetta di circa tre palmi
di lato.– Pongo le mani di fronte a me, e le apro per esporre i proiettori. Nell’aria
compare un’immagine olografica della planimetria della città.
–Noi siamo qui…– faccio apparire un punto rosso sulla nostra posi­
zione. Kaori affila gli occhi cercando di sovrapporre questa immagine alla
sua conoscenza spaziale del territorio.
–La cassetta si trova qui…– e faccio apparire un punto blu sulle coordi­
nate che conosco; –È appena al di fuori del raggio di azione delle mie mac­
chine, quindi non posso sapere esattamente cosa c’è lì; le nostre mappe
sono imprecise.–
Kaori punta la mappa con un dito. –È il quartiere dei nobili, di fianco al
Castello della Pace. Probabilmente si trova in un’abitazione di qualche
mercante o nobile.–
–Questo può essere un problema. Sai dirmi quanto tempo ci vuole per
arrivarci?–
–Partendo adesso, dovremo riuscire ad andare e tornare prima del tra­
monto; ma non so quanto tempo ci vorrà per fare quello che dobbiamo
fare… e tornare prima del tramonto è necessario…–
–…per via della danza…– concludo; e proseguo: –Direi di fare almeno
un sopralluogo. Se vediamo che ci vuole troppo, ci proveremo domani.–
–Mi sembra una buona idea…– commenta Kaori. Poi aggiunge: –
Rai’an­sama, posso chiederti cosa c’è in questa cassetta?–
–Suppellettili che possono servirci durante la missione. In particolare,
una riserva di… forza… per le mie macchine, da usare in caso di emer­
genza, alcune armi e dell’oro.–
Midori spalanca gli occhi: –Quanto oro?–
97
–Mah… vediamo…– ci sono venti chili d’oro a gravità terrestre in
quella cassetta, che corrispondono a circa mille centimetri cubici di
volume; prendo dal bagaglio una giara di terra cotta che mi sembra avere
una capacità di circa un litro le rispondo: –… abbastanza da riempire que­
sta.–
Kaori, Midori e Jirou mi guardano immobili, a bocca aperta.
–È molto?–
Risponde Kaori: –È… abbastanza per comprare… tutto il riso prodotto
in un anno in un piccolo feudo…–
Midori finisce la frase, sempre con gli occhi sbarrati: –… e neanche
tanto piccolo.–
Non abbiamo mai avuto informazioni certe sul valore dei metalli pre­
ziosi nell’era Hei’an. Sappiamo che all’inizio dell’era di Edo, i venti chili
d’oro che abbiamo fatto arrivare sarebbero stati considerati equivalenti
circa alla quantità di riso necessaria a nutrire un uomo per un anno; ma nei
seicento anni che ci separano da quel periodo, l’attività estrattiva si diffon­
derà e moltiplicherà la quantità di metallo circolante di diverse decine di
volte. Inoltre, durante il periodo Hei’an, il governo giapponese aveva adot­
tato un sistema di valore facciale che veniva assegnato alle monete coniate
indipendentemente dalla quantità di metallo prezioso realmente contenuta;
ma la debolezza dell’economia e l’impossibilità di garantire questo valore
facciale con beni reali aveva limitato l’uso delle monete, e reso molto più
diffuso il baratto, quindi il reale valore delle monete e dei metalli ad esse
legati era estremamente volatile. Per questo, il valore dei metalli preziosi
variava molto di anno in anno e da provincia a provincia. –Beh, allora dovrebbe bastarci.– concludo.
Kaori mi chiede: –Voi… non date valore all’oro?– –No, è solo un metallo; anche se è utile per costruire alcune macchine.–
I tre si scambiano un giro di occhiate, ed alla fine del giro Kaori mi dice,
con quel suo mezzo sorriso: –Il tuo deve essere un bel mondo in cui
vivere…–
La danza delle fanciulle (M)
Rai’an dice che il sopralluogo è andato bene. La casa è quella di un
ricco mercante di stoffe, e la cassetta è nel magazzino. Kaori e Jirou sem­
bravano molto nervosi, ma io mi sono divertita: fra la taverna e quella casa
c’è un grande giardino con un laghetto, e le paperelle che starnazzavano e
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facevano scappare la gente che voleva sedersi sulla riva. Da lontano, ho
visto persino un cerbiatto giocare a rincorrere le farfalle, sotto lo sguardo
vigile di mamma cervo.
Lì per lì ci siamo detti che non potevamo fare nulla. Tornati alla
locanda, Rai’an ci ha mostrato la mappa dipinta nell’aria; si vedevano tutte
le scatole, e il nostro tesoro sembra essere infilato sotto a una pila di vec­
chie stoffe e cianfrusaglie da buttare. Rai’an è certo che nessuno possa
aprire quella scatola; il mercante deve averla acquistata come una curiosità
da qualcuno che l’ha trovata per caso, e quando non è riuscito ad aprirla,
deve averla buttata in fondo al magazzino. Da quando siamo tornati è lì
che pensa e ripensa… probabilmente a come prendere quella scatola.
Mah… è un kamii, gli verrà senz’altro in mente qualche trovata… da
kamii.
Comunque, si è fatto tardi; è quasi il tramonto e dobbiamo prepararci
per il ballo.
–L’oste ha fatto venire un tamburino e un suonatore di flauto.– mi dice
Kaori mentre tira fuori due tiare ben incartate da una scatola di legno.
–Oh… già mi chiedevo come avremmo fatto a ballare senza musica…–
–Beh, visto che ha fatto le cose in grande, magari dovremo metterci un
po’ di trucco…– dice quasi fra se e se Kaori. Ehehe, fa finta di nulla, ma
mi sa si sta divertendo anche lei.
–Ma sì, dai, giusto la polvere di riso…– –Beh, allora anche un’ombra di beni…– aggiunge, e tira fuori il vasetto
con la polvere di riso e una coppia di conchiglie legate per il perno; le apre
rivelando la pasta rossa che serve per colorare le labbra.
–Ohhh, dove l’hai trovato, Kaori­san?–
Mi sorride con quel suo mezzo sorriso che sa di vittoria: –Una miko non
dovrebbe mai girare senza.–
La polvere di riso sul volto mi fa sentire strana, è come avere una
maschera che copre tutto il corpo, ed allo stesso tempo mi fa quasi sentire
più nuda di quando mi libero di ogni veste. Kaori mi fa un po’ il solletico
quando mi stende il beni sulle labbra. So di non essere brava come lei, ma
le metto la polvere di riso e il beni a mia volta. Ecco, ora sembra proprio
una dama di corte!
La osservo intensamente.
–Beh? Che c’è?–
–Mi chiedo… come staresti con le sopracciglia rasate, Kaori­san…–
–…levatelo dalla testa.–
–Va beeeeene….–
99
Kaori mi sistema la tiara fra i capelli. Decine di piccoli pendagli bianchi
mi scendono davanti agli occhi; provo a scuotere un po’ la testa perché
adoro il suono che fanno.
–E stai ferma…–
–Scusa, Kaori­san…– lascio che finisca di sistemare la tiara.
–Adesso mettila a me…– Ah… che bella Kaori con questa tiara, sembra una principessa… chissà
se sta così bene anche a me.
Ci posiamo sulle spalle il ko­uchigi, una mantellina di seta bianca con
ricami rossi e dorati. Cerco di capire come sto guardando Kaori.
–Pronta?– mi chiede, mentre mi passa il sonaglio ed un ramo di ciliegio
che abbiamo raccolto mentre tornavamo alla locanda. Per fortuna, siamo
ormai alla piena fioritura, e i fiori di ciliegio sono graziosissimi.
–Uhm… vediamo… Jirou, secondo te siamo pronte?– lo sorprendo a
guardarci a bocca aperta.
–Eh? … oh… p… per… Perché lo chiedi a me?– –Perché un kamii non può dirmi una bugia, quindi, per farmi lodare, non
resti che tu!–
–Oh… ecco… sei… splendida. No… voglio dire… siete splendide!
Tutte e due!–
Kaori ride, una risata argentina che non le sento uscire quasi mai.
–Dai, andiamo, che il sole è quasi tramontato.– taglia corto ancor prima
di aver smesso di ridere. Io la seguo, e Jirou viene dietro di noi. Non so che
intenzioni abbia Rai’an, mi sembra troppo assorto nei suoi pensieri; ma
invece, dopo un po’ lo sento far scorrere il pannello dietro di noi. In
quell’istante, mi giunge la voce di Jirou.
–Midori­san!–
Mi giro perplessa; i tanti pendagli della mia tiara sbattono tintinnando.
–Io… non sono un kamii, ma non mento mai.–
La polvere di riso copre il mio rossore, mentre mi volto; ma prima, mi
assicuro che possa leggere il sorriso nei miei occhi per un breve, furtivo
istante. Kagura (R)
La sala grande mi sembra più affollata del mattino. La gente seduta a
gambe incrociate sotto i tavoli applaude e incita Midori e Kaori mentre
passano. Capisco perché Kaori ha scelto questa locanda: è abbastanza eco­
100
nomica per essere discreta, ma abbastanza cara da tenere alla larga la fec­
cia peggiore. Ci sono solo piccoli mercanti e un pugno di capi villaggio
venuti in città per vendere i prodotti della loro terra.
Mentre mi appoggio in un angolo in ombra, mi risuona in testa la frase
detta da Midori. “I kamii non mentono”. Secondo il culto dei kami, che
precede di secoli quello che venne poi chiamato Shintoismo, i kami sono
manifestazioni del makoto, della verità del cuore delle cose. Non credo che
le ragazze la prenderanno molto bene quando dirò loro che la cosa migliore
da fare è andare a prendere quella cassetta senza chiedere il permesso o
dare spiegazioni al suo attuale proprietario. O in parole povere, rubarla.
Anche perché il furto è un reato grave; la pena di morte è abolita per reati
comuni, e di fatto non fu mai applicata durante tutto il periodo Hei’an, per
via dell’influenza della religione buddista; ma al suo posto si praticava un
uso piuttosto liberale di quello che oggi chiameremmo legittima difesa, o
diritto all’uso della forza, da parte delle milizie private. E comunque, la
prospettiva della pena alternativa, l’esilio perenne in terre selvagge, non
era poi molto meglio.
Arrivate sul “palco”, Kaori dice qualcosa ai due musici seduti da un
lato. Le due miko si scambiano uno sguardo veloce e fanno un breve
inchino al pubblico; poi sollevano il sonaglio in alto e avanti con la mano
destra, tenendo il ramo di ciliegio fiorito nella sinistra, come fosse una
freccia incoccata in un arco immaginario.
Per me è un’occasione unica. Mi assicuro di aver attivato il registratore
visivo: questo è materiale preziosissimo dal punto di vista antropologico,
casomai riuscissi a tornare indietro. Non abbiamo una descrizione precisa
di questo genere di danze; ci sono rimasti documenti sulle danze sacre per
le cerimonie ufficiali alla corte imperiale, ma nulla su quelle che miko e
altri tipi di sacerdoti intrattenevano per la gente comune. Confrontarle con
le prime registrazioni audiovisive, che risalgono al ventesimo secolo, e
scoprire quanto e come sono variate nell’arco di mille anni, per un antro­
pologo, è un sogno che diventa realtà.
Parte la musica, e insieme un colpo dei sonagli. Il pubblico si lascia
andare subito in esclamazioni di stupore e compiacimento. Già, anche nei
primi filmati, si nota che il pubblico giapponese partecipa vivace, anche
nelle occasioni che in altre culture sarebbero state considerate solenni. La
cosa deve avere radici più antiche di quanto sospettassimo. Ma me l’aspet­
tavo; per il Giapponese, la comunicazione stessa richiede un’interazione
continua. In un dialogo, l’ascoltatore non è tenuto ad attendere in silenzio
il suo turno; al contrario, è ritenuto scortese tacere mentre l’altro parla. Ad
ogni inciso, ad ogni parte della frase, chi parla si aspetta che chi ascolta
confermi la sua partecipazione, con piccole domande retoriche come “oh,
101
davvero?”, “e poi?”, “ah sì?”, oppure con commenti a caldo, come “pove­
rino!”, “mi spiace”, “che peccato”, “che bello!” eccetera. Se chi ascolta
non lo fa, chi parla rimane interdetto, non capendo se l’altro lo segue dav­
vero. Può arrivare a perdere il filo del discorso. Mi chiedo se Midori e Kaori si bloccherebbero, indecise su come
girarsi, se il pubblico non le incitasse in continuazione. Le due miko si voltano l’una verso l’altra, sorridendosi e suonando due
colpi di sonaglio in alto e in basso; poi danno le spalle al pubblico, e si
sente una voce che chiama “dai giratevi!”, un’altra “che sorridete al
muro?”
Ed eccole girasi ancora, lentamente, “ecco, brave!”, e sorridere al pub­
blico, e alzare la punta del ramo di ciliegio, “più su’”, “toccate il soffitto!”,
“no, il cielo!”, e poi guardando fisso il ramo, ruotano il braccio allargando
un semicerchio verso l’esterno.
Un colpo di sonaglio all’unisono e il ramo si alza di scatto, puntando
verso la sala, “a me, me!”, “dai sorellina, che ho bisogno di fortuna!”,
“guarda qui!”, altro colpo di sonaglio e ora il ramo gira a destra, per
Midori, e a sinistra, per Kaori, abbracciando tutta la sala, “ehi, troppo,
sorelline!”, “Oi, ma vi basta la purezza per tutti questi disgraziati?” la sala
ride.
I gesti di Kaori sono lenti e solenni, quelli di Midori sono eleganti e
femminili. Un colpo di sonaglio e la punta della bacchetta magica di
Midori gira attorno all’oste, che salta indietro per la sorpresa, ma si
riprende subito e cerca di afferrare la magia della miko; mi ricorda un
ragazzino innamorato che prende al volo il bacio della sua fidanzatina.
Con due colpi di sonaglio e un ampio gesto, Kaori sembra voler cacciare
via ogni influenza maligna dalla gente nella sala, fendendo l’aria e spar­
gendo petali di ciliegio in ogni direzione. E’ l’ultimo passo della danza; lo
capisco perché Midori si porta al petto il sonaglio e il ramo, come a volersi
mettere sull’attenti di fronte alla tecnica impiegata da una sua superiore. O
almeno, dovrebbe essere l’ultimo passo; perché proprio quando la musica
finisce, col rametto ormai spoglio, Kaori batte due colpi di sonaglio e dise­
gna un cerchio proprio nella mia direzione. Sono sorpreso, non me l’aspet­
tavo. Kaori deve aver letto la sorpresa sul mio volto, perché mi saluta con
quel suo sorriso sicuro, e china impercettibilmente il capo, facendo scuo­
tere avanti e indietro i pendagli della tiara. Un brevissimo inchino, così
breve che nessuno, oltre a me lo nota; così breve che riesce a mantenere lo
sguardo fisso nei miei occhi. So che non si dovrebbe fare, che un inchino
non è un inchino se non abbassi lo sguardo. Ma lei mi sorride, quel suo
sorriso soddisfatto, e mi guarda dritto negli occhi.
102
Caccia ai fantasmi (K)
È stato una bel kagura. È sempre un piacere ballare accanto a Midori,
non solo è perfetta nei movimenti, ha una grazia naturale così abbondante
che inonda e sostiene anche chi balla con lei. E la gente del posto è stata
anche più carina di quanto sperassi. Sorrido a tutti e mi inchino, ringra­
ziando sinceramente. E adesso, veniamo agli affari.
–Ehi, sorella…– mi chiama un uomo più o meno della mia età.
–Sì?– mi avvicino sorridendogli.
–Domani devo tornare al villaggio, mi dai una benedizione per proteg­
germi lungo il cammino?–
–Due monete di rame.– continuo a sorridergli.
–Eddai, che ho avuto una settimana disgraziata! Ho pure dovuto dar via
una parte del riso alla metà del suo prezzo!– –È tremendo! Allora ti servirà ancora più fortuna! Tre monete di rame.–
Quasi scoppio a ridere nel vedere la sua faccia.
–Ma…–
–Facciamo quattro?–
–No, no, mi basta una benedizione da tre.– e tira fuori tre monete di
rame che posa sul tavolo.
–Allora… una benedizione da tre, eh?– E inizio a cacciare la sua sfortuna. Certo che ne ha di sfortuna,
quest’uomo. Beh, tre, quattro, cinque colpi di sonaglio…
–Che la sfortuna ti abbandoni…–
Due, tre colpi al centro…
–Che la via del ritorno sia veloce e sicura…–
Due colpi in basso…
–Touga­sama, caccia le volpi e i procioni che gli si pareranno lungo la
via…–
Può bastare, ma un po’, questo tipo mi fa pena…
–Kamii della povertà, sii soddisfatto di quanto hai fatto, e trova una
nuova vittima!–
–Oh… la la cosa del kamii della povertà mi piace… ma era nelle tre
monete?–
–Offre la casa.–
–Grazie!–
–Di nulla…– e mentre prendo le tre monete aggiungo: – …senti, noi
abbiamo in programma di visitare un santuario a Sakurai; sai mica se c’è
qualcuno di quelle parti?–
103
–Oh, sì, il vecchio Mamoru, è proprio di Shiba.– Ah, Shiba; è il villaggio appena fuori Sakurai dove si trova la tomba
della hime… l’uomo che ho appena benedetto mi indica un tipo anziano
magrissimo, che sta parlando con Midori.
–…oh, è uno spettro terribile, non è roba per una bambina delicata come
te…– le sta dicendo.
–Non preoccuparti, nonno, – risponde lei, –noi abbiamo un’arma
segreta…–
Panico. Ma che ha nella testa quella mocciosa?
Volo fra i tavoli e afferro Midori per un polso, mentre l’anticipo: –Già,
siamo in due…–
–Oh… due bambine, eh?– fa il nonno.
–Ormai non sono più una bambina, nonno.– gli rispondo… ma un po’
sono lusingata.
–Ma dove? Certo che sei una bambina, figlia mia. Sei così giovane che
dovresti invecchiare cento anni per diventare nonna come me!–
–Hahaha!– rido di cuore. E stritolo il polso di Midori, che trattiene a
stento le lacrime. Come smetto, chiedo: –Allora, nonno, ci puoi aiutare?–
–E che può fare un povero vecchio come me per due giovani figliole
come voi?–
–Vorremmo sapere qualcosa di più su questo spettro.–
–Oh, osoroshii… è proprio uno spettro pauroso, sai?–
–Ah, sì?–
–Eh… pensa che quando ero bambino, ogni anno si portava via una gio­
vane fanciulla dal villaggio!–
–Davvero!?–
–Sì, sì. E non solo. Qualche volta sparivano anche uomini adulti! E i
vecchi dicevano che la cosa andava avanti da sempre, ma prima era una
volta ogni tanto…–
–E… lo fa ancora?–
–No; arrivò in paese una sacerdotessa; da allora, ogni anno facciamo un
matsuri dedicato alla hime…– –La Divina Yamato­to­tohi­momoso­hime?–
–Già, proprio lei. Beh, venne in paese questa Kiyone…–
–Era una miko?– Alle volte, la gente comune fa fatica a distinguerci
dalle sacerdotesse. Come i sacerdoti, le sacerdotesse comunicano diretta­
mente con i kamii, e sovrintendono ai grandi Matsuri di purificazione
104
annuale, ma non hanno i poteri di purificazione e esorcismo riservati alle
miko… sebbene, essendo donne, siano naturalmente più dotate dei sacer­
doti maschi.
–No, no, era proprio una shinshoku, e nominata hafuribe, per giunta! E
disse che poteva parlare con lo spettro della hime, e che se avessimo com­
piuto questo rito una volta all’anno, la sua sete di sangue si sarebbe pla­
cata.–
–Capisco…–
–E da allora, a Shiba abbiamo sempre avuto una sacerdotessa che ha un
nome che inizia per Kiyo. Ora c’è Kiyomi.–
–E continuate a ripetere questo matsuri?–
–Sì, tutti gli anni, proprio verso la metà del mese di yayoi.–
–È fra poco.–
–La prossima settimana. Venite a trovarci, sono sicuro che Kiyomi sarà
felice di avere due miko ad assisterla.–
Non è il caso di promettere assistenza in un rito del quale non so nulla.
E qui stiamo parlando non di un semplice kamii, ma dello spettro di una
dea, ma in genere gli spettri si acquietano o si purificano. Non ho mai sen ­
tito di un rito che va avanti per decine di anni. C’è qualcosa di sospetto in
questa storia.
–Non so quando passeremo, nonno, quindi non posso farti promesse.–
–Oh, ma questa bimba mi ha detto che volete passare subito…–
–Ahi!– stavolta stringo finché non la sento frignare.
–Beh, sì, vorremmo, ma non so se potremo… non è che ti serve una
benedizione?–
–Oh, figlia mia, volentieri!–
–Cosa puoi offrire?–
–Vediamo…– tira fuori un sacchetto di riso, saranno tre­quattro tazze,
potranno valere una, al massimo due monete di rame, a trovare un buon
prezzo. Ma il riso è riso…
–Va bene. Una benedizione veloce veloce. Hai bisogno di qualcosa in
particolare?–
Un kamii ladro (M)
Uffa! Kaori, sei una strega! Ancora mi fa male il braccio, e ci sono i
segni delle sue dita sul mio polso!
–Un matsuri, hai detto?– Rai’an riflette sul resoconto di Kaori.
105
Ormai è notte, e siamo rientrati nella nostra stanza. Abbiamo racimolato
un pugno di monete, due sacchetti di riso, dodici uova e una quantità che
non riesco a ricordare di sorsi di saké. Purtroppo, quelli non ce li potevamo
portare via, e quindi mi gira un po’ la testa…
Rai’an ci ha sgridate; dice che recuperato il suo tesoro, non avremo
bisogno di questa roba, ma Kaori gli ha fatto notare che non possiamo
pagare tutto con pezzi d’oro puro. Avremmo addosso le guardie del gover­
natore, l’esercito imperiale, i souhei e i briganti in meno di un giorno. Sarà
anche un kamii, ma alle volte Rai’an è proprio ingenuo.
Beh, a dirla tutta… non ci avevo pensato nemmeno io! Ma lui non ha
bevuto nemmeno un sorso di saké, hehehe.
–Sì; nel quale una sacerdotessa compie un certo rito.– continua Kaori.
–E questo ha fatto smettere le sparizioni…–
–Questo è ciò che siamo riuscite a scoprire. Per Rai’an­sama, ha qual­
cosa a che vedere con l’oggetto nella tomba della divina Yamato­to­tohi­
momoso­hime?–
–Credo di no… non riesco a vedere il nesso.–
–Comunque, che il nesso ci sia o meno, per noi la cosa è un problema.–
–Non vedo perché.–
–Beh… se quello spettro ha creato tanti problemi alla gente di Shiba,
oltraggiando la sua tomba causeremo la sua ira.–
–Non ho alcuna intenzione di oltraggiare la sua tomba…–
–Se devi entrarci, la oltraggerai.–
–Mah, quello che è certo è che non potremo andare a chiedere pala e
piccone in prestito ai contadini di Shiba.–
–No, direi proprio di no…–
Kaori e Rai’an si allontanano dalla luce della candela per cercare di
riflettere. Ma la riflessione è breve, perché Rai’an rompe subito il silenzio.
–Beh, un problema alla volta. Ora, la cosa che dobbiamo fare è andare a
prendere la cassetta.–
–Hai già pensato a come chiederla al padrone?–
–Non credo che chiedergliela sia una buona idea.–
–Rai’an­sama… cosa intendi?–
–La gente dei villaggi del Wakakusa ha visto il mikoshi, e avremo biso­
gno di loro… ma non è che possiamo raccontare a tutti quelli che incon­
triamo chi siamo e cosa stiamo facendo.–
–Stai dicendo di prenderla… e basta?– Kaori sgrana gli occhi.
–Hai un’idea migliore?–
–Qualsiasi altra idea è un’idea migliore!– sbotta Kaori. 106
–In questo caso… hai un’altra idea qualsiasi?– le sorride Rai’an; ma non
è il suo solito sorriso. Stavolta è… teso…
–Potremmo… provare a comprarla.–
–Eh!?!–
–Sì… quello è un mercante, quella è una mercanzia che ha in magaz­
zino, e non vedrà l’ora di liberarsene. Forse gliela possiamo portare via per
qualche moneta d’argento.–
Rai’an sembra pensarci su un po’, ma dal suo volto capisco che l’idea
non fa molta strada fra i suoi pensieri. Lo capisce anche Kaori, che racco­
glie la pazienza che le è rimasta, ma non abbastanza da non far trasparire il
nervosismo dalla sua voce, e prova a convincerlo:
–Rai’an­sama, ho giurato di proteggerti sulla mia stessa vita, e non
posso lasciare che tu ti metta in pericolo facendo una cosa tanto stupida.
Inoltre…–
–Inoltre…?– Rai’an è visibilmente risentito.
–Non… non posso permetterti di… di lordare il tuo makoto con
un’azione tanto riprovevole.–
Rai’an prende il fiato, e apre la bocca, ma ci ripensa e sospira. Volta lo
sguardo, sembra riflettere, riprende il fiato e, di nuovo, apre la bocca… ma
ancora le parole non vengono, e il fiato esce silenzioso. Il suo sguardo è
quello di chi ha troppo da dire per dirlo in una sola frase… e non ha voglia
di dirlo in due.
Finisce col dire a mezza voce qualcosa che, capisco, è assai meno di ciò
che ha davvero da dire: –Kaori… il mio makoto ha ben poca importanza in
questa faccenda.–
–Oh, no, Rai’an­sama! Come miko, non posso permettere che il makoto
di un kamii della tua grandezza sia…– ma si ferma. Nel lodare Rai’an,
sembra provare più imbarazzo che nello sgridarlo. Sorrido; la conosco
bene, è tipico di lei.
Solo ora noto Jirou. Mano a mano che Kaori usava parole e toni sempre
più duri verso Rai’an, il suo volto si era fatto sempre più scuro, tanto da
sembrare più nero della penombra agli angoli della stanzetta. E ora,
d’improvviso, si rilassa in un accenno di sorriso.
–Ad ogni modo, – Kaori riprende il controllo, –quando si tratta di deci­
dere cosa fare, seguiamo la volontà di Rai’an­sama. Quando si tratta di
decidere come farlo… io ho promesso di servire Rai’an­sama e di proteg­
gerlo con la mia stessa vita, e non permetterò a nessuno di interferire in
questo giuramento; nemmeno a Rai’an­sama stesso.–
Waaaa, quando Kaori fa così mi fa morire! Tenere testa a un kamii!
107
Rai’an le sorride, stavolta è il suo sorriso benevolo, e le dice: –Io il re, e
tu il generale? E sia, in fondo è giusto così.–
Kaori ondeggia, sotto il sorriso di Rai’an, e sotto le sue parole.
–Ecco… generale… non merito questo…– non si è ancora tolta la pol­
vere di riso dal volto, ma il suo collo è rosso come un ferro rovente.
–Oh, sì, invece. Allora, facciamo come dici tu. Domani ci recheremo da
questo mercante, e chiederemo il suo prezzo per quella cassetta miste­
riosa.–
Musui Satomoto (K)
–Oh, ma allora è il Budda Amida che vi manda!–
No, no, siamo venute per conto nostro. Io lo penso, ma Midori lo dice
apertamente, con quel suo sorriso disarmante. Il mercante, tutto vestito con
un abito cinese, un cappello cinese, mantellina cinese, seduto su un cuscino
di stoffa cinese, con una rada barbetta bianca alla cinese che gli scende dal
mento, e due lunghi baffetti bianchi alla cinese che scendono giù dalle
guance, rimane interdetto, col sorriso gelato a metà.
Abbiamo lasciato fuori Rai’an­sama e Jirou. Già far accomodare in casa
due miko per parlare di affari è irrituale; farsi accompagnare da una guar­
dia del corpo e da un facchino sarebbe stato veramente scortese… se non
addirittura sospetto.
L’assicella di legno accanto al portone del muro esterno legge Satomoto.
Non è il nome di una famiglia nobile; è solo un appellativo che il nostro
ospite ha adottato come nome di famiglia. Evidentemente, per distinguersi
dalla nobiltà di cui non fa parte, questo mercante si è dato anima e corpo
alla moda cinese. O forse, commerciando con la Cina, così è più facile fare
affari. Mah comunque, il volto niente affatto cinese, che ancora sa di terra
e di risaia, affondato in tutta questa cinesaggine, ha un effetto assai buffo.
Si è presentato come Musui. Sono in dubbio se chiamarlo Musui­san o
Satomoto­san… o addirittura se appiccicargli il dono. Beh, i modi di que­
sto tipo sembrano cordiali e rilassati, andrò per Musui­san. –Ehm, dunque…– attraggo l’attenzione del mercante, ancora gelato da
Midori, –Musui­san… c’è forse qualcosa che dovremmo sapere su
quell’articolo?–
–Oh, sì, eccome!– si china verso di noi. Chissà quanti anni ha; di sicuro
ha superato la mezza età, ma ha la pelle ancora ben lucida. Comunque ha
una faccia simpatica, per essere un mercante. Ci invita con un cenno del
capo ad avvicinarci, e ci allunghiamo sopra al tavolino.
108
–È maledetta!– sussurra con un filo di voce, e si ritrae di scatto come
spaventato dall’aver pronunciato questa parola.
Prego in silenzio Touga­sama che Midori tenga la bocca chiusa. Ma per
maggiore sicurezza le stringo una caviglia, assicurandomi che Musui­san
non mi veda.
–Davvero!?!– faccio con aria spaventata.
–Eh già, nobile miko. L’ho comprata da un contadino delle mie parti,
che l’aveva trovata nel suo campo. Aveva provato ad aprirla senza riu­
scirci, e così ha pensato di venderla a me. Siccome è molto pesante, ho
pensato che ci potesse essere dentro… magari dell’oro!–
–Nooo, davvero?–
–Sì! Allora l’ho comprata, e anche per un buon prezzo. Ma per quanto
abbia provato, non c’è stato modo di aprirla. E questo non tutto!–
–C’è dell’altro?–
–Eh sì. Pensate, che due giorni dopo che l’ho comprata, la casa del tizio
che me l’ha venduta ha preso fuoco! È morto lui con tutta la sua famiglia!–
–Oh, ma è terribile!–
–Eh già. Allora ho pensato che fosse una di quelle cose misteriose di cui
si sente parlare, che si vendicano quando te ne liberi…–
–Oh, può essere…–
Midori, se ti scappa una mezza parola ti sacrifico a Susa­no­oo.
–Pensate che ho fatto pure venire due monaci dal Toudaiji e li ho pagati
per liberarmene, ma loro non hanno voluto nemmeno toccarla. Allora ho
chiamato un onmyouji, che, almeno, ha sigillato la sua aura malefica.– Un onmyouji… una specie di astrologo indovino, o mago, o negromante,
non l’ho mai capito bene, con tanto di patente del ministero dell’onmyou­
dou. La sola idea mi dà i brividi.
–…Ora l’ho messa in fondo al magazzino; ma ho sempre avuto paura
che la mostruosità che contiene potesse liberarsi, un giorno o l’altro… e
pensare che ho pure cercato di aprirla!–
–Eh, già, bisogna essere prudenti con questi oggetti demoniaci…–
–Ci volevano due nobili miko pure e graziose come voi per liberarmi da
questa maledizione.–
–Oh… sei molto galante, Musui­san.– gli sorrido, e Midori arrossisce
pudicamente. Nelle mani di una ragazza come lei, arrossire è un’arma
letale.
109
Continuo: –Ora che finalmente siamo riuscite a trovare la sorgente di
questa terribile maledizione, che inseguiamo da tempo…– non è una men­
zogna, sono almeno un paio di giorni che l’inseguiamo… –possiamo final­
mente purificarne la malignità.–
–Oh… e quando?– mi chiede preoccupato Musui­san.
–Anche subito! Certo… questi riti sono impegnativi e pericolosi…–
–Oh… capisco … e cosa vi serve …–
–Beh, Musui­san… tu cosa sei disposto a offrire?–
Ombre per le vie (R)
Il sole sta calando quando Kaori e Midori escono dalla casa del mer­
cante. Le ho seguite passo passo con i miei sensori, e quando le ho rilevate
dentro al magazzino che si muovevano insieme, ritmicamente, ho capito
che Kaori ne aveva pensata una delle sue. Ad un certo punto, dopo più di tre ore che erano dentro, Jirou ha iniziato
a preoccuparsi e si è portato la mano alla spada che ha nascosto dentro al
fagotto che tiene a tracolla, ma l’ho subito tranquillizzato. Ciò nonostante,
è rimasto nervoso finché la porta non si è aperta.
Kaori mi sorride radiosa, e si avvicina, seguita da Midori e da due inser­
vienti del mercante che portano la cassetta: anche se non è più larga di
trenta centimetri di lato, deve pesare almeno quaranta chili, e lo sforzo è
ben evidente sul collo dei facchini.
Come mi passa di fianco, chiedo a Kaori: –Allora, quanto l’avete
pagata?– ma lei risponde con un misterioso –Saa…– e un sorriso enigma­
tico, e si incammina verso la locanda senza fermarsi. Midori si avvicina e
mi fa cenno di chinarmi, e quando lo faccio mi sussurra all’orecchio: –Ci
ha dato quattro monete d’argento…–, poi ridacchia e corre dietro a Kaori.
Diavolo di una miko, penso, mentre i due inservienti mi passano la cas­
setta, e appena la prendo fra le mani, scappano via chiudendo rumorosa­
mente il portone dietro di loro.
È un parallelepipedo di metallo grigio­argento, perfettamente satinato, e
dall’esterno non si vede alcuna apertura. Su ogni bordo c’è appiccicata una
striscia di carta con sopra scritto, con inchiostro rosso sangue, “sigillo” in
caratteri cinesi antichi. Evidentemente, qualcuno lo ha preso per un oggetto
maledetto.
Ci avviamo lungo la strada, le ombre del tramonto si proiettano lunghe
sul ghiaino ben pettinato e scalano i muri di cinta bianchi. Stiamo percor­
rendo una via un po’ più interna rispetto a quella che abbiamo preso le
110
altre volte, e passa poca gente. Ad un certo punto, il sole scende dietro
all’orizzonte, e con esso scompaiono le ombre che ci tenevano compagnia.
Kaori rallenta il passo e si mette al mio fianco, sorridendomi.
–Rai’an­sama…–
–Sì?–
–È da un po’ che siamo seguiti.– dice, continuando a sorridermi.
–Eh!?– faccio. Lei scuote leggermente il capo, allargando il sorriso.
Capisco… provo a sorridere anche io. Jirou, che cammina subito dietro di
me, accelera il passo e si affianca a Kaori e sussurra: –Credo, da quando
siamo usciti dalla casa di Satomoto.–
Attivo il monitor di prossimità, e alla mia vista si sovrappone la proie­
zione tridimensionale di tutto ciò che si trova nel raggio di cinquanta metri.
Ci sono quattro uomini corpulenti che camminano in fila, a circa trenta
metri da noi.
–Sono quei quattro lì dietro?– chiedo senza girarmi. Jirou e Kaori annuiscono all’unisono.
–Li terrò d’occhio. Kaori, avvisa Midori…–
Lei annuisce e si lascia raggiungere da Midori.
–Jirou…– lo chiamo, e lui si avvicina; –forse è una coincidenza, ma …–
–Non credo, Rai’an­sama.– mi risponde con voce baritonale, –siamo
stati a lungo davanti alla casa di un mercante, e ce ne andiamo dopo ore
con una scatola dall’aria pesante sotto il braccio…–
–Capisco…– avrei dovuto essere più prudente; ma a meno di diventare
invisibili, era impossibile passare inosservati.
–Cosa pensi che dovremmo fare?– gli chiedo.
–Chiamare le guardie è fuori discussione; portarli alla locanda pure.
Dovremmo far capire loro che li abbiamo visti… e vedere come reagi­
scono.–
L’oscurità si fa strada in fretta, e in questa zona della città non ci sono
torce. I quattro dietro di noi accelerano il passo. Secondo i miei sensori,
siamo proprio un isolato di fianco al grande parco pubblico che abbiamo
attraversato ieri; è un posto ideale per un agguato.
–Si avvicinano.– annuncio. Jirou si toglie il fagotto dalla tracolla e, non
visto da dietro, tira fuori un pungo di frecce che porge a Kaori e Midori,
che nel frattempo si sono portate al nostro fianco; poi si rimette il fagotto a
posto, facendo finta di averlo semplicemente aggiustato. Kaori stringe tre o
quattro frecce con la sinistra e l’arco con la destra, mentre Midori tiene le
frecce con ambo le mani, tremante.
111
–Quindici passi.– sussurro. Sentiamo il rumore del ghiaino smosso die­
tro di noi. Jirou si porta una mano alla nuca, facendo finta di grattarsi il
collo.
Attivo i generatori di campo gravitazionale; non posso aprire gli emetti­
tori che ho nelle mani, la luce sarebbe visibile come un faro, ma mi pre ­
paro a farlo, se si rendesse necessario.
–Dieci passi.–
Kaori si infila le frecce nel fiocco dell’hakama, tranne una che tiene già
pronta per l’incocco, e un’altra che stringe col mignolo.
–Cinque.–
–Adesso.– dice piano Kaori. Ci giriamo di scatto. Jirou sfila la spada da
dentro il fagotto, Kaori incocca la freccia e punta l’arco, e io sollevo la
mano, col palmo aperto, pur senza esporre gli emettitori. Si gira anche
Midori ma l’arco gli trema vuoto fra le mani.
Davanti a noi, quattro corte lame brillano davanti a quattro uomini
pesanti. I nostri assalitori sono sorpresi e indietreggiano, ma il vantaggio dura
poco. Un urlo secco del capo, e i due ladri sulla destra e sulla sinistra scat ­
tano avanti, allargandosi per circondarci, ma Kaori fa partire la freccia e
prende quello a destra in una coscia; il furfante rotola per terra con un urlo
strozzato. A sinistra ci siamo io e Jirou, che si butta sul tipo che ci sta
girando dietro; questo cerca di allargarsi, ma il muro di cinta lo blocca.
Jirou rotea su sé stesso, e la sua spada va a cercare la mano armata
dell’avversario, che scatta all’indietro allargando le braccia, ma così
facendo si scopre. Jirou mette la lama di punta e scarica un affondo con
ambo le mani, ma il ladro si gira di lato, facendo finire il colpo fuori
misura. Il coltello saetta nel buio verso la gola di Jirou, ma nemmeno lui è
impreparato: piegando con violenza il corpo, la sua testa e la sua spalla si
abbattono sul petto del ladro, che non riesce a chiudere la traiettoria del
coltello e cade rovinosamente a terra, tre metri più indietro, in un’esplo­
sione di ghiaia che schizza via da sotto la sua schiena.
Kaori incocca la freccia che teneva col mignolo, e la tende proprio in
faccia al terzo ladro. La lama è sollevata su di lei, ma la freccia arriverà
prima. Devo fermarla. Apro le fessure sulla mia mano e scarico l’energia dell’anello supercon­
duttore locale negli emettitori gravitazionali. L’aria si piega davanti a me,
ondeggiando come un foglio di plastica trasparente, e il ladro si solleva da
112
terra, acquistando progressivamente velocità e andando a sbattere violente­
mente contro il muro di cinta dall’altra parte della strada, e poi contro il
terreno, stordito, ma ancora vivo.
La pallida luce azzurrina degli emettitori che esce dalle ampie aperture,
ora visibili sulla mia mano, illumina il volto di Kaori, paralizzata per la
sorpresa, con la freccia nell’arco già pronto a scoccare. Ma il grido di Midori mi fa girare di scatto. Il suo arco rimbalza per
terra, assieme alle frecce. Accanto al suo volto distorto dal terrore, il ghi­
gno del capo, e sotto il suo mento, la lama.
–Non un passo, o questa bella sorellina fa una brutta fine.– dice girando
la lama sotto alla gola di Midori. Il ladro buttato a terra da Jirou si rialza a
fatica, e quello che ho sbattuto sul muro cerca di rimettersi in piedi.
Lo sguardo del capo cade sulla mia mano, con gli emettitori ancora
esposti. –Che razza di mostro sei…? Togliti il kasa.– mi intima. Lo sfilo, ma
senza abbassare la mano. Nel frattempo, i suoi compagni vanno verso il
ladro ferito da Kaori.
–Certo che sei brutto forte…– mi fa.
–Cosa vuoi?–
–Oh, solo tutto quello che avete…–
–Capo, guarda cosa mi ha fatto quella puttana!– grida il ladro a terra; il
sangue gocciola copioso dalla freccia.
–Piantala di piagnucolare.– Poi tira la coda di Midori, facendole voltare
la faccia verso l’alto. –Però, forse, se ce la spassiamo un po’ noi due,
potrei anche lasciare andare i tuoi amichetti…–
Devo agire. Ci separano circa due metri. A questa distanza, se gli gene­
rassi attorno un campo gravitazionale, quasi sicuramente coinvolgerei
anche Midori, senza contare che il ladro potrebbe ferirla mentre viene
spazzato via.
I laser coassiali. Nella penombra sarebbero quasi invisibili…
Le sonde si sfilano da dietro la mia nuca e si posizionano proprio sotto il
mio mento. Sono alla distanza limite dei sensori di precisione, ma riesco a
fissare il bersaglio sul tendine del polso del capo. Un fascio a bassa inten ­
sità è invisibile nella notte, ma la mano del ladro si apre in uno spasmo, e il
suono del coltello che cade a terra è coperto dal suo urlo strozzato. Per la
sorpresa, il capo salta indietro, lasciando cadere Midori a terra. Grave
errore. L’anello superconduttore nella mano è già carico: lo spazio attorno al
ladro si piega, scagliandolo via e facendolo ricadere dieci metri più indie­
tro.
113
Non faccio in tempo a girarmi che la spada di Jirou e la freccia di Kaori
sono già puntati sui tre ladri in mezzo alla strada. Mentre Midori si rialza, le chiedo: –Tutto a posto?–
–Sì… credo… credo di sì…– dice, tremante, mentre si toglie di dosso il
sottile ghiaino.
–Non… non uccideteci… pietà!– piagnucola il ladro meno malconcio
dei tre.
Mi avvicino a quello ferito, con l’emettitore ancora aperto. –No… non… va via!– trema, e gli altri due cadono a terra, trascinandosi
all’indietro con le mani. –Fammi vedere… è una brutta ferita.– dico, mentre mi chino su di lui.
Sotto la sua gamba, si è già formata una piccola pozzanghera di sangue.
Apro anche gli emettitori della mano destra, ed entro in modalità assi­
stita. Applico un campo di stasi locale, e le sonde dei laser coassiali si
avvicinano alla ferita. Usando i laser, taglio la punta della freccia che
sbuca dalla gamba, e, con il braccetto meccanico che si prolunga dal mio
avambraccio, sfilo il resto dall’alto. La sonda del rigeneratore cellulare
chiude le pareti delle vene recise, e poi, dopo averla disinfetta con una
radiazione risonante, chiude anche la ferita. Il ladro seduto per terra di fronte a me mi guarda con terrore, ma quando
vede che la ferita non c’è più, si mette in ginocchio e premendo la fronte
contro la ghiaia, fra le lacrime e la voce rotta: –Grazie… pietà… grazie,
grazie! Pietà!–
Mentre chiudo gli emettitori e ritraggo le sonde, mi scappa una risata.
Un po’ è anche per la paura che ho avuto, ma… quel tipo è davvero buffo.
–Allora, vuoi dirmi grazie o chiedermi pietà?–
Il ladro resta inginocchiato a terra, tremante, singhiozzante e in silenzio.
–Bah… sparite.– dicco secco. I tre non se lo fanno ripetere, e recuperata
la posizione eretta, cominciano a correre.
–Ehi!– li chiamo. Si immobilizzano sul posto, uno resta pure con un
piede sollevato.
–E quello?– chiedo indicando il loro capo, che sta rinvenendo proprio in
quel momento. –Non ve lo riprendete? Noi non non sappiamo che
farcene…–
I tre invertono il senso di marcia e vanno a prendere il ladro ancora a
terra, sollevandolo e trascinandolo, per poi dileguarsi nella notte.
114
Mi accorgo ora degli sguardi increduli di Jirou, e soprattutto di Kaori,
fissi su di me. So che vorrebbe chiedermi perché li ho lasciati andare, ma
sembra troppo scossa per parlare. Allargo le braccia, come a dirle, e che
altro potevamo fare? Lei scuote la testa, poi sospira e scrolla le spalle. Chiarito questo punto, andiamo tutti e tre verso Midori, che sta in piedi,
immobile, a guardare fissa l’arco e le frecce cadute a terra, stringendosi il
gomito con la destra. –Midori…– la chiama piano Kaori, mentre Jirou raccoglie le frecce e
rinfila la spada nel fagotto sulla schiena.
–Midori…– ripete ancora più piano, e ancora senza risposta. Si avvicina
e la prende fra le braccia, sussurrandole piano.
–Su, su… è finito…–
–Kaori…san…–
–Su…–
Midori trema fra le braccia di Kaori, che le carezza i capelli, sussurran­
dole parole rassicuranti. All’improvviso, la giovane miko scoppia in un
pianto incontrollato, e nasconde le sue lacrime sulla spalla dell’amica più
anziana.
Kaori c erca di calmarla, sussurrandole –Yoshi… yoshi...–
Sempre insieme (M)
Quel lurido… maledetto… bastardo… maiale… serpe… procione!
Perché Rai’an l’ha fatto scappare via? Non glielo perdonerò mai. MAI!
Ho ancora nelle narici il puzzo della sua bocca marcia. Che schifo. Che
schifo! Che schifo!!!!
–Midori…– mi chiama Rai’an.
–Eh?–
–Tutto a posto?– … uffa, hai una voce così sincera che mi tocca anche
perdonarti!
–S… sì…–
Che schifo.
Siamo appena rientrati; Jirou sta sistemando la sua spada, e Kaori
guarda fuori dal pannello per assicurarsi che non passi nessuno. Poi lo
chiude piano e si siede vicina a me. Le appoggio la testa su una spalla, e
sento la sua mano che mi accarezza una guancia.
Jirou si siede davanti a noi due, e Rai’an di fianco. In mezzo, la cassetta.
115
Rai’an ci appoggia la mano, e l’aria si colora dei quadri magici che la
sua gente sa disegnare. Oh, è così rilassante… ecco, una parola magica e il
coperchio si solleva.
Oooooh! La luce delle candele batte su tanti piccoli lingotti d’oro! Non
ho mai visto niente di così lucido e brillante in tutta la mia vita; il bagliore
si riflette sulle pareti, e sembra che qualcuno abbia acceso una candela in
più! Ma Rai’an non ha il minimo interesse per tutta quella ricchezza, e sposta
il vassoio che contiene i lingotti sul pavimento. Sotto c’è un altro vassoio,
con degli oggetti che non ho mai visto. Anzi no, ora che ricordo… assomi­
gliano a quella cosa che ha tirato fuori da una sua costola per aprire il
carro: sono sei piccoli tubi, lunghi poco più di un dito. Rai’an li mette via
in una tasca del suo kimono.
Poi sposta anche quel vassoio. E queste robe che sono? Hanno una
sagoma strana… una specie di tubo bianco, tutto bitorzoluto, con una spe­
cie di uovo da una parte. Rai’an ne prende una in mano, e ora vedo che il
tubo è un’impugnatura, e quel grosso uovo che esce da una parte sta pro­
prio sopra il pollice. Come l’impugna così, l’uovo si illumina e si colora di
blu, giallo, rosso e verde.
–Queste…– Rai’an ci guarda con aria grave ­…sono armi molto potenti.
Possono uccidere decine di uomini a decine di braccia di distanza.– Jirou sgrana gli occhi, e Rai’an si gira verso di lui. –Vorrei che imparaste ad usarle, in caso di pericolo. Ma non è una cosa
facile, ed essendo armi così pericolose, non posso darvele finché non
avrete imparato bene.–
Si gira di nuovo verso di noi.
–Ve la sentite?–
Kaori lo guarda un per un po’, immobile, quasi ipnotizzata da quelle
luci che brillano sull’uovo. Poi annuisce piano, ma non sono sicura che sia
davvero qui con la testa.
Rai’an posa la uovo­arma, e tira fuori quella che sembra una collana…
ma come la solleva vedo che più che una collana assomiglia ad una piccola
rete di maglie metalliche. –Questo invece… è uno scudo, ma può anche essere usato per scagliare
via qualsiasi cosa ci stia davanti…–
Jirou gli chiede: –Come hai fatto tu stasera?–
–Esatto. Si indossa così…– e fa cenno a Jirou di porgergli la mano. Lui
lo fa, un po’ titubante, a dire il vero, ma lo fa. Rai’an gli poggia sul palmo
la collanina, e questa prende vita! 116
Jirou quasi salta. La rete si stende e si allarga da sola, e le sue maglie
abbracciano tutta la mano ed il polso fino a metà dell’avambraccio,
lasciando una specie di piccolo specchio sul palmo. Jirou solleva il braccio
e lo gira piano, per guardare la rete da ogni lato.
–Ecco, questa macchina può deviare colpi in arrivo, o spingere via cose
anche molto pesanti; ma usarla è ancora più difficile, e dovrete allenarvi
molto.–
Forte… non vedo l’ora di provare. Così se risuccede qualcosa come sta­
sera… quel procione… lo faccio volare via.
Rai’an fa un cenno a Jirou.
–Eh?–
–La mano…–
–Oh…– e porge di nuovo la mano a Rai’an; con un suo tocco, le maglie
si sciolgono, e la collanina cade sul pavimento. Rai’an la riprende e la posa
nella scatola magica.
–Questo, invece…– Rai’an tira fuori un … beh… uno strano gioiello;
fatto di fili d’oro attorcigliati, sembra una specie di amo, un grosso gancio
con fili d’oro che si allungano come rami, a destra e sinistra, –… vorrei
che lo usassimo subito.–
Come dice così, solleva il gancio e lo appoggia dietro l’orecchio; ah,
ecco! La forma è proprio quella di come l’orecchio si attacca alla testa!
Come lo appoggia, si sente appena appena un sibilo; Rai’an gira la testa
e ci mostra che il gancio ha aderito perfettamente dietro il suo orecchio.
–Questo può farci parlare anche quando siamo lontani.–
–Eh?– faccio io, sollevando la testa dalla spalla di Kaori.
–Si fa prima a provare che a spiegare.–
Rai’an prende tre di quei ganci, e gira dietro di noi; si inginocchia e mi
sposta i capelli. Non credo di avere molta scelta… lo lascio fare. Mi
appoggia delicatamente il gioiello dietro l’orecchio, e sento quel sibilo, e
un po’ di solletico. Mi scappa una risatina. Fa la stessa cosa a Kaori, poi va dall’altra parte e lo mette anche a Jirou.
–Ecco… aspettate un momento…–
Scosta il pannello, esce, e si allontana di qualche passo.
–Mi sentite?–
Ci giriamo tutti di scatto; Rai’an non c’è, eppure lo udiamo come fosse
accanto a noi!
–Fate così. Appoggiate un dito dietro l’orecchio e provate a parlare.–
Kaori e Jirou hanno uno sguardo sperduto. Mi sembrano addirittura spa­
ventati.
117
–Ma di che avete paura? Sono macchine di Rai’an­sama!– sorrido loro,
e faccio come mi ha detto.
–Rai’an­sama, mi senti?–
–Come se mi sussurrassi nell’orecchio, Midori!– Rido. –Che forza! La tua gente si deve divertire un sacco con questi gio­
cattoli!–
Sentiamo tutti e tre la risata calda di Rai’an.
Kaori avvicina piano un dito al lobo… esita, ma le sorrido e le faccio
cenno di provare.
–Rai’an…sama?– sento anche la voce di Kaori, che appena sussurra,
arrivare forte e chiara.
–Sì, Kaori?–
Anche Jirou ci prova: –Rai’an­sama?–
–Jirou? Bene… questo comunicatore ci permette di parlare anche se
siamo distanti, e questo può essere molto importante. Inoltre, nel caso
dovessimo perderci, posso ritrovarvi ovunque voi siate.–
Kaori appena sussurra: –Rai’an­sama, io…– ma ha tolto dito dall’orec­
chio! Le faccio cenno di toccare il gioiello, e lei arrossisce e si confonde…
è quasi tenera! Si tocca piano dietro l’orecchio e ricomincia:
–Rai’an­sama… io… non so come ringraziarti… questo tuo dono per
noi è… troppo…–
La voce di Rai’an ci arriva piano, come una calda carezza: –Kaori, il
debito che ho con voi è infinito. Questo è nulla al confronto. Il solo fatto
che accettiate di usare queste macchine… il solo fatto che abbiate tanta
fiducia in me… è impagabile. Grazie.–
Kaori si porta entrambe mani davanti alla bocca e trattiene il fiato; la
conosco, quella mossa: la fa sempre quando è emozionata fino alle
lacrime.
Dubbio (K)
Midori dorme accanto a me. Quanta paura ho avuto quando quel bri­
gante l’ha presa… mi si è gelato il sangue. Non posso dormire. Mi alzo attenta a non fare il minimo rumore, e mi
inginocchio accanto a lui. Più oltre, Jirou dorme profondo, ma Rai’an­
sama… non riesco a capire. Mi chino su di lui. Sembra quasi non respiri. –Rai’an­sama…– sussurro piano, e lui apre gli occhi.
–Kaori?– anche il suo è un sussurro.
118
–Devo parlare con Rai’an­sama…– cerco di essere formale, ma chinata
sul suo cuscino, in una stanzetta di una locanda in cui dormiamo in quat­
tro… mi viene da ridere di me.
Lui scosta le coperte; mi alzo e apro piano, molto piano, il pannello.
Facciamo qualche passo sul davanzale, e siccome non riesco a parlare, è
lui che mi chiede:
–Kaori… cosa c’è?–
–Rai’an­sama… quando ho accettato questo incarico ho giurato di pro­
teggerti. Ma…– come posso esprimere i miei pensieri? Come posso dire
quello che voglio dirgli senza recargli offesa?
Mi sento presa per le spalle. Le sue mani mi costringono delicatamente
a girarmi verso di lui. Alzo lo sguardo; accanto al suo volto, la luna mi
acceca. O forse, non è la luna a oscurare la mia vista.
–Kaori… dimmi… cosa c’è che non va?–
–Io … non so quali siano i tuoi reali poteri, ma sono certa che le mie
frecce sono ben misera cosa al confronto. Mi chiedo… come potremmo
esserti mai di aiuto…–
–Kaori…– mi sorride… distolgo lo sguardo, ma lui non lascia le mie
spalle. Mi accorgo che non voglio che le lasci.
–Io… non so se sono all’altezza di questo compito.–
–Eh!? Vuoi scherzare! Senza di te starei ancora girando per trovare
Amagane!– Mi costringo a guardare di nuovo il suo volto. Anche contro la luna
vedo che mi sorride; se non avessi le sue mani a tenermi per le spalle,
credo che le mie gambe non potrebbero sostenermi.
Ed è così vicino…
–Kaori, senti, sai come mi hanno scelto per questa missione?–
Non rispondo. E chi altri avrebbero potuto scegliere? Chi potrebbe
essere meglio di te?
–Sono venuti da me e mi hanno detto: “un antropobiologo è quello che
ha maggiori probabilità di successo”, e fra gli antropobiologi, io ero quello
che ne sapeva di più sul Giappone antico. Ma io non sono tagliato per que­
ste cose! –Ho detto loro che ci voleva, che so, un militare, un guerriero,
insomma, qualcuno che se la sapesse cavare da solo! –Ma niente, mi hanno risposto che a ricoprire questo incarico doveva
essere un medico esperto anche nella cultura e nella storia del luogo. Sape­
vano che da solo non avrei potuto farcela, così mi hanno ordinato di tro­
vare qualcuno che mi aiutasse.
119
–Non sei tu quella che non è all’altezza, Kaori, sono io! Tu sei
perfetta!–
Sono senza parole. La prima cosa che mi viene da pensare è che grande
deve essere la saggezza di coloro che ci hanno mandato Rai’an­sama… ma
subito mi rendo conto di quello che mi sta dicendo.
–Io!?! Perfetta!?!–
–Kaori, senza la tua guida, senza la tua esperienza, non saprei nemmeno
da dove cominciare. Non avrei avuto un posto dove dormire, nulla da man­
giare e… pensa anche alla storia del mercante!–
–Rai’an­sama…– non so che altro dire.
–E adesso basta coi pensieri cupi. Vedrai, andrà tutto bene.–
–Sì… grazie.–
Rai’an­sama mi sorride e lascia le mie spalle. Poi si gira a guardare la
luna.
–Quant’è bella…– sussurra.
–Non c’è la luna… su Kasei?–
–No… ci sono due piccole lune; una è appena più piccola di un petalo di
ciliegio, l’altra è appena più grande di una stella qualsiasi.–
Due lune? Ma è impossibile! Mi viene da chiedergli: –E… dove stanno
queste lune?–
Lui si gira a guardarmi. Sembra cercare qualcosa sul mio volto, o nei
miei occhi; sto quasi per distogliere lo sguardo quando mi fa: –E va bene,
penso tu sia pronta.–
Solleva le mani verso Kasei e allargando il pollice e l’indice forma una
specie di rettangolo. Le sue dita si aprono, mostrando il bagliore che
alberga sotto la sua pelle, e l’aria fra di esse si riempie di luce. Il puntino
rosso di Kasei si fa più grande, e presto diventa una pallina rossa, e poi
ancora più grande, fino ad occupare tutto lo spazio fra le sue dita. Un po’
ricorda la Luna, ma è una grossa palla color ruggine, con larghe macchie
brune e sbuffi bianchi, e in cima ha un cappello bianco latte.
–Questo è un ingrandimento di ciò che vedi. Se guardassimo attraverso
un vetro levigato in un certo modo, vedremmo la stessa cosa.–
È vero! Ricordo che quando ho visto la bottiglia di vetro sulla banca­
rella di un mercante cinese, e ci ho guardato attraverso, le cose mi sono
apparse più grandi.
–Vuoi dire che… questo è Kasei?–
–Esatto. Lo stiamo vedendo proprio come è ora; se i nostri occhi fossero
molto più potenti, lo vedremmo così. Guarda, sta passando la sua luna più
grande!–
120
E quella cos’è… una specie di patata giallastra che entra da un bordo e
si muove svelta sopra la palla rossa.
–Pensa che questa gira intorno a Kasei in meno di mezza giornata.–
–Mi sembra… che si muova… dico, la palla rossa…–
–Già. Ruota completamente su sé stessa in circa un giorno. Proprio
come questo Mondo.–
–Eh? Il Mondo… gira?–
–Esatto. Il Sole sta fermo e il mondo gira.–
–Ma …– mi scappa da ridere –… ma Rai’an­sama, si vede benissimo
che il sole si alza nel cielo e poi scende…–
Rai’an­sama abbassa le mani e si gira verso di me: –Prova a fare un giro
su te stessa.–
–Eh?–
–Sì; guardami e fai un giro.–
Mi sembra sciocco, ma se me lo chiede Rai’an­sama, ci provo.
–Ecco, hai visto? Sono sorto a destra e tramontato a sinistra.–
–Ma Rai’an­sama, la terra sta ferma!–
–Niente affatto; gira come una trottola, ma noi ci muoviamo con lei, e
non ce ne accorgiamo. È come quando sei su un carro che va veloce: sic­
come tu e il carro vi muovete insieme, ti sembra di stare ferma e che tutto
si muova attorno a te.–
Non ci credo. Rai’an­sama si guarda intorno; probabilmente si sta assi­
curando che non passi nessuno. Dopo aver controllato, apre le mani e fa
calare il telo dove disegna le cose già viste.
–Ecco, guarda; questa è una mappa di quelle che voi chiamate stelle
erranti. Sai perché si chiamano così?–
–Sì… perché cambiano posto in cielo senza una direzione precisa.–
–Esatto. Ora guarda: qui al centro c’è il sole; la stella errante che gli gira
più vicino è Suisei, poi Kinsei, poi c’è questo Mondo… lì sul quarto anello
gira Kasei… e poi, vedi, molto più lontano Mokusei e ancora più in là
Dosei… ora, siccome giriamo anche noi attorno al sole, le altre stelle
erranti che girano con noi cambiano posto in un modo che, guardandole da
qui, è difficile prevedere. Sembra che si muovano a caso. Invece, percor­
rono questi cerchi, ognuno ad una velocità diversa. Ecco, adesso vedi il
percorso che questo Mondo compie in un anno.–
Le palline sul disegno di Rai’an­sama iniziano a muoversi, e girano
attorno alla fiamma che brucia al centro. Su ognuna c’è il suo nome, come
su una mappa. Ognuna si muove in modo diverso. Kinsei è tutta bianca, e
121
Kasei è rossa; il Mondo, fra i due, è blu e striato di bianco… sono le nubi?
… E quando ha finito un giro completo, Kasei ancora deve farne mezzo, e
Kinsei ne ha fatti quasi due.
–Vedi? Un anno è un giro attorno al sole.–
Siamo su una immensa giostra insieme ad altre stelle… Le costellazioni,
il sole tutto sorge e tramonta perché il mondo gira su sé stesso, e girando
girando, rotola attorno al sole… Rai’an­sama interrompe i miei pensieri:
–Le maree, i vulcani e i terremoti, i venti, gli uragani, sono tutte cose
che succedono, in parte, anche a causa della rotazione del Mondo. Non
essendo una trottola perfetta, e con la luna che ci gira attorno, anche un
piccolo sbilanciamento produce forze immense che schiacciano, spingono,
tirano e scuotono la terra e l’aria su di essa, e naturalmente, tutta l’acqua
degli oceani.–
–E… anche le stagioni?–
–Sì… guarda…– adesso il disegno si sposta e gira; gli anelli si appiatti­
scono, sto vedendo la mappa di fianco.
–Vedi? Il Mondo non gira proprio piatto attorno al sole, ma sale e
scende; quando è da questa parte, i raggi del sole colpiscono dritto a nord,
e quando invece sta di qua, è la parte a sud che prende più luce.–
–Qui è quando il sole è più alto?– chiedo, indicando la parte dove il
Mondo sta più in alto.
–No, il Giappone è in alto, quindi prende più luce quando il Mondo è
sotto al sole.–
–Oh… capisco… ma allora, quando qui è estate, a sud è inverno?–
–Esatto.–
Il disegno sparisce.
Guardo la luna. Una palla di roccia nel cielo. Come Kasei. Come il
Mondo. Non potrò mai più guardarla allo stesso modo di prima.
–Kaori…–
E le stagioni… la magia delle stagioni… ora ho visto… il sole non si
alza nel cielo d’estate, è il Mondo che è in un posto diverso…
–Kaori?–
… E le altre stelle? Non quelle erranti, quelle che stanno ferme?
Quelle… cosa sono?
–Le stelle! Le altre! Cosa sono?– la mia voce esce più forte di quanto
vorrei. La sento come non mia.
–Eh? Oh… quelle sono altri soli. Molto lontani. Altre palle di fuoco che
bruciano nel cielo.–
122
–Altri Soli… con altri mondi che ci girano intorno, come il nostro
Sole?–
–Sì… non tutte le stelle sono così… ma molte assomigliano al nostro
Sole.–
Guardo il Fiume d’Argento, la striscia di stelle che taglia il cielo della
notte a metà. Quelli sono Soli. Tanti, tanti Soli.
Mi sento cadere. Davanti a me c’è solo Rai’an­sama. Mi sento piccola.
Tanto piccola. Quelli sono Soli. Là ci sono altri Mondi. Così tanti che non
potrei contarli in tutta la mia vita. Mi gira la testa, mi aggrappo al Kimono
di Rai’an­sama. Vorrei dire che non ci credo, ma so che non è vero. È tutto lì, davanti a
me. Aspetta. Aspetta un attimo. Non può essere. Qualcosa non va. Allora
cos’è il Fiume d’Argento? Cosa se ne stanno a fare tutti quei Soli lì
assieme? Chi li ha messi lì? Sorrido. Almeno questo, Rai’an­sama non può saperlo. –E allora… il Fiume d’Argento?– gli chiedo con aria di sfida. Mi sem­
bra di camminare su una fune tesa fra due montagne; il Fiume d’Argento è
la sottile corda su cui poggiano i miei piedi, e nemmeno Rai’an­sama potrà
spezzarla…
Ma lui riapre il suo dannato telo nero… e c’è di nuovo la mappa delle
stelle erranti.
–Adesso, ci allontaniamo un po’.–
I cerchi si fanno più piccoli, il Sole diventa un puntino bianco, e nel telo
iniziano ad apparire altri puntini. Altri Soli. Mano a mano che ci allontaniamo, i Soli si stringono, e diventano tanto
piccoli da sembrare sabbia, poi polvere, una splendente polvere luminosa.
Adesso c’è un gorgo, un vortice di polvere luminosa che occupa tutto il
telo.
–Le stelle non se ne stanno nel cielo a casaccio. Sono attratte le une alle
altre dalla forza del loro stesso peso, e si raggruppano in nubi che noi chia ­
miamo galassie. Questa è la galassia in cui si trova il nostro Sole.
Dall’alto sembra un vortice, e di fianco, dove siamo noi…–
Il disegno gira e si appiattisce, diventando una larga striscia di sabbia
luminosa.
–Ci sono anche delle polveri scure, fra le stelle, che fanno ombra alla
luce; per questo la striscia che vediamo da qui un po’ disordinata. Ecco,
aggiungendo la polvere…–
Sì. Ora, il disegno è proprio uguale alla striscia del Fiume d’Argento.
123
–Quante sono… quante sono queste stelle? Sembrano tante come gra­
nelli di polvere…–
–Circa quattrocento miliardi.–
Quattrocento miliardi… di Soli… e di mondi…
–E … le altre stelle? Quelle lontane dal Fiume… quelle cosa sono?–
–Alcune sono stelle vicine. Ma la maggior parte sono altre galassie,
simili alla nostra.–
Altri Fiumi d’Argento, vortici di polvere di luce…
Mi tremano le gambe.
–E quelle… quante sono…?–
–Non lo sappiamo con precisione… circa cento miliardi.–
Cento miliardi di Fiumi d’Argento. Quattrocento miliardi di Soli in
ognuno di essi.
La corda su cui camminavo si spezza. Mi siedo a terra.
–Kaori…– mi chiama piano Rai’an­sama.
Ho paura di sollevare lo sguardo.
–Era… questo…–
–Kaori?– Rai’an­sama si china su di me. Continuo a guardare il legno
del davanzale.
–Era… questo… che guardavi… nella notte…–
–Cosa intendi…?–
–Ora… ora capisco. Il tuo sguardo. Il tuo volto. Tu guardavi il cielo… e
sapevi tutto questo.–
–Kaori?–
–Questa immensità. Tu guardi le stelle e la vedi. Tu la comprendi…–
Come fa a essere così grande? Come fa a essere tanto grande da affon­
dare il suo sguardo in miliardi di soli, in miliardi di Fiumi d’Argento…
senza perdersi? –Kaori… ti chiedo scusa, forse non avrei dovuto…–
–No! Non chiedermi scusa, Rai’an­sama…– la mia mano scatta e afferra
una manica del suo kimono, stringendola tanto forte da far male, –quello
che mi hai detto è…– ma non riesco a finire la frase. Invece, stringendo la
sua veste, trovo il coraggio di alzare lo sguardo al cielo, piano piano.
Le stelle sono sempre lì. Sono sempre state lì e saranno sempre lì. Non
sono loro che sono cambiate. Sono io. Lo so bene. Non mi serve uno spec­
chio per sapere che adesso ho lo stesso sguardo di Rai’an­sama, quella
volta che l’ho visto guardare il cielo alla sorgente termale.
–Ora… ho compreso quel tuo sguardo, Rai’an­sama.–
124
Anche lui guarda le stelle. –Fa sentire piccoli, eh…?– Annuisco piano. –Ma…– mi escono le parole –… sai una cosa, Rai’an­sama?–
–Kaori?–
–Un po’… giusto un po’… io credo… vedere tutto questo… fa anche
sentire grandi.–
Lui mi guarda. Ancora stringo la sua manica, e lui mi appoggia delicata­
mente la mano libera sulla spalla, quasi abbracciandomi.
Io contemplo questa immensità. Non la comprendo, ma ora posso con­
templarla.
Una spada curva (R)
–Rai’an­sama, mi è permesso porti una questione?–
Jirou si rivolge direttamente a me molto di rado, e quando lo fa, usa
sempre un tono molto formale.
–Dimmi tutto!– … e io cerco di buttare la conversazione sull’amichevole.
È la mattina del terzo giorno qui a Nara, e ci stiamo recando da un mae­
stro spadaio di nome Yakamochi. Midori è rimasta alla locanda a occu­
parsi… del bucato. Ebbene, anche una missione importante come questa ha
bisogno di un supporto logistico di base… e siccome Kaori ci serve per
negoziare, Jirou per provare la spada ed io sono l’unico che sa esattamente
cosa stiamo cercando, tocca necessariamente a lei.
Kaori cammina silenziosa al mio fianco; da stanotte, praticamente, non
parla. Mi chiedo se ho fatto la cosa giusta. Ma in fondo, chiederselo ha
poco senso.
–Con le armi che hai recuperato, che bisogno c’è di una nuova spada?–
completa la sua domanda Jirou.
–Oh, beh, innanzi tutto, ci vorrà molto tempo prima che siate in grado di
usarle. Ma comunque, una buona spada maneggiata da un esperto come te
rimane un’arma temibile; e soprattutto, ben visibile.–
–Appunto… non è preferibile occultare le proprie forze?–
–In alcuni casi sì. Ma in altri, preferisco che chi potrebbe volerci aggre­
dire veda bene che hai un’arma, e che puoi usarla.–
–Oh, capisco…– annuisce piano. –E, secondo Rai’an­sama, la mia
spada non è adeguata?–
–Credo che ti renderai conto tu stesso.–
125
Ora l’ho proprio incuriosito. La spada di Jirou deve essere stata com­
prata dai contadini, o forse recuperata in qualche modo, da qualche guer­
riero di passaggio. È una normale spada da fanteria, e a giudicare dalla
foggia e dalla qualità del bronzo, deve avere circa cento anni. È una spada
dritta a doppio filo, come quelle cinesi, ma di qualità mediocre già alla
nascita. Non sono nemmeno sicuro che potrebbe resistere ad un combatti­
mento serio senza spezzarsi.
Intorno al 930, in Giappone si è iniziata a sviluppare la tecnica di forgia­
tura delle spade curve, ottenute con l’impiego di due pani di acciaio a
diversa concentrazione di carbonio, che, verso la seconda metà del 1300,
porterà alla realizzazione delle migliori lame del mondo. Non abbiamo dati
precisi, ma è certo che, in questo momento, le spade curve sono una rarità;
le spade dritte, pensate per colpire principalmente di punta, saranno predo­
minanti ancora per un centinaio di anni.
Secondo Kaori, questo Yakamochi potrebbe avere l’arma che cerco. In
un epoca in cui le spade di bronzo sono ancora molto diffuse, e quelle di
ferro sono rare e, in genere, assai poco efficaci, avere una katana, una lama
come quella dei futuri samurai, sarebbe già un vantaggio notevole. Eccoci arrivati; il portone che immette ad un piccolo giardino è aperto.
Già da fuori si sente il rumore ritmico di martelli che battono sul metallo. Entriamo nel giardino e fatti pochi passi, ci leviamo le calzature e
saliamo nella bottega. Non credo di poter tenere il kasa, quindi lo levo
prima di attraversare la soglia.
Kaori chiama l’artigiano: –Buongiorno, è permesso?– Il maestro spadaio, seduto, regge in una tenaglia una lama rovente su
una pietra che funge da incudine, e due giovani apprendisti stanno facendo
calare i magli sul ferro, seguendo un rigido ritmo. Un terzo apprendista è
seduto in ginocchio.
Il maestro alza gli occhi giusto un istante, e noi attendiamo accanto
all’ingresso. Non appena il colore del ferro battuto inizia a svanire, passa le
tenaglie all’apprendista seduto e gli dice: –Continua tu.–
Come ci viene in contro, ci inchiniamo. Anche lui fa un breve cenno col
capo. Sembra non fare caso al mio aspetto.
–Il mio nome è Yakamochi. Come posso esserti utile, nobile miko?–
–Il mio nome è Kaori, miko anziana del Santuario di Koumon. Cer­
chiamo una spada particolare, e conoscendo la tua fama, abbiamo pensato
di rivolgerci a te.–
–Una spada particolare?–
126
Kaori mi fa un cenno. Chino la testa e mi presento: –Il mio nome è
Ryan. Sono alla ricerca di una spada curva, con un solo bordo tagliente,
realizzata con due pani diversi di tamagane.–
Yakamochi mi guarda intensamente. È un uomo di mezza età, ma ha
profondi solchi sul volto che sembrano scavati dal calore della fucina. La
pelle è bruna, perlata di sudore, e ha lunghi capelli crespi, di diverse tona ­
lità dal grigio scuro al bianco che gli scendono fino alle spalle.
–Conosci molto bene questo tipo di spada. Ne hai mai vista una?–
–Sì… ne ho viste molte, maestro.–
–Allora devi aver servito dalle parti di Ibaraki.–
Lo sguardo di Yakamochi mi trafigge. Le spade curve sono state impie­
gate per la prima volta da Masakado dei Taira, signore di Ibaraki, durante
un tentativo di ribellione che fu soppresso nel 940. Con soli mille uomini,
aveva sconfitto l’esercito imperiale tre volte più numeroso, ed era stato fer­
mato solo grazie all’intervento massiccio dei Fujiwara. Pur avendo questa
nuova arma, molto superiore alle spade diffuse in quel periodo, Masakado
era stato sconfitto, e ucciso; probabilmente, questo è il motivo per cui ci
sarebbero volute altre centinaia di anni prima che quel modello di spada si
imponesse definitivamente. Questo e, naturalmente, il fatto che forgiare
una spada di quel genere può richiedere settimane di lavoro.
–Conosco quella regione.–
–Sei vestito come un contadino… ma sei uno straniero, conosci bene
quest’arma molto rara ed hai vissuto nella provincia di Ibaraki. Sei un
uomo molto particolare, Rai’an­san.–
Non è un complimento, ma faccio finta di non accorgermene e faccio un
piccolo inchino per ringraziare.
–Venite con me.– ci dice, ed esce dalla fucina.
Lo seguiamo verso quello che sembra essere un magazzino. In realtà, ci
sono più materie prime che prodotti finiti; in genere, questi artigiani lavo­
rano su commissione. Le spade appese alle pareti sono tutte dritte e a doppio filo, ma vedo
subito che sono lame di ottima fattura. Ce ne sono di varia lunghezza e
spessore, ma decisamente, non sono spade da truppa di fanteria. La cura
nei dettagli, la qualità delle impugnature, e la perfezione delle linee dicono
che si tratta di lavori destinati a guerrieri di alto lignaggio. Non a nobili,
perché già nell’era Hei’an, in genere, i nobili non usavano armi, ritenendo
il lavoro di combattere una cosa poco elegante. Anzi, dire ad un nobile che
era versato nelle arti marziali era una comune perifrasi usata per offen­
derlo.
127
Yakamochi sale su un panchetto e raggiunge una mensola, dalla quale
prende un lungo rotolo di seta. Si siede sul pavimento e lo srotola, rive­
lando all’interno un panno di lana bianca, e dentro di esso, due lame curve
lunghe circa, l’una, sessanta centimetri e, l’altra, settanta.
Riflettono la poca luce che entra dalla porta, tanto che possiamo spec­
chiarci sulla superficie splendente del metallo. Mancano di alcuni tocchi
che saranno sviluppati in seguito, come l’hamon, il disegno irregolare che
marca la fusione fra i diversi tipi di acciaio e i diversi gradi di tempera, o
come il bouhi, la scanalatura che alleggerisce il corpo della spada, ma è
comunque un lavoro notevole. Secondo i miei monitor, il metallo ha ses­
santaquattro strati di ribattuta; le spade successive raggiungeranno i due­
centocinquantasei strati. Inoltre, manca la fase di affilatura. Ma a parte
questi dettagli, sono armi meravigliose, infinitamente superiori a quelle
che si trovano normalmente in quest’epoca.
–Mi erano state commissionate da un guerriero venuto da Ibaraki. Pur­
troppo, è morto prima che potessi finirle.–
Parla Kaori: –Noi non possiamo trattenerci a lungo. Di quanto tempo
hai bisogno per completarle?–
–Beh, l’impugnatura e il fodero li ho già. In realtà manca solo l’affila­
tura, ma ci vorrà almeno una settimana.
–L’affilatura non ci serve.– intervengo. Posso occuparmene io usando i
laser coassiali, e ottenendo un filo molto migliore di quello che si potrebbe
ottenere con qualsiasi processo manuale.
–Oh…– Yakamochi mi guarda intensamente. Da un lato, un maestro
spadaio non può essere contento di fare un lavoro a metà. Dall’altro, que­
ste lame gli sono già costate molto, e visto lo stato del magazzino e della
fucina, sembra proprio che il lavoro non gli manchi. Inoltre, all’epoca dei
samurai, l’affilatura era spesso demandata ad artigiani specializzati;
adesso, qui a Nara, dove questa tecnica non è ancora diffusa, Yakamochi
dovrebbe arrangiarsi da solo.
–In questo caso, domattina. Ma, ad una condizione.–
–Quale?–
–Per me non ha senso tenerne una. Ve le vendo solo se le prendete
entrambe.–
Kaori mi guarda con aria interrogativa. Io le annuisco. Credo sia
un’occasione da non perdere.
–Qual’è il tuo prezzo?– chiede Kaori perentoria.
–Quattro monete d’oro.–
–… che sarebbe il loro prezzo dopo essere state affilate. Ti risparmiamo
due settimane di lavoro.–
128
–Infatti. Altrimenti, te ne chiederei otto.–
Kaori sorride. In realtà non abbiamo neanche una moneta d’oro, quindi
contrattare non ha alcun senso, ma lei sembra divertirsi molto.
–Una spada come quella…– indica una delle spade appese alla parete ­
…mi costerebbe una moneta d’oro.–
–Sì. E una come questa la può spezzare come un fuscello.–
Intervengo: –Se ci permetti di provarle un momento, l’affare è fatto.–
Kaori si gira e mi fa una smorfia di disappunto; le ho rotto il giocattolo. Jirou non riesce a togliere gli occhi dalle lame che giacciono sul panno.
Ha già capito quello che intendevo, ma voglio che provi a brandirne una.
Yakamochi si alza e raggiunge una scatola laccata dalla quale prende un
manico, ancora incompleto, e una guardia. Infila la lama nella guardia e
poi nel manico, e la ferma con due piccoli perni di legno; poi si alza e mi
porge la spada con ambo le mani, inchinandosi.
Non ho mai impugnato una katana. Le conosco bene, ma non ne ho mai
impugnata una. La sollevo e ne osservo la curvatura. La sensazione di
stringere un oggetto tanto prezioso, nel quale così tanto lavoro è stato pro­
fuso, e tanto pericoloso, è inebriante. Ci vogliono tre giorni, e il lavoro di
dieci uomini, solo per ottenere la colata di acciaio; e solo una piccola parte
dell’acciaio ottenuto viene poi selezionato per diventare tamagane, e usato
per il dorso, o per il filo. La sua curvatura non è opera del maglio: durante
la tempera, il metallo più morbido lungo il dorso si contrae più rapida­
mente di quello duro sul filo, è questo che incurva la lama. L’arte del mae­
stro sta nel dominare gli elementi della natura, scegliendo le pepite di
acciaio adeguate a conferire alla spada la giusta flessibilità, durezza e cur­
vatura. Ognuna è unica, irripetibile; anche se potessimo duplicarle atomo
per atomo, e non possiamo, c’è molto, molto di più di ciò che colpisce
l’occhio in ognuna di queste opere. Non è solo un prodotto del fare; è un
oggetto che nasce dai gesti e dai pensieri di molte persone eccezionali.
Jirou guarda la spada intensamente, direi quasi con bramosia. Gli sor­
rido, e gliela porgo come Yakamochi l’ha posta a me, sollevandola su
ambo le mani, con un inchino. Jirou comprende subito che la spada, curva e con un solo filo, è fatta per
colpire di taglio. Fende l’aria, rotea il poso, poi rotea su sé stesso. È circa
un palmo più corta della spada che è abituato a usare, ma deve pesare
meno della metà, e lui riesce già a manovrarla almeno tre volte più veloce­
mente. Contento di averla provata, Jirou la porge al maestro, sempre allo stesso
modo.
–Sei abile. Questa spada ti servirà bene.– commenta.
129
Parlo io: –Maestro Yakamochi, oltre alla tua arte, desidero comprare il
tuo silenzio. Nessuno deve sapere che abbiamo comprato quest’arma.–
–Questo… non è molto regolare.–
Tiro fuori un lingotto. Sono cinquanta grammi d’oro. Non so esatta­
mente a quante monete corrispondano, ma sono certo più di quattro.
–Questo è per il tuo silenzio. Domani ne avrai un altro per le spade.– e
così dicendo, gli lascio cadere il lingotto fra le mani.
Yakamochi sgrana gli occhi, soppesando il lingotto. Essendo esperto di
metalli, si rende subito conto che l’oro è puro. Mi tolgo la piccola soddi­
sfazione di vedere la compostezza del maestro sbriciolarsi.
–Come… vuoi…–
–Ti chiedo un ultima cosa: il fodero, devi preparare l’allacciatura in
modo che la lama resti verso l’alto.–
Questo stratagemma, che permette di sguainare la spada e calare un fen­
dente con un solo movimento, verrà impiegato solo a partire dal ’400.
Yakamochi, di fronte al lingotto che ancora osserva, mi risponde sem­
plicemente: –Farò come chiedi.–
Appena siamo fuori, Kaori mi sgrida: –Rai’an­sama, con quell’oro ci
possiamo comprare la fucina, il magazzino e tutto quello che c’è dentro!–
Rido, con l’effetto di farla infuriare ancora di più, e quando ho finito
rispondo: –È troppo importante che mantenga il segreto per preoccuparsi
di questi dettagli. E poi, dubito che avrebbe potuto darci il resto.–
–E addirittura non uno, ma due lingotti!–
–Beh… c’erano due spade…–
Kaori scuote la testa e borbotta qualcosa, sconsolata.
–Rai’an­sama…– mi chiama Jirou.
–Sì?–
–Ho capito cosa intendevi. Non avevo nemmeno idea che potesse esi­
stere una spada simile. Ti ringrazio.–
–E io sono contento che ti piaccia. Vedi, se ben usata, in certi casi, una
spada del genere può essere persino più efficace delle armi della mia
gente…–
Jirou mi sorride. Finalmente; credo sia la prima volta che lo vedo sorri­
dere.
Terme (M)
Uffa e riuffa, non li perdonerò mai. MAI.
130
Lasciarmi tutto il giorno da sola alla locanda, e per giunta a lavare i
panni!
Vabbeh, solo al mattino.
E poi … Rai’an si era pure offerto di finire di lavarli al posto mio. Stavo
per dirgli: “oh, sì, grazie!”, ma Kaori mi ha fulminata… ma insomma,
dove ci sta scritto che un kamii non può lavare i panni!?! Invece Jirou ha fatto pure fatica a salutarmi. Quel… procione!
–Kaori­san… ma perché finisce sempre che i panni li lavano le donne?–
le ho chiesto mentre eravamo chine sulla tinozza, intente a insaponare il
nostro hakama.
–Midori, cara… dimmi, hai mai indossato un abito lavato da un uomo?–
–Uhm… no, credo di no…–
–Ecco, appunto. Riescono a farlo puzzare più di prima.–
Kaori riesce sempre a farmi ridere. E poi ha continuato: –… se vuoi fare
un lavoro sporco, chiedi a un uomo. Ma per un lavoro ben fatto, c’è biso­
gno di una donna.–
Ah, saggezza di una miko anziana!
E, qualsiasi cosa faccia, ovunque si trovi, ha la capacità di trovare sem­
pre un bagno caldo.
Stasera, al calar del sole, con quel suo sorriso furbo, ci ha invitati a fare
una passeggiata dietro alla locanda. Non riesco mai a capire cosa abbia in
mente quando sorride così, ma è chiaro che trama qualcosa.
Il piccolo giardino aveva un portone dal cui architrave pendevano delle
tendine con sopra scritto “acqua calda”. Come Rai’an ha capito che era­
vamo diretti lì, si è irrigidito.
–Non vorrai… entrare qui?–
–E Rai’an­sama non vorrà dormire in quel piccolo stanzino di quattro
tatami senza lavarsi per la terza notte di fila…– gli ha risposto senza nem­
meno girarsi.
Ahhh, ci voleva proprio. Kaori ha scelto il momento perfetto: siamo gli
unici clienti; ormai è buio, e la grande sala è illuminata a malapena dalla
luce del crepuscolo e da un paio di lanterne. C’è una sola vasca, grande
venti braccia, o forse più, anche se gli spogliatoi sono separati per sesso.
Kaori ed io siamo già dentro da un po’, ma sembra che i nostri ometti
abbiano qualche difficoltà a togliersi quei vestiti, o quella ferraglia.
–Kaori­san, come fai?–
–Uhm?– mi risponde senza aprire gli occhi. È seduta, quasi sdraiata, di
fianco a me, e pare se la stia proprio godendo un sacco.
131
–Dico… sai tante cose… questo posto, non ero mai stata in un negozio
come questo.–
–Sentou.–
–Oh, si chiama sentou?–
Lei annuisce, sempre senza aprire gli occhi. Ho la sensazione che si stia
addormentando.
–Ti strofino la schiena?–
–Uhm…– annuisce, ma non si gira. Prendo un panno, lo bagno, lo
strizzo e inizio a massaggiarmi il collo e il petto. Quando vorrà, si alzerà,
penso.
–Certo che Jirou e Rai’an ci stanno menttendo un sacco…– rifletto ad
alta voce.
–Rai’an­sama.–
Ops, mi sono dimenticata del sama. Ma Kaori lo dice così meccanica­
mente che mi sembra non abbia neanche notato la mia mancanza. Faccio
finta di niente.
Proprio in quel momento entra Jirou, dalla porta dello spogliatoio degli
uomini, dall’altra parte della sala. –Ohh, eccoli. Kaori­san, ma … hai mai visto un uomo così?–
Finalmente si desta, e osserva il corpo di Jirou immergersi lentamente
nell’acqua calda, a non meno di dieci passi da noi. –Beh… no…– il suo volto è in parte sorpreso e in parte costernato.
Hehe, una breccia nella sua compostezza, non è facile trovarla.
Jirou ci saluta con un cenno del capo.
Ma Rai’an che fine ha fatto? Forse, si starà ancora lavando fuori dalla
vasca… ma come me lo chiedo, eccolo entrare.
Non ce la faccio, scoppio a ridere. E pure Kaori, una risatina le esce,
anche se tenta di trattenerla.
Rai’an ha un panno stretto attorno alla vita, che gli copre giusto l’arnese
e il sedere. Come ci sente ridere, diventa così rosso che lo vediamo bene
persino nella penombra.
Cammina tenendoselo fermo con una mano. Il panno. Vorrebbe correre,
ma il pavimento in pietra è scivoloso; si infila nella vasca appena può, non
molto distante da Jirou, e si guarda intorno. Sembra tirare un sospiro di
sollievo quando si accorge che dentro ci siamo solo noi quattro…
… e una ragazza ed un vecchietto, che sono entrati proprio in questo
momento, per pulire il pavimento ed iniziare a sistemare per la chiusura…
132
Rai’an si abbassa sotto il pelo dell’acqua, lasciando fuori appena il naso,
e facendoci ridere ancora di più. Jirou lo guarda con aria inespressiva.
Sembra che gli voglia chiedere: “ma che stai facendo?”, ma non ne abbia il
coraggio.
A malincuore, stacco lo sguardo dalla scena e lo poso di nuovo su
Kaori. Sorride divertita, ma ha gli occhi inchiodati su Rai’an. Ahhh, cara la
mia miko anziana, ti leggo come il primo rotolo del Nihongi.
–Kaori­san…–
–Eh?– mi risponde senza cambiare espressione e senza voltarsi.
–Anche se è un po’ strano, non trovi che Rai’an­sama sia proprio un
bell’uomo?–
–Eh sì…– mi fa sovrappensiero, ma poi si rende conto del tranello che
le ho teso, scatta in piedi, e quasi grida: –Ma che stai dicendo? Sei impaz­
zita? Lui è un kamii! Mostra il dovuto rispetto!–
Rischio di affogare dalle risate. Attirato da tutto quel trambusto, il vec­
chiettino si gira verso Kaori, poi si rimette a pulire borbottando qualcosa.
Dall’altra parte della vasca, i nostri due uomini smettono di parlare e guar­
dano sorpresi il corpo di Kaori, ancora gocciolante. Lei sbotta un paio di volte, arrossendo nel frattempo, ma non riesce a
trovare nulla da dire; e quindi si siede nella vasca, e mi sibila: –Sei una
perfida mocciosetta!–
Non riesco più a smettere di ridere. Beh, sì, alla fine ci riesco, e quando
ci riesco…
–Kaori­san…–
–Cosa c’è, piccola perfida?–
–Dai, non dirmi che ti sei offesa.–
Lei fa la bimba offesa.
–Dai, Kaori­san, seriamente…– abbasso la voce fino a sussurrare, e mi
avvicino a un palmo da lei, –lui ti piace.–
–Ma che ti salta in testa?– dice, ma guarda fisso nella vasca e la voce è
inespressiva.
–Sai che sono brava in queste cose…–
–Parliamo d’altro.– stavolta me lo dice con quel suo tono che non
ammette repliche.
–Uhmph, vabbeeeene.– Lascio passare un po’ di tempo, giusto un po’, e
poi le chiedo:
–Quanti uomini hai avuto?–
Lei scoppia a ridere: –E questo sarebbe parlare d’altro?–
133
–Beh, volevo parlare di altri uomini…– rispondo. Lei mi guarda storto,
ma sorride. Poi si gira verso l’acqua, e mi fa piano: –Mah, chissà, una
decina. Forse una ventina. Non li ho mai contati.–
Spalanco la bocca. –I miei complimenti…–
–Oh, non c’è niente di cui andare orgogliose. Di qualcuno non ricordo
neanche il nome. Quando si è per strada, da sole, le notti possono essere
molto fredde…–
–Oh… capisco. Beh, per quel che mi riguarda, ti posso dire che le notti
possono essere molto fredde anche nei santuari…–
–Piccola perfida.–
–Ehehe, per carità, sono una dilettante in confronto a Kaori­san.–
Dallo sguardo vedo che vorrebbe rispondermi qualcosa di acido, ma
sembra non riuscire a trovare niente di peggio di “piccola perfida”, e alla
fine desiste. Invece, il suo volto si addolcisce, e mi chiede con aria protet ­
tiva, materna: –Sai come evitare il tuo periodo fertile?–
–Naturalmente.–
–Stai attenta; sarebbe un peccato perdere le tue capacità.–
–Tranquilla, Kaori­san, non ho nessuna voglia di finire chiusa in casa a
badare a un uomo e un moccioso. Almeno per ora…–
–È una tua scelta; stai solo attenta a non essere costretta a compierla
contro la tua volontà.–
–Farò del mio meglio.–
Stiamo lì a galleggiare nell’acqua calda per un po’, lasciando che il
tepore ci culli. Non ho ancora finito di farmi cullare, che dall’altra parte
della vasca ci arriva la voce di Rai’an.
–Kaori, penso sia ora di rientrare…–
Che fretta hai, kamii straniero?
–Se Rai’an­sama lo desidera…–
Lui lo desidera, ma non risponde. Dopo un po’ ci dice: –Beh, io inizio
ad asciugarmi.– e si alza di scatto, quasi seccato. Così di scatto e seccato
che l’acqua gli strappa via quel ridicolo straccio, mostrandoci tutta la
rotondità del suo sedere. Si ferma anche la ragazza, intenta a strofinare il
pavimento a un paio di braccia da lui. Vorrei vedere la faccia di Kaori, ma
non posso distogliere lo sguardo dal fondo della sua schiena: è così tondo e
pieno che sembra pietra levigata. E quel buffo pendaglio che gli sbatte
davanti… una vista così bella e buffa insieme.
134
Lui rimane gelato. Si gira piano, per cercare lo straccio, ma invece trova
noi due che lo guardiamo fisso. Doppio gelo. Quando infine si accorge che
il panno è da qualche parte in fondo alla vasca, dice qualche parola secca
che non riconosco (sarà un’imprecazione nella sua lingua?) e si allontana,
così com’è, verso lo spogliatoio.
Non conto dieci respiri, che Jirou decide di seguirlo. Si alza nella vasca
e ci fa un lieve inchino col capo. Gli basta allungare una gamba per scaval­
care il bordo, e la terra sembra tremare sotto il peso del suo corpo. Eppure,
lo muove con tanta leggerezza che quasi non fa rumore.
La ragazza, che aveva appena ripreso a strofinare il pavimento, si ferma
di nuovo. –Beh, cosa c’è?– le chiede secco Jirou. Lei si gira verso il pavimento e
si mette a strofinare con forza. Jirou prosegue verso lo spogliatoio, boffon­
chiando qualcosa, e mentre si allontana, la ragazza lo segue con lo
sguardo.
Come sparisce dalla nostra vista, dico:
–Ahh, Kaori­san, certo che siamo fortunate a essere in viaggio con due
uomini così.–
–No… no, Midori, non è per niente una fortuna.– Il suo volto s’incupisce. Finalmente, usciamo anche noi. I nostri uomini ci aspettano in piedi
accanto al portone, che viene chiuso dietro di noi. L’ombra cupa che era
passata sul volto di Kaori è scomparsa, e vedo fluttuare quel suo mezzo
sorriso mentre saluta con un cenno Rai’an e Jirou. Vediamo se sta al
gioco…
–Ah, Kaori­san, ci voleva proprio un bagno ristoratore. E poi, così
abbiamo anche trovato un sacrario adatto ad ospitare lo Shintai del nostro
Rai’an­sama…– dico camminando piano verso la locanda.
–Ohhh, ma quale sacrario sarà, mai…?– mi fa lei, seguendomi e allar­
gando il suo mezzo sorriso vittorioso.
–Ma quello di Kanayama!–
–Ohhh, dove sono ospitate tutte quelle reliquie di kamii maschi…–
–Molto maschi! Chissà se anche Jirou potrebbe avere un posticino…–
–Oh, certo, magari scopriamo che è un kamii anche lui!–
–Ehhh?–
–Certo! Fra tutte quelle reliquie, finirebbe per essere molto venerato!–
Da dietro ci arriva la voce di Jirou che dice piano a Rai’an: –Quelle due
mi fanno paura…–
135
–Anche a me… tanta paura…– risponde il kamii, mentre Kaori mi
regala un sorriso complice.
Poesia per un guerriero (R)
Non credo di essermi mai sentito tanto imbarazzato in vita mia. Non che
l’essere nudo, anche davanti a persone dell’altro sesso, sia qualcosa per cui
una persona razionale dovrebbe provare il minimo imbarazzo. È l’idea di
trovarsi fra questa gente primitiva… tutt’altro che razionale… che mi pro­
cura una certa ansia…
Ma chi voglio prendere in giro? Razionalizzare è stupido. La verità è
che l’atteggiamento assolutamente superiore di Jirou, e quello deliberata­
mente invadente di Midori, e un po’ anche di Kaori, mi hanno preso alla
sprovvista. Bah, non che sia importante.
Fatto sta che, ieri sera, mi sono assicurato che tutti i miei compagni
avessero il cervello ben immerso nelle onde alfa prima di liberare le endor­
fine e sprofondare nel sonno a mia volta.
Abbiamo lasciato la locanda e ci dirigiamo armi e bagagli, è il caso di
dire, al Toudaiji. Kaori insiste: non possiamo lasciare Nara senza fare una
visita a Douzen. Ma prima, passiamo a ritirare le spade da Yakamochi; non
torneremo in città.
Il Maestro Yakamochi ci accoglie con l’aria di uno che ha lavorato tutta
la notte. La pelle attorno agli occhi è scura e pesta, le spalle sono curve, la
voce è ovattata. Ma si illumina di una luce innaturale non appena ci mostra
il risultato del suo lavoro.
Le lame sono quelle che abbiamo visto, ma seppur non affilate, sono
state lucidate con una pasta di sabbia sottilissima, rivelando la grana natu­
rale dei metalli fusi a formare l’anima e il filo delle lame. Per entrambe, lo
tsuba, il disco tondo che fa da guardia fra manico e lama, è un cesello
dorato che rappresenta una scena di combattimento, con la torre di un
castello in alto, dalla quale un generale osserva la battaglia fra fanti e cava­
lieri che si svolge in basso. L’impugnatura del lungo manico è in pelle di
squalo, bianca spendente, e attorno c’è intrecciato lo tsukamaki, una sottile
fettuccina di trame di seta nera lucida. Nero è il fodero, posato accanto alle
lame, laccato con un lucido smalto cinese, e nero è il sageo, il nastro di
seta che si allaccia al fodero per fermarlo alla cintura. 136
Eppure, le due spade sono diverse. Ora che le vedo ben lucidate, mi
accorgo che quella più lunga ha un riflesso patinato, argenteo, quasi fosse
gelosa della luce, quasi a volerla tenere per se; quella più corta, anche se
solo di un palmo, ha una superficie a specchio, così chiara che sembra bril­
lare di luce propria.
–Rai’an­sama… quale spada scegli?– mi chiede Jirou.
Per un po’ ho pensato che Jirou avrebbe potuto usare entrambe le spade,
per avere un vantaggio ancora maggiore, ma da un lato non è facile mano­
vrare due spade di quella lunghezza, e dall’altro vorrei che avesse una
mano libera per usare lo scudo gravitazionale.
–Scegli tu; sei tu che dovrai usarla, scegli quella con cui ti senti più a
tuo agio.–
Jirou non ha dubbi; pur se più pesante, prende la spada più lunga. Già
così è molto più leggera e un po’ più corta di quella a cui è abituato.
Il ragazzo si rivolge al maestro: –Ha un nome?–
–È tua. È giusto che sia tu a darglielo.–
Jirou solleva la lama davanti ai suoi occhi; poi la gira verso l’alto e la
punta verso il soffitto. La spada sembra bere la luce della stanza, e, assetata
di sguardi ancor più che di luce, pretende di essere ammirata. Ispirato da
questa immagine, Jirou intona una poesia:
Tagli la notte
silenziosa compagna
oborozuki
–Eeehhh!– fanno Kaori e Midori in coro, sinceramente ammirate. Oborozuki è una parola intraducibile, che indica la luna piena quando,
velata dalla foschia, appare come un pallido miraggio. E inoltre, è un kigo,
una parola che allude ad una stagione, in questo caso l’inverno, e che deve
comparire nelle poesie ermetiche per renderle perfette.
Per non essere da meno, prendo la spada lucente e la sollevo, cercando
l’ispirazione nel modo in cui riflette il mio volto. A un certo punto, il suo
riflesso specchia il sole che entra dai pannelli, tanto da abbagliarmi. Provo
con…
Sogno da sveglio
il tiepido abbraccio
hikarisuji
–Eh…hehe…– sorride accondiscendente Midori. Hikarisuji significa
letteralmente “raggio di luce”… e non è un kigo. Ma Yakamochi sembra apprezzare comunque: –Oborozuki e Hikarisuji.
Ora che hanno un nome, posso lasciarle andare.–
137
Il Toudaiji (K)
–Kaori, non essere così nervosa…– mi dice piano Rai’an­sama. Lui non
capisce… non sa quanto possono essere pericolosi i monaci. Specialmente
quelli del Tempio di Toudai; ancora oggi hanno un potere immenso sulla
corte imperiale. Se davvero lo volessero, potrebbero prendere il potere
direttamente dalle mani dell’Imperatore, e trasformare il Giappone in un
secondo Tibet.
–Rai’an­sama farebbe bene ad esserlo un po’ di più.–
Siamo quasi giunti alla porta del complesso del tempio che dà sulla
città. Prima di entrare, ho alcune raccomandazioni da fare ai miei compa­
gni. Mi fermo vicino ad un muro dove non passa nessuno.
–Midori, non parlare se non sei interrogata. Per i monaci del Toudaiji, le
donne sono esseri inferiori, che non dovrebbero né studiare, né tanto meno
officiare un rito. E nemmeno parlare, se non strettamente necessario.–
–Eh?–
–Ad ogni modo, tieni la bocca chiusa.–
–Oh… va bene.–
–Jirou, tu hai studiato presso un monastero, giusto?–
–Due anni.–
–Allora dovresti sapere tutto quello che è necessario. Rai’an­sama…
credo che sarebbe meglio evitare di parlare della nostra missione. Tutto,
ma non quello.–
–Posso sapere il perché?–
–Perché secondo i monaci, questo mondo è una “casa in fiamme”. Un
luogo di dolore dal quale estraniarsi, e infine liberarsi.–
–Beh, sì… ma questo cosa ha a che vedere con noi?–
–Loro desiderano più di ogni altra cosa interrompere il ciclo infinito
delle rinascite; tanto che i loro santi, una volta ottenuto il potere di spez­
zare la ruota, restano sulla terra per aiutare altri a fare altrettanto.–
–Giusto… ma ancora non vedo…–
–Se tutti gli esseri viventi morissero nello stesso istante, tutti i cicli di
reincarnazione sarebbero spezzati.–
Rai’an­sama mi guarda con gli occhi spalancati e la bocca ancora aperta
nell’atto di formare la parola successiva.
138
–Oh… ma… beh…– cerca di sorridere, ma non riesce a scacciare la ten­
sione, –se fosse così semplice, se la pensassero davvero così, si sarebbero
da fare per abbreviare la vita degli altri esseri viventi, non trovi? E invece
la dottrina buddista proibisce di prendere la vita di qualsiasi essere
vivente…–
Il mio volto si piega in una smorfia di disappunto. Rai’an­sama non sa
quanta gente ho visto sparire nei monasteri. Per non parlare di quelli tran­
quillamente passati a fil di spada dai souhei.
–Se uccidono, si reincarnano in esseri inferiori, e devono ricominciare
tutto da capo.– gli ricordo.
–Beh… allora potrebbero semplicemente dire a tutti di smettere di fare
figli…–
–E così sarebbero costretti a reincarnarsi in esseri inferiori, senza più
nemmeno la possibilità di accedere al Nirvana.–
Rai’an­sama non sembra convinto. Cerca altre argomentazioni, ma non
riuscendo a trovarne, ripiega su: –Oh beh… ad ogni modo, hai ragione: meglio non dire nulla.–
–Sì, meglio. Comunque, state tutti in guardia, ho una pessima sensa­
zione su questa storia.–
Douzen­geika è formalmente il braccio destro dell’abate, che però è un
uomo vecchio, malato e completamente assorto nelle sue fantasie mistiche.
In realtà il potere è in mano a Douzen­geika, che lo esercita da una posi­
zione ideale: mentre il tempio è rappresentato dal vecchio abate, può agire
indisturbato e estendere la rete di relazioni e il controllo a Hei’an.
Entriamo dal cancello ovest nell’immenso parco. Il tempio è giù, in
basso, a tre, forse quattrocento braccia. Accanto, le due grandi pagode a
sette piani, si dice siano le più alte del mondo. Di certo, io non ne ho mai
viste di più alte; fanno sembrare la pagoda a cinque piani del tempio di
Koufuku un fuscello. Il sentiero scende verso l’ingresso principale, rivolto
a sud, ma curva sinuoso e sparisce presto fra gli alberi del parco; lo si vede
emergere a costeggiare un laghetto, a metà strada, per poi rituffarsi giù. Lo
specchio d’acqua del grande lago che costeggia la strada maestra, che col­
lega il cancello sud con l’ingresso principale del tempio, brilla in lonta­
nanza, placido.
Un gruppo di giovani monaci ci incrocia. Parlano piano, e camminano
ancora più piano. Altri monaci passeggiano nel parco, ma sono lontani.
Continuiamo a scendere; dagli alberi spuntano tetti di altre costruzioni,
residenze per i monaci importanti (quelle dei novizi sono vicine al cancello
principale), immerse in piccoli parchi che a un primo sguardo sembrano
139
cespugli che la natura reclama con violenza per se; e invece, ogni ramo,
ogni filo d’erba è posto lì dai monaci per una ragione precisa. Una di que­
ste abitazioni deve essere quella di Douzen­geika.
Giungiamo all’ingresso principale del tempio; quattro monaci­guerrieri
oziano appoggiati chi alle colonne dei cancelli, chi alle lunghe alabarde.
Come ci vedono avvicinare, si destano e mi vengono incontro.
–Chi sei, donna?–
Cominciamo bene.
–Sono Kaori, miko anziana del Santuario di Koumon.–
–Oh, che sei una miko lo vedo… ma non sei per niente anziana…
anzi…– il lurido sguardo del souhei che mi parla si insinua sotto i lembi
del mio shiroi. Ora non ho tempo di tagliargli la gola, quindi cerco di chiu­
dere la conversazione:
–Siamo stati convocati da Douzen­geika.– Il lurido si ricompone tanto in fretta che quasi gli cade l’alabarda.
–Potevi dirlo prima, donna!–
–Hai intenzione di sprecare altro fiato, uomo?– Il lurido si gira di scatto e dice fra i denti: –Seguitemi.–
Costeggiamo il lato sud e poi quello est del tempio, e ci dirigiamo oltre,
verso la biblioteca, le sale di studio e gli uffici amministrativi. Le strade
sono meno tortuose dei sentieri sull’altro lato, e i giardini meno elaborati.
È il cuore pulsante, la mente del tempio. Ordinato, meccanico, efficiente.
Quando il pendio inizia a risalire sulle pendici del Wakakusa, e già si intra­
vede il muro di cinta est del complesso, la guardia gira dentro ad un giardi­
netto e sale il gradino del davanzale di una casetta anonima. Si inginocchia
fuori dal pannello e chiama:
–Geika! Ci sono quattro visitatori che dicono di essere stati convocati da
te! Sono due contadini e due donne.–
Due miko, lurido. Siamo due miko e due contadini.
Dopo una breve pausa, il pannello si apre, rivelando il volto paffuto di
Douzen­geika. –Oh, benvenuti al Toudaiji. Vi stavo aspettando, temevo aveste dimenti­
cato di farci visita.– dice, rivolto a Rai’an­sama.
–Douzen­geika, il tuo invito è stato così cortese che non avremmo
potuto rifiutarlo.– risponde lui. Finalmente, una risposta quasi degna di
me.
Douzen­geika gli sorride, capendo la sottile allusione alla cortesia
dell’invito, e risponde: –Prego, salite.–
Ci sfiliamo zouri e calzari, e entriamo nella casetta.
140
Mentre, per ultima, passo accanto a Douzen­geika, noto con la coda
dell’occhio che fra lui ed il souhei corre un cenno muto, che mi fa venire i
brividi.
Oltre le onde (R)
Vedere il tempio nel suo splendore originale, con il grande complesso
centrale a tre piani e le due pagode gemelle alte cento metri, prima che
vengano distrutte durante la guerra fra i Taira e i Minamoto nella seconda
metà del 1100, è valso da solo la visita. Naturalmente, ho registrato tutto,
nell’eventualità di riuscire a tornare a casa. Avrei voluto vedere anche la
grande statua del Budda, che in quest’epoca deve ancora avere la sua dora­
tura intatta. Ma Kaori non è dell’umore adatto per una visita turistica.
L’ufficio di Duzen scoppia di scaffali e armadi stracolmi fin sopra la
copertura di rotoli di carta di riso, e ci sono persino alcuni rotoli di listelli
di legno cuciti alle estremità; devono essere testi cinesi piuttosto antichi,
direi precedenti al quinto secolo. Li guardo con una certa bramosia; se li
potessi vedere anche solo per un attimo, per studiarli con calma in un
secondo momento…
Beh, nemmeno io sono qui per una visita turistica. Devo mettere a
tacere la mia curiosità scientifica. Douzen­geika si siede inginocchiandosi su un cuscino morbido
dall’altra parte di un basso tavolino, anche quello colmo di carte sparse
ovunque; quella a cui stava lavorando rimane aperta davanti a lui, e
accanto ad essa giacciono l’inchiostro ed un sottile pennello. –Allora, Ryan­san…– noto che sembra pronunciare correttamente il mio
nome, –… devo ammettere che la tua storia mi ha incuriosito molto. Non
ho mai conosciuto un uomo proveniente dalla terra d’Irlanda; o nemmeno
dall’Europa. Tu… sei un viaggiatore…–
–Effettivamente, ho viaggiato molto.–
–Oh… e come sei arrivato in una terra così lontana come la nostra?–
Comincia l’interrogatorio. Ma no, cerchiamo di non vederla così. La
curiosità di un uomo di cultura verso terre lontane è naturale.
–Beh, ero imbarcato come marinaio.–
–Capisco…; raccontami un po’ della tua terra, com’è che l’hai
descritta… dalle colline dolci come il corpo di una madre, dal cielo volu­
bile come il carattere di una donna capricciosa…–
–Hahaha, hai buona memoria, Douzen­geika.–
141
–Sai, noi monaci la teniamo ben allenata…– mi sorride ammiccante. Ha
un modo di fare aperto, franco, che mi mette a mio agio. Kaori, stavolta, è
stata davvero esagerata nel giudicarlo.
E allora gli racconto delle verdi colline di Sliabh Ardach e del Kilkenny,
così dure eppure generose con chi sa amarle, delle aspre scogliere del
Donegal, che sembrano sfidare l’oceano, e che lo vincono, del monte Bren­
nàinn, che si erge solitario fra le nebbie, punteggiato di erba e antiche pie­
tre affilate, di Dublino, e del suo mare, e della sua gente orgogliosa, fiera, e
a ogni racconto, gli occhi di Douzen­geika brillano e si fanno più lontani,
mentre cerca di figurarsi le immagini che distendo davanti alla sua
coscienza.
E quando quasi ho finito di parlare delle cose che ho visto, e che mi
hanno riempito il cuore, noto sotto a un mucchio di rotoli un koto, lo stru­
mento a corde di origine cinese. –E… i canti. I canti che risuonano nella nostra terra, che sorgono dalle
rocce e dagli scogli, e dalla risacca del mare.–
–Oh… i canti! Potresti cantarci un canto della tua terra?–
–Mah… non è che sia tanto bravo a cantare…–
–Su, su, un canto della tua terra! Cantaci qualcosa che ci faccia sentire
la risacca del mare…–
Come bioantropologo, ho studiato molte lingue antiche. Ovviamente,
anche il Gaelico, la lingua dei miei antenati; e ho ascoltato i canti
dell’Irlanda. –Credo che… c’è un canto che forse… si chiama Trassna na dTonnta…
oltre le onde.–
Comincio a cantare…
Oltre le onde, ad est, ad est…
Addio tristezza, addio lontananza
Gaio è il sole, e gaio il mio cuor,
Gaio è il ritorno in Irlanda!
Douzen-geika (K)
Rai’an­sama intona il canto lento e solenne, eppure allegro e gioioso. Dalla sua gola escono armonie che non ho mai udito. Nei sospiri, soffi,
e suoni che fanno parte quelle parole, non c’è durezza, non uno spigolo,
non una violenza. È una lingua inventata da una donna per essere amata.
142
E il tono del suo canto… sono note nuove, vanno giù in basso, e su in
alto, e attraversano luoghi che non ho mai attraversato, mondi che non ho
mai visto. Note che non si trovano sulle corde di un koto, che si dipanano
nella melodia e mi portano in quella terra morbida e aspra, verde e grigia,
che Rai’an­sama ha appena raccontato.
E la sua voce… così maschile e forte, eppure ingentilita dal canto,
diventa dolce, e ancor più dolce perché ne sento la forza, domata solo dalla
passione e dalla tenerezza di un uomo che sa cosa vuol dire amare.
Non posso distogliere lo sguardo. Non posso smettere di udire il canto
di Rai’an­sama. Vorrei che non smettesse mai.
Ma il canto finisce. Douzen­geika sembra estasiato quasi quanto me. Lascia che si posi il
silenzio e poi lo rompe:
–È un canto affascinante, come il racconto della tua terra. Ma ora
dimmi… cosa ti ha spinto tanto lontano da una terra così meravigliosa?–
–La curiosità di vedere altre genti e altre terre meravigliose.–
–Ed è soltanto per vedere la nostra terra che ti stai facendo accompa­
gnare da due miko e un guerriero?–
–Ma… Douzen­geika… io sono solo il loro facchino…–
Douzen­geika si alza e si avvicina al bagaglio lasciato a terra da Rai’an­
sama. Abbiamo distribuito un po’ il peso, ma rimane troppo pesante per
essere sollevato da una persona sola, non importa quanto forte. Il monaco
fa il gesto di alzarlo, ma rinuncia subito.
–Io ho avuto l’impressione che in realtà siano loro ad accompagnare te,
e non viceversa.–
–Hahah, ma cosa le ha fatto venire in mente un’idea tanto assurda?–
–Mah, diversi indizi, a dire il vero. Il modo con il quale queste due miko
e questo giovane guerriero ti guardano, innanzi tutto. La deferenza naturale
che hanno nei tuoi confronti…–
–È solo cortesia verso uno straniero…–
–In genere, noi Giapponesi non siamo così cortesi con gli stranieri. E
comunque, la cortesia è un conto, la deferenza un altro… la devozione un
altro ancora.–
Mi sento gelare il sangue nelle vene. Dovrei dire qualcosa, ma ho la sen­
sazione che sia troppo tardi.
–Douzen­geika…– cerca le parole Rai’an­sama, –…certe cose sono
anche negli occhi di chi le vede…–
143
–Beh, allora sono negli occhi di molte persone. Ad esempio, negli occhi
di quei villici di Amagane e dintorni… quelli che seguono quel culto
strano… sì, di quello strano mikoshi che tengono nascosto in una grotta sul
Wakakusa…–
Siamo fritti. –Per caso, conoscete una certa Maaya, la moglie del capo villaggio di
Amagane?–
Rai’an­sama tace. Come tutti noi, del resto.
–Sapete… pare che sia miracolosamente guarita da una malattia molto
grave. E quel Gosaburou di Kusamoto… sapete, quello nato zoppo… sem­
bra che adesso non zoppichi più.–
–Come … fate … a sapere queste cose… – chiede piano Rai’an­sama.
Credo che inizi a rendersi conto di chi ha di fronte.
–Oh, beh, sapere quello che succede a un tiro di freccia dal tempio non è
una cosa così eccezionale. Soprattutto se si tratta di contadini che seguono
un culto tanto strano. E d’improvviso, arriva uno straniero, e due malati
gravi guariscono. Miracolosamente, direi. È il tipo di cosa che può dare il
via a strane dicerie, persino a culti blasfemi.–
Midori si gira verso di me. Ha un pallore spettrale. Jirou è dietro di noi e
non lo vedo, ma sento che il suo respiro si è fatto pesante.
–Sai, Ryan­san, sembra che il giorno in cui la gamba di Gosaburou è
tornata a funzionare, siano passati di lì due miko, un guerriero e uno stra­
niero dai capelli d’oro. Non la trovi una coincidenza notevole?–
Rai’an­sama non risponde.
–Uno straniero che va in giro a fare miracoli, un culto blasfemo che si
rianima, e un contadino che porta in giro un peso di cento pietre come se
fosse una piuma…–
–La mia gente è forte…–
–…sì ma la tua non è una forza umana. Ci vogliono almeno tre persone,
e forti, solo per sollevare questo peso. Andarci in giro come fai tu… beh…
va oltre le capacità di qualsiasi persona… anche straniera… anche forte.
Non trovi?–
Cerco il coltello infilato fra lo shiroi e l’hakama. Rai’an­sama si alza e
torreggia di fronte al monaco, ma ciò nonostante il suo atteggiamento è
dimesso.
–Credo che sia inutile continuare questa farsa, vero Douzen­geika?–
–Ohohoho, – ride il monaco, –chiamami pure Douzen.– Ma dopo aver
riso, il suo volto si fa duro come quello di una statua di bronzo del Budda. 144
–Non posso certo farmi chiamare geika da un kamii, non credi, Ryan­
sama?–
Rai’an­sama sostiene lo sguardo di bronzo di Douzen­geika, in silenzio.
–Prima di agire, voglio sapere quali sono le tue intenzioni, Ryan­sama.–
–Non capisco… cosa intendi…–
–Ci sono degli interessi che dobbiamo proteggere. Molti monasteri
fanno capo al Toudaiji, è da qui che decidono come organizzasi per fron­
teggiare le minacce alla nostra fede. Non possiamo lasciare che un culto
blasfemo si propaghi a meno di una lega dal Grande Budda d’Oro. E
quello che io vedo è un kamii vivente che va in giro a fare proseliti in gran
segreto.–
–Beh, non così in segreto, sembra…–
No, Rai’an­sama, la battuta è davvero fuori luogo. Douzen­geika ti sor­
ride, ma è il sorriso di una serpe.
–Allora, adesso che la farsa è finita, dimmi: cosa sei venuto a fare qui?–
Non posso lasciare che risponda. Mi alzo e intervengo:
–Geika, quello che stiamo facendo non ha niente a che vedere con il
nostro culto, o con culti blasfemi.–
–Oh… una miko che porta in giro un kamii a fare miracoli non ha niente
a che vedere con culti blasfemi, già già…–
–Douzen…– mi ferma Rai’an­sama con un braccio, –posso darti la mia
parola che non sono qui per dare vita a culti o religioni. Anzi, se questo
avvenisse, sarebbe un problema più per me che non per te.–
–E il culto di Amagane?–
–Prima che questa storia sia finita, devo assicurarmi che finisca anche
quel culto. E le cose che ho fatto hanno già iniziato a ottenere questo
effetto.–
–Mi stai dicendo… che non hai compiuto quei miracoli per fondare un
nuovo culto?–
–Esatto. Si è trattato di un atto di riconoscenza per aver venerato il
mikoshi fino ad ora …­ Rai’an­sama marca le parole –… e un prezzo che
ho pagato per chiedere loro di non avvicinarsi più, d’ora in poi.–
È la verità. Il monaco tenta di cogliere un segno di menzogna sul volto
di Rai’an­sama, senza riuscirci.
–Quello che dici… non ha senso…–
–Douzen, ti garantisco che poco di questa storia ha un senso, almeno, un
senso facile da comprendere. Fatto sta che fra le cose che devo fare mentre
sono qui c’è anche fermare il culto di Amagane. Era un culto che non
145
sarebbe mai dovuto nascere, ed è mio compito riportare le cose al loro
ordine naturale. Solo… devo farlo gradualmente. Agire senza cautela
potrebbe portare a conseguenze disastrose.–
–Può essere…– Douzen­geika riflette in silenzio per sette respiri, e poi
prosegue con voce ferrea.
–Ma fermare un culto di contadini di montagna è una cosa che possiamo
fare anche noi. Con le buone o con le cattive. Invece, lasciarti andare in
giro per la provincia dello Yamato è troppo pericoloso; tanto più che,
anche se fosse vero ciò che mi dici, sarebbe solo parte di ciò che vuoi
fare.–
–Non può bastarti la mia parola?–
–No.–
–E… se ti mostrassi il motivo per cui sono venuto qui?–
–Intendi… con una specie di visione?– per un attimo, il monaco ten­
tenna. Ma poi scarica la tensione con una smorfia sardonica, e conclude: –
No, anche Mara calò visioni terribili sul Budda, per farlo desistere dai suoi
intenti. Qualsiasi visione tu possa far scendere su di me, non posso
rischiare di crederti.–
Stupido vecchio monaco idiota. Nell’istante in cui lo penso, Douzen­geika batte le mani, e il pannello si
spalanca vomitando nello stanzino dieci souhei, con le alabarde puntate
verso di noi.
Accerchiati (M)
E adesso che sta succedendo?! Rai’an si gira di scatto, e Jirou cerca di
mettersi fra me e l’ingresso. Io mi faccio piccola piccola e mi appiattisco
contro al muro, fra due scaffali ricolmi di rotoli. Uno … tre … cinque monaci guerrieri entrano di corsa, quasi buttando
giù il pannello, e formano un muro di carne e lame che ci blocca l’uscita;
dietro, sul davanzale oltre il pannello, altrettanti guerrieri si schierano
abbassando le alabarde.
–Fermi, non un passo!– grida la voce di Kaori. Si girano tutti verso di
lei; non è più dov’era prima. È alle spalle di Douzen, e gli tiene la testa
immobilizzata all’indietro, e un lungo coltello puntato sotto la gola.
Mi giro di nuovo verso l’ingresso, attirata da un tonfo sordo; i miei
occhi fanno in tempo a cogliere l’immagine di un guerriero che rotola per
terra, mentre Jirou stringe l’alabarda che gli ha sfilato di mano e la punta
minaccioso verso gli altri.
146
–Allora, Geika, lo vogliamo dare quest’ordine o no?– sibila fredda
Kaori.
Douzen fa cenno ai souhei di abbassare le armi.
–Lentamente.– dice piano Kaori, e sottolinea la parola premendo il col­
tello sotto la gola del monaco. I guerrieri posano le alabarde a terra. Lentamente.
–Non crederete… di uscire dal Toudaiji così…?– dice quasi sussurrando
il monaco.
–Mah, vediamo; intanto attacca a recitare il nenbutsu, bonzo, che può
sempre servirti…– sorride acida Kaori. Ed effettivamente, Douzen sembra
cogliere il suggerimento, perché le sue labbra si muovono in silenzio.
–Douzen­geika…– Rai’an interrompe la sua preghiera, –… mi spiace
per questo inconveniente, ma non mi lasci scelta. Se una visione non ti
basta, allora questo dovrebbe convincerti.–
E così dicendo con due passi si porta davanti al guerriero che ci ha
accompagnati qui; sembra essere il capo.
–Colpiscimi.– gli ordina.
–Eh!?!– fa questo.
–Rai’an­sama!– quasi grida Kaori.
–Non preoccuparti, non può farmi alcun male. Avanti, raccogli
l’alabarda e colpiscimi.–
Lui si china piano, cercando lo con lo sguardo l’approvazione di Dou­
zen, che gli risponde con un cenno degli occhi. Raccoglie la lunga asta da
terra, e si alza, sempre piano. D’improvviso la solleva sulla testa, cercando
di non urtare il soffitto e…
–Attento! Se colpisci troppo for…– Rai’an non fa in tempo a finire la
frase; il bastone si abbassa con tanta violenza che si flette sotto il peso
della lama alla sua estremità.
E poi, uno schianto, come se ci fosse piombato addosso un fulmine.
Grido per la paura, ma anche per il dolore alle orecchie. Quando apro gli
occhi, i guerrieri che stavano davanti all’ingresso sono sdraiati nel giar­
dino, e quelli nella stanza sono buttati sul pavimento, storditi. Pezzi
dell’alabarda sono conficcati nel soffitto. E mi fischiano le orecchie da
morire!
–Oh, dannazione! Ehi, state tutti bene?– Rai’an scuote i due guerrieri sul
pavimento e quando questi si alzano, scende dal davanzale e va a soccor­
rere il capo, che non sembra in grado di muoversi; apre le macchine che ha
nelle mani e inizia a fare le sue cose, sotto lo sguardo sbalordito, o forse
terrorizzato, degli altri guerrieri, che nel frattempo si stanno riprendendo.
147
Jirou, Kaori e Douzen sono immobili, e hanno tutti lo stesso sguardo
sbarrato. Quando finalmente il capo apre gli occhi, Rai’an mette via le sue
macchine e gli dice qualcosa, ma da qui non si sente bene. Poi risale
nell’ufficio.
–Kaori… penso che tu possa lasciarlo andare, adesso.–
–Eh? Oh… sì… penso di sì…– –Jirou…–
–Ho!– si inchina marziale il ragazzotto, e lascia a terra l’alabarda. Douzen si sistema la veste, con lo sguardo fisso su Rai’an.
–Ora, Douzen… come vedi, le nostre intenzioni non sono ostili. Se lo
fossero state, ora non staremmo cercando di convincerti.– Douzen fa una faccia scura… beh, sentire quel botto e vedere la sua
truppa di venti uomini ben piazzati sbattuta per terra in quel modo… non
vorrei proprio essere nei suoi panni, adesso.
–La mia missione consiste…– Kaori, ancora dietro al monaco, lancia
un’occhiataccia a Rai’an che è quasi peggio del fulmine di prima. Rai’an
sembra prendere in considerazione questo avvertimento e procede con cau­
tela. Si china su Douzen, in modo che i guerrieri, che nel frattempo si sono
radunati tutti di fronte al davanzale, non sentano.
–… nel… impedire un… terribile disastro che potrebbe… uccidere mol­
tissime persone.–
–Un… terremoto?– chiede piano il monaco.
–Una specie. Così forte, che l’onda dello tsunami spazzerebbe via Nara
e Hei’an come fossero castelli di sabbia. Ora, le mie forze da sole non sono
sufficienti a fermare questa catastrofe. Per questo, la mia gente ha mandato
qui degli strumenti che mi aiuteranno.–
–Come… il mikoshi di Amagane?–
–Esatto. Ma non volevamo che venisse trovato. Né vogliamo che la
gente si metta a pregarci intorno.–
Douzen annuisce.
–Le uniche persone a sapere questa cosa sono in questa stanza, a parte il
kannushi del santuario di Koumon. La gente dei villaggi del Wakakusa
non sa nulla, e non deve sapere nulla. Puoi immaginare cosa succederebbe
se si diffondesse una notizia simile?–
–La gente… si farebbe prendere dal panico…–
–Esatto. E noi vogliamo evitarlo a tutti i costi. Vedi? Siamo dalla stessa
parte! Tu vuoi proteggere la tua gente, e lo vogliamo anche noi. Tu non
vuoi che si diffondano culti pericolosi, e non lo vogliamo nemmeno noi.–
148
–Ryan­sama… forse quello che mi dici è vero, ma c’è una cosa che non
capisco. Perché la tua gente vuole impedire questa tragedia? Che cosa ci
guadagnate?–
–Douzen­geika… non sono io che devo insegnarti il significato del ter­
mine “mente compassionevole”.–
Il monaco spalanca gli occhi.
–Vedi, Douzen… semplicemente, non possiamo restare immobili di
fronte ad una tragedia simile. Abbiamo il potere di fermarla… o almeno di
provare a fermarla. Non farlo sarebbe come prendere tutte queste vite con
le nostre mani. E questo sarebbe disastroso per noi quanto lo sarebbe per
voi.–
Douzen china lo sguardo e incrocia le mani sul ventre. Chiude gli occhi
e respira profondamente. Quando li riapre, ogni segno dello stupore che
rimaneva sul suo volto è scomparso.
–Se le cose stanno come dici, allora ti aiuterò come posso. Ma se il tuo è
un inganno, allora rivolgerò tutte le forze in mio possesso contro di te.
Forse non potrò fermarti, ma è mio dovere provarci.–
–Douzen­geika…– Rai’an china piano il capo, in un piccolo inchino di
gratitudine, –non ho nulla da temere dal tuo giudizio, ed ho molto da gua­
dagnare dal tuo aiuto. Quindi…–
Rai’an si gira e va ad aprire il suo bagaglio. Fruga un po’ e poi tira fuori
una scatoletta di metallo lucido.
–… vorrei che tu tenessi questa.–
–Che… che cos’è?–
–Guarda.– gli risponde. Io mi sposto un po’, piano, piano, cerco di pas­
sare inosservata, ma voglio vedere anche io. Douzen tiene la scatola nel
palmo della mano… Oh, il lato che sta guardando è nero e lucido; ricorda
il telo che Rai’an usa per i suoi disegni che si muovono. Mi aspetto che
compaia qualche disegno, ed infatti si vede l’ingresso dell’ufficio! Rai’an cammina verso l’uscita, e il disegno si muove; guarda i guerrieri
seduti in giardino, e sulla scatoletta si vedono i guerrieri chinare il capo.
Poi si gira verso di noi. Oh, ma guarda! Nella scatoletta c’è Jirou, Kaori e
Douzen – e quella graziosissima miko sono io! Devo chiedere a Rai’an se
ha uno di questi giocattoli anche per me!
Douzen quasi salta indietro quando si vede nella scatola. Rai’an torna da
noi e dice piano:
–Ecco, così posso farti sapere dove sono e che cosa sta succedendo.
Cercherò di tenerti informato il più possibile. Se avessi bisogno di aiuto, te
lo farò sapere così.–
Il monaco fa un profondo inchino e stringe la scatola al petto.
149
Inutile (R)
Kaori non parla da quando ho lasciato il comunicatore a Douzen. Finché
eravamo nel complesso del Toudaiji, era ovvio mantenere il silenzio. E
mentre cammina, raramente parla. Ma è quasi due ore che camminiamo
sotto al sole, e siamo a metà strada per Shiba… il suo silenzio è assor­
dante. Anche perché dovremmo decidere come procedere, dove fermarci a
mangiare, quando fermarci per la notte…
–Kaori?– mi avvicino.
–Sì, Rai’an­sama?–
–C’è… qualcosa che non va?–
–Qualcosa!?!– si gira di scatto lei, col volto rosso di furore.
–Mi chiedi se c’è qualcosa che non va!?! Ma ti rendi conto di quello che
hai fatto!?!–
–… perché non me lo spieghi?–
Lei sbuffa e sbatte le braccia platealmente. –Ma proprio non capisci!?!
Quello è Douzen­geika, l’uomo che tiene praticamente in pugno il governo
imperiale con la sua rete di spie e con i guerrieri dei templi che gli fanno
capo. E di quelli che gli devono qualche favore. Voleva ucciderci! E tu
credi cosa fai? Gli chiedi aiuto!–
–Avevi in mente qualcosa di meglio?–
–Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio!–
È una frase che ho già sentito. E comincia a stancarmi.
–… qualcosa di più specifico? Avrei dovuto svuotargli la mente? O
forse uccidere lui e tutte le guardie? O tutti i guerrieri del Toudaiji…–
senza volerlo, la mia voce sale di volume, –… o magari avrei dovuto
raderlo al suolo?–
–Oh … raderlo al suolo … questo sì che sarebbe stato un bene! Senza
quei bonzi attaccabrighe il Giappone sarebbe un posto molto più
luminoso!–
–Kaori!–
–E non solo gli hai chiesto di aiutarti! Gli hai pure dato una macchina
che gli permette di sapere dove siamo! Come se non avesse abbastanza
spie!–
–Beh.. se è per questo…–
Apro il palmo della mano, e poi gli emettitori fra le pieghe della pelle.
Compare il volto di Douzen, che guarda fisso il comunicatore. Si sentono
dei rumori di martelli e seghe, evidentemente stanno riparando i pannelli
che abbiamo distrutto. Douzen posa il comunicatore sulla scrivania…
150
–Avanti.– dice.
–Geika, mi avete fatto chiamare?–
Sentiamo le loro voci, ma il comunicatore inquadra il soffitto.
–Sì… entro stasera, arriveranno a Shiba due miko, un guerriero ed uno
straniero dai capelli d’oro. Teneteli d’occhio, ed assicuratevi che non suc­
ceda loro nulla. Tenetemi informato su ogni loro movimento.–
–Ho!– s’ode il saluto marziale, e passi che si allontanano di corsa.
Chiudo gli emettitori e guardo Kaori. Mi tolgo la soddisfazione di
vederla sgranare gli occhi.
–Come vedi, il comunicatore funziona in entrambe le direzioni; sono io
a decidere in quale. Non sono così ingenuo, Kaori.–
–Beh… ecco… comunque! Avresti potuto dircelo che sei immortale!–
–Eh?–
–Quella dimostrazione del tuo potere! Avresti dovuto dircelo!–
–Beh, ero appena riuscito a recuperare tutte le forze. Ho acceso le mie
difese poco prima di arrivare al tempio. Te ne ho parlato… fino a quel
momento ero molto vulnerabile…–
–Sì, ma … se puoi fare quelle cose… come posso difenderti… a cosa
possiamo servirti noi?–
Ah, ecco, adesso è chiaro.
–Kaori… ma non ti rendi conto? Se tu non avessi preso in ostaggio
Douzen, e se Jirou, nel frattempo, non avesse tenuto a bada i souhei, io non
avrei avuto la possibilità di sistemare la situazione!–
–Già … avresti potuto semplicemente spazzarli via tutti…–
–No, Kaori, avrei dovuto! Sarei stato costretto a farlo, e questo sarebbe
stato un disastro.–
Kaori mi guarda con un’espressione a metà fra l’ostilità e il broncio. È
quasi tenera. –Vedi, forse Douzen non ci aiuterà, ma almeno per il momento, ci
osserverà senza interferire, e si assicurerà che sia mantenuto il segreto. Se
fossi stato costretto a ricorrere alla violenza, avremmo avuto addosso tutti i
souhei e i monaci del Giappone, e probabilmente anche i contadini, se si
fosse diffusa la notizia. E, credo, anche la nobiltà.
–La nostra missione è già abbastanza difficile così, non credi?–
Kaori annuisce. Ora resta solo il broncio.
–Per portare a termine il mio compito, mi è stato affidato un grande
potere, questo è vero. Ma non è infinito. Senza il vostro aiuto, anche sta­
volta, sarei stato nei guai. Kaori… e anche tu, Jirou, e Midori. Il vostro
aiuto è già stato fondamentale, e diverse volte!– 151
Midori mi sorride, ma amaramente, e sussurra: –Eggià. Salverò il
mondo con un kagura ed un oonusa…–
–Midori, devo forse ricordarti che quella moneta d’argento che ci ha
permesso di passare tranquillamente il tempo che era necessario a recupe­
rare tutte le mie forze arrivava proprio da un tuo kagura? E che dire del
modo in cui avete recuperato le nostre armi da quel mercante?–
Midori non ci aveva pensato.
Mi giro verso Kaori, che ora guarda in basso. La prendo per le spalle e
lei china il capo ancora di più. –Non posso neanche immaginare come avrei potuto fare senza di voi…
né riesco a immaginare cosa potrei fare d’ora in poi. Ho bisogno del vostro
aiuto, Kaori. Le spade non possono ferirmi; almeno, non così facilmente.
Questo è vero, ma ci vorrà ben altro per portare a termine la missione.–
Lei tiene ancora gli occhi bassi. Le poso l’indice sotto al mento e le sol­
levo il volto con delicatezza. I suoi occhi sono un po’ lucidi.
–Te lo chiedo un’altra volta, Kaori. E che questa sia l’ultima. Vuoi aiu­
tarmi?–
Lei risponde con un filo di voce tremante: –Sì…–
La lascio andare e mi giro verso Midori, che non mi dà il tempo di fare
la domanda che già risponde:
–Non mi perderei questo spettacolo per niente al mondo!–
E prima ancora che abbia posato lo sguardo su Jirou, lui è in ginocchio:
–Ti prego, Rai’an­sama, non pormi questa domanda, poiché io ho già giu­
rato.–
–Molto bene. Allora, muoviamoci, che ho una fame…– e mi incammino
lungo la strada.
Non faccio in tempo a fare due passi che sento Midori dire piano a
Kaori: –Chiwa kenka, ne?–
È una frase intraducibile che viene usata per descrivere i bisticci senza
conseguenze… fra gli innamorati! Kaori chiude l’argomento con un secco: –Shine, baka!– … “muori,
scema!” Mi mordo la lingua per non scoppiare a ridere.
Shiba (K)
Ma che mi è saltato in testa? Rivolgermi in quel modo a Rai’an­sama…
mi vergogno da morire!
E l’ironia di Midori non migliora certo la situazione.
152
Al primo dirupo, mi butto giù. Eggià che siamo in pianura… vabbeh,
meglio così, non posso morire con quest’onta addosso. Che vergogna!
Guardo le risaie che costeggiano la strada. I contadini stanno già prepa­
rando il terreno; il mese di yayoi sta per finire, e presto inizierà uzuki. Mano a mano che procediamo, le colline si fanno più incombenti e la
pianura più stretta. E proprio davanti a noi…
–Rai’an­sama…–
–Dimmi, Kaori.–
Indico l’orizzonte. Si vede già la sagoma del kofun di Sakurai, il sepol­
cro della divina Yamato­to­tohi­momoso­hime.
–È quella?– mi chiede.
Annuisco. Non me la sento di parlare, la mia linguaccia mi ha già messo
abbastanza in imbarazzo, per oggi.
Rai’an­sama sembra guardare dritto dentro alla collinetta ricoperta da
una piccola foresta. Non dovrei nemmeno trastullarmi con un pensiero
tanto blasfemo… ma mi chiedo quali meraviglie si celino sotto al kofun.
Dicono che sia il kofun più grande di tutto lo Yamato. Eppure, secondo il
Nihon shoki, Yamato­to­tohi­momoso­hime era solo la figlia del settimo
imperatore, sua maestà Kourei­tennou, e della sua seconda moglie
Yamato­no­kunika­hime. Ma questa storia non mi ha mai convinta… da
quando in qua un imperatore ha una tomba più piccola di quella di sua
figlia? Chissà, forse Rai’an­sama ne sa qualcosa… sembra sapere molte
cose sul nostro passato. Vorrei chiederglielo… Magari più tardi.
Passiamo proprio di fianco al kofun. È così imponente che da vicino
sembra solo una collina. E neanche tanto piccola. Rai’an­sama l’osserva
attentamente, e anche Midori, e Jirou, la guardano sfilarci lenta accanto.
Ad un certo punto, Rai’an­sama si ferma. La collina è circondata da campi
coltivati, che brulicano di contadini intenti nel loro lavoro.
–Rai’an­sama, – mi avvicino e gli dico piano, –forse non è il caso di fer­
marsi adesso.–
Lui si guarda intorno, e annuisce. –Hai ragione. Abbiamo tempo; meglio proseguire. Non voglio dare
nell’occhio…–
Superato il kofun, mi chiede: –Sai già dove andare?–
–Non sono mai stata qui a Shiba… è solo un piccolo villaggio di conta­
dini, se proseguissimo fino a Sakurai…–
–Però, fermarsi qui sarebbe più comodo per le nostre osservazioni.–
–Vero, ma un gruppo di pellegrini non ha nessun motivo di fermarsi a
Shiba.–
153
–…Nemmeno per venerare la tomba della hime?…–
Non ci avevo pensato. Con tutte quelle storie che girano sul fantasma
della principessa, non mi ero mai sognata di avvicinarmi a questo luogo,
ma potrebbe tranquillamente essere la meta di due miko in viaggio. A
Shiba non ci sono locande, ma è già il primo pomeriggio, e se ci facciamo
vedere qui in in giro a pregare fino al tramonto, non sembrerà strano che
chiediamo alloggio per la notte. Che riusciamo a trovarlo, però, resta tutto
da vedere…
–Va bene, facciamo un tentativo. Mangiamo qualcosa al volo; prima ho
adocchiato un tori­i, probabilmente c’è un piccolo santuario per racco­
gliere le preghiere. Possiamo passare il resto del pomeriggio lì e poi cer­
care alloggio qui a Shiba.–
–Ottimo!– approva Rai’an­sama, –Ho proprio bisogno di mettere qual­
cosa sotto i denti!–
Il monte Miwa (M)
Rai’an e Kaori stanno decidendo come fare per la cena. Eggià che
abbiamo appena pranzato… e pure tardi… mah, a Kaori non piacciono le
sorprese. Come quella che ci ha fatto Rai’an stamane… beh, comunque, lei
sa sicuramente come fare per la notte. Spero solo che non dobbiamo dor­
mire di nuovo all’aperto.
Siamo sedute all’ombra di una grande quercia, ai bordi di un crocicchio
lungo la via per Sakurai. Attorno a noi, le ampie risaie del cuore dello
Yamato. Forse i contadini hanno già finito la loro giornata di lavoro, o
forse sono andati da qualche parte a schiacciare un pisolino dopo pranzo…
perché adesso non si vede più anima viva.
Sento un fruscio al mio fianco e mi giro di scatto. Jirou si è sdraiato
sull’erba; qui il terreno scende rapido verso la base dei campi qualche
braccio più in basso, e la pendenza invita a rilassasi. Quasi quasi mi sdraio
anche io… ah, sì, molto meglio così.
Mi giro un po’ verso di lui. Ha il volto serio serio, e guarda fisso dritto
di fronte.
–Jirou, cosa guardi?–
–Il Sacro Monte Miwa.–
Ohhh, è lì, proprio davanti a noi, anzi, un po’ sulla sinistra, ma non ci
avevo quasi fatto caso, fino ad ora. La nebbia di latte scende densa, lam ­
bendo i suoi fianchi, e mi fa quasi paura. Sembra viva. 154
È lì che Oo­mono­nushi­no­kamii ha deciso di albergare. Se la Divina
Amaterasu risplende nella volta celeste, è lui, il “kamii incaricato delle
grandi cose” che risiede nella terra, nelle montagne e… beh, nelle cose
grandi, ovviamente! È con la sua forza, che si irradia da qui, da questa precisa montagna, da
questa nebbia, che le grandi cose diventano kamii a loro volta; dalle mon­
tagne scorre l’acqua che abbevera le pianure, e su di esse crescono le fore­
ste che nutrono gli animali selvaggi; e loro nutrono noi, e noi torniamo a
nutrire lui alla fine della vita, anche noi, piccoli kamii. Ahh, che disegno
meraviglioso!
E che sensazione straordinaria essere qui, ai bordi di una qualsiasi risaia,
così vicina al centro del Mondo!
Sarà per questo che già da un po’ mi sento strana… non so come dire,
prima pensavo fosse la fame, ma ora che ho mangiato continuo a sentirmi
la testa un po’ pesante, e se mi muovo troppo veloce mi viene un po’ di
nausea.
Mah; è naturale. Non sarei Midori del santuario di Koumon, se non
potessi sentire il potere del luogo che fa mostra della sua solennità proprio
di fronte ai nostri occhi.
Jaki (R)
Siamo tornati indietro un paio di centinaia di metri e ora siamo all’estre­
mità sud del kofun detto “delle bacchette”. Un piccolo tori­i, il cancello
rituale che indica il passaggio ad un’area sacra, è tutto quello che la gente
di qui ha potuto, o forse voluto, erigere per commemorare la regina che ha
gettato le basi di quello che sarebbe diventato il regno dello Yamato, e
quindi l’impero Giapponese. Dopo aver importato il buddismo e principi
taoisti e confuciani dalla Cina, tutte dottrine fortemente patriarcali, il fatto
che, solo una manciata di anni prima, il regno dello Yamatai fosse un
rigido matriarcato era diventato improvvisamente un’onta da nascondere
con ogni mezzo. Alla donna sepolta qui sotto, fondatrice di un impero
eterno, è dedicata giusto una nota a margine nel Nihon Shoki, che ne
omette il nome e la relega al ruolo di figlia di un imperatore leggendario.
In questo testo, persino l’epiteto usato nel Kojiki, “Yamato­to­momoso­
hime”, che si legge più o meno come “colei che fu progenitrice dello
Yamato”, è stato nascosto usando ideogrammi dalla pronuncia simile, ma
privi di significato.
155
Ora, questa tomba è un monumento alla potenza della scrittura, di cui i
Giapponesi dell’epoca di Himiko diffidavano come di un’arte demoniaca;
un’arte che, proprio come deve aver temuto anche questa regina, alla fine,
l’ha sconfitta. Certo, è una costruzione imponente. Per dimensioni e massa, ampia­
mente superiore alle piramidi egizie; tuttavia, è un terrapieno, non una
costruzione in pietra. Alcuni terrazzamenti, realizzati con piccole lastre di
pietra, ne conservano la forma difendendo la terra dall’erosione delle
piogge, ma si tratta sostanzialmente di materiale di riporto dello scavo
dell’enorme fossato che in origine le girava tutto attorno.
Già in quest’epoca, il fossato è stato riempito, e al suo posto c’è un
laghetto artificiale che si estende lungo il fianco sinistro della collina. I
campi coltivati arrivano fin sotto alla depressione lasciata dal tracciato
dell’antico fossato.
Arrivati davanti al tori­i, ci guardiamo attorno. Dietro di noi, a una certa
distanza, alcuni contadini hanno ripreso il lavoro, e sembra che di tanto in
tanto lancino occhiate incuriosite verso di noi. Il piano di Kaori dovrebbe
funzionare.
–Bene… allora, cerchiamo di… Midori, anche tu… facciamo una
kagura… o recitiamo un norito…–
–Kaori, stai bene?– le chiedo; sembra confusa, o forse è solo stanca.
Non vorrei che avesse preso troppo sole, anche se è primavera camminare
tutto il giorno in mezzo alla pianura senza nessuna protezione per la testa
non è molto saggio. Ma non faccio tempo a preoccuparmi oltre, perché
Midori non risponde. Ondeggia visibilmente, lottando per rimanere in piedi. Kaori sembra
scrollarsi il torpore di dosso e scatta verso di lei, ma prima che muova un
passo Jirou afferra Midori da dietro, per le braccia.
–Midori­san, stai bene?– le chiede.
–Midori!– quasi grida Kaori mentre la raggiunge.
–Sì… sì ora sto bene… ho avuto solo un giramento di testa, scusate.– Midori riguadagna la posizione eretta e sorride a Jirou, che la lascia
andare piano, assicurandosi che sia tutto a posto.
–È questo luogo!– sibila Kaori. –Jaki! Anche io l’ho sentito.–
Mah, sarà anche jaki, “volontà maligna”, un termine che corrisponde
grosso modo a quella che in occidente era chiamata magia nera, o in
Africa veniva indicata con voodoo; ma io ho paura che sia un colpo di
calore, e stare qui al sole non aiuterà di certo. Mi avvicino per fare una dia­
gnosi più precisa, ma come sollevo la mano, Kaori scatta e mi stringe il
polso.
156
–Non vorrai fare qualcosa qui?– e fa un cenno in direzione dei conta­
dini.
–Hai ragione…– abbasso la mano; con i monitor diagnostici secondari
non posso avere un quadro abbastanza preciso, ma non riscontro nessun
sintomo evidente. Comunque, è meglio prevenire: poso il bagaglio e tiro
fuori un paio di piccoli stracci; li bagno con l’acqua della borraccia e ne
poso uno sulla testa di Midori, che mi guarda con aria interrogativa.
–Camminiamo sotto al sole da stamattina. Non fa bene a nessuno, e
soprattutto a chi non è abituato… tieni sulla testa questo panno fresco per
un po’.–
–Rai’an­sama, non è stato il sole… io ho sentito proprio…–
–Va bene, ma non c’è motivo di stare male anche per il sole, non credi?
Almeno quello, possiamo evitarlo.–
Midori annuisce piano, ma guardandomi fisso.
Mi giro e porgo l’altro straccio a Kaori. –Anche tu, per favore.–
Lei prende lo straccio, ma titubante. –Noi, ora, dovremmo fare un
rito…–
–Dobbiamo fare solo un po’ di scena per i contadini, non c’è bisogno di
fare tutti i preparativi.–
Kaori avvicina lo straccio alla testa, ma con lo sguardo mi implora di
fermarla.
–Dai, Kaori… non fatemi preoccupare, qui non posso fare nulla per
voi.–
–Come… Rai’an­sama desidera…–
–Jirou…– sto per dire, ma lui si è già annodato un fazzoletto attorno alla
testa. Gli sorrido e annuisco. Mentre le miko iniziano a recitare un norito che non conoscevo (e mi
riprometto di chiedere a Kaori di ripetermelo per registrarlo), inizio a scan­
dagliare il kofun in cerca dell’ingresso. Non ho portato con me un database
così ampio, e non ricordo a memoria i dettagli di questa costruzione. I tumuli dell’epoca Kofun hanno una camera sepolcrale molto piccola,
larga appena lo spazio necessario per un sarcofago e pochi oggetti del cor­
redo funebre. La gente dello Yamatai, e poi del primo Yamato, non seppel­
liva assieme al defunto corredi particolarmente ricchi; più che altro erano
gli oggetti che si identificavano fortemente con la persona sepolta, e che
quindi, secondo il culto animistico del Giappone antico, da un lato, erano
157
contaminati dalla corruzione della morte del loro proprietario, e dall’altro,
avrebbero attratto lo spirito del defunto, se fossero rimasti in possesso dei
vivi. Certo, anche al tempo dello Yamatai, le regine potevano avere oggetti
personali molto preziosi, ma contrariamente a quanto avveniva nel caso dei
faraoni, o dei nobili cinesi, non c’erano tesori, e men che meno servitori,
sepolti nei tumuli. Per questo, la presenza del nucleo centrale del calcolatore in questa
tomba è un fatto ancora più strano.
Non è solo la camera sepolcrale ad essere piccola; anche il corridoio che
parte dall’ingresso interrato, e sigillato con grandi pietre, è corto e stretto;
tanto che la camera non è al centro del tumulo, come avviene nelle sepol­
ture cinesi. Il corridoio si addentra nella collina artificiale per non più di
venti, trenta metri, mentre il raggio della parte principale arriva a essere
anche cinquanta o sessanta metri. La sua posizione è casuale, per rendere
più difficili i tentativi di profanazione.
Per me, questo è un problema. Le parti più lontane del tumulo sono già
fuori dall’area dei miei sensori a massima precisione. Per essere sicuro di
trovare l’ingresso, dovrei girare attorno a tutta la collina, e magari anche
salirci sopra, ma in questo momento è impossibile.
Dopo un’ora di tentativi, mi rendo conto di non poter proseguire oltre
senza salire sul tumulo. Disattivando i monitor vedo che adesso Kaori e
Midori sono passate direttamente ad un esorcismo a suon di oonusa:
ognuna agita il suo, tenendosi per mano, come a voler unire le loro forze.
O a farsi coraggio a vicenda. A meno di un passo dietro di loro, Jirou ha la
mascella serrata, il collo teso, la mano che stringe nervosamente l’elsa
della vecchia spada alla cintura. Le miko non recitano più; semplicemente,
fra un fruscio e l’altro, ogni tanto pronunciano parole secche, ma a mezza
voce, in Giapponese antico; parole come “va via”, o “sii purificato”, o
“torna sotto la terra”. Mi avvicino. La fronte e le guance delle due ragazze sono matide di
sudore, sudore che gocciola anche dalle dita intrecciate delle loro mani. I
movimenti del braccio con l’oonusa sono perentori, ma stanchi.
Sinceramente, vorrei interromperle, ma so che che non è il caso. Chiedo
piano a Jirou: –Che stanno facendo?–
–In questo luogo alberga una presenza maligna e pericolosa, Rai’an­
sama…– sussurra sibilando Jirou, senza distogliere lo sguardo dal tori­i
davanti a noi, o forse dallo spazio fra le sue colonne. Senza aspettare la
prossima domanda, seguita:
158
–Le nobili miko stanno impegnandosi per proteggere Rai’an­sama, e il
suo saburahi, mentre egli effettua la sua ricerca.–
Sospiro, ma cerco di farlo piano. –Beh, per il momento, la mia ricerca non può proseguire. Dobbiamo tor­
nare di notte.–
Jirou quasi sussulta. Non l’avevo mai sentito snocciolare una pausa così
lunga, prima di rispondere col suo –Ho!–
–Se… Rai’an­sama ha terminato…– cerca di dire Kaori senza fermare
l’oonusa, –… allora… dobbiamo andare subito via… da qui…–
Non per altro motivo, se non far smettere subito le ragazze, che sem­
brano davvero stremate, corro a prendere il bagaglio e faccio un cenno a
Jirou. Ma le ragazze non smettono; camminano all’indietro, lentamente,
precedute da un guardingo Jirou, continuando ad agitare il loro oonusa,
come a voler spazzare l’aria dall’impurità lasciata dai mostri che si stanno
immaginando. Registro la scena; è materiale interessante per i miei colle­
ghi.
La cosa continua per diverse decine di metri, quando finalmente Kaori
ne ha abbastanza. Si ferma e si volta lentamente verso di me; quando porge
le spalle alla collina, dice secca, a mezza voce: –Corriamo!–
Questo è troppo. Ora glielo dico… ma le miko sono già dieci metri
avanti a me, e Jirou indietreggia con il fodero della spada stretto nella sini­
stra, e la destra già all’impugnatura. E vabbeh, mi metto a correre dietro alle ragazze, e sento Jirou che,
molto sollevato, inizia a correre dietro di me.
Le due non smettono di correre, Kaori tiene stretta Midori per mano,
quasi a trascinarla con sé, fino all’albero dove ci siamo fermati a mangiare
poco prima.
Kaori, senza più un filo di fiato, quasi si butta in ginocchio a terra;
Midori si aggrappa al tronco della quercia, respirando rumorosamente.
Jirou arriva a grandi passi, una corsa scomposta e sgraziata, la voce viva a
chiedere il fiato che non c’è più. Io non sudo, i miei impianti hanno com­
pensato lo sforzo delle parti organiche, ma devo ammettere che il mio
ritmo cardiaco è un po’ accelerato.
Passano due minuti buoni prima che Kaori abbia il fiato per parlare. Più
o meno.
–Uhff… è un jaki… uffhff, uhf fortissimo… uff.. non avevo … ahha..
mai sentito … uff.. niente di … ahaaa … così forte…–
–Calmati Kaori, è passato…– le dico chinandomi su di lei, e le sorrido.
Lei mi guarda con un certo astio; come ad accusarmi di non avere il fia ­
tone. 159
–Sù, Kaori, bevi un po’…– le porgo la borraccia. Lei beve avidamente,
e tossisce quando l’acqua le irrita la gola disidratata.
Mi alzo per vedere come sta Midori. È ancora aggrappata con le unghie,
letteralmente, alla corteccia dell’albero, il fiato rotto da lunghi respiri
rumorosi.
–Midori… tutto bene?– Lei non risponde. Apro la mano per un veloce
controllo diagnostico approfondito; la percentuale di ossigeno nelle arterie
è ancora troppo bassa, ma non vedo altri problemi. Lascio che riprenda
fiato per dedicarmi a Jirou, ma lui è già in piedi, anche se chinato sulle
ginocchia. Come mi avvicino, alza la schiena, e con un profondo respiro
inizia a regolarizzare il ritmo.
Non credo che i miei compagni di viaggio la pensino così, ma … io mi
sono divertito. Da quanto tempo non facevo una bella corsa!
Kiyomi (K)
Il sole sta tramontando. Stanotte non dormirei all’addiaccio per niente al
mondo. Non qui. E poi, Midori si regge a malapena sulle gambe; è sfinita.
Non ci fosse stata lei, non so come avrei fatto. Midori è davvero forte, ma
quello che abbiamo affrontato… ho i brividi.
Il capo villaggio, Mamoru­san, quell’anziano che abbiamo incontrato
qualche giorno nella locanda a Nara, la sera della nostra danza, ci ha
accolte con un grande sorriso.
–Oh! Lo sapevo che sareste riuscite a venire per il Matsuri!– ci ha detto
allargando le braccia.
–Allora dobbiamo assumerti al santuario… per noi è un po’ una sor­
presa!–
Mamoru­san ci ha trovato alloggio presso un’anziana vedova, una certa
Kobo. Essendo senza marito, e ormai troppo anziana per lavorare, è tutto il
villaggio che si occupa di lei, e quindi non può rifiutarsi di ricambiare ren­
dendosi disponibile quando necessario. Ad ogni modo, quando Mamoru­
san le ha detto che eravamo qui per il matsuri, il suo volto si è subito illu­
minato.
–Oh, ma che bello! Almeno mi terrete un po’ di compagnia, sono sem­
pre così sola, e poi la notte oramai non riesco più a dormire bene…–
Dalla soglia dell’hiroma, guardo l’ultima fetta del disco del sole scen­
dere oltre le lontane colline a ovest, al di là della pianura dello Yamato. È
notte. Mi stringo tra le braccia e accosto il pannello, prima di salire sul
davanzale della sala.
160
–Tutto bene, Kaori?– mi chiede Rai’an­sama, vedendomi rabbrividire.
Non me la sento di rispondere.
–Irlanda? Non ho mai sentito questo nome? Dov’è, straniero?– lo
incalza Kobo, con gli occhi ancora spalancati ad ammirare i suoi capelli
d’oro.
–Eh? Ah… beh… dall’altra parte del mondo.–
–Oh, davvero? E come fate a camminare a testa in giù?–
–Ahaha, non camminiamo a testa in giù, nonna… la terra è una grande
palla, e se ci cammini tutt’attorno, arrivi da dove sei partito.–
–Ohhh non lo sapevo… e tutti gli uomini dell’Irlanda hanno capelli
d’oro come i tuoi?–
–No, a dire il vero è abbastanza raro. Sono di più quelli con i capelli
rossi.–
–Rossi!?! Esistono uomini con i capelli rossi?–
–E non solo: anche donne.–
–Donne!?! addirittura?–
–Ah, nonna, dovresti vederle. Sono bellissime! I loro capelli sono come
nuvole di fiamma, che incorniciano un volto bianco latte, e per occhi, verdi
giade lucenti!–
–Verdi!?! Oh, non riesco proprio a immaginarmele!–
Cerco di immaginarmele anche io. Donne dai capelli come nuvole di
fiamma, dagli occhi di giada… per un attimo, provo a sovrapporre il
ricordo del mio riflesso sull’acqua a questa immagine. Il mio volto… è
così… banale. La luce nello sguardo e il sorriso di Rai’an­sama mi raccon­
tano della bellezza di queste dee viventi meglio di quanto la mia fantasia
possa fare. Il fatto che mi abbia anche solo sfiorato l’idea di potermi para­
gonare a loro è… patetico. Abbasso lo sguardo, e poi cerco la donna più bella che conosca: Midori.
E mi chiedo se, almeno lei, potrebbe reggere il confronto. La bocca e gli
occhi sono aperti nel sentire il racconto di Rai’an­sama; sembra rapita
dalla fantasia di questa terra lontana, abitata da persone dai capelli fiam­
meggianti.
Rai’an­sama continua a raccontare a Kobo della terra dei suoi antenati.
Sembra che sia davvero felice; sembra così sereno e allegro, e questa
anziana donna è così contenta di ascoltare queste storie… il mio sguardo
incrocia gli occhi di Jirou; anche lui sorride, seduto con la schiena appog­
giata alla parete, abbracciando la sua vecchia spada. La deferenza che
mostra per Rai’an­sama è grande, ed è ovvio che per lui è difficile accet­
161
tare la sua natura umana, ma la sincera cordialità che mostra Rai’an­sama
nei confronti della gente comune sembra aprire una breccia nel suo
distacco.
D’improvviso, si sente bussare. Jirou scatta in piedi, e Rai’an­sama
smette di parlare.
–Oh, che strano. Chi sarà mai, a quest’ora?– si chiede Kobo, mentre si
alza fra gli oh­issa, e raggiunge il pannello, scendendo dall’hiroma e infi­
landosi i sandali.
–Chi è?– chiede senza aprire.
–Kiyomi.– La voce è quella di una donna d’acciaio, femminile ma bassa, decisa e
ferma.
–Oh, Kiyomi­sama!– Kobo apre il pannello con mani tremanti, e si
piega in un profondo inchino.
Oltre la soglia, vestita negli abiti di una kannushi, Kiyomi­sama proietta
il suo sguardo nell’umile casetta di Kobo. È alta e snella, pur nell’ampio
kimono di seta color pesca, coperto da ricami di bianchi fiori d’arancio. I
lunghi capelli, sciolti, voluminosi e crespi, a tratti neri come il profondo
della notte, a tratti bianchi come neve appena posata, nel fioco azzurro
dell’ultimo imbrunire, sembrano risplendere di luce propria. Dalle tempie
scendono due cordicelle bianche, che pendono da un filo che gira attorno
alla testa, sulle quali sono stretti dei piccoli nodi a intervalli regolari; è il
simbolo della sua consacrazione ai kamii.
I suoi occhi, incastonati in un volto tagliente, si posano Rai’an­sama.
Penso “si posano”, ma avrei fatto meglio a pensare, “penetrano”. A fatica,
mi giro verso di lui, e leggo la sua sorpresa. Passa il tempo di molti respiri, tanto che Kobo inizia a lamentarsi per il
dolore alla schiena, che è ancora china, ma Kiyomi­sama non accenna a
distogliere lo sguardo. Né lo fa Rai’an­sama.
Riluttante, Kiyomi­sama, lentamente, volta prima il viso, poi gli occhi
verso di me.
–Voi due miko. Venite.– ordina, e senza attendere si gira e si allontana
verso la strada.
Vicino a me, Midori si alza e la sento iniziare a dire: –Ma chi si crede
di…– ma con un gesto le intimo di non finire la frase. È una alta sacerdo­
tessa; le dobbiamo rispetto.
Mentre raggiungo Kiyomi­sama, in piedi lungo la strada poco più
avanti, la voce di Rai’an­sama mi giunge all’orecchio, come se mi sussur­
rasse; è la sua macchina per parlare da lontano. Me ne ero completamente
scordata, e salto per la sorpresa.
162
–Cercate di capire cosa vuole.–
–Sì…– rispondo piano, ma non so se lui mi ha udito. Midori annuisce.
–Se c’è qualche problema, avvicinate un dito all’orecchio e chiama­
temi.–
Ah, giusto, bisogna toccare il gioiello. Kiyomi­sama non ci dà nemmeno il tempo di inchinarci:
–Dovete lasciare il villaggio immediatamente.–
–Kiyomi…sama?–
–Mi hai sentita. Dovete andarvene subito.–
–Kiyomi­sama… è già notte!–
–Questo non mi riguarda. LEI non vi vuole. Soprattutto lo straniero.
Dovete andare via.–
–Mi scuso per l’impudenza… ma chi è questa donna che non ci vuole?–
–La Regina.–
La risposta mi gela. Fisicamente. Ho un brivido freddo lungo la schiena,
e mi torna alla mente il jaki che ho sentito oggi. Midori indietreggia di un
passo.
–Noi… non abbiamo nessuna intenzione malvagia… vogliamo solo pas­
sare qui la notte…– ma so che è una mezza menzogna. E so che anche
Kiyomi­sama lo sa.
Nell’orecchio, la voce di Rai’an­sama mi sussurra: –Ho sentito Douzen;
mi ha detto che la situazione è delicata. Qualsiasi cosa ti dica, cerca di
assecondarla.–
Annuisco senza rendermene conto.
Devo reagire.
–Kiyomi­sama, io sono Kaori, miko anzia…–
–Non mi interessa chi tu sia, devi…–
–E invece mi ascolterai!– grido. Il suo sguardo è insostenibile, ma io lo
sostengo lo stesso.
–Io sono Kaori, miko anziana del santuario di Koumon. Servo i kamii. E
se necessario, li combatto.–
Ora è Kiyomi­sama quella gelata. –Piccola miko impudente…– prova a
iniziare a dire, ma non glielo permetto.
–Noi resteremo qui stanotte. Domani al levar del sole, proseguiremo il
nostro viaggio, e non sentirai più parlare di noi.–
–E se te lo impedissi?–
–Allora, ti combatteremo.–
163
Lo sguardo dell’alta sacerdotessa mi inchioda a terra. Mi guarda dritta
negli occhi, ma… non è odio, non furore quello che leggo. È… commise­
razione.
La mia testa si fa pesante. Le tempie pulsano. Inizia quella sensazione…
quella sensazione di malvagità che conosco bene, e che combatto spesso, e
che non avevo mai sentito forte come oggi. Ma non indietreggio. Chiudo gli occhi. Inspiro profondamente. Rievoco l’immagine del
mikoshi di Touga­sama, e la morsa che mi attanaglia si allenta. Ma ora ho
un’arma ancora più forte; ancora un respiro, e nella mia mente si forma
l’immagine di un kamii ancora più potente: il volto sorridente di Rai’an­
sama.
Apro gli occhi, e non riesco a nascondere un accenno di sorriso, mentre
restituisco lo sguardo alla sacerdotessa. La sensazione è sparita.
Lei sembra sorpresa. E subito dopo, indignata, forse per il mio sguardo
di sfida, forse per il mio sorriso.
–…E sia, stupida miko. Il mio era un avvertimento. Sei tu che hai scelto
il tuo destino.–
E così dicendo, si gira così di scatto che i suoi capelli crespi quasi mi
sferzano il volto. Ma non le lascio muovere più di due passi.
–Kiyomi­sama.–
Lei si ferma, e senza rispondere, si gira appena per guardarmi di sbieco
con la coda dell’occhio.
–… il mio nome è Kaori. Del santuario di Koumon. Non dimenticarlo.–
La sacerdotessa scoppia a ridere, scuote la testa e riprende il suo cam­
mino.
Lo strano matsuri (M)
Ecco… adesso ho paura. Davvero paura. Quando vedo il sorriso vitto­
rioso sul volto di Kaori, sono sempre tranquilla, ma stavolta no. Quella
sacerdotessa, quella kannushi mi ha spaventata a morte. E chi è questa
Regina di cui parla? Sarà lo spettro di Yamato­to­tohi­momoso­hime?
Ahh, non ci capisco niente, so solo che voglio andar via di qua. Non
subito. Prima.
In un angolino della mia testa riecheggia la frase “piccola miko impu­
dente…”; in genere lo dicono a me. Stavolta è toccato a Kaori, ma l’idea di
prenderla in giro si affaccia appena, mi fa un salutino e scappa via, spaven­
tata come tutte le altre idee che mi schizzano per la testa.
164
Come siamo sulla soglia della casa della vecchia, il sorriso sul volto di
Kaori scompare. Un profondo sospiro, ed eccola spalancare il pannello.
Con aria grave, annuncia:
–Rai’an­sama, affila quelle spade. Ne avremo bisogno.–
–Eh!?!– sfugge un fiato a Rai’an.
–Kiyomi­sama è stata irremovibile. Ci ha ordinato di andarcene subito.–
Kobo, seduta di fronte a Rai’an, dall’altra parte del focolare, impallidi­
sce e si accascia. Ho quasi paura che le prenda un colpo, ma si sostiene
appoggiando una mano sul tatami.
–Quella strega…– sibila. E su questo siamo d’accordo, vecchia.
–Kobo?– Kaori la invita a sputare il rospo.
–Oh, io… no… ecco…–
Rai’an attraversa il tatami sui talloni, e si inginocchia di fianco alla vec­
chia.
–Kobo, c’è qualcosa che vuoi dirci?– le chiede piano, sfiorandole
appena una spalla.
La voce calda dello straniero, e i suoi occhi del color del cielo
d’autunno, scioglierebbero il ghiaccio della Via del Nord. Sono certa che
lui non se ne rende conto, usa le sue armi in modo troppo naturale e inno­
cente. Ma la vecchia se n’è già resa conto da un bel po’. Guarda lontano,
turbata, e non è per la paura della strega.
–Beh, io… non so se dovrei parlarne…–
Ma il tocco sulla spalla si fa più deciso, e le vecchie gote si tingono di
un pallido rossore.
–Oh, ma che importa!– sbotta, e dà finalmente fiato alla bocca sdentata.
–Da quando la vecchia Kiyone è morta, è andata sempre peggio. Prima
Kiyoha, e ora questa Kiyomi… i Matsuri sono sempre più indecenti.–
–I Matsuri?– chiede Kaori.
–Sì… per rendere omaggio alla hime…–
Mi torna il mente il discorso del capo villaggio. E il jaki che ho sentito
questo pomeriggio… e le chiedo: –Kobo, è vero che prima che arrivassero
queste Kiyo­qualcosa, tutti gli anni spariva qualcuno?–
–Oh, ma che vai dicendo? Non sparivano, scappavano via!–
–Cosa!?!–
–Sì, e poi mica tutti gli anni. Soprattutto chi aveva i campi dalle parti
della tomba della hime… qualcuno ha mollato tutto e se n’è andato a Saku­
rai. Un paio si sono fatti monaci, mollando mogli e figli. Ricordo che tre
sono impazziti; Mononobe, Taku e Sasamasa.–
–Impazziti? E come?– le chiedo.
165
–Il povero Mononobe si mise a correre urlando nei campi di notte. Non
ci fu verso di fermarlo, ci vollero quattro uomini fra i più forti! Dovettero
legarlo, ma lui non mangiò più nulla e morì due giorni dopo!–
–Oh, che stranezza…–
–E Taku, sapete… Si era messo a gridare cose senza senso. Qualcosa di
un palazzo di legno su pali alti come pagode… diceva che doveva tornare
nel suo palazzo, ed è sparito. Sua moglie l’ha cercato per giorni, poverina.
Alla fine, l’ha trovato Sasada, in un fosso proprio dietro alla tomba della
hime.–
–Anche questo è proprio strano…–
–E poi, Sasamasa… lui è proprio sparito senza lasciare traccia…–
–Kobo, – la interrompe Kaori; non è da lei interrompere, ma capisco che
non abbiamo molto tempo per le vecchie storie dei matti del villaggio.
–…questi matsuri… cosa fa Kiyomi­sama di preciso?–
–Oh, non lo sa nessuno!–
Io e Kaori ci scambiamo uno sguardo perplesso. In genere, i matsuri
sono feste a cui partecipa tutta la gente del paese.
–Ma come, – chiede Kaori, –non fate una processione tutti insieme?–
–No; Kiyomi­sama prende degli uomini che sceglie lei stessa e li porta
alla tomba, e vieta a tutti di avvicinarsi. Quattro, cinque, anche sei uomini
giovani e forti!–
Mi intrometto: –E nessuno ha parlato di quello che fanno? Non ci credo
che tutti abbiano tenuto la bocca cucita…–
–Io ho chiesto a Morobe e Tokoyo, e quasi mi prendono a pugni!–
–Davvero?–
–Ma Shiko, la moglie di Katsuya, che è anche la sorella di Tomoyo,
sapete… forse l’avete notata anche voi, quella che si lascia sempre la
fascia del kimono mezza slacciata, così quando si china, si fa vedere dagli
uomini che lavorano nei campi… che scostumata! Beh, insomma, Shiko
mi ha detto che ha fatto di tutto per farsi raccontare quel che era successo
da suo marito.–
–Scommetto che ha trovato gli argomenti giusti per convincerlo…–
ammicco alla vecchia.
–E invece no! Alla fine, mi ha detto che Katsuya le ha raccontato che
non si ricorda nulla. Lui le ha detto che stavano in cima alla tomba;
Kiyomi­sama aspetta che esca la luna piena, e si mette a cantare… e poi lui
si è svegliato in fila con gli altri giù, davanti al tori­i. Come c’è arrivato, ha
giurato a Shiko di non saperlo.–
166
–Non ho mai sentito di un matsuri del genere…– sussurra Kaori, quasi a
sé stessa.
–Se volete saperla tutta, secondo me quella Kiyomi è una poco di
buono, e gli uomini tengono la bocca chiusa perché a loro sta bene così!
Portare degli uomini giovani di notte chissà dove…–
Devo ammettere che l’idea ha sfiorato anche me.
Rai’an ha ascoltato il racconto della vecchia molto attentamente, in per­
fetto silenzio, quasi senza batter ciglio. Ora si accovaccia sul sedere,
abbracciando le ginocchia con un braccio, sfiorandosi il labbro inferiore
con il pollice della mano destra. Sembra molto assorto. Il suo silenzio
assorbe ogni suono della stanzetta, anche il fuoco smette di scoppiettare.
–Kaori…– quasi sussura.
–Rai’an­sama?– quasi sussurra anche Kaori.
–Dobbiamo agire stanotte.–
Ecco, lo sapevo. Sospiro. Un’altra notte all’addiaccio. Poi ci ripenso. Mi
sono detta che volevo andar via subito. Eccomi accontentata. Mi scappa un
sorriso: non sono mai contenta di nulla!
Un momento. Agire…? Cosa significa agire? Non mi trattengo: –Rai’an, non vorrai tornare alla tomba …
stanotte?!?!– –Midori!– mi frusta Kaori con lo sguardo, –Mostra rispetto!–
Oh, mi sono dimenticata il sama! Prendo il fiato per chiedere scusa, ma
le parole mi escono senza che possa fermarle: –Non ti è bastato oggi?
L’abbiamo tenuta lontana a stento, e siamo stremate! Non ce la possiamo
fare, di notte, per giunta! È una follia!–
–Midori!– grida Kaori, paonazza, ma la ignoro. Guardo Rai’an. Non
può chiedermi questo. Ma lui mi fissa, con l’aria di un bimbo che chiede
un dolcetto, e poi si avvicina gattonando, e si siede sulle ginocchia proprio
di fronte a me. Ah, vorrei distogliere lo sguardo, ma non posso. Vorrei respirare, ma
non posso fare neanche questo.
–Midori… so che sarà faticoso… ma tu sei la miko più brava di tutto il
Giappone, non è vero?–
No, no, e ancora no! Grido nella testa, ma la mia bocca dice piano: –
Sì…–
–E, allora, mi aiuterai anche stavolta?–
Scordatelo, levatelo proprio dalla testa, là, di notte, io non ci torno. Lo
penso tanto forte che stavolta credo di riuscire a dirlo, e invece, ancora: –
Sì…–
167
–Brava, Midori… vedrai, sarà facile…– e mi poggia una mano sulla
guancia; appena un istante, appena mi sfiora.
Dopo avermi inchiodata ben bene al tatami, si gira verso Kaori. –So che siete stanche, ma vi darò una medicina che vi aiuterà.–
Kaori abbassa lo sguardo, e pudicamente risponde: –Farò ciò che
Rai’an­sama mi chiede di fare.– Come gli occhi di Rai’an si spostano dal suo volto, Kaori mi lancia una
sola occhiata di fuoco. Non so che dire o che fare, così incasso il fuoco di
Kaori e non dico nulla.
La tomba di Himiko (R)
I ragazzi, dietro di me, stanno tremando, e non è colpa dell’aria fredda e
umida delle risaie di notte.
Prima di partire, mi sono preso una decina di minuti per affilare le
nostre nuove spade. Non serviranno, ma quando ho consegnato a Jirou la
sua Oborozuki, è stato come dargli una dose di stimolanti come quelli che
somministrano alle truppe d’assalto prima dei combattimenti. E l’idea che
io e lui dividiamo le spade sorelle, quasi a sancire una fratellanza d’armi,
gli ha fatto scordare la paura degli spettri.
Alle ragazze ho iniettato un tonico anfetaminico; dovrebbe tenerle in
piedi per almeno un paio di giorni. Erano davvero stremate, soprattutto
Midori. È un palliativo, e non farà loro bene, ma non potevo fare altro nel
bel mezzo del villaggio; e comunque, ho intenzione di fermarmi un po’,
dopo stanotte, per permettere loro di recuperare le forze… e capire cosa è
successo al nucleo centrale del calcolatore.
Avrei preferito attendere e studiare la situazione con calma, ma il rac­
conto di Kobo, e la visita di questa Kiyomi… anche quel paio di frasi che
ho scambiato con Douzen… tutto mi fa pensare che, in qualche modo, gli
eventi strani di cui parla la gente di qui abbiano qualcosa a che vedere con
la presenza del nucleo nel tumulo. Se è così, è meglio agire subito.
–Lo senti?– Kaori, allarmata, chiede d’improvviso a Midori.
Midori non risponde; non la vedo, ma posso immaginare le ciocche di
capelli lasciate pendere dalle tempie ondeggiare, mentre annuisce. Non ho
idea di cosa stiano parlando, ma è chiaro che sono suggestionate.
Beh, devo ammettere che il posto è sinistro. Ho passato quasi tutta la
vita fra le latte di stazioni spaziali, navi stellari o istallazioni planetarie. Per
qualche anno, ho vissuto a New Rome, la “capitale” di Marte; ma è ancora
una serie di basse cupole pressurizzate che filtrano la già fioca luce solare,
e di notte sono illuminate a giorno. La terraformazione non è ancora com­
168
pleta; piante e microorganismi sono già in grado di vivere sulla superficie,
e il campo magnetico artificiale protegge l’atmosfera dalle radiazioni
solari, ma per rendere l’aria respirabile ci vorranno almeno altri ottanta,
forse cento anni. Mi sono sottoposto ad allenamenti intensivi per scongiu­
rare la possibilità di soffrire di agorafobia… ma trovarsi in una notte di
mezza luna su una stretta strada fra le risaie e i boschi dell’antica Terra…
sulla testa nient’altro che una sottile pellicola di gas… faccio fatica ad
ammetterlo, ma innervosisce anche me.
E poi, tutta questa vita… troppa. Mi arriva il canto di un uccello not­
turno, a cui non so dare un nome. E questi insetti; i miei scudi non sono
tarati per tenerli lontani; l’idea dei batteri che albergano su di loro, e in
loro, mentre mi sbattono sulla pelle, non mi tranquillizza affatto.
E la paura ancestrale delle notti all’aperto non è così infondata. Lo sce­
nario di essere assaliti da un branco di lupi, da un orso sceso dalle monta­
gne in cerca di cibo, o da un cinghiale, o di calpestare un serpente vele­
noso… o addirittura, incontrare una banda di briganti… tutte queste cose
non sono solo il frutto di una fantasia remota, sepolta negli strati della
memoria collettiva del genere umano. Qui, ora, sono possibilità del tutto
concrete.
Ma no, sto solo cercando di razionalizzare. Il mio sistema immunitario è
stato potenziato e qualsiasi batterio possa essere inoculato dagli insetti che
mi stanno sbattendo sul viso sarebbe distrutto in pochi istanti. Posso neu­
tralizzare le tossine dei crotali più velenosi in meno di un minuto. Un cin­
ghiale in carica, potrei sollevarlo e scagliarlo a cento metri con la punta
delle dita. E un branco di lupi… potrei spazzarlo via con un gesto delle
mani. Certo, posso capire i miei compagni, ma io… io non capisco… cos’è
quest’ansia.
Arriviamo alla base del tumulo. La massa scura della densa, disordinata
vegetazione incombe ripida su di noi. Dalle colline a est scende una folata
di vento carica di umidità, che nonostante il freddo, si appiccica alla pelle.
Rabbrividisco. Attivo il visore notturno. Non c’è niente di strano nella collinetta artifi­
ciale… niente, a parte il fatto che gli alberi sembrano cresciuti fuori da
qualsiasi controllo. I tronchi sono inclinati, le chiome sono basse, gonfie e
fitte, e quasi non ci sono alberi della stessa specie gli uni accanto agli altri.
Principalmente, sono pini selvatici, qualche ciliegio giapponese, anche
qualche basso cedro… vedo una quercia… e il sottobosco sembra nello
stesso stato. Felci, macchia, funghi e tutto quanto sembra cresciuto senza
un minimo ordine. Come biologo, la cosa mi incuriosisce. Ma l’impres­
169
sione che ne ricavo guardando l’insieme va oltre la curiosità scientifica. È
come se la natura si fosse precipitata a coprire, alla benemeglio, quel corpo
estraneo; sì, ecco, come gli anticorpi che aggrediscono un tumore. –Rai’an­sama…– sussurra Kaori. Lo stridere del metallo di Oborozuki
lungo il fodero mi fa trasalire. Mi volto; Jirou guarda verso sud, verso il
villaggio che abbiamo appena lasciato; davanti a lui, la punta della spada
riflette il pallido bagliore della luna.
–Ci serve un po’ di luce.– dico; sollevo la mano sinistra e apro gli emet­
titori. Un fascio di luce lattiginosa si insinua fra le le basse fronde, le felci
e le foglie del fitto bosco. Sento il grido soffocato di Midori. Temo che la
luce innaturale, spettrale, trasmetta ai miei compagni più timori che cer­
tezze. Ma almeno, permetterà loro di vedere dove mettere i piedi.
Come accenno a muovermi, Midori dice piano: –Io resto qui.–
Kaori smette di respirare. Jirou è immobile. Sospiro. –Va bene…– sussurro, –non c’è motivo che veniate anche voi.
Anzi, forse è meglio se rimanete qui a fare la guardia. Se si dovesse avvici­
nare qualcuno, fatemelo sapere–, e così dicendo, indico l’orecchio con un
dito. Kaori annuisce.
Poso il bagaglio e spengo la luce. L’improvvisa oscurità spaventa
Midori, che suo malgrado, scatta e si aggrappa al braccio di Kaori. Mah, certo che la suggestione è davvero una brutta bestia! Sono quasi
riusciti a contagiare anche me. Non visto, nella penombra, sorrido e scuoto
la testa. E pensare che sono uno scienziato… Inizio a salire sulla collina. Il tumulo delle bacchette, come molti altri
della prima epoca Kofun, è formato da una parte a pianta triangolare inne­
stata in una a base circolare, con una forma che un tempo era chiamata “a
buco di serratura”. Questo pomeriggio ho analizzato la parte triangolare,
alla cui base c’è il tori­i eretto dalla gente del posto; ma sapevo che era
improbabile trovare la camera sepolcrale da quella parte. L’ingresso è in
genere nella parte a pianta circolare, più o meno a metà altezza. Tiro a
indovinare; probabilmente è verso est, rivolto al sorgere del sole, o forse in
direzione del monte Miwa, verso sudest. Addentrarsi nella macchia è fati­
coso, e dopo un minuto sono salito per non più di venti metri, forse meno.
Per fortuna, mano a mano che avanzo, la macchia sembra diradarsi. Il ter­
reno è compatto e allo stesso tempo scivoloso; rischio di cadere più volte.
Inciampo spesso sulle lastre di pietra usate per preservare la forma della
collina dall’erosione. In origine formavano gradoni in piano, ma ora sono
sconnesse, e molte sono scivolate fuori posto.
170
Finalmente, lo scandaglio a risonanza rileva un’apertura a trenta metri
dal posto in cui mi trovo; avevo quasi indovinato. Faticosamente, mi
arrampico fra sterpi e arbusti. Arrivato, non vedo nessuna differenza
rispetto al resto del terreno; c’è anche un albero di ciliegio che cresce pro­
prio sopra l’ingresso.
Apro gli emettitori su entrambe le mani; carico gli anelli supercondut­
tori e attivo i generatori di gravitoni. Il terreno davanti a me si solleva,
assieme alle rocce che, fino ad ora, sigillavano l’ingresso. Dall’apertura
oscura esce un tanfo che non avevo mai sentito prima. Chissà quali funghi,
muffe e batteri si sono sviluppati in quasi mille anni, in questo ambiente
scuro e umido.
Sono costretto ad abbattere alcuni alberi alla mia destra per posare la
massa di terra e roccia che ho sollevato. Il rumore di legni spezzati si sente
fin da giù, e dopo un attimo, mi giunge la voce di Midori.
–Rai’an… sama, tutto bene?–
–Sì, grazie, Midori. Ho trovato l’ingresso. Sto entrando.–
Midori non risponde.
Dentro, gli infrarossi non sono di molto aiuto, e nemmeno il visore not­
turno. Uso la luce dei miei emettitori e proseguo. Il condotto, formato da
pietre ben squadrate dal lato di trenta centimetri, è largo poco meno di due
metri, e appena più alto. Aria a parte, è opprimente. Il pavimento è scivo­
loso, ma per fortuna tende a salire. In alcuni kofun, tende a scendere, e que­
sto ha reso la camera sepolcrale una pozzanghera eterna.
Come mi aspettavo, la camera è appena più ampia del corridoio. C’è un
sarcofago appoggiato alla parete destra; è alto sì e no un metro, e la base è
circa un metro e settanta per sessanta centimetri. È tipico delle tombe più
antiche: nei tumuli dell’ultimo periodo, si preferiva posare la salma sulla
terra nuda, lasciata emergere dal pavimento di lastre di pietra, proprio a
significare il ritorno del corpo alla madre terra.
Sparsi sul terreno, senza ordine apparente, vedo vasi che dovevano con­
tenere offerte votive, e alcuni tessuti, in origine probabilmente abiti, ormai
completamente marciti; ci sono anche alcuni semplici gioielli in giada levi­
gata; il più notevole, una collana di magatama, un gioiello in pietra dura a
forma di dente di animale, a ricordare le antiche collane fatte con denti
veri, un potente talismano nello sciamanesimo del Giappone preistorico.
Il nucleo deve essere nel sarcofago.
Faccio appena in tempo a pensarlo che una voce mi fa trasalire.
–Vattene subito!–
171
Non sapevo che il cuore potesse battere tanto forte. Né che l’adrenalina
potesse inondare i muscoli tanto velocemente. O forse lo sapevo, ma
saperlo e provarlo sono due cose diverse. Per fortuna, i miei impianti non
mi danno retta, altrimenti mi sarei schiantato contro il soffitto, o contro
una parete, e avrei potuto farmi davvero molto male.
In compenso, grido.
La voce, femminile, stridente, implorante e allo stesso tempo perentoria,
si trasforma; scende di ottava, si modifica, diventa bestiale.
–Maledetto! Hai profanato il mio sonno, e adesso devi subire il mio tor­
mento! Maledetto!–
Mi giro verso la voce.
Davanti a me, una figura tremolante, trasparente, il volto di una giovane
donna, antico, solenne, incoronato con un filo di perle, fra i lunghi capelli
fluenti, pendagli di giada, sul petto due collane di magatama, un kimono
dalla foggia semplice eppure nobile…
–Vattene!– muove un passo verso di me l’eterea figura, minacciosa.
I bordi della mia vista si fanno sfumati. Una nebbia bianco latte si pone
fra me e il fantasma. La testa si fa pesante, il respiro faticoso, sento i
muscoli rilassarsi; cadrei, ma gli impianti nelle mie gambe mi sostengono
come fossi un burattino senza fili poggiato su un piedistallo.
Che sta succedendo?
Mi fischiano le orecchie; una vibrazione profonda mi arriva dalle
gambe, e dalla pelle della testa. Ho paura.
Vorrei scappare, ma le mie gambe non rispondono. Sento che sto per
perdere conoscenza… tutto si fa buio…
Programma di emergenza. Un lampo rosso si pone davanti ai miei
occhi; le macchine mi costringono a rimanere sveglio, iniettando adrena­
lina direttamente nel mio cervello. Il mio campo visivo si riempie di moni­
tor. Rapporto danni. Un monitor viene sollevato alla massima priorità;
indica un disturbo neurologico localizzato alla base del mio cervelletto. Analisi minaccia. Si sovrappone un monitor a priorità ancora maggiore.
Il sistema di analisi automatico individua un attacco a base di infrasuoni e
di onde elettromagnetiche ad alta intensità.
Dico a me stesso: Attivare schermatura elettromagnetica. Compensare
l’infrasuono con onda in controfase.
172
Docilmente, le mie macchine eseguono gli ordini. Rapidamente, il buio
che attanaglia i miei occhi si dirada, come onde di d’inchiostro, come nubi
oscure che fuggono dalla luce. Oltre i monitor, ora trasparenti, vedo il
volto sconcertato dell’apparizione.
–… ma come…?–
Non le do retta. Mi dirigo al sarcofago.
–No! Fermo!– Grida, tanto forte da farmi male alle orecchie.
L’apparizione mi fluttua davanti, frapponendosi fra me e il sarcofago.
–Vattene!– mi intima ancora. Il suo volto si contorce, le sue unghie pun­
tano dritte verso la mia faccia; i suoi occhi roteano, si sgonfiano, mi guar­
dano da orbite ora vuote, la pelle si scioglie cadendo dalle guance, i denti
escono fra le labbra che si ritirano, e la bocca dello scheletro si spalanca in
un grido silenzioso.
–Oh, piantala!– dico, e attraverso l’immagine senza battere ciglio. Mi giunge un’altra voce. Stavolta è Jirou.
–Rai’an­sama, sarebbe opportuno che tornassi non appena ti è possibile;
abbiamo qualche problema.–
–Credimi, Jirou, in questo momento io ne ho di più.–
Non sento altro.
Infilo le dita sotto al coperchio di pietra, e la figura riappare davanti a
me, con il solo busto che spunta dal sarcofago, il volto ora di nuovo vivo e
nobile.
–Straniero… non farlo.– il nobile busto che ho di fronte mi chiama. Il
suo sguardo si fa via via più supplichevole.
–Ti prego… non … non guardarmi… così… ti prego… – il volto dalle
sembianze di una giovane donna … quasi una bambina … si piega nella
smorfia del pianto mentre mi implora: –non umiliarmi così!–
Il sentimento che fa tremare le labbra dello spettro è una sofferenza che
non può essere simulata. Quella cosa che sta di fronte a me non sta facendo
finta. Non sta mentendo.
–Scusami…– abbasso lo sguardo. –… so che quello che sto facendo non
è bello…–
–No… ti prego, no…– ora lo spettro piange senza vergogna.
–… ma devo farlo. Presto, lo capirai anche tu.–
No… mima con la bocca, ma il singhiozzo del pianto le impedisce di
parlare.
Sollevo di scatto la lastra.
173
Lo scheletro di Yamato­to­tohi­momoso­hime giace davanti ai miei
occhi. La veste funebre in cui fu avvolta si è fusa con le sue ossa. Tra le
dita delle mani intrecciate sul petto, il nucleo centrale pulsa di una luce
bianca che proietta nella camera grigia scintille di arcobaleno. La luce si
tinge piano piano di rosso; gli indicatori sui monitor mi comunicano che
l’attacco è cessato. Tenendo sollevata la lastra col braccio destro, tocco la superficie del
nucleo con l’indice della sinistra. La sua luce muta rapidamente in rosso
cupo.
–Computer: identificazione.–
–Pronto– risponde la stessa voce dello spettro, ma stavolta senza nessun
segno di emozione. E non in Giapponese antico, ma in Terrestre standard.
–Ryan Sullivan.–
–Identificazione positiva. Scansione genetica positiva.– La luce del
nucleo diviene azzurra.
–Ordine: modalità di comando.–
–Modalità di comando, eseguito.–
–Sospensione.–
–Sospensione, eseguito.– La luce scompare completamente, tranne una
piccola scintilla, come una tremula candela, che dà al nucleo un aspetto
traslucente.
Aprendo gli attuatori meccanici che si prolungano dal mio avambraccio,
scosto le ossa delle dita quel tanto che basta per sfilare il nucleo. È leggero
e tiepido. –Riposa in pace, regina.– È stupido, ma sento che devo dirlo, prima di
posare delicatamente il coperchio del sarcofago.
Souhei (K)
–Rai’an­sama, non vorrei metterti fretta, ma qui le cose si stanno met­
tendo male.– Mi avrà sentita? Midori mi stringe la mano tanto forte da farmi male; a
malincuore, mi divincolo e incocco una freccia. Jirou si stringe al mio
fianco, coprendo col suo corpo Midori, la punta della spada minacciosa­
mente tesa in avanti.
Kiyomi­sama mi trafigge con lo sguardo, da cinque o sei passi di
distanza; anche nella penombra della notte di mezza luna posso vedere il
bagliore dei suoi occhi fissi su di me. Ma anche lei, deve sicuramente
vedere la punta della mia freccia.
174
Dietro di lei trenta, o forse quaranta uomini. Tutti contadini di Shiba;
sono armati di torce, bastoni, zappe e pale. La testa mi scoppia; quasi non riesco a tenere lo sguardo fisso su
Kiyomi­sama. La forza maligna che infesta questo luogo si sta sfogando
contro di me con tutto il suo potere, ora che non posso tenerla a bada con i
miei norito.
–Allora, piccola stupida miko, – è il saluto di Kiyomi­sama, –così avre­
ste dovuto lasciare il villaggio all’alba…–
–C’è stato un cambio di programma…– la lingua incespica mentre
provo a far uscire le parole. Il ghigno di Kiyomi­sama biancheggia bef­
fardo.
–Ed eravate solo di passaggio…–
–Infatti… non ci … fermeremo … a lungo … ­ tirare fuori le parole è
sempre più faticoso. –Oh, e invece vi fermate qui. Molto, molto a lungo. E dimmi, stupida
miko, dov’è lo straniero?–
Lo vedrai presto, penso, ma non riesco più a parlare. Dietro di me, sento
Midori aggrapparsi alla mia veste. La punta della spada di Jirou ondeggia.
Non so quanto ancora potremo resistere.
Kiyomi­sama muove un passo, e gli uomini dietro di lei la seguono,
come fossero una cosa sola.
–Ferma!– Grido e tendo l’arco.
–Cosa credi di fare con quello stecchino, stupida miko?–
–Ucciderti … se fai … solo … un passo.–
Il sorriso beffardo di Kiyomi­sama svanisce. A quanto pare, il suo
potere non arriva a fermare il volo delle frecce. Ora sono io che sorrido.
–Sai… mi mancano … le forze …–
–Oh, ma davvero?– –Già… quasi non riesco … a tenere la freccia … dovesse partirmi, …
pregherò per la tua … anima … –
La sacerdotessa si irrigidisce. Trattiene il fiato. La forza che mi attana­
glia si allenta un poco.
–Senti, stupda miko… –
–Kaori! Il mio nome… è Kaori … del santuario … –
–Di Koumon, sì lo so, non preoccuparti, lo scriveremo sulla tua tomba.
Adesso, perché non ci rendi le cose più facili? Ti prometto che la tua morte
sarà rapida e indolore.–
–Haha,– trovo la forza di ridere, –qualcuno dovrà scrivere … il tuo
nome… accanto al mio. Sarai la prima … a morire.–
175
Kiyomi­sama rimane immobile. Il mio respiro si sta facendo pesante, e
la vista inizia a sfocarsi. I suoni mi giungono ovattati, la mia stessa voce
rimbomba. E va bene, se deve finire qui, avrò la compagnia di una alta sacerdotessa
nel viaggio verso Yomi­no­Kuni, il Regno delle Ombre. Ispiro l’ultimo
fiato, e con le forze rimaste tiro la cocca più che posso. Kiyomi­sama sem­
bra aver capito le mie intenzioni, e vedo un’ombra di terrore passarle sul
volto. Quale modo migliore di morire, se non dopo una grande vittoria
come questa?
Ma d’improvviso, la morsa che mi afferrava svanisce. –Kaori­san!– Mi chiamano a una sol voce Jirou e Midori. –Se n’è andata…– dico piano. Se ne accorge anche la sacerdotessa, e gli
uomini dietro di lei ondeggiano e scuotono la testa. Poi si guardano l’un
l’altro, e si levano alcuni mormorii.
–Che cosa avete fatto?!?– grida Kiyomi­sama, la voce ora isterica.
–Quel che è giusto.– rispondo.
Dalla collina sopra di noi si sente uno schianto di massi smossi. Gli
uomini dietro Kiyomi­sama trasaliscono, alcuni cadono a terra. Lei rimane
immobile, e vedo, anche nella luce fioca, che impallidisce guardando in
direzione della tomba della hime. Deve aver realizzato quel che è appena
successo.
La voce di Rai’an­sama mi giunge dal gioiello poggiato sul mio orec­
chio: –Scusate, ragazzi; quassù ho finito. Allora cos’è questo grosso pro­
blema di cui parlavate?– Risponde Midori, che è l’unica con le mani libere.
–Qui c’è Kiyomi, con un mucchio di uomini, e non hanno buone inten­
zioni.–
–Kiyomi­sama– le ricordo.
–Sì, ecco… Kiyomi­sama.–
–Cerco di sbrigarmi, riuscite a tenerli a bada?–
I contadini recuperano l’equilibrio; quelli con le torce girano attorno a
Kiyomi, e quelli con i forconi si dirigono verso di noi.
Midori trema, ma trova la forza di rispondere: –Mi sa di no…–
D’improvviso, s’ode giungere dalla strada dietro la collina il rumore di
zoccoli al galoppo. Faccio appena in tempo a girare la testa verso quella
direzione che compaiono tre, cinque, nove … e più cavalli, con in sella i
souhei del Toudaiji.
Li vede anche Kiyomi­sama, e indietreggia di un passo, quasi inciam­
pando su un giovane contadino che regge una torcia, dietro di lei.
176
Come ci sono vicini, riconosco il capo delle guardie di Douzen­geika. –Buonasera, nobile miko.– Ah, stamattina ero solo una “donna”, eh?
–Buonasera, nobile souhei.– ricambio il saluto senza abbassare l’arco.
–Allora, che sta succedendo qui?– grida, e nel mentre i suoi cavalieri
spianano le alabarde verso i contadini.
Kiyomi­sama non risponde; non capisco che sia più sconcertata dalla
consapevolezza di aver perso il suo potere o dalla vista dei monaci guer­
rieri.
Rispondo io al posto suo: –Oh, nulla, nobile souhei. Eravamo nel mezzo
di una disputa teologica.–
Dietro di me, Midori scoppia in una breve, nervosa risata.
–Oh, capisco, nobile miko. Le dispute teologiche possono farsi molto
movimentate, di questi tempi.–
–Eggià.–
–E siete giunte a qualche conclusione?–
–Stavamo giusto arrivando alla buddità dei kamii.–
–Oh, argomento affascinante… e a quanto vedo, delicato… A proposito,
dov’è il kamii straniero?–
–Sarà qui fra poco.–
–Beh, non vorrei intromettermi in una disputa teologica fra nobili sacer­
dotesse, – lo sguardo del guerriero si posa freddo su Kiyomi­sama, –ma
devo proprio chiedervi di sloggiare.–
Lei lo guarda inespressiva, ma i contadini dietro di lei già stanno indie­
treggiando.
–Nobile sacerdotessa, non farmi scendere da cavallo. Sono stato sve­
gliato nel cuore della notte, e ti assicuro che questo mi mette di pessimo
umore. Allora, ve ne andate con le buone, o ci costringete a una notte di
veglia e di espiazione davanti al Grande Budda d’Oro?–
I contadini colgono la perifrasi e iniziano a correre alla rinfusa verso il
villaggio. Ma Kiyomi­sama rimane immobile. Balbetta qualcosa, alter­
nando lo sguardo fra me e il souhei. Poi il suo volto si china verso un
punto indefinito, da qualche parte verso la terra che mi separa da lei.
–Che cosa… avete… fatto?– chiede di nuovo.
–Quello che è giusto.– ripeto.
–Kaori!– sento la voce di Rai’an­sama giungere dai cespugli dietro di
noi. Fruscio d’arbusti, rami spezzati. –Tutto bene, Rai’an­sama.–
177
Il suo passo pesante si avvicina, ma la sua corsa rallenta. Come arriva al
mio fianco, intravedo le sue vesti strappate, piene di rovi e foglie.
–Rai’an­sama!– il souhei si butta giù da cavallo e si inginocchia.
–Genbei, grazie di essere venuti.–
–Servire Dounzen­geika è un onore.–
Rai’an­sama aveva parlato con Douzen­geika attraverso la sua scatoletta
proprio mentre uscivamo dal villaggio, ma non gli aveva chiesto aiuto.
Evidentemente, il monaco ha deciso comunque che era meglio mandare
qualcuno dei suoi.
–Kaori, puoi abbassare l’arco, adesso. Anche tu, Jirou.–
–Ho!– risponde il giovane riponendo Oborozuki nel fodero. Io lascio
andare la tensione dalle bracia, sospirando. Peccato, pensavo davvero che
sarebbe stato interessante discutere con Kiyomi­sama lungo la strada verso
Yomi­no­Kuni.
–Kiyomi… è così che ti chiami, vero?– Rai’an si avvicina alla sacerdo­
tessa.
Lei lo guarda fisso, sollevando una mano aperta verso di lui, quai a
implorarlo.
–Che cosa… hai fatto? Cosa hai fatto alla mia regina?– le sue guance si
velano di lacrime.
–Kiyomi, ascolta…– cerca di calmarla. Il suo tono è caldo e amiche­
vole.
–No!– grida nel pianto, –Non ti ascolterò, non ascolterò le tue parole
velenose. Che cosa le hai fatto?–
–È qui con me!– grida lui, e la raggiunge, prendendola per le spalle.
–È qui con me…– ripete piano. La sacerdotessa lo guarda a bocca
aperta.
–… sta solo dormendo. Non le farò alcun male.– –Non ti credo. Lei… lei aveva paura di te! Mi aveva detto che l’avresti
portata via!–
Rai’an­sama non risponde.
–Mi aveva detto… che avresti rovinato tutto…–
–Kiyomi…–
–No! Lasciami!– si divincola lei, e indietreggia, gli occhi infuocati.
Il souhei si alza, con fare minaccioso, e si affianca a Rai’an­sama.
–Basta così!– intima abbassando l’alabarda verso Kiyomi­sama.
–Tu sia maledetto!– sibila, e si mette a correre verso il villaggio.
–Ti troverò!– grida svanendo fra le foschie della notte.
178
Salendo sul Monte Miwa (M)
–Dovremmo cercare un posto per dormire.– fa Rai’an a Kaori. Non l’ho
mai visto così stanco. Anzi, a pensarci bene, non l’ho mai visto stanco. Io
invece mi sento frizzante! Sarà la paura che ho avuto, o la medicina che mi
ha dato prima, ma mi sento vispa come al mattino.
L’Ora del Cinghiale dev’essere passata da un pezzo. I souhei sono tor­
nati a casa loro; ci avevano chiesto se volevamo essere scortati, ma Rai’an
ha rifiutato. Peccato, cominciavano a starmi simpatici.
Kaori si guarda intorno, come per farsi venire un’idea.
–A quest’ora, non possiamo certo andare a cercare una locanda a Saku­
rai, e Nara è lontana…–
–E perché dovremmo dormire?– faccio io. –Avete sonno?–
–Midori, vorrei che riposaste un po’.– Rai’an si gira a guardarmi.
–Riposare? Io sono riposatissima.–
Jirou sospira. Anche lui ha l’aria molto stanca; mi ero dimenticata che, a
lui, Rai’an non ha dato nessuna medicina.
–Fidati di me, Midori, anche se non hai sonno è meglio se riposiamo un
po’.–
–Uffa.– Non mi va di dormire. Non dopo la paura che ho avuto. Se
dormo stanotte, avrò certo gli incubi, a ripensare a quella strega… e alla
forza che ci stava schiacciando. O ai contadini che volevano ucciderci.
Insomma, non mi va di dormire.
–Ad ogni modo, – fa Kaori, –Andiamo a Sakurai. Magari troviamo una
locanda ancora aperta.–
–Va bene…–
–Saremo lì prima che inizi l’Ora del Topo; se ci spicciamo forse anche
prima… ma è meglio fare il giro largo. Non credo sia il caso di passare da
Shiba, stanotte.–
Ci incamminiamo lungo i sentieri che attraversano le risaie. Si sta solle­
vando una densa nebbia ai nostri piedi che la fioca luce della luna tinge di
azzurro cupo. Fa paura. –Rai’an­sama?– mi avvicino a lui.
–Dimmi, Midori.–
–Questo posto continua a non piacermi… Lo spettro… l’hai scacciato
davvero?– Ho bisogno di sentirmi dire che va tutto bene.
–Non era uno spettro.–
–Eh?–
179
Anche Kaori si avvicina.
–Ragazze… scusate se non vi ho creduto. È stata una leggerezza che
cercherò di non ripetere.–
Kaori trasale. –Non ci hai creduto?!? Che significa?–
–Pensavo che … oh, non importa. Fatto sta che non mi ero accorto di
quello che stava succedendo, e del pericolo che stavamo correndo.–
Kaori guarda fisso Rai’an. Non riesco a capire cosa stia pensando, sem­
bra… sorpresa.
–Ad ogni modo, non era uno spettro.–
–Oh… allora era un demone?– gli chiedo. Lui mi sorride.
–Non proprio. Beh, comunque… ti fidi se ti dico che ora è tutto a
posto?–
–Ma come, Rai’an­sama non si fida di me e io dovrei fidarmi di lui?– e
faccio finta di mettere il broncio.
Lui ride.
–Vabbeh, tanto la strada è lunga. È tutta opera del nucleo centrale.–
–Eh?–
–La macchina che stavo cercando. Non ho ancora capito cosa sia suc­
cesso, ma si è attivata da sola ed ha iniziato a… comportarsi in modo
strano.–
Kaori lo guarda preoccupata. –È un problema?–
–Beh, ecco… io sono un bioantropologo, non un esperto di macchine di
calcolo. Cercherò di capirci qualcosa, ma non è proprio il mio campo di
studi…–
–Scusami, Rai’an­sama, ma… tu mi stai dicendo che la forza maligna
che sentivamo era questa tua macchina?–
–Sì.–
–Rai’an­sama… posso vederla?–
–Oh… beh…. sì, ma…–
–Ti prego, fidati di me.– Rai’an si ferma; ci mettiamo attorno a lui. Infila una mano nel kimono e
quando la tira fuori, una pallida luce gli illumina appena il volto. La macchina di cui parla è una specie di uovo di cristallo, tanto grande
da occupare completamente la sua grande mano. Anche nell’oscurità della
notte, è chiaro come se tutta la luce della luna fosse solo per lui. Ma il cri­
stallo non è trasparente; la superficie è lucida e liscia, ma dentro è pieno di
striature e fratture luminose.
–Posso toccarla?– chiede Kaori.
–Sì…–
180
–Midori, vieni anche tu.–
Mi prende per mano. So quello che vuole fare. Vuole cercare di capire
se c’è qualcosa di malefico attorno, o dentro, a quella cosa. Tocchiamo
insieme l’uovo che Rai’an tiene in mano, con la punta dell’indice e del
medio, e intoniamo…
–Kamii del cielo e kamii della terra…–
Le parole vengono da sole, quasi non ho bisogno di muovere la bocca.
–E Touga­sama, Signore della Luce della Sapienza…–
Questa è la parte che hanno aggiunto al nostro santuario; è quella che
preferisco.
–Se v’è malvagità in questo, sii la nostra guida…–
Il resto del norito fila via senza che quasi me ne renda conto. A ogni
parola, il mondo si fa più lontano, come se una realtà più vera si imposses­
sasse dei miei sensi. Ora vedo con gli occhi del mio spirito di kamii, e
quando sono così, la malvagità, per quanto tenti di nascondersi, non può
sfuggirmi.
Abbiamo finito. Kaori mi guarda, con aria interrogativa. So che lei non
ha sentito nulla. E nemmeno io. Scuoto semplicemente la testa.
–Rai’an­sama… non capisco.– dice al kamii straniero. –Come può un
oggetto sprigionare tanta malvagità senza essere esso stesso malvagio?–
–Oh… dunque… si tratta di un meccanismo di difesa.–
–Difesa?–
–Sì… come vi ho detto, non so proprio tutto su questa macchina, ma so
che è in grado di … dunque… non so bene come dirlo con parole che
conoscete, ma… insomma, di fare delle cose che possono far male alla
testa.–
–Ma questo spirito non si stava difendendo. Questo pomeriggio ci ha
aggredite!–
–Beh, a dirla tutta, questo suo… potere, non è pensato per difendersi o
aggredire. Serve solo per parlare con le altre macchine sulla nave. Deve
aver imparato a servirsene per difendersi.–
Rai’an riprende il cammino, e noi lo incalziamo.
–Ma Rai’an­sama…– gli chiedo io, –come fa questa macchina ad avere
uno spirito tanto forte?–
–È un’intelligenza artificiale.–
–Eh?–
–Dunque… è una macchina che pensa, più o meno come una persona.–
Kaori quasi lo strattona. –Ma non era una macchina per fare i conti? Ci
hai detto che era una macchina per contare…–
181
–Oh, ma anche il cervello che abbiamo in testa è una macchina per fare i
conti.–
Scoppio a ridere: –Allora la mia è rotta! So appena fare due più tre!–
–Mettiamola così. I pensieri sono conti; molto lunghi e complessi, e il
nostro cervello è fatto apposta per fare i conti dei pensieri, talmente in
fretta che non ce ne accorgiamo.–
–E questa… macchina per fare i conti… pensa come una persona?–
–Per molti versi sì… ma per altri, rimane sempre una macchina che fa i
conti.–
–E lo spirito?– chiedo. –Ce l’ha uno spirito?–
–Ma certo che ce l’ha!– risponde Kaori, quasi seccata. –Sai bene che c’è
uno spirito in tutte le cose. Figuriamoci se non c’è uno spirito in qualcosa
che pensa come una persona.–
–Eggià…–
–E poi… l’abbiamo sentito tutti, no?– Kaori guarda Jirou. Persino un
uomo, per di più un contadino, ha percepito assieme a noi la sua forza.
Jirou annuisce, ma non aggiunge altro.
Sto per fare un’altra domanda quando Rai’an si ferma di colpo. Poi
guarda alla sua destra, in direzione di Shiba; dovremmo aver passato il vil­
laggio da un po’, già si intravedono le sagome delle case di Sakurai in lon­
tananza…
–Rieccoli.– ci dice.
–Cosa?– chiede Kaori.
–Ci stanno cercando. La gente di Shiba.–
Ci immobilizziamo.
–Quand’ero nel tumulo non potevo vedere lontano, e poi… ero
distratto… ma adesso li posso vedere bene.–
–A che distanza sono.– Chiede Kaori, allarmata.
–Cinquecento metri.–
–Cinquecento cosa?–
–Oh, scusa… circa mille passi.–
Kaori impreca.
–Non credo ci abbiano ancora visti, si stanno muovendo a caso. Però
sono fra noi e Sakurai.–
Kaori impreca di nuovo.
Alla nostra sinistra, oltre una stretta fila di campi, si alza il monte Miwa.
Alla destra, Shiba e davanti a noi Sakurai. Mi guardo intorno. 182
Kaori riflette ad alta voce: –di tornare sui nostri passi non se ne parla,
c’è troppa strada da fare per Nara… Dobbiamo tornare indietro e adden­
trarci nelle colline.– decide.
–No, vedo qualcuno muoversi in direzione del tumulo. Ci taglieranno la
strada prima che possiamo arrivare lì.–
Siamo circondati.
–Kaori­san…– prova a suggerire Jirou ­… perché non proviamo a chie­
dere ospitalità al santuario di Oo­miwa?–
È il santuario che protegge e santifica la Montagna Sacra. Mi giro; se
fosse giorno, probabilmente potremmo già vederlo, e mi sembra di scor­
gere la sagoma di un tori­i non molto distante. Non è affatto una cattiva
idea.
–Ci avevo pensato…– riflette Kaori… – ma Kiyomi­sama è una alta
sacerdotessa. Non so in che rapporti sia con il kannushi di Oomiwa, ma
vivendo a meno di mille passi dal santuario, dubito che si guardino in
cagnesco. Inoltre, se racconta che abbiamo appena profanato la tomba di
Yamato­to­tohi…–
–Va bene, – taglia corto Rai’an, –ho capito. Ci resta una sola alterna­
tiva.–
–Quale?– chiede Kaori, preoccupata.
–Saliamo sul monte Miwa. Lì nessuno verrà a cercarci.–
Kaori gli sorrde: –Stai scherzando, Rai’an­sama… Vero?–
–Niente affatto; muoviamoci, che stanno venendo da questa parte.–
–Ma Rai’an­sama… non si può salire sul monte Miwa! È la dimora del
Santo Oomono­no­nushi!–
–Se lo incontriamo, gli offrirò i miei rispetti.–
–Rai’an­sama! Assolutamente no!–
–Va bene, Kaori, vediamo se mi ricordo bene. Chi è autorizzato a salire
sul monte Miwa?–
–Oltre ai kannushi del tempio di Oomiwa, solo i kamii, e chi è stato
benedetto da essi…–
–Ottimo. Io sono un kamii. Vi benedico. Ora andiamo.–
E dopo aver fatto un gesto strano verso di noi, si gira e si incammina su
un sentiero fra due campi di riso, dritto verso il Sacro Monte Miwa.
Kaori mi guarda, costernata. Alzo le spalle e le rispondo: –Secondo me,
non fa una piega.–
183
Sotto le stesse coperte (R)
Devono essere almeno trecento anni che nessuno mette piede sul monte
Miwa. A parte il kannushi del tempio giù a valle. E i kami. E i benedetti.
In effetti, il monte ha un che’ di selvaggio, distante, vergine. Le fitte
chiome degli alberi non lasciano passare la già debole luce della luna; la
salita ha una pendenza incredibilmente regolare, tanto che sembra non
finire mai. Intendo arrivare in cima. Il monte è alto appena 467 metri; dalla som­
mità ci separano ancora cinquecento metri in linea retta. Da un lato, vorrei
mettere più Monte Miwa possibile fra me e i miei inseguitori, nel caso
osassero sfidare il tabù per qualche passo, dall’altro, la pendenza è tal­
mente regolare che nel raggio dei miei sensori di dettaglio non vedo nes­
sun pianoro abbastanza ampio da permettere di accamparci, o anche solo di
sdraiarci.
Ma la salita è lenta e difficile; non fosse per il mio emettitore luminoso,
per i miei compagni sarebbe impossibile proseguire. Di questo passo,
potrebbe volerci un’ora.
Procediamo in silenzio. In parte è il rispetto per il luogo sacro, in parte
la stanchezza, ma soprattutto è l’attenzione che dobbiamo tutti porre nel
camminare.
Spesso, il bagaglio si impiglia fra i rami più bassi; non ho il tempo di
fermarmi ogni volta, e quando non lo faccio, il ramo impigliato si spezza.
E Kaori si gira a guardarmi con occhi taglienti. Mi sa che me le perdonerà
tutte, ma questa proprio no…
Però! Sono qui da poco più di una settimana ed ho già rotto la promessa
scambiata con Rokugane! Per di più, due volte. Ho profanato la tomba di
una regina ed il luogo più sacro di tutto lo Yamato, e tutto nella stessa
notte. Se questo non è mancare di rispetto ai loro kami, non so proprio
cosa lo sia.
Finalmente la pendenza si riduce. Controllo gli strumenti. Siamo a pochi
passi dalla cima.
Subito oltre la vetta, c’è un po’ di spazio quasi pianeggiante. È l’ideale:
guarda dalla parte opposta rispetto alla pianura della provincia dello
Yamato; il bosco è abbastanza denso da proteggerci, ma abbastanza rado
da permetterci di fare un piccolo campo.
–Ci fermiamo qui.– annuncio guardandomi intorno.
–Come Rai’an­sama desidera.– commenta in tono piatto Kaori. Sì, que­
sta proprio non me la perdonerà mai.
–Sedetevi, mentre preparo il campo.–
184
Kaori si siede su un sasso; Midori si avvicina con l’aria di chi cerca
qualcosa da fare, e Jirou mi dice: –Rai’an­sama, permettimi di aiutarti…–
–No, Jirou, siediti. È un ordine. Anche tu, Midori.–
–Ma io sto bene!–
–No, non stai bene, ma non lo sai. Fai come ti dico.–
Lei mi guarda un po’ perplessa, poi corre saltellando verso Kaori e le
chiede un po’ di posto sul suo sasso. Jirou si siede per terra, accanto a loro.
Ho bisogno della mia mano nella sua forma naturale; devo spegnere
l’emettitore e richiuderla. Ripiombiamo nel buio. Attivo il visore notturno
e mi metto al lavoro per preparare una superficie dove ci possiamo sdra­
iare.
Midori quasi mi fa saltare per la sorpresa quando attacca.
–Ma ci pensate? Siamo sulla cima del Sacro Monte Miwa! Siamo sulla
cima, vero Rai’an­sama?–
–Sì, abbiamo appena scollinato.– rispondo piano mentre sollevo da terra
un paio di sassi.
–Vi rendete conto? Questa è la dimora del Divino Oo­mono­no­nushi! Il
padrone delle cose grandi!–
Midori sembra attendere una risposta che non arriva.
–È da qui che si sprigiona la forza dei kamii della Terra! È da qui che
attingono la loro essenza!–
Kaori tace ancora, mentre stendo le stuoie.
–Sai Jirou, il Divino Oo­mono­no­nushi è il primo kamii nato
dall’unione di Izanagi e Izanami. Beh, il primo dopo quello nato male…–
Comincio a srotolare le coperte.
–Lui stesso, chiedendosi come fare a completare l’opera lasciata a metà
dai suoi divini genitori, si fece Monte e si posò qui per meditare…–
–Midori…– dice piano Kaori.
–Ah, mi è venuto in mente che… ha avuto una storia proprio con
Yamato­to­tohi­momoso­hime!–
–Midori, forse è meglio…–
–Sì, te la ricordi anche tu, vero Kaori­san? Tutte le notti andava a tro­
varla, ma lei non aveva mai visto il suo volto, la sua Vera Forma.–
–Midori, questa storia qui, direi di…–
–Eh già, era proprio il Divino Oo­mono­no­nushi, che andava a trovarla;
e come si fa a rifiutare la visita notturna di un kamii?!–
Ho un brivido al pensiero che sta guardando nella mia direzione.
185
–Ma una sera, lei gli chiese di poter almeno vedere la sua vera forma. E
lui acconsentì, a patto che lei promettesse di non spaventarsi.–
–Midori, basta così.– dice Kaori, ma forse per la stanchezza, non è
abbastanza convincente.
–Le disse che, al mattino, avrebbe dovuto aprire la cassa delle suppellet­
tili, e quando lei lo fece, schizzò fuori un serpente nero! E insomma, lei si
spaventò, e per lo spavento cadde all’indietro sulle bacchette, che le si infi­
larono fra le gambe, proprio lì, proprio in mezzo alla…–
–Midori, BASTA!– grida Kaori.
Scoppio a ridere.
–Rai’an­sama!– grida anche a me.
Mi butto su una coperta che ho appena steso. Non riesco a smettere.
–No, scusa, scusami Kaori è che… hehehe… se penso… haha… alla
cosa che ho qui con me… hihi… meno male che non può sentirvi…
hahaha…–
Non credo che la hime sarebbe troppo lusingata nello scoprire la leg­
genda che gira sulla sua morte.
–Voi due, siete impossibilmente… blasfemi! Abbiate un po’ di rispetto
per questa Montagna Sacra!–
Midori si difende, imbronciata: –Ma, Kaori­san, è scritto nel capitolo
dell’Imperatore Sujin, nel Nihon­shoki…–
–Con te faccio i conti domani.–
–Sì, Kaori­san…–
Ora è il turno di Jirou di scoppiare a ridere.
Asciugandomi le lacrime e recuperando un po’ di compostezza, col fiato
ancora rotto dal riso, concludo: –Vabbeh, ora ci vuole un po’ di legna per
il fuoco.–
–Ah, no, non se ne parla!– sbotta perentoria Kaori, e continua: –Vi ho
concesso tutto, siamo saliti sulla Montagna Sacra, abbiamo riso sulla storia
dalla hime, ma questo no. Noi NON accederemo un fuoco sul Sacro Monte
Miwa.–
–Uhm… va bene; però non posso lasciare che dormiate al freddo. Vi
scalderò io.–
–Eh?–
–Eh?–
–Eh?–
Saltano tutti e tre, letteralmente.
Rimango di stucco a guardarli, anche se so che loro possono vedermi a
malapena.
186
–Ho detto… qualcosa che non va?–
–Ra… Rai’an… sama…– attacca balbettando Kaori, –forse non sa…–
prosegue prendendo un po’ di fiducia, –che quando si dice, “scaldare”, di
notte, si intende… si ecco… giacere… ma non… dormire…–
–Ahhhhh, oh…. ecco, ehm, sì, scusate, … non lo sapevo proprio…–
Meno male che è buio, sennò mi avrebbero visto rosso fin sulla punta
delle orecchie.
–No, ecco, io intendevo che aumenterò la temperatura del mio corpo per
darvi il calore necessario.–
–Tu… puoi farlo?– chiede sorpresa Kaori. Mi sembra strano; fra tutte le
cose che sono passate davanti ai loro occhi negli ultimi giorni, sorprendersi
ancora …
–Ti ricordi quando ho preso il calore dal sole?–
Lei annuisce. Chissà se sa che posso vederla, o se è solo una reazione
istintiva.
–Beh, è la stessa cosa, ma in senso inverso. Ora che sono in forze, posso
scaldare un po’ l’aria sotto le coperte.–
–Oh, sì? Beh, allora… va bene ma…. questo significa che dobbiamo
dormire sotto le stesse coperte?–
–È un problema?–
–Oh, ecco… non c’è nulla di male…–
–No, infatti. E poi si tratta di un’emergenza. Meglio dormire sotto le
stesse coperte che accendere un fuoco, giusto?–
Midori brucia tutti: –Sotto le stesse coperte? E chi dorme?–
–Midori, un’altra parola e ti strozzo.–
–Sì, Kaori­san…– risponde, assumendo un’aria contrita e penitente.
–Haha, perdonala Kaori, è l’effetto della medicina che vi ho sommini­
strato.–
–A me non ha fatto lo stesso effetto.–
–Uhm, beh, a ognuno fa un effetto un po’ diverso.–
–Quand’è così, pregherei Rai’an­sama di astenersi dal somministrar­
gliela nuovamente. Midori è già abbastanza tremenda senza l’ausilio di
alcuna medicina.–
Nel buio, la giovane miko caccia fuori la lingua verso Kaori, e fa una
smorfia buffissima. Poi mi guarda e le fa il verso, mimando con la bocca
“Midori è già abbastanza tremenda…”
Jirou si alza e si inchina brevemente nella mia direzione. –Rai’an­sama, se mi è concesso, io preferirei dormire sotto le mie
coperte.–
187
–Veramente, Jirou, è un ordine. Non posso lasciare che vi ammaliate.–
–Sono abituato a dormire solo.–
–Senza fuoco, sulla cima ventosa di una collina a inizio primavera?–
Jirou tace.
–Dai, cerca di far finta di nulla. Si tratta solo di un modo di conservare
la vostra salute, nulla di più.–
–Ho!– risponde il ragazzo, con un inchino marziale, e si avvicina ai gia­
cigli che ho preparato.
Anche Kaori si avvicina, con fare un po’ guardingo.
–Allora… come ci organizziamo…?–
–Dunque, voi donne avete meno grassi e una temperatura corporea più
bassa; dovreste stare entrambe vicino a me. Siccome Midori è la più pic­
cola, e anche la più minuta, è meglio se sta fra me e Jirou.–
Midori salta sul posto, e sembra che stia per snocciolare uno dei suoi
commenti memorabili, ma lo sguardo infuocato di Kaori la fulmina anche
nella fitta oscurità. Dopo aver valutato l’immagine delle mani della miko
anziana strette attorno al suo collo, risponde semplicemente: –Mi
sembra… sì, ecco… una buona idea… molto buona… davvero… proprio
buona…–
Kaori scuote la testa, sospira rumorosamente, e senza aggiungere altro,
si toglie gli zouri, si infila sotto le coperte e si gira su un fianco.
Alba dorata (K)
La luce dorata del sole batte sulle mie palpebre. Non so se è questo a
destarmi, o il suono della spada di Jirou che fende l’aria, o la voce di
Midori che canticchia una dolce ninna­nanna. Fatto sta che il risveglio è
leggero, e torno nel mondo della luce piano, delicatamente.
Ancora non ho aperto gli occhi, che mi accorgo di stare stranamente
bene. Devo aver dormito in una posizione stranamente comoda, perché le
mie membra sono rilassate e distese. Il mio braccio destro è disteso su
qualcosa di caldo, e il caldo arriva a lambirmi il volto, rendendo il respiro
piacevole. Anche la mia gamba destra, non poggia per terra, ma poggia
comodamente su qualcosa. La schiena ne giova. Era da tanto che non dor­
mivo tanto bene.
A malincuore, lascio che la luce del mattino mi accarezzi gli occhi,
attraverso una fessura che allargo piano piano. Certo che Rai’an­sama è
proprio vicino. Beh, la sua idea sembra aver funzionato. Col mio corpo
così appoggiato al suo, non ho avuto nemmeno un po’ di freddo.
Eh!?
188
Un momento.
Il mio corpo… appoggiato al suo?!?
Sono sdraiata sul fianco sinistro, il mio braccio e la mia gamba destri
sono poggiati su di lui.
Spalanco gli occhi trattenendo il fiato, col cuore che mi balza nella gola,
per quanto gli ordini di smettere di battere così forte e di fare tutto questo
baccano.
Lui dorme ancora. Ha un volto sereno. È da due o tre giorni che non si
taglia la barba, che sembra crescere particolarmente veloce sul suo volto; il
sole le batte sopra, sfavillando in una pioggia di riflessi dorati. Mi mozza il
fiato.
Non è il momento di pensare al suo volto! Sono fortunata, molto fortu­
nata: non si è ancora accorto di me; se mi muovo piano… molto piano…
Dietro le mie orecchie, fruscio di foglie. –Buongiorno, Kaori­san, dormito bene?– chiede Midori, squillante, con
una punta acida e un’altra beffarda.
–Razza di piccola…– inizio a sibilare sussurrando, ma sento qualcosa
che mi stringe la mano tanto forte da farmi male. Trattengo il fiato per non
lamentarmi. Rai’an­sama si è mosso nel sonno, ma i suoi occhi tremano, e
il suo corpo inizia a muoversi.
Oh no!
Rai’an­sama apre gli occhi. L’azzurro del cielo della sua anima fa
impallidire il cielo che copre il Sacro Monte Miwa. Guarda dritto davanti a
se, ancora avvolto nelle nebbie del sonno. Di fronte ai suoi occhi, Jirou sta
finendo il suo allenamento.
–Buongiorno, Jirou!– gli sorride.
Jirou interrompe i suoi movimenti, si gira e si inchina profondamente.
Da sopra di noi, la voce di quella perfida, piccola miko canticchia: –Buon giorno, Rai’an­sama.–
–Oh, buongiorno Midori. Dormito bene, nonostante la medicina?–
–Beh, non era la medicina che non mi faceva dormire…–
–Haha, Midori, se ti sente Kaori ci sculaccia tutti e due. A proposito,
dov’è Ka…–
I suoi occhi incontrano i miei, la sua bocca, gelata nel chiamare il mio
nome, è così vicina… dovrei abbassare lo sguardo, dovrei chiudere gli
occhi, ma non ci riesco.
–Buongiorno… Kaori…–
189
Le mie guance e le orecchie prendono fuoco. Vorrei rispondere, ma rie­
sco solo a balbettare qualcosa. No, non può essere. Io, Kaori, miko anziana
del santuario di Koumon, non posso rimanere senza parole di fronte a un
uomo… o un kamii che sia. Fosse l’ultima cosa che faccio, parlerò!
–Buon… Buongiorno, Rai’an…sama…–
No, volevo dire, non è come sembra, io … oh, non lo so nemmeno io
che volevo dire. Finalmente trovo la forza di abbassare lo sguardo, ma
sento ancora i suoi occhi, così vicini, fissi sul mio volto.
–Ra… Rai’an…sama…–
–Dimmi, Kaori.– mi accarezza con la voce.
–La mano…–
–Eh?–
Chino il volto fin quasi sotto le coperte.
–Io… vorrei… che tu lasciassi la mia mano…–
No, non è vero. È una menzogna. Questa è la menzogna più grande che
abbia mai detto in vita mia. Se c’era una briciola di makoto in me, ora l’ho
perso per sempre.
Rai’an­sama sembra confuso… ma all’improvviso scatta.
–Oh! Ecco… scusa…– e la sua mano si apre.
–No, di nulla.– riesco appena a dire, mentre mi sollevo dalle coperte e
mi infilo gli zouri e scappo via più in fretta che posso.
Ma non abbastanza da sfuggire a Midori. Piccola serpe.
–Kaori­san…–
–Ti avviso, Midori. Attenta a quello che dici.–
Lei mi guarda, con quel suo sorriso da mocciosa impertinente. Non so
cosa trattiene la mia mano dallo schiaffeggiarla… ma poi, quasi subito, il
suo sguardo si addolcisce. Il suo sorriso si fa aperto, sincero. È uno
sguardo così puro che non me la sento di sostenerlo, non dopo aver perso
tutto il mio makoto. Abbasso gli occhi a terra. E va bene, Midori, oggi mi
hai sconfitta.
–Kaori­san…– mi chiama piano, dolcemente, appoggiandomi una mano
sul braccio. Non rispondo.
–Senti, Kaori­san, – il suo tono cambia all’improvviso, –c’è un pro­
blema del quale dobbiamo parlare.–
–Eh… oh… di cosa si tratta?–
–Ecco… è un po’ imbarazzante ma… come facciamo… dico… ehm …
per i nostri bisogni?–
190
–Oh!– me n’ero scordata. Siamo sul Sacro Monte Miwa… non pos­
siamo… ecco… giusto…
–Dunque… potremmo, ecco… credo che se io danzassi un kagura per
te, e tu per me, potremmo… purificare lo spirito del luogo dove noi…
ecco…–
–Mi sembra… una buona idea, Kaori­san… Se non ti spiace, potremmo
affrettarci? È già da un po’ che… insomma…–
Le sorrido. Oh beh, meglio questo discorso dell’altro che avevo in testa.
–Rai’an­sama…– lo chiamo senza girarmi verso di lui.
–Sì, Kaori?–
–Noi ci allontaniamo un momento.–
–Oh… certo… vi aspettiamo.–
Mentre ci inoltriamo nel bosco, un po’ più in basso, sento gli uomini
che iniziano a sistemare le stuoie.
Le operazioni sono laboriose, ma alla fine riusciamo a rispettare la
nostra natura senza contaminare la purezza della Montagna Sacra.
Mentre torniamo verso gli uomini, arriva la domanda che sapevo di non
poter evitare.
–Kaori­san… tu lo ami.–
Anzi, non è una domanda.
Mi fermo e sospiro. Midori mi guarda, ma… è uno sguardo che non mi
aspettavo. Non c’è ombra di derisione, o di beffa. Midori mi guarda cer­
cando di sondare i miei sentimenti, preoccupata. –Kaori­san…– ripete, appoggiando la mano sul mio braccio, e nella sua
voce sento che vuole essermi vicina.
Mi giro verso gli uomini, ancora troppo lontani per sentirci.
–Midori… non sono più una ragazzina.–
–Guarda che non esiste un’età per innamorarsi.–
Sorrido. –No, intendevo dire che… non sono più così giovane da … non
sapere … non capire … quali sono i miei sentimenti. O da mentire a me
stessa.–
La guardo. Lei quasi trattiene il fiato aspettando che io continui.
–Sì, Midori, io lo amo. Lo amo più della mia vita. Lo amo più di tutto.–
Respiro. Mi sembra di respirare per la prima volta. Le mie spalle si
rilassano. Il mio sguardo si assottiglia. Sento il mio makoto appartenermi
di nuovo. Sì. Io lo amo.
191
Midori è ammutolita. Prova ad aprire bocca un paio di volte, ma sembra
non sapere cosa dire. Dopo un istante che sembra eterno, mi stringe il brac­
cio più forte e parla:
–Allora… devi dirglielo.–
–Oh, Midori… questo no.–
–Perché?–
–Sono già abbastanza patetica così, non ti sembra?–
–Patetica? Tu?–
–Amare un kamii… io… che sono una donna così… così… banale…–
–Banale!?! Kaori­san, tu sei la donna più eccezionale che esista!–
Rido. Ma vorrei piangere.
–Kaori­san, dico davvero. Se esiste una donna degna di amare un kamii,
quella sei tu.–
–Midori…– la guardo. Non ho mai visto i suoi occhi così fermi. Midori,
quando vuole, è una piccola oni, ma… ma… ma il suo makoto è il più
grande che io abbia mai conosciuto. La sua eleganza nel danzare, la forza
del suo spirito non hanno eguali. Lei non mente. Mai. È come la brezza
d’autunno che soffia nelle foreste che vanno a dormire. Libera e pura,
eterna e infinita.
–Midori…– ripeto più piano. So quello che ha appena fatto. E lo sa
anche lei. Ha piantato il seme della speranza nel mio cuore. Un seme
splendente, splendido e adorabile, ma doloroso. Mi ucciderà, lo so. Cre­
scerà fino a divorarmi l’anima, a nutrirsi di ogni fibra del mio spirito. Ma
ormai è tardi. Per me è finita. Non ho più difese. Né le voglio.
–Midori…– sussurro.
–Tu glielo dirai.– Ancora, non è una domanda. Come fai, piccola miko, ad essere così
forte?
–Sì…–
Dal Regno delle Ombre (M)
–Oh, mikoto, eterno padrone del tempo, abbi pietà di me!–
Rai’an sta guardando il fantasma che si è gettato ai suoi piedi, con gli
occhi azzurro­cielo fuori dalle orbite e la bocca aperta per la sorpresa.
192
È ancora mattina presto; abbiamo smontato il campo, ma prima di scen­
dere a valle, Rai’an ha detto che voleva vedere come stava la sua “mac­
china che pensa”… non ho ancora capito se si fa beffe di noi o se quello
che dice è vero, ma io so cosa ho sentito ieri. Quello era jaki, una volontà
maligna, la forza soffocante di uno spirito malvagio. E più che una macchina che conta, quell’uovo di cristallo mi sembra un
tamaori, un gabbia per trattenere l’anima di una persona morta. E il fatto
l’abbia tirato fuori dalla tomba di Yamato­to­tohi­momoso­hime…
Il fantasma trasparente rimane prostrato a terra. Come si è mosso, io, a
destra, ho teso ben dritto l’oonusa, e Kaori, a sinistra, ha agitato i sonagli,
ma lo spettro ci ha ignorate. Avevo in mente un bel norito per scacciarlo,
ma la prima cosa che ha fatto è stata gettarsi ai piedi dello straniero.
Non avevo mai visto un fantasma da così vicino. Né così bene. Né in
pieno giorno. Ho appena fatto in tempo a vedere un volto di una giovane
donna, tondo e liscio, incorniciato fra i capelli fluenti e disordinati. Lo spirito solleva lo sguardo da terra, quanto basta per vedere i piedi di
Rai’an, seduto su un tronco, di fronte a lei.
–Oh, Mikoto del Tempo, farò qualsiasi cosa… qualsiasi… ma… pietà!
Non imprigionarmi più nel Regno delle Ombre!–
I miei occhi danzano fra la figura accovacciata dello spettro ed il volto
sorpreso di Rai’an.
–Io … non ho fatto nulla … –
–Non celiarti di me, o potente mikoto!– Questo spettro usa parole antiche, faccio fatica a capire quello che dice.
Mikoto è l’onorifico degli dei… come san lo è per le persone importanti e
sama per i santi ma… non capisco cosa intenda usando questa parola in
questo modo. –I mostri che abitano il Regno delle Ombre mangiavano le mie carni di
giorno, e la notte le vomitavano e me le risputavano addosso… e così per
anni e anni, e anni ancora!
–Faccio ammenda per averti sferzato con le mie arti, ho avuto lunghi
anni per riconsiderare le mie azioni! Oh, potente mikoto, avrei dovuto
capire che eri una creatura superiore! Se mai punizione per il mio affronto
potrà essere adeguata, ti imploro! Come posso ottenere il tuo perdono?–
E preme la faccia a terra così tanto che ho l’impressione che l’infili giù
fino alle spalle. Le parole sono antiche, e la sua voce rimbomba nella mia
testa, ma il pianto, il dolore, la paura… quelle le riconosco. Qualcosa mi
stringe il cuore. E stavolta, non è jaki. Abbasso l’oonusa, e vedo che Kaori
193
fa altrettanto col sonaglio. Mi avvicino allo spettro di mezzo passo, cer­
cando con lo sguardo l’approvazione di Rai’an, ma è ancora così sorpreso
da non avere occhi che per la figura trasparente inginocchiata per lui.
–Ma guarda che… io … – inizia a rispondere, ma subito gli passa sul
volto un’ombra scura. –Oh… io… non avevo intenzione di farti soffrire … è successo solo sta­
notte, ma tu pensi così velocemente che ti deve essere sembrato molto più
lungo … –
Lo spettro alza il volto senza sollevare una foglia. Mi avvicino un po’.
Ha una faccia molto… non so, direi… forse coreana? Ho visto un paio di
Coreani, una volta, e avevano un volto più… cinese …
È un po’ solenne e un po’ graziosa allo stesso tempo. Il volto è ovale,
gli occhi molto sottili. Il naso piccolo e piatto quasi si vede appena, sulle
labbra appena accennate.
–O mio mikoto… vuoi dire… che è passato solo un giorno?–
–È successo stanotte, e il sole è appena sorto…– –Ma … allora … allora Kiyomi è ancora viva! Ti prego, o Signore del
Tempo, dimmi se la mia adorata Kiyomi cammina ancora nel Regno della
Luce!–
–Sì, sì… è ancora viva…–
–Oh, che i kamii dell’arco celeste siano benedetti in eterno! La mia ado­
rata Kiyomi è viva! Credevo fosse ormai perduta da molto, molto tempo!–
Lo spettro della ragazzina si siede sulle ginocchia, alzando le braccia al
cielo, e poi le richiude incrociandole sul petto e inchinandosi, da seduta,
verso Rai’an. Ho visto abbastanza. Questo spettro non vuole più nuocerci, non c’è
segno del jaki di ieri, e la sofferenza della sua anima chiede di essere lenita
come solo una miko brava come me sa fare.
Copro i tre passi che ancora mi separano da lei senza attendere il per­
messo di nessuno, e mi chino sui talloni.
–Dimmi, qual’è il tuo nome, piccola?–
Nessuno sembra averci fatto caso, ma il volto e il corpo dello spettro
possono essere quelli di una ragazzina di undici, dodici, forse tredici anni.
Se davvero è stata nel Regno delle Ombre per tutto questo tempo… ho i
brividi al pensiero. Anche una sola notte, nel regno delle ombre, può
durare vite intere.
194
–Il mio nome … lo abbandonai quando fui consacrata ai kamii, ed è un
segreto che non può attraversare le labbra di gente comune… Ma a te, che
sei un mikoto, e ai tuoi servitori, posso rivelarlo: il nome che mi diede mia
madre è Hikari, e fui scelta fra le kamunaki per essere la settima himiko di
tutte le genti Yamatai.–
–Kamunaki?– piego la testa e chiedo. Risponde Kaori, piano: –Kan­
nagi.–
Ah, kannagi… un nome un po’ vecchio, che qualcuno usa ancora, per
quelle miko che prestano servizio presso un santuario… come noi! Però, che parola strana… kamunaki… ha un suono così antico… sembra
quasi voler dire “quelle che danno voce ai kamii”…
–Ah, kannagi… come noi…– ripeto ad alta voce, e chiedo ancora: –ma
himiko… ce ne sono forse ancora?–
–No, giovane miko. Pur nel mio sepolcro sono venuta a conoscenza del
fatto che, dopo di me, e forse dopo altre poche figlie e sorelle, non furono
più nominate nuove himiko per guidare le genti Yamatai.–
–Guidare le genti Yamatai? Ma… sembri così giovane…–
–Questo era il mio volto quando divenni himiko. Fui sepolta dopo più di
sessanta primavere, e poi il mio spirito ha vagato per le foreste degli
Yamatai, mentre divenivano campi d’acqua, in cerca della mia discen­
denza.–
–Himiko…– interviene Rai’an. La bambina fantasma si inchina profondamente.
–Tu… sai chi sono io?– le chiede Rai’an.
–Io… ecco… so che sei un mikoto, e… che il tuo musuhi è immenso…–
Il musuhi è il “legame”, l’unità del kamii di un uomo, o uno spirito, con
le cose del Mondo; è questo legame che consente al kamii di imporsi e
mutare il Mondo secondo il suo volere.
Rai’an sospira.
–Ecco… Ieri notte sembrava che tu … una parte di te … mi avesse rico­
nosciuto.–
La bambina fantasma lo guarda perplessa.
–Io non… non ti ho mai visto… prima di …– il suo sguardo vaga come
a cercare di ricordare un tempo remoto –… quando sei arrivato al villag­
gio… e poi … hai … profanato– sputa la parola con rabbia –il mio sepol­
cro.–
–E quando mi hai visto… non ti sei ricordata di nulla?–
Il suo sguardo torna sul volto di Rai’an e si fissa come a sondarlo. Dopo
un po’, si abbassa di nuovo e la bimba fantasma cerca trovare le parole.
195
–Io ho solo… sentito… che volevi portarmi via…–
Rai’an sospira. Solleva l’uovo di cristallo fra entrambe le mani e intona
un norito in una lingua sconosciuta. La bambina fantasma ripete le intona­
zioni nella lingua strana, col volto gelato in un’espressione vacua e la voce
priva della nota regale che aveva fino a un attimo fa. Ma dopo due o tre
canti, si porta le mani alle orecchie; le maniche del suo kimono sbattono,
mentre scuote la testa. La voce inespressiva se n’è andata, ma non è nem­
meno regale com’era prima: è la voce di una bambina che piange e chiede:
–Basta, basta, ti prego! Ti imploro, non farmi più del male!–
Rai’an è scosso. Gli tremano persino le mani. Ha gli occhi fissi sul fan­
tasma, che ora piange lacrime che scompaiono non appena abbandonano il
suo volto, e singhiozza sommessamente, tirando su col nasino di tanto in
tanto. È una piccola bimba fantasma in lacrime.
Perfino quel procione di Jirou, si muove di qualche passo verso di noi.
Scambia rapidamente uno sguardo con me e con Kaori, ma non sappiamo
che dire. Non ho mai visto un fantasma piangere in questo modo. Jirou
cerca anche l’approvazione di Rai’an, ma lui è ancora di sasso, gli occhi
addosso alla regina bambina.
–Himiko… maestà… hime…– Jirou si inginocchia alla destra dello spet­
tro.
Lei si gira verso di lui, e subito i suoi singhiozzi si fanno più sommessi.
–Posso giurarti sulla mia vita che le intenzioni di Rai’an­sama non sono
malvagie. Se ti abbiamo causato sofferenza, non è stato voluto. Imploro il
tuo perdono.–
E così dicendo, tocca le foglie del sottobosco con la fronte.
Hikari è sorpresa. Abbassa una mano trasparente sul capo di Jirou, ma si
ferma proprio prima di sfiorarlo. Ritrae la manina, richiudendola e portan­
dola al petto… quasi si rendesse conto del fatto che, provasse a toccarlo, lo
attraverserebbe. E sembra rattristarsene.
Chinando il capo sul petto a guardare la sua mano chiusa, e, triste, il ter­
reno che traspare sotto di essa, lo spettro annuisce e tace.
–Hikari­no­himiko.– la chiama lo straniero.
–Sì, mio mikoto!– Si china nuovamente lei. –Questo cristallo… quando lo hai avuto?– chiede, sollevando la pietra
che brilla.
–È il dono che ha sigillato il mio sacerdozio…–
196
La bambina fantasma taglia la parola all’improvviso, come se volesse
nascondere qualcosa, e si rendesse conto che stava per rivelarlo inavverti­
tamente. Ma sembra che nessuno, a parte me se ne accorga; certo, non se
ne accorge Rai’an, che continua:
–Va bene, Hikari­no­himiko; ascolta. Questo uovo appartiene alla mia
gente, ed è stato fatto arrivare qui da molto lontano per svolgere un com­
pito importantissimo…–
–Io… non capisco …– solleva il volto perplessa, ma come Rai’an
accenna a parlare, si affretta a concludere: –Ma… ti prego… lascia che
parli a Kiyomi! Sono così in pena per lei! Ti scongiuro!– e si ributta a
terra.
–Questo, per il momento, non è possibile. Ma ti prometto che …–
–Ti scongiuro!–
–Ho capito; vedo cosa posso fare. Comunque, verrai con noi; ma ora
devo chiederti di non ascoltare quello che diremo. Non ti manderò più nel
Regno delle Ombre, ma per un po’, ti chiedo di non udire.–
–Io … non so come fare… anche se mi metto le mani sulle orecchie …
così … sento tutto!–
Rai’an torna ad intonare un norito in quella lingua musicale che non
capisco. E Hikari risponde, nella stessa lingua, col volto inespressivo. Poi,
sembra riprendere il senso di sé; si guarda intorno, spaventata. –Che cosa… che cosa succede… ? Ah, ho capito… Il Mikoto del
Tempo mi ha privata dell’udito. Se questo è il prezzo che devo pagare per
il mio affronto, accetterò la punizione.–
La bimba fantasma siede composta e trasparente sul tappeto di foglie, in
attesa che il suo signore sia mosso a compassione dal suo visino triste tri­
ste.
Una strada fra i monti (R)
E così, himiko non è un nome proprio, ma un titolo, una carica. Molti
miei colleghi lo sostenevano da tempo. Considerando che, in Giapponese
protostorico, miko o “donna sacra”, “sciamana”, era probabilmente l’unico
termine per “sacerdote”, e che hitotsu vuol dire “uno”, hi­miko doveva
suonare come prima sciamana, o alta sacerdotessa, o qualcosa del genere.
C’è anche chi sosteneva che le tre sillabe hi­mi­ko significassero sole­
nobile­figlia, ossia, “riverita figlia del sole”. Strano, vista la propensione
all’uso delle particelle di specificazione come ­no e ­tsu, usate quasi a can­
tilena nel Giapponese antico: la specificazione tramite accostamento
197
diretto di sostantivi è praticamente sconosciuta. E poi, sebbene “mi­ko”
venga usato ai tempi del Kojiki per indicare “i figli riveriti” di dei o impe­
ratori, sembra un uso tardo, relativamente recente. E Yamatai non è il nome del regno, ma probabilmente un aggettivo pos­
sessivo, o un complemento di specificazione derivato da Yamato, declinato
in una forma in ­ai, così come kamu sarebbe diventato kamui e poi di
kamii; una forma grammaticale che, attorno all’anno 1000, doveva essere
già scomparsa da tempo. Quindi, Yamatai indica un popolo, “quelli dello
Yamato”.
Tutto questo è affascinante ma ora ho decisamente un problema più
grosso a cui pensare. Il nucleo centrale sembra perfettamente funzionante,
e risponde ai comandi, ma il modulo di intelligenza artificiale ha subito un
danno, o un condizionamento esterno… o qualcosa. Dannazione, avessero
mandato un informatico al posto mio… io non so niente di intelligenza
artificiale. Inoltre, non voglio più mettere il modulo in stand­by. Non me la sento
di far soffrire questa … cosa. Non sarà biologica, ma è viva, e non merita
di soffrire. E poi, considerazioni morali a parte, non posso rischiare di
danneggiarla ulteriormente. Devo cercare di farla ragionare… di farle
capire cosa è realmente…
–Rai’an­sama?–
Kaori interrompe i miei pensieri.
–Sì, Kaori?–
–Hai davvero intenzione di farla parlare con Kiyomi­sama?–
–Potrebbe essere una buona idea… ma non adesso. Prima voglio capire
bene quanto è danneggiata.–
–Danneggiata?–
–Crede di essere il fantasma di questa Hikari… e questo non sarebbe
dovuto succedere. È difficile da spiegare, ma… devo riuscire a farla ragio­
nare. Ma senza provocarle altri danni. Senza… farle altro male.–
Kaori annuisce, e vedo che lotta per afferrare quello che le sto dicendo.
–Penso di aver capito cosa è successo. Qualcuno deve aver trovato il
modulo centrale, e per qualche motivo, si è attivato durante la cerimonia di
investitura di Hikari; poi, non so come, il modulo di intelligenza artificiale
ha imparato a pensare come lei. Quando è morta, si è convinta di essere il
suo fantasma. Ora, se riuscissimo, delicatamente, a farle capire che…–
–Rai’an­sama!– mi interrompe allegramente Midori.
–Sì?–
–C’è qualcosa che suona nel bagaglio… fa biiii biiiiii … non senti?–
198
–Oh! È Douzen.–
Mi alzo e vado a prendere il comunicatore. Dall’altra parte, Douzen ha
un’aria stanca. Probabilmente ha dormito meno di noi.
Dopo un breve saluto, mi dice: –Rai’an­sama, mi hanno riportato che
questa sacerdotessa di nome Kiyomi sta facendo il giro dei santuari e dei
templi della zona, e va dicendo che hai profanato la tomba di Momoso­
hime, Yamato­hime o come accidenti si chiama.–
–In effetti è vero…–
–Questo è un guaio. La gente delle campagne di Nara è particolarmente
sensibile a questi temi. Desideri che metta la cosa a tacere?–
–…Cosa intendi?–
–Se Kiyomi diventa un problema troppo grosso, possiamo accompa­
gnarla verso un nuovo ciclo di rinascita.–
–No, Douzen. Nessuno deve morire a causa mia. È vitale che le persone
che hanno avuto a che fare con me non siano… rimosse…–
–Allora, potrei semplicemente trattenerla per un po’.–
–Credo che ormai sia troppo tardi. Se ha già girato qualche tempio, il
fatto che scompaia potrebbe aggravare la situazione.–
–Ho capito. Dove siete, in questo momento?–
–Dunque… ecco… – il volto dall’altra parte del comunicatore si induri­
sce. Meglio essere sinceri: –sulla cima del monte Miwa.–
Non immaginavo che anche i monaci dell’era Hei’an si mettessero le
mani sulla faccia in quel modo, per esprimere disappunto.
Col palmo ancora sul naso, Douzen sospira profondamente.
–Hai proprio deciso di far arrabbiare tutti i kannushi dello Yamato… e
meno male che hai due miko con te…–
Ma anche tre, adesso…
Douzen mi assicura che cercherà di far calmare le acque senza ricorrere
ad azioni troppo drastiche, e quindi ci salutiamo.
Kaori, che è stata accanto a me tutto il tempo, guarda verso valle e mi
parla piano.
–E adesso, cosa facciamo?–
–Andiamo a Ise; laggiù, c’è un’altra cosa che devo recuperare. Non è
distante, e dalle informazioni che ho, c’è una strada che parte proprio dai
piedi del Miwa e arriva dritta a Ise.–
–La strada c’è… ma non è proprio facile da percorrere.–
–Lo hai mai fatto?–
–Qualche volta.–
–Quanto ci vorrà?–
199
–Sei giorni. Cinque, se ci spicciamo.–
–Sarebbe meglio muoverci; vorrei stare davanti alle notizie su di noi.–
–Questo sarà difficile. Possiamo anche correre, ma basta un mercante
con un carretto, e la nostra fama ci precederà.–
–… è così grave?–
–Sì.–
Fantastico. –A proposito, Rai’an­sama…–
–Sì?–
–Il tuo travestimento. Douzen­geika ci ha dimostrato che non regge. Ora
che hai una spada, dovresti travestirti da guerriero.–
–È plausibile?–
–Due miko in viaggio fra i monti accompagnate da due guerrieri, di cui
uno è un mercenario straniero? Sì, direi che è molto plausibile. Certo, più
plausibile di un contadino straniero.–
–Bene, mi fido di te.–
Kaori non risponde.
–Rai’an­sama, prima di andare, vorrei chiederti ancora una cosa.–
–Certo, dimmi.–
–So che cerchi di non parlare molto di quello che sai su di noi … ma …
chi è … o meglio, chi era questa Hikari… quella non doveva essere la
tomba di Yamato­to­tohi­momoso­hime?–
Kaori mi guarda fisso. So che non accetterà una risposta evasiva; e poi,
ho promesso di rispondere alle sue domande… e credo di aver consumato
tutto il patrimonio di fiducia di cui potevo disporre. E va bene, Kaori è una
donna curiosa e intelligente, sono certo che ha già più di un dubbio sulle
leggende che affollano la mitologia Giapponese.
–Guarda, in tutta onestà, del periodo che precede la stesura del Nihongi
anche noi non sappiamo moltissimo. Alcune delle cose che ha detto questa
Hikari sono nuove anche per me.–
Lei mi guarda con aria dubbiosa.
–Il punto è che, anticamente, la scrittura era vista con sospetto. Era vie­
tato scrivere. Quello che sappiamo, lo sappiamo per qualche frammento di
diario tenuto dai viaggiatori e dagli ambasciatori cinesi, e perché abbiamo
scavato… nell’immondizia…–
–Eh?–
–Beh, si possono scoprire molte cose scavando nell’immondizia della
gente. Ad esempio, cosa mangiavano, come vestivano, che oggetti costrui­
vano…–
200
–Oh…–
–Abbiamo scoperto che, fino a circa seicento anni fa, lo Yamato era
retto da imperatrici, in genere nubili, e il titolo era ereditato in linea di
parentela femminile.–
–Questo… l’avevo sospettato… dico, una tomba così grande per una
semplice moglie di un imperatore, citata a malapena in un paragrafo del
Nihon Shoki?–
Appunto, intelligente e curiosa. E mi incalza chiedendomi: –E poi…
dove sono sepolti gli altri Imperatori di cui si scrive nel Nihon Shoki?–
–Non lo sappiamo di preciso. Quello che sappiamo è che il potere mili­
tare era delegato agli uomini. Come narrato nel Nihon Shoki, a loro era
affidato il compito di conquistare nuove terre e difendere il regno, per
conto delle imperatrici.–
–Infatti il nome del primo imperatore è Jinmu… “arma divina”, che fu
inviato sul Mondo dalla Divina Amaterasu!–
Kaori spalanca gli occhi tanto grande che quasi diventano tondi.
–Sì; il Nihon Shoki è stato scritto secoli dopo i fatti narrati. Non sap­
piamo quanto sia accurato, ma non pensiamo che sia tutto e solo un’inven­
zione. Le storie, anche vere, possono cambiare molto, dopo essere passate
per mille anni di bocca in bocca.–
–Sì, questo è vero… però, è strano che questo nome, Himiko, non sia
scritto da nessuna parte.–
Molti dei miei colleghi ritengono che l’origine matriarcale dello Yamato
sia stata esplicitamente condannata all’oblio durante la riforma Taika, poi­
ché la società che si voleva costruire, pianificata secondo la filosofia con­
fuciana e regolata tramite la religione buddista, doveva essere strettamente
patriarcale. Ma questo, a Kaori, non lo dico, e mi dirigo su un terreno più
sicuro:
–Un breve scritto che fa parte delle Cronache Cinesi riporta che, in quel
periodo, governava una certa “regina Himiko”. Ma il nome compare più
volte, in tempi diversi. Ci sono solo due spiegazioni possibili: o il nome
Himiko era stato dato a più donne, oppure non indicava affatto un nome,
ma un titolo.–
–Come… prima miko?–
–Probabilmente. Del resto, un’altra cosa che sappiamo è che non esiste­
vano sacerdoti maschi. Il termine “miko” indicava tutte e solo le sacerdo­
tesse. E chi amministrava la religione, amministrava anche il potere poli­
tico. Esisteva una sola parola per indicare entrambe le cose …–
–Matsurigoto!–
201
–Esatto.–
–Aspetta un momento… ma se gli unici sacerdoti… erano le miko…–
–…Erano le miko a governare.–
Kaori sorride. Quel suo mezzo sorriso così furbo.
–Ah sì? Beh, mi sembra molto giusto…–
–Ehm … ecco … –
–Non vedo l’ora di sentire il resto della storia; ma adesso si sta facendo
tardi. Se andiamo a Ise, voglio arrivare a Hase prima dell’Ora del Ser­
pente.–
Secondo il sistema di suddivisione del giorno in dodici periodi, di ori­
gine Cinese, l’Ora del Serpente va dalle nove alle undici del mattino.
–Dov’è?– le chiedo.
–Proprio ai piedi della Montagna Sacra, verso Est. Se ci spicciamo, arri­
veremo che le botteghe saranno state appena aperte, e sistemeremo il tuo
travestimento.–
202
Parte terza
Uda
Hase (K)
Un mondo governato dalle miko! Questa sì che sarebbe una bella cosa.
Ecco, dopo avermi dato tanti motivi di preoccupazione, e di imbarazzo,
finalmente Rai’an­sama mi regala qualcosa di cui andare fiera. Chissà
com’è successo che noi miko abbiamo ceduto il passo agli uomini. Ah, se
ci fossi stata io… non lo avrei certo permesso!
–Kaori, rallenta!– mi chiama da dietro, e da una ventina di passi più in
alto, Rai’an­sama.
–Su, su, Rai’an­sama, il sole sta già salendo!–
Ma sento il rumore di un sedere pesante che si abbatte sulle foglie sec­
che. Mi volto; Jirou è a terra, e Midori sta cercando di districare il bagaglio
sulla schiena di Rai’an­sama dai rovi in cui si è impigliato.
–E stai fermo, Rai’an!–
Sto per prendere fiato e sgridarla, ma… ci rinuncio.
Mi giro verso valle. In lontananza intravedo già la strada; voglio assolu­
tamente uscire dal bosco prima che sia troppo trafficata. Non voglio che
qualcuno ci veda scendere dalla Montagna Sacra.
–Jirou.– lo chiamo. Lui si rimette in piedi e si scuote la terra dalle nati­
che, mentre si avvicina facendo più attenzione.
–Sì, Kaori­san?–
–Siamo a meno di cento passi dalla strada. Cerca di avvicinarti senza
farti vedere, e stai di guardia. Fai un cenno… anzi… usa… sì, la cosa die­
tro l’orecchio, se si dovesse avvicinare qualcuno.–
Il giovane guerriero si inchina e si dirige, circospetto, verso la base del
pendio.
Lo guardo allontanarsi. Non ha proprio un passo felpato, ma si accosta
agli alberi più robusti e sbircia con attenzione prima di procedere. Ce la
dovrebbe fare.
Mi giro, e salgo per dare una mano a Midori e Rai’an­sama.
205
La strada che porta da Sakurai a Ise è costantemente battuta da pelle­
grini e mercanti. Per chi è in cerca di una benedizione particolarmente
potente, è indispensabile visitare il tempio di Oomiwa per implorare l’aiuto
del divino Oo­mono­no­nushi, e poi quello di Ise, dove dimora lo spirito
della Divina Amaterasu. Così, si può ricevere, prima, la benedizione della
Terra, e poi la grazia del Cielo.
La strada attraversa per intero il Regno di Uda; una costellazione di pic­
coli villaggi incastonati fra aspre colline, o adagiati in dolci vallate, dove
l’imperatore Jinmu, il primo figlio terreno della divina Amaterasu, com­
batté gli eserciti ribelli. O, se quello che pensa Rai’an­sama corrisponde al
vero, è il luogo dove il generale Jinmu combatté su ordine di una himiko. Scuoto la testa; non ho tempo né voglia di pensarci, adesso. Devo rima­
nere concentrata: Uda è ancora oggi una terra selvaggia e pericolosa.
Lungo la strada per Ise, sorgono villaggi, templi e santuari a distanza di un
giorno di cammino, e anche meno; ma fuori dai villaggi, il terreno è insi­
dioso. Cinghiali e orsi infestano la strada anche di giorno, e non si può
abbassare la guardia un momento; i boschi non sono abituati alla presenza
dell’uomo, come nei dintorni di Nara. Nelle terre di Uda, l’uomo è un
intruso. Farsi sorprendere dal calare della notte fuori da un villaggio non è
per niente raccomandabile. E la seconda parte della strada, quella che abbandona i villaggi del
Regno di Uda e si inoltra verso Ise, è ancora peggio. Bisogna affrontare
quel tratto con determinazione, camminando di buona lena dall’alba al tra­
monto; solo così si può riuscire a passare da Misugi ad Iinan in un giorno
solo. È una strada che va percorsa con estremo rispetto, perché non per­
mette nessun errore. Giunti a Iinan, basta seguire il fiume Kushida, che
porta dritti a Taki; o volendo, si può tagliare per Sana. Se si ha molta
fretta, c’è anche la strada a sud, che sbuca proprio dietro al Santuario di
Ise. Ad ogni modo, si tratta di scegliere fra una mezza giornata e una gior­
nata intera di cammino, o due giornate se si preferisce andare con calma;
nella piana di Ise, gli ostelli non mancano; anzi, c’è solo l’imbarazzo della
scelta.
Di questa strada, un’altra cosa che mi dà fastidio è l’abbondanza di tem­
pli dove sono venerati kamii provenienti dall’India. I molti kannushi sono
anche monaci, e i kamii locali si manifestano come spiriti dei bodhisattva.
Inoltre, sono molti i templi che non accettano i servigi delle miko, e dove
non sono ordinate monache, né sacerdotesse donne. Tuttavia, almeno
l’ultima volta che sono passata, le miko erano ben accette come visitatori.
206
Ma di tutti i templi che ho visitato, quello che proprio vorrei evitare è il
tempio di Hase. È giusto all’imboccatura della strada; una facile passeg­
giata da Sakurai, timidamente appoggiato alle pendici della Montagna
Sacra. Ufficialmente, fa parte dei templi Kegon, la setta che fa capo al
Todaiji; ma la sua posizione, quasi nascosta dietro i boschi del Sacro
Monte Miwa, eppure comoda per i viaggiatori con poca voglia di avventu­
rarsi oltre, a portata di mano, eppure fuori dalla vista dei templi di Nara,
proprio al confine fra Yamato e Uda… l’ha reso un luogo di vacanza
ideale per i nobili della corte di Hei’an, che con la scusa di un pellegrinag­
gio in terre lontane, ne approfittano invece per lunghe vacanze dagli impe­
gni di corte…
…rendendo il tempio di Hase un postribolo per le loro malefatte.
Ah, sono l’ultima a poter o dover giudicare il comportamento dei nobili
di Hei’an sotto il punto di vista delle infrazioni ai doveri coniugali.
Quand’anche, raramente, a dire il vero, questi doveri fossero sanciti da
giuramenti solenni.
No, non è questo a darmi fastidio.
È l’ipocrisia. E il fatto che, proprio con la scusa del pellegrinaggio – il
quale, ufficialmente, dovrebbe servire a purificare l’anima dagli affanni
della vita pubblica, e, ufficiosamente, dovrebbe servire a nascondere gite
di piacere – i nobili approfittino, invece, della tranquillità offerta dal tem­
pio per intrattenere affari ben più sordidi, quali congiure, tradimenti e
assassinî.
E non solo questo; peggio ancora è il fatto che i monaci del tempio di
Hase sappiano perfettamente ciò che accade negli ostelli fuori dal tempio,
e persino nelle sue sale… e pur di poter predicare della vacuità del mondo
fenomenico, dicono loro, o per incassare le cospicue donazioni dei loro
nobili ospiti, dico io, ignorino le loro malefatte, favorite dall’ombra della
Foresta Sacra, e dal loro silenzio. Rendendosene complici.
“È pur sempre un mezzo per raggiungere le anime, e proprio le più
misere” mi è stato detto. “In fondo, che cosa c’è di diverso da un qualsiasi
altro mezzo abile?” mi è stato chiesto.
Assolutamente nulla, ho risposto. È una violenza al makoto, al Cuore
Vero delle Cose, questa come quegli altri. E il makoto è quanto più c’è di
sacro in terra e in cielo, ed è ciò che ho giurato di onorare, riverire e difen­
dere. Ecco, se io sono A, loro sono UN. Se io sono il bianco, loro sono il
nero. Se io sono il Makoto, loro sono la Menzogna. 207
Questo è quanto poco mi piacciono i monaci di Hasedera. E, come se
tutto questo non bastasse, sono tanto spudorati da fare tutto questo proprio
sulla Montagna Sacra. Anzi, è lì che hanno scelto di farlo. È così che
hanno scelto, deliberatamente, sfrontatamente, di lordare, di violentare, di
corrompere il cuore del Makoto dell’antico Yamato.
Se esiste qualcosa di buono nell’odio, beh, essi si sono meritati il mio.
–Kaori­san; al momento non si vede nessuno.– La voce di Jirou mi
scuote dai miei pensieri; mi giro, e mi rendo conto che le sue parole mi
giungono da lontano, attraverso la macchina che mi è stata donata da
Rai’an­sama. Che sciocca che sono! Ancora non mi sono abituata a sentire
queste voci nella mia testa…
Dunque… allora… devo toccare qui dietro e…
–Jirou?–
–Sì, Kaori­san?–
–Oh, bene… allora, grazie e… ecco… dunque…–
–Se si avvicina qualcuno, vi avviso.–
–Oh, sì, ecco. Grazie, Jirou.–
–Servirti è un onore, nobile miko.–
Quanto mi sento stupida; Jirou, e persino Midori, sembrano aver già
imparato a usare questo potere così facilmente… e io invece…
–Kaori­san!–
–Eccomi, Midori…– ora sono a pochi passi da Rai’an­sama, ancora
impigliato, e da Midori che sta cercando di liberarlo. Ecco, basta sfilare
qui, e qui, e… qui!
–Oh, grazie Kaori.–
–Uhm… dobbiamo fare qualcosa per questo bagaglio, Rai’an­sama.–
–Hai ragione. Ma spero che non dovremo più inoltrarci in una macchia
fitta come questa.–
–Non si sa mai. Se dovessimo muoverci all’improvviso fra i boschi,
questo potrebbe diventare un problema serio. Dovremo dividere il peso.–
–Mi spiace…–
–Siamo in questo viaggio per proteggerti, Rai’an­sama, non per farci
viziare da te.–
Lui si volta verso di me, e mi ringrazia col suo sorriso. Arrossisco, e
cerco di distogliere lo sguardo, ma i miei occhi incontrano quelli di
Midori, che mi rivolge un silenzioso rimprovero. Distolgo lo sguardo
un’altra volta. Ma tu guarda se devo farmi sgridare da una ragazzina…
208
Scendiamo a valle in tre; Jirou ci avvisa di fermarci un paio di volte, ma
finalmente riusciamo a metterci in cammino sulla strada, mentre il sole è
ancora basso a est; dobbiamo ancora essere nel cuore dell’Ora del Drago.
O forse è appena iniziata l’Ora del Serpente.
Hase è pochi passi più avanti; il villaggio nato attorno al tempio è pic­
colo, ma molto operoso. Oltre alla gente che serve il tempio, giungono dai
villaggi vicini contadini che portano cibo fresco per i nobili ospiti e per i
loro seguiti. Artigiani, musici e commedianti forniscono intrattenimento e
oggetti utili per le comitive; qui, la carta di riso e l’inchiostro di china scar­
seggiano sempre, per non parlare delle suzuri, le pietre­calamaio, e dei
pennelli. E poi, ci sono ben tre locande, due delle quali sono anche ostelli,
e un grande albergo per pellegrini.
Quando arriviamo, le stradine del paesello già brulicano di gente che
porta viveri alle locande e al tempio, di pellegrini in cerca delle suppellet­
tili necessarie per affrontare il viaggio verso Ise, e di servitori in cerca di
oggetti interessanti per alleviare il tedio dei loro padroni. In tutto questo
brulicare, può anche darsi che passiamo abbastanza inosservati.
–Penso che in quattro saremmo troppo appariscenti. Midori, Jirou,
aspettateci in quella locanda; qui dietro c’è un artigiano che fornisce arma­
ture per le guardie dei nobili che si trattengono più a lungo.–
–Va bene…– mi fa Midori, e aggiunge: –Kaori­san, ci puoi lasciare
qualche moneta? Così ne approfittiamo per fare colazione…–
Già, dopo aver parlato con lo spettro, siamo scesi di corsa…
–Ecco qui… una, due… tre dovrebbero bastarvi.–
–Ma… l’hai visto bene Jirou?– mi fa, battendogli sul petto e guardan­
dolo in volto; immagino possa vedere appena il suo mento.
–Tre monete non basteranno nemmeno per lui.–
–Oh, e va bene! Eccotene altre tre. E ora muoviamoci, che non voglio
che troppa gente veda Rai’an­sama con questi stracci addosso.–
–Sì sì… tu pensa al tuo Rai’an­sama, che a Jirou faccio la guardia io!–
Piccola serpe.
La ignoro e mi tiro dietro Rai’an­sama.
Ma questa me la paga.
Zietta intraprendente (M)
–Allora… portaci del riso, un po’ di pesce fritto, tè verde… hai anche
dello yakitori?–
–Certo, sorellina, ma… puoi pagare?–
209
Non mi piace questa cameriera… o padrona che sia. Sbatto quattro
monete sul tavolo, le altre possono sempre tornare utili un’altra volta.
–Bastano queste?–
Lei sospira, guardando Jirou. È l’uomo più grosso in tutta la locanda.
E… la locanda è piena di uomini assai grossi.
Ma gli altri sono brutti.
–Per quelle monete, non aspettatevi porzioni troppo abbondanti.– dice, e
si allontana.
–Yakitori… è un piatto di carne…– mi sussurra piano Jirou.
–Già.–
–Ma questo non è un tempio buddista?–
–No. Questo è un paese di gente comune.–
–Sì, lo so, intendo… i monaci non hanno niente da dire?–
–Mah, chi lo sa. A quanto pare no. O forse… basterà pregare un po’ più
forte.–
Jirou non risponde.
Mi piaceva parlare con lui; è sempre così silenzioso… provo a dire
qualcosa.
–Sai, questa è la prima volta che siamo noi due soli soletti.– gli dico sor­
ridendo. Lui alza lo sguardo sulla massa di uomini già sporchi di sudore e
carichi di saké, che imprecano proprio davanti al nostro tavolo.
–Ehm… no, volevo dire, che Kaori non ci osserva…–
–Kaori­san.–
–Uffa, ora ti ci metti anche tu!–
Gli metto il broncio.
Non dobbiamo aspettare molto; la stessa cameriera, o padrona, si ingi­
nocchia dall’altra parte del tavolo, e sposta le bacchette e le vivande dal
vassoio, posandocele davanti, alla rinfusa.
Quando ha finito, invece di alzarsi, si appoggia sulle braccia e sporgen­
dosi verso Jirou e gli chiede sorridente:
–Allora, bel giovane, cosa ti porta da queste parti?–
–Eh?– fa lui.
–Aeeehhhh?– faccio io. Ma che razza di cameriera è questa?
È una donna dall’aria robusta, spalle larghe e braccia forti, e quello che
posa sul tavolo è un petto ben gonfio. Ha una faccia tonda e grandi occhi
neri, e i capelli sono raccolti sulla testa e tenuti fermi da due bacchette e
uno spillone. Il sorriso sarebbe anche simpatico, se non stesse facendo la
civetta col mio Jirou!
210
–Sì, dico, non si vedono spesso ragazzi per bene come te, da queste
parti. Sono quasi tutti mercenari o guardie del corpo, gente poco racco­
mandabile, insomma. Tu, invece, hai un visino così caruccio!–
–Oh, io…– arrossisce il procione.
–Beh, lui è la MIA guardia del corpo!– dico sibilando, e afferro il brac­
cio di Jirou, tirandomelo addosso.
–Dai, sorellina, non c’è bisogno di essere così protettiva. Sono certo che
il tuo ragazzo sa bene ciò che vuole!– dice cinguettando, e si sporge ancora
di più sul tavolo, aprendo ancora di più lo spacco del kimono. –Eggià, zietta, lui è un ragazzo per bene, dai gusti più … raffinati…–
ribatto, e stringo il braccio di Jirou sul mio petto, facendole ben vedere che
nemmeno il mio shiroi è poi così vuoto.
–Midori­san, ti scongiuro!– arrossisce ancora di più il procione.
–Senti, bel giovane; deve essere dura per te fare la guardia del corpo
tutto il giorno ad una vergine sacra. Ti va di rilassarti con qualcuno che ha
un po’ più di… esperienza?–
Brutta strega in calore!
–Se per questo, zietta, non è che siamo tenute a non conoscere mai gli
uomini!–
–Midori­san!– cerca di divincolarsi, il procione, ma gli tiro giù il brac­
cio e gli stringo la mano fra le cosce.
–Ohh… ma come siamo gelose… guarda che non te lo consumo mica!–
–Già. Dubito che tu possa. Ma, vedi, è che se toccasse una donna come
te, poi sarei costretta a purificarlo per un mese.– le sorrido soave.
–Midori­san…– il procione è quasi alle lacrime.
–Senti, bel giovane, se stai da queste parti per un po’, e… riesci a libe­
rarti… passa a trovarmi. Vedrai che sono molto meglio di questa ragazzina
pelle e ossa senza esperienza.–
E così dicendo, si alza, riprende il suo vassoio, fa un ultimo sorriso in
direzione del procione, e si allontana fra i tavoli, verso la cucina.
–Sciò, sciò, pussa via!– la scaccio come una vecchia gallina. E afferro le
bacchette.
–Midori­san…– piagnucola il procione.
–Uhm?– rispondo con la bocca piena.
–Il braccio…–
–Resta qui dov’è.– e attacco il pesce.
–Ma io… dovrei mangiare…–
–Mangia con una mano. O preferisci che ti imbocchi io?–
211
Il procione afferra le bacchette con la sinistra, e inizia a spiluccare gof­
famente lo yakitori. Dopo un po’, mi fa:
–Senti, Midori­san… è davvero imbarazzante!–
–Siamo stati tutta la notte fianco a fianco, e non c’è stato nessun pro­
blema.–
–Ma ci guardano tutti!–
–Appunto. Anche quella vecchia gallina, non la vedi?–
–Midori­san… ti prego!–
–Non se ne parla. Non ti mollo, razza di procione!–
Il procione sospira e si mette un po’ di riso in bocca.
Abbiamo quasi finito tutto quando Kaori e Rai’an entrano nella locanda.
Kaori si guarda in giro, e quando mi vede la saluto. Jirou sembra voler
nascondere la faccia, prova ancora a sfilare il braccio, ma io lo stringo più
forte.
Lei si precipita verso di noi. –Midori… che succede?–
–Oh, niente Kaori­san, è tutto a posto, ma tieni Rai’an ben stretto. Da
queste parti rubano gli uomini.–
Kaori non fa in tempo a sgridarmi per il ­sama, o forse è troppo confusa
dalla mia risposta. Come Rai’an la raggiunge, vedo che indossa una lucida
armatura in cuoio ricoperta di fitte lamine di bronzo splendenti. L’armatura
arriva a metà delle cosce; il resto delle gambe è vestito da un largo panta­
lone bianco. Sulla testa, ha un elmo di bronzo che gli lascia scoperto tutto
il volto, ma nasconde i suoi capelli. Gli occhi di color del cielo luccicano
più del bronzo lucidato che gli sta attorno.
–Allora, che ne dite?– ci chiede lei, e se lo ammira come se fosse una
sua creazione. Rai’an arrossisce un po’ nei suoi nuovi panni e sorride
abbassando lo sguardo. Che tenero!
Kaori gli arriverà sì e no a metà del petto; per guardarlo in volto, deve
alzare lo sguardo fino al soffitto. Uhm… se penso che io sono una testa più
bassa di Kaori e che Jirou è qualche dito più alto di Rai’an, mi chiedo
come farò ad arrivare a baciarlo. Mah, come dice il proverbio, sdraiati
siamo tutti alti uguale.
–Sì!– approvo, –È proprio quello che ci voleva.–
–Ne ho ordinata una anche per Jirou; avendo due guardie del corpo
vestite in modo diverso, daremmo nell’occhio. Ma la più grande che ave­
vano era della taglia di Rai’an­sama… ci vorrà un giorno per sistemare le
cinghie, ci ha detto l’artigiano.–
–Oh, bene; ma… Rai’an, non avevi fretta?–
212
–Sama, Midori, SAMA!–
–Scusa, Kaori­san…–
Rai’an ride, e Kaori lo fulmina. Quando ha finito di fulminarlo, lui
risponde: –Se non possiamo stare davanti alle notizie su di noi, è inutile
correre. Kaori mi ha spiegato com’è il terreno che dobbiamo attraversare,
ed è meglio essere preparati. E poi, è meglio avere un travestimento più
adeguato che correre una gara che siamo quasi sicuri di perdere.–
Brava Kaori; così, almeno, avremo tempo per dormire in un letto vero,
stanotte. Mi torna in mente la gallina.
E se Jirou si facesse tentare dal gonfiore del suo petto?
Ah no, non glielo permetterò, a costo di legarlo dentro alle coperte.
E come penso alla gallina, eccola sbucare da dietro un tavolo. Come ci
passa accanto, si ferma davanti a Rai’an, e rimane a bocca aperta mentre
affonda nell’azzurro del cielo dei suoi occhi. Le vivande tremano sul vas­
soio. Kaori la guarda perplessa, e Rai’an sembra ricordarsi solo adesso di
essere uno straniero: come distoglie lo sguardo, l’incantesimo si spezza e il
vassoio smette di tremare.
–Sorella…– fa la gallina a Kaori, –… ma bisogna farsi miko per trovare
uomini così?–
Kaori rimane lì impalata, mentre la gallina si allontana, ancora turbata.
Poi mi guarda, con aria interrogativa.
–Visto? Che ti avevo detto?–
Luccicano le spade (R)
Ora è il mio turno mangiare qualcosa. Bene, avevo una fame…
Kaori è tornata fuori a cercare alloggio per la notte, pare che questa
locanda non abbia letti, e si è portata dietro Midori. Quasi trascinandola.
–Ma non possiamo lasciarli qui da soli!– protestava, ma Kaori è stata
inflessibile: qui, a un’ora di cammino da Sakurai, meglio non farsi vedere
in quattro.
Jirou mi ha raccontato il motivo della preoccupazione di Midori, e ogni
tanto mi scappa ancora da ridere. Sopratutto quando l’ostessa intrapren­
dente gli lancia occhiate di fuoco.
–Rai’an­sama, ti pregherei di finire in fretta…– mi incalza Jirou.
–Perché? Hai un appuntamento da qualche parte?–
–Ecco… vorrei uscire di qui al più presto…–
213
–Su, su, un giovane guerriero come te non avrà certo paura di qualche
occhiata interessata di una sconosciuta!–
–No. Ma in sincerità, ciò che temo è Midori­san.–
–Oh… beh… in effetti…–
–Rai’an­sama, almeno tu!–
–Hahaha!– rido, ma la risata mi muore in bocca nel sentire il grido di
una donna arrivare dalla strada. Non faccio in tempo a capire che quella è la voce di Midori che Jirou è
già saltato sul tavolino, buttando tutto a terra, e corre verso l’uscita. Io
lascio lì il bagaglio e cerco di seguirlo più veloce che posso, con questa
ferraglia che ho addosso che mi impaccia, mentre alcuni avventori si
girano incuriositi verso di noi; ma la maggior parte ci ignora.
Per strada, la gente si è fermata, e osserva tre guerrieri in un’armatura
composta di piccole placche smaltate di nero, sopra a vesti celeste scuro,
che non portano l’elmo. Quello di fronte a Midori la strattona per un
gomito; gli altri due sono dietro di lei, a meno di un braccio di distanza.
–Avanti, sorellina, è un sacco che non passiamo per un santuario, e da
queste parti ci sono solo brutti monaci puzzolenti…– fa quello che la sta
strattonando.
–Sì, sorellina, dacci la tua benedizione.– fa un altro.
–E piantala di gridare, guarda che paghiamo bene!– si avvicina dietro di
lei il terzo.
Cerco Jirou fra la folla, ma è il lampo della sua lama che me lo fa tro­
vare.
Ogni voce ammutolisce. Rimbomba solo lo stridere di Oborozuki.
–E tu che vuoi, pezzente?– dice il più grosso dei tre, gettando Midori fra
le braccia degli altri; ma non accenna a sfoderare la spada. Jirou si avvi­
cina, la punta dritta verso la gola del guerriero.
Si mette male; qui in mezzo alla folla non posso fare nulla, e temo di
non essere di grande aiuto a Jirou, ma mi avvicino lo stesso e mi metto al
suo fianco.
–Lasciatela.– intimo, e poggio la mano sul braccio di Jirou per fermarlo.
–Senti, pezzente, l’abbiamo vista prima noi.–
Lo guardo duro, e afferro l’impugnatura di Hikarisuji. Dannazione, fino
all’altro giorno non ho mai visto una spada vera da vicino, non so neanche
tenerla nel modo giusto!
–Adesso vi insegno le buone maniere…– fa il guerriero, e finalmente
sfodera la sua lama. È una massiccia spada in bronzo, ma ben tenuta e ben
affilata.
214
–Jirou…– faccio per dirgli, ma lui è già partito.
Il suono sordo dell’acciaio che cade sul bronzo copre ogni respiro. Jirou
ha l’iniziativa e la forza fisica; il suo avversario indietreggia e fatica a reg ­
gere i colpi martellanti, eppure precisi del ragazzo.
Jirou fa saettare Oborozuki verso il fianco destro, e il guerriero nero
copre a malapena, poi la leggera lama gira velocemente in un semiarco
dall’altra parte, e viene respinta appena. Si apre un varco in alto, e Jirou
solleva la spada, ma incontra la lama del guerriero, che però incespica
sotto il fendente.
Nel frattempo, sono arrivati a un paio di passi dagli altri due. Noto che
uno sta tenendo Midori per i polsi, da dietro; lei cerca di divincolarsi, ma è
chiaro che non può farcela. Dovrei provare a raggiungerla… ma mentre
penso come aggirare la folla, vedo il bagliore di una lama posarsi da dietro
sul collo del guerriero. Intravedo Kaori sussurrargli qualcosa all’orecchio,
e subito le mani di lui si aprono. Midori scappa via, inseguita dal terzo
guerriero; ma nel tempo di una finta, Jirou allarga il braccio e lo colpisce
dietro la nuca col dorso della spada, facendolo rotolare a terra. Approfit­
tando del braccio così allargato, o forse per non perdere il tempo, Jirou
afferra Oborozuki con entrambe le mani e completa il giro su sé stesso,
facendo piombare la lama sul fianco destro del primo guerriero, all’altezza
del collo. Lui para, ma la forza del colpo è tale che Oborozuki taglia la
spada di bronzo come fosse un fuscello di bambù, andando a fermarsi a un
capello dalla sua giugulare.
Il tempo trattiene il fiato.
I guerrieri sono immobili.
La folla è muta.
–Che sta succedendo!– sento gridare dietro le spalle; al grido, i tre guer­
rieri si dileguano fra la folla: Jirou e Kaori li lasciano andare. A terra, resta
solo la lama spezzata.
Mi giro; la folla si apre e lascia passare due souhei, coi lembi di stoffa
che scendono dal bianco turbante a coprire il volto, le alabarde spianate
verso di me. Dietro, sento il suono secco di uno schiaffo.
–Ti avevo detto di restare con me!– grida Kaori. Mi giro di nuovo, e si
girano anche i souhei.
Midori è a terra, il volto nascosto dai capelli, tremante. Kaori, in piedi di
fronte a lei, la mano ancora aperta dopo lo schiaffo, è mortalmente pallida.
Dopo aver infoderato Oborozuki, Jirou corre e si inginocchia su Midori,
ignorando Kaori.
–Midori­san… stai bene?– le chiede afferrandola per le spalle. Lei trema
e non risponde.
215
–Midori­san!– la scuote piano.
Kaori, dietro di loro, sembra paralizzata.
I due souhei si scambiano uno sguardo e annuiscono; sollevando le ala­
barde, si dirigono verso Kaori.
–Nobile miko, venite con noi.–
–Noi… noi non abbiamo fatto niente!– indietreggia Kaori. Ai suoi piedi,
Midori inizia a singhiozzare. L’altro souhei si china e dice piano qualcosa
a Jirou.
–Sì, Nobile miko, va tutto bene. Ma non potete rimanere qui; venite con
noi.– Il tono del primo souhei è conciliante; da qui non vedo il suo volto,
ma sta di fronte a Kaori con l’alabarda sulla spalla e l’altra mano aperta.
Mi avvicino.
–Kaori… facciamo come dicono.–
Lei mi guarda, e sembra recuperare il controllo di sé. Jirou aiuta Midori
ad alzarsi. –Prendo una cosa nella locanda e arrivo, – faccio al souhei, e lui annui­
sce. Mentre entro nella locanda a prendere il bagaglio, sento la sua voce
che grida: –Non c’è niente da guardare qui, tornate ai vostri affari!–
Onmyouji (K)
–Adesso hanno passato il segno!– sbotta il souhei non appena l’altro
chiude il cancelletto dietro di sé.
Mi fa ancora male la mano che ha schiaffeggiato Midori. Ho paura di
guardarla… devo averle fatto davvero male. Ed era così spaventata… ma
ero così infuriata! Se, invece di fare la mocciosa, mi avesse dato retta, non
sarebbe successo nulla.
Il souhei che sembra essere il più anziano respira, si gira verso di me e
si inchina.
–Nobile miko, il mio nome è Goemon, e sono il Souhei Guardiano di
Hasedera.–
–Oh io…– balbetto, sorpresa. Nessun souhei mi ha mai trattato con
tanto rispetto. Rispondo con un cenno al profondo inchino, e continuo: –…
io sono Kaori, miko anziana del santuario di Koumon.–
Quanto dovrebbe essere profondo il mio inchino? Essendo una miko,
sono più devota agli dei di un guerriero, ma essendo una donna, dovrei
mostrare rispetto… ma non ci penso neanche, e comunque, questo souhei
non sembra pensarla come gli altri. Abbasso appena un po’ la testa, com­
pletando il cenno di prima.
Poi, Goemon si rivolge a Midori. 216
–Stai bene, nobile miko?–
Midori risponde annuendo forte.
Adesso Goemon respira profondo e si infuria; rivolto un po’ al suo sot­
toposto e un po’ a tutti i noi, continua il suo sfogo: –Ma chi si credono di
essere? Importunare una miko! Questo è davvero troppo!–
Il souhei più giovane interviene: –Forse dovremmo dirlo all’abate…–
–No, è fuori discussione. Quello che avviene fuori dal tempio non è
affar suo.–
–Ho!– risponde marziale il giovane guerriero.
Poco dopo, sediamo in ginocchio attorno a un bel tavolo di ciliegio, in
quello che deve essere il quartier generale dei souhei. Davanti a noi c’è una
tazza di tè fumante.
–Da dove venite, nobile Kaori?–
Sono abituata a sentire l’espressione “nobile miko”, ma sentire “nobile”
direttamente sul mio nome mi fa uno strano effetto.
–Da Koumon.–
–Sì, intendo… arrivate da Uda o da Sakurai?– –Oh… da Sakurai.–
–E avete intenzione di trattenervi a lungo?–
–Pensavamo di partire domattina…–
Goemon sorseggia il suo tè, prima di continuare.
–Gli uomini che vi hanno importunato…– sospira e beve un altro sorso,
–sono della scorta di Fujiwara­no­Akihira.–
Accanto a me, Rai’an­sama ha un sussulto. E anche io, al sentire il
nome Fujiwara; ma questo Akihira non l’ho mai sentito.
Il souhei ci spiega: –È il giovane rampollo del ramo cadetto degli Shi­
kike. La parentela con i Fujiwara della corte di Hei’an è distante, e i rap­
porti fra i due rami non sono molto… cordiali, ma… è sempre un Fuji­
wara…–
–… e si comporta da padrone.– concludo.
–A dire il vero, nobile miko, Akihira è solo un giovane smidollato. Ma
questo è anche peggio: il suo tutore è Kamo­no­Kousuke.–
Scatto in piedi. –L’onmyouji?–
–Sì. Le guardie rispondono a lui. E lui non se ne occupa per niente, tutto
preso com’è dai suoi calendari. Per guardare il cielo, non vede quel che
succede in terra.–
Mi inginocchio di nuovo, mentre Goemon continua.
217
–E quando le guardie di Akihira si annoiano, il ché accade spesso, scen­
dono in paese… e combinano qualche guaio.–
Un onmyouji qui, ad Hasedera! Cosa succederebbe se percepisse lo spet­
tro della hime, o il musuhi di Rai’an­sama? Cerco di recuperare il filo del discorso.
–E… voi non potete fare nulla?–
–Fino ad ora, avevano solo rotto un paio di teste e fatto strillare qualche
ragazza qui attorno… e non è il caso mettersi contro i Fujiwara e i Kamo
in un colpo solo.–
Stringo i pugni sotto al tavolo. –Ma adesso, – conclude, –sono davvero andati troppo oltre.–
–Non avete nemmeno provato ad accennare il problema a Kousuke­
sama?–
–Una volta. Avevano preso una ragazza qui di Hasedera, e il giorno
dopo lei e suo padre sono venuti a lamentarsi da noi.–
Goemon sorseggia il tè che si va freddando; si porta la tazza alla bocca
con un gesto lento, ma quando la posa sul tavolo, le sue nocche sono bian ­
che.
–E… che è successo?–
–Kousuke ci ha detto che avrebbe sistemato la cosa. Pensavo volesse
risarcire la poverina…–
Il tono prima cinico di Goemon si fa più basso; ora si mette a girare la
tazza fra le dita, lentamente.
–…il giorno dopo, l’hanno trovata morta nella sua stanza. Sgozzata.–
finisce Goemon stringendo la tazza tanto forte che la sento scricchiolare.
–E non avete fatto nulla?– grido.
–Non avevamo prove! Nessuno ha visto niente, o sentito niente! Le
porte erano chiuse, le finestre pure. L’hanno trovata così i suoi genitori al
mattino. Dev’essere stato quello stregone!–
–Se lo sapete, perché non avete fatto nulla?–
–Perché ha la protezione dei Fujiwara. E quindi, anche del nostro tem­
pio. Che cosa avremmo potuto fare?–
Tagliarli la testa, ecco che avresti potuto fare!
Goemon guarda fisso la tazza, che ormai non fuma più.
–Da quel momento, teniamo d’occhio le guardie di Akihira giorno e
notte, ma sono tanti, e non riusciamo a seguire tutti.–
Il souhei sospira, alza lo sguardo e mi parla in tono preoccupato: –
Nobile miko, partite il prima possibile. Li avete umiliati davanti al paese,
ed è gente vendicativa.–
218
Guardo Rai’an­sama. Lui mi fa cenno di sì con la testa, ma ormai è pas­
sata l’Ora del Serpente, e siamo già da un pezzo nell’Ora del Cavallo; se
partissimo adesso potremmo arrivare a Uda per sera, ma è ancora troppo
vicino. Goemon sembra rendersene conto, mentre osserva il sole entrare da
una finestra. –Se non potete, restate qui fino a domani. Vi ospiteremo qui alla guarni­
gione; non abbiamo stanze degne di accogliere una nobile miko, ma
almeno è un posto sicuro per dormire.–
Il riguardo che mi mostra questo souhei mi sorprende profondamente.
Sì, è la cosa migliore da fare.
–Goemon­san, ti ringrazio. Accetto volentieri la tua offerta.–
–Ne sono onorato, nobile miko.–
Scuse (M)
È tutta colpa mia! È tutta colpa mia! È tutta colpa mia!
Kaori avrebbe dovuto staccarmela, questa zucca vuota. Ma che mi è sal­
tato in testa? Correre a vedere che il procione non stesse mettendo le mani
sulla gallina! Stupido Jirou. Se solo non fosse così stupido, non mi sarebbe mai
venuto in mente di… Ma che sto dicendo? È colpa mia. Stupida Midori, stupida, stupida!
–Rai’an­sama…– lo chiamo.
Jirou, Kaori e Rai’an stanno stendendo le stuoie nello sgabuzzino che ci
hanno prestato per stanotte. E io sono qui in piedi, anzi, d’intralcio. Come
sempre.
Lui si alza di scatto e quasi mi corre incontro. –Dimmi, Midori. Come stai?–
–Io, bene…– guardo verso Kaori. Che mi ignora. Freddamente.
–Rai’an­sama, perdonami…–
–Perdonarti? Ma che stai dicendo, Midori?–
Rai’an mi posa le mani sulle spalle. Come sono calde! Mi scaldano fino
al petto, fino al cuore. Ma non me lo merito. Fisso il tatami e continuo:
–Ho combinato un guaio…–
–Ma… Midori…– Rai’an mi appoggia delicatamente la mano sulla
guancia, e mi solleva piano il volto finché incontro i suoi occhi.
No, non merito di ammirarli.
Non lo merito, ma non riesco a muovermi; sono come paralizzata.
219
–Midori, ma che ti salta in testa? Quelli erano sbruffoni in cerca di guai!
Tu non c’entri nulla…–
–Se avessi dato retta a Kaori, se fossi rimasta con lei…–
–Midori, senti. Poteva succedere a chiunque! È stato un caso, ed è finito
tutto bene.–
Non so se mi stanno uccidendo più la voce e il sorriso di Rai’an o il
silenzio e il gelo di Kaori.
–Io… dovevo dare retta …– cerco di dire, ma mi scendono le lacrime, e
non riesco più a parlare.
–Midori, ascolta. Poteva succedere a tutti noi. Potevano prendersela con
me per il mio aspetto, o con Jirou perché è grande e grosso, o anche con
Kaori.–
Riesco solo a singhiozzare…
–Rai’an­sama è troppo buono con quella mocciosa.– sibila Kaori, girata
di spalle.
–Kaori, ma che stai dicendo?– Rai’an si gira verso di lei, mentre ancora
mi accarezza e mi tiene per la spalla.
–Rai’an­sama è solo affascinato dal dolce visino di quella smorfiosetta,
e non si rende conto della gravità di quello che ha fatto.–
–Kaori… ma che ti prende?–
–Quella mocciosa ci è solo d’impiccio. Non ci è di alcuna utilità.
Dovremmo lasciarla qui.–
–Kaori!– grida Rai’an, voltandosi di scatto verso di lei, che è ancora in
terra, girata di spalle, che fa finta di sistemare le coperte. Jirou la sta guar­
dando, incredulo.
–Rai’an­sama, Kaori … ha ragione, … io sono… sono solo…– riesco a
dire fra i singhiozzi, ma, senza girarsi, Rai’an mi appoggia di nuovo una
mano sulla spalla e mi stringe forte, fino quasi a farmi male.
–Kaori, adesso mi dici che ti passa per la testa.– le chiede secco, lascia
la mia spalla e si avvicina a lei.
–Kaori!– la chiama più forte, ma lei fa finta di niente. Allora, Rai’an,
infuriato, la prende per un braccio e la solleva quasi di peso… e … Kaori è
così sorpresa che … non fa in tempo a … nascondere le sue lacrime!
Le vedo bene, mentre rimane inchiodata dallo sguardo di Rai’an. Ora
anche lui è sorpreso. Kaori mi lancia un’occhiata per vedere se l’ho vista e
poi gira la faccia, ma è troppo tardi.
–Kaori…san…– faccio un passo verso di lei.
–No! Non ti avvicinare!– Ora anche la sua voce è rotta.
–Rai’an­sama… Kaori­san ha ragione…–
220
–Sì, ho ragione!–
–Oh, adesso piantatela, tutte e due!–
La sua voce fa vibrare il tatami sotto i miei piedi, e mi fa paura.
–Kaori,– Rai’an la scuote per le spalle, –Midori non ci è utile, ci è indi­
spensabile, e tu lo sai bene. Ho capito quello che vuoi fare…–
–È solo una ragazzina viziata…– ma la voce di Kaori trema.
–Dillo ancora, e il prossimo ceffone che vola qua dentro è per te.– la
sgrida Rai’an, ma il tono della sua voce, caldo e protettivo, non si sposa
con l’asprezza delle parole.
–E va bene! E va bene, Rai’an­sama, mi arrendo.– Kaori si divincola
dalla presa di Rai’an e si gira verso il muro.
–Vuoi la verità, e fai bene: sono indegna delle vesti che indosso, tanto
che ho stracciato il makoto, oggi. Se continuo così, finirò col lordare anche
il tuo.
–Non voglio che succeda qualcosa a Midori. Questa è la verità. Quando
l’ho vista in mezzo a quei tre luridi… ho dovuto raccogliere il cuore in
fondo ai piedi per riuscire a muovermi.
–Se succedesse di nuovo qualcosa come oggi… la prossima volta il mio
cuore potrebbe fermarsi. Se dovesse accaderle qualcosa, non me lo perdo­
nerei mai. –Quindi, ti scongiuro, Rai’an­sama… ci arrangeremo noi tre. Lasciamo
Midori qui, i souhei le faranno buona guardia…–
–Kaori­san…– scoppio a piangere.
Rai’an sospira e si gira verso di me. Sono terrorizzata. Se mi chiedesse cosa voglio fare, non lo saprei. È
vero, sono inutile, anzi, sono d’impiccio. Io voglio rimanere con Rai’an,
con Kaori… e con Jirou… e non m’importa se mi succede qualcosa. Sono
pronta. Ma se devo essere un peso per Kaori… se dovesse mettere a repentaglio
la sua vita per salvare me…
Rai’an mi sorride. È come il sole che splende dopo un temporale.
–Ho un’idea migliore, Kaori.–
Lei si gira e lo guarda con gli occhi lucidi, ma gelida.
–Scusatemi tutti, – si inchina Rai’an, –è colpa mia.–
Ma che dici, straniero? È tutta colpa mia!
–Ho sottovalutato i pericoli che possiamo incontrare su questa strada.
Prima di proseguire, vi insegnerò ad usare le armi che abbiamo recuperato
a Nara.–
Kaori osserva prima Rai’an, poi me, con la mascella serrata.
221
–Anche se le tue armi sono potenti, Midori non…–
Qualcosa si muove dentro di me. Non so neanche cosa mi prende, ma
scatto verso di lei e le dico: –Kaori­san, non devi preoccuparti per me. Non
ho accettato questa missione con leggerezza. Conoscevo i rischi e i miei
doveri.–
Lei si volta dall’altra parte.
–Kaori­san, quello che tu dici è vero: sono solo una stupida mocciosa
viziata. Ma sono qui di mia spontanea volontà, e se mi succederà qualcosa,
sarà solo colpa mia.–
Ancora, Kaori non risponde.
–Non devi sentirti in dovere di proteggermi. Il tuo dovere è proteggere
Rai’an­sama. Io so quali sono i rischi che corro, e sono pronta. Se fossi in
pericolo, puoi lasciare che io soccomba senza provare rimorso…–
Jirou scatta in piedi e grida: –Non lo permetterò!–
E finalmente Kaori si volta: –Vedi? Questo è quello che intendo.–
Non capisco, e dagli sguardi che si incrociano, vedo che non capiscono
neanche gli altri.
Kaori si rivolge a Rai’an: –Rai’an­sama, quanto tempo credi che ci
vorrà ad imparare a usare le tue armi?–
–Oh, dunque… se ci alleniamo tutto il giorno, e siete bravi, una setti­
mana dovrebbe bastare…–
–Una settimana?– Kaori ride sbuffando. –Potremo anche imparare ad
usare le tue armi, ma tu pensi che in una settimana Midori possa essere in
grado di affrontare una situazione come quella di oggi DA SOLA?– Rai’an si avvicina a Kaori; la sua presenza fisica è imponente, ma anche
il suo sguardo è terribile. Nella sua nuova armatura che, così lucida, sem­
bra d’oro, la sua luce abbaglia, quasi affoga la figura di Kaori.
–E tu… Kaori…– le fa piano, –tu, saresti riuscita ad affrontare la situa­
zione di stamane… da sola?–
Adesso lo uccide. Rai’an­sama o no, ora lo uccide.
Kaori sostiene il suo sguardo con un sorriso. Poi, abbassa pudicamente
gli occhi, tanto che penso che stavolta Rai’an l’abbia scampata, ma come
lo penso, un lampo d’argento mi fa balzare indietro. Quando riapro le palpebre, il coltello di Kaori è appoggiato sulla gola di
Rai’an. Lei gli sorride con continenza, ma, protetta dalla lama, il suo corpo
di donna si appoggia all’armatura. Alzandosi in punta di piedi, raggiunge
con la mano libera la corta capigliatura sulla nuca del kamii straniero, e tira
con forza la sua testa in basso, fino a quando l’orecchio di lui è a portata
delle labbra di lei.
222
–Hora– gli sussurra, ma quell’ “Ho” sembra in realtà un lungo, lungo
sospiro, –come vedi, penso che almeno uno di loro avrebbe rimpianto ama­
ramente di aver incrociato la mia strada.–
Un altro lampo attraversa la stanza, accompagnato dallo stridere del
metallo. Oborozuki compare all’improvviso dietro al fiocco che tiene uniti
i capelli di Kaori.
–Ma poi, avremmo dovuto contendere la tua testa dalle mani dei due
sgherri ancora in piedi.– dice gelido Jirou. Oh, no, il mio Jirou! Eri così
giovane…
Kaori si gira appena verso di lui, e gli sorride con la coda dell’occhio.
Ohhhh, ha un sorriso così affascinante, e poi, è così femminile mentre
arrossisce e abbassa lo sguardo… e sento solo un ting, e il braccio di Jirou
si allarga, mentre le vesti e i capelli di Kaori roteano nell’aria, mentre lei
danza un giro completo, mentre la sua lama si appoggia sul collo del mio
Jirou.
–O… forse no…– conclude Kaori, col suo mezzo sorriso vittorioso.
–Volgiamo darci tutti una calmata?– richiama all’ordine Rai’an. Kaori,
e di conseguenza, Jirou, rimangono immobili.
–Kaori?– insiste lui. Lei, lentamente, molto lentamente, allontana il col­
tello dalla gola di Jirou e lo rimette fra le pieghe del suo hakama. E Oboro­
zuki va a dormire nel suo fodero.
–Midori, se proprio insisti, e se Rai’an­sama me lo ordina, verrai con
noi. Ma ti avviso: se mi sei d’intralcio o se disobbedici anche una sola
volta, ti lascio dovunque siamo, fosse anche in mezzo al deserto.–
–Grazie, Kaori­san. Ti prometto che non succederà più.–
Lei sospira e mi sonda lo sguardo. Non tremo. Sono decisa.
Kaori annuisce, come se mi avesse letto nel cuore, e poi si gira verso
Rai’an. –Quando cominciamo?–
–Beh… se non hai niente da fare, anche subito.–
Mentre loro due discutono di dove e come allenarci, mi avvicino a Jirou,
che è ancora un po’ scosso. –Anche tu…–
–Midori­san?–
–Anche tu, Jirou… non farlo più. Kaori non perdona mai due volte.–
Jirou osserva Kaori parlare amabilmente con Rai’an, come se niente
fosse.
–Quella donna mi fa tanta, tanta paura.–
223
Guerre di religione (R)
Con la scusa di dover assolutamente compiere un rito di purificazione
per quello che è successo stamane, siamo riusciti ad allontanarci dal quar­
tier generale dei Souhei, che “è pur sempre un luogo consacrato alla vene­
razione del Buddha”, nelle parole di Kaori. Il comandante ha compreso le
sue esigenze, e ci ha indicato un luogo appartato sulla montagna, raggiun­
gibile con un sentiero abbastanza agevole.
Mentre lo percorriamo, Kaori, proprio davanti a me, dice fra se e se:
–Spero solo sia abbastanza lontano da quell’onmyouji.–
–L’idea di avere a che fare con un personaggio del genere ti dà tanto
fastidio?– le chiedo.
–In parte sì, Rai’an­sama. Ma non è solo questo. Gli onmyouji sono
diversi.–
La storia delle religioni in Giappone è frammentaria, a parte quando
erano direttamente coinvolti i Buddisti, che per cultura ormai consolidata,
tenevano cronache e annali molto precisi.
Sappiamo che lo sciamanesimo del primo periodo Jomon si andò evol­
vendo durante tutta l’era Yayoi, che va dal 300 a.C. al 300 d.C., al punto
che il ruolo delle sacerdotesse divenne talmente preminente da costituire
una teocrazia matriarcale. Nel periodo Kofun, che segue il periodo Yayoi,
forse a causa di colpi di stato militari, il potere passò di mano diverse
volte, scardinando l’egemonia delle sacerdotesse, fino a quando, con la
l’introduzione del Buddismo già nel 500, e poi con la riforma Taika del
645, iniziò l’era propriamente “storica” del Giappone. Il culto dell’impera­
tore quale discendente di stirpe divina non era sembrato sufficiente a pre­
servare il potere ottenuto, anche perché, più che un monarca teocrate,
l’Imperatore era oggetto di venerazione passiva; più che il primo sacer­
dote, un totem vivente. Per questo motivo, con l’introduzione del buddi­
smo, l’imperatore Koutoku aveva voluto compiere una mossa del tutto
analoga a quella di Costantino nell’Impero Romano d’Oriente: pur mante­
nendo la prerogativa di erede delle divinità primordiali, e quindi lo stato di
kami, aveva “delegato” a una nuova divinità, superiore alle altre, il com­
pito di sancire la legittimità del suo governo. Questo schema non era nuovo. Era già stato sperimentato durante il
periodo Kofun: accanto alla miko, selezionata, come in qualsiasi tradizione
sciamanica, in base a segni particolari, a eventi personali di particolare
significato, o semplicemente in base all’abilità delle sacerdotesse
nell’apparire “speciali”, era emersa la figura di un sacerdote “ufficiale” che
avrebbe dovuto compiere i riti più importanti, quelli il cui effetto doveva
ricadere su tutto il clan.
224
All’inizio, era un compito riservato al capo dell’uji, la famiglia­clan, ma
con il trasformarsi dei villaggi in città, si rendeva necessario distribuire
questo potere a più intermediari.
Questa nuova figura del kannushi, detto anche shinshoku, usando la ter­
minologia cinese, più di moda alla corte imperiale, era quella di un sacer­
dote “ordinato” dall’amministrazione imperiale. Questa figura non sostituì
da subito quella della sacerdotessa tradizionale. All’inizio, il compito del
kannushi doveva essere stato quello di gestire e amministrare i santuari,
aprire e chiudere i festeggiamenti, celebrare i matrimoni e officiare i riti
maggiori, quelli che avevano ricadute importanti su tutta la comunità di
riferimento.
Anche se uno degli obiettivi dell’istituzione della figura del kannushi
doveva essere stato quello di rompere il monopolio femminile sulle attività
religiose, questo ruolo non fu esclusivamente riservato agli uomini; ma
dopo l’introduzione del buddismo, sempre più uomini (e fra questi sempre
più monaci buddisti), e sempre meno donne, avrebbero avuto accesso a
questa carica.
Proprio in questo periodo, attorno alla metà dell’era Hei’an, nasce (o
forse, rinasce) la figura della miko indipendente, non legata a nessun parti­
colare luogo di culto, che compie i riti legati al culto dei kami, e allo scia­
manesimo primitivo, senza nessuna autorizzazione se non quella che
deriva dal suo carisma. Queste miko “erranti” si affiancano alle miko “resi­
denti”, nominate dai kannushi o anche dagli abati dei templi buddisti;
entrambe si occupano di tutti quei riti che non sono appannaggio dell’alta
gerarchia ecclesiastica. Ed è proprio adesso che il termine miko inizia a
diventare il nome di una professione ben precisa, mentre prima indicava
tutti i ruoli sacerdotali femminili. Prima della riforma Taika, la parola
“miko” si poteva tradurre con il generico termine “sacerdotessa”, mentre
adesso, a questo termine veniva già associato un ruolo molto più specifico.
Disorganizzate e istintive, le miko non potevano reggere la concorrenza
dei monaci buddisti, che, come loro, si occupavano di esorcismi, benedi­
zioni, guarigioni e, per farla breve, magia spicciola; ma il fatto che i riti
buddisti fossero più esotici, pronunciati in sanscrito, e quindi più miste­
riosi, li rendeva più affascinanti. E così che la figura della miko si assottiglia, fino a quando, a partire
dall’epoca sengoku, dopo la seconda metà del 1300, diventa una semplice
assistente dei sacerdoti ordinati, non dissimile dal ruolo del chierichetto
nella Chiesa Cattolica. 225
Con l’ascesa al potere dei Tokugawa, e l’inizio dell’era Edo nel 1603,
viene progressivamente vietato alle donne l’accesso alla funzione sacerdo­
tale (con l’unica eccezione della Grande Sacerdotessa di Ise), privando
così le miko della possibilità di prendere i voti anche come shinshoku, e di
compiere qualsiasi rito “attivo”.
Questo è uno degli ultimi momenti in cui la figura delle miko avrà una
dignità pari o, in alcuni casi, superiore a quella degli altri sacerdoti. Ho
come la sensazione che Kaori lo avverta, e ne sia turbata.
Alle tre figure religiose di miko, kannushi e monaco, se ne affianca una
quarta, l’onmyouji, che corrisponde grosso modo al ruolo degli alchimisti e
astrologi nelle corti rinascimentali europee. La figura era stata introdotta con editto imperiale verso l’inizio dell’era
Hei’an, come ulteriore misura per ridurre l’influenza dei monaci buddisti
sulla corte. Infatti, alcune pratiche ascetiche buddiste includevano la divi­
nazione. Da sempre, i governanti di ogni latitudine e longitudine sono par­
ticolarmente suscettibili a questa forma di superstizione, tanto da lasciarsi
guidare dagli oroscopi perfino nelle scelte politiche. Nel 758 fu istituito il
primo “ufficio per le divinazioni”, che sarebbe poi diventato “ministero
dell’onmyou­dou” nel 764. Onmyou­dou vuol dire “via della luce­ombra”. In realtà, è una disci­
plina, se così la vogliamo chiamare, che raccoglie influenze principalmente
taoiste, ma anche buddiste, induiste, e un po’ di altre mitologie esoteriche
raccolte dove possibile. Naturalmente, si ispira anche ai culti sciamanici
che costituivano la religione indigena del Giappone preistorico, e che, in
seguito, si sarebbero separati dal Buddismo per formare quello che, molto
più tardi, sarebbe stato chiamato Shintoismo.
Gli onmyouji sono i “maestri” di quest’arte, riconosciuti e autorizzati
direttamente dal ministero; ma già in quest’epoca, il controllo sulla loro
attività è diventato molto meno stringente, e persino i Fujiwara impiegano
degli onmyouji non autorizzati. Difficile sapere quali. Infatti, la loro atti­
vità era tenuta riservata, dal momento che, essendo consultati dai dignitari
di corte per avere pronostici sull’andamento dei loro affari, erano a cono­
scenza di tutti i loro progetti più segreti. Per secoli, la gente comune non
ne conobbe nemmeno l’esistenza.
Ancora oggi, nel cuore dell’era Hei’an, gli onmyouji sono considerati
figure misteriose e oscure, che trafficano col regno degli spiriti e dei morti,
e vengono loro attribuiti poteri sovrumani. Ad esempio, si tramanda che
Abe­no­Seimei, il famoso onmyouji personale di Fujiwara­no­Michinaga,
fosse rimasto sempre giovane fino al giorno della sua morte, o meglio,
della sua trasformazione in puro spirito.
226
Mentre entriamo nella radura che è la nostra destinazione, cerco di fare
una graduatoria del “potere mistico” di queste figure, secondo il senti­
mento della gente di quest’epoca. Chissà perché, è un’idea che mi diverte.
Dunque… assegnando a un monaco buddista novizio, ossia, un bonzo,
un valore uno, un monaco adulto doveva valere due, una miko almeno
quattro, un kannushi probabilmente cinque o sei, un abate di un tempio
almeno otto… e un onmyouji almeno sedici – e considerando che c’era una
graduatoria per gli onmyouji (molto giapponese, nella sua struttura: dal
nono grado “inferiore” al quinto “superiore”, per un totale di sedici gradi),
quelli di massimo grado almeno trentadue.
Kaori si porta al bordo della radura e guarda in basso, verso il tempio di
Hase, seminascosto alla vista dagli alberi. –Sì, credo che qui possa andare bene.– si gira verso di me ed annuncia; i
nostri occhi si incontrano, e per un attimo leggo lo stesso sguardo di prima,
di quando mi ha preso per i capelli.
Kaori: almeno sessantaquattro.
Il coltello di Kaori: fuori scala.
Lei mi vede ridacchiare e mi chiede: –Rai’an­sama?– –No, scusa Kaori. Pensavo al potere del tuo coltello.–
Lei mi guarda inclinando la testa, ma dato che siamo lì a parlare di armi,
scrolla le spalle e si avvicina. –Venite tutti qui.– Si avvicinano anche Jirou e Midori.
–Dunque, Kaori, con che mano tendi l’arco?– le chiedo.
–Con la destra.–
–E con che mano tieni il pugnale?–
–Sempre con la destra.–
–Jirou?–
–Io tengo la spada con entrambe le mani.–
–Giusto. Ma sei destro o mancino?–
–Destro.–
–Midori?–
–Ehm… io…–
–Lei è mancina.– annuncia Kaori, facendola arrossire. Nel Giappone
antico, era motivo di imbarazzo, se non addirittura interpretato come un
segno maligno. Probabilmente, è parte del motivo per cui Midori è stata
scelta come miko.
–Allora, facciamo così: ora vi farò indossare quel bracciale che vi ho
mostrato a Nara.–
227
–Quello che sembra una rete di catenine d’argento?– chiede Midori.
–Vedo che ti era piaciuto…–
–Era bellissimo!–
Le sorrido.
–Kaori lo porterà sulla destra, per poterlo usare mentre tiene l’arco nella
sinistra; può essere fastidioso se usi il pugnale…–
–Imparerò a cambiare mano.– conclude lei.
–Bene. Jirou sulla sinistra, così potrà usarlo distogliendo una mano
dall’impugnatura della spada. Midori, lo porterà sulla destra.–
–Ehm… come ti ha detto Kaori, sono mancina…–
–Sì; ma ho intenzione di farti usare un’altra arma. Del resto, mi pare,
non sai usare l’arco.–
La giovane miko abbassa lo sguardo e dice piano: –No, lo so usare…–
–Ed è anche brava, per essere una principiante, – la loda, Kaori, ma
senza entusiasmo, –solo, non ha il sangue freddo per incoccare una freccia
quando serve davvero.–
Se possibile, Midori abbassa lo sguardo ancora di più.
–Bene. Prima di attivare i bracciali, voglio provare a chiamare
Himiko… voglio dire, Hikari.–
Mi sembra l’occasione migliore per cercare di far ricordare a … Hikari
… da dove viene. Faccio per mettere il braccio nella sacca legata alla cintura dove tengo il
nucleo centrale, ma Kaori mi ferma: –No, Rai’an­sama!–
–Eh?–
–Se la svegli qui… quell’onmyouji potrebbe sentirla!–
–Ma guarda che è già sveglia. Non ho più intenzione di farla dormire.
Solo, le ho impedito di sentirci parlare.–
Kaori sbianca.
–Vuoi dire che il suo spirito era… con noi… mentre entravamo un tem­
pio consacrato al Budda… – il suo tono sale, –dove risiede un onmyouji?–
quasi grida.
–Kaori, – le sorrido, –non è uno spirito. Si è solo convinta di esserlo. E
noi dobbiamo farglielo capire molto, molto delicatamente.–
La miko riprende un po’ di colore. –Spero che sia come dici tu, Rai’an­
sama…–
–Haha, non ti fidi di me?– le chiedo ridendo.
–Oh, no, io non… il tuo makoto… non volevo dire… ecco…– hehe, mi
prendo una piccola, sapida vendetta nel vederla incespicare.
228
–Dai, dai, non preoccuparti, sto solo scherzando!–
–Oh, uffa, Rai’an­sama!– quasi sembra mettere il broncio come sa fare
Midori.
Emergenze (K)
Come ha detto Midori, è davvero un gioiello splendido. Troppo per la
mia mano. La guardo avvolta in questo guanto, in questa rete di fili d’argento che
copre tutto il dorso, il palmo, e l’avambraccio fin quasi al gomito.
Lo chiamo argento, ma è un metallo tanto bianco e splendente che non
può essere davvero argento. Dev’essere qualche sorta di metallo magico,
perché ha il potere di attrarre il mio sguardo con bagliori d’arcobaleno e
scintille di luce bianca.
Sul cuore del palmo, c’è uno specchio. O meglio, riflette il mio volto
volgare meglio di qualsiasi specchio abbia mai visto; lo sposto, così che
non debba ricordarmi la mia banalità, e vedo che si piega seguendo i movi­
menti della mano, come se fosse un foglio di carta.
Le maglie sottili dei fili d’argento aderiscono alla mia pelle perfetta­
mente, meglio di come i tabi di seta bianca aderiscono ai miei piedi;
eppure, le avverto appena, tanto sono leggere.
Al mio fianco, lo spettro di Hikari sgrana gli occhi quanto e più di me
nel vedere la mia mano adornata da questa meraviglia, che spezza la luce
del sole in migliaia di rivoli colorati. Avere uno spettro curioso che mi
sbircia da dietro le spalle mi rende un po’ nervosa, ma… non c’è nessun
jaki né alcuna malvagità in lei, e … Rai’an­sama dice che non è uno spet­
tro. –Quest’arma si chiama scudo attivo.– ci spiega Rai’an­sama. È tanto bella e delicata che fatico ancora a credere che sia un’arma.
–Ha tre funzioni, – continua, –può bloccare colpi in arrivo, respingere o
scagliare oggetti anche molto pesanti, e stordire un uomo, o se serve, anche
un animale.
–Ha una riserva di energia limitata; vi spiegherò come capire quanta
forza è rimasta. Quando è esaurita, posso ricaricarla, ma serve un po’ di
tempo.–
–Può bloccare anche le frecce?– chiede Midori.
–Sì, sempre che riusciate a vederle in tempo.–
–E può bloccare anche le spade?– stavolta è Jirou a parlare.
–Certo. Però, maggiore è la forza che deve bloccare, più rapidamente
esaurirà la sua forza.–
229
–E…– chiedo io, –quanta forza può bloccare?–
–Mettiamola così: quando è a pieno carico, potresti fermare una frana
prima di esaurire tutta la forza.–
–Una frana? Intendi tutti i massi, gli alberi e la terra di una montagna?–
–Beh, solo quelli che sono di fronte a te, ma in parole povere, sì.
Usando questo scudo, potresti uscire viva da sotto una montagna franata.–
Resto muta a guardare il gioiello che mi avvolge la mano.
–Gli altri… poteri … esauriscono la forza più rapidamente, quindi
vanno usati con cautela. Ma una cosa alla volta. Per cominciare, dobbiamo
accordare lo strumento, e per farlo, devo copiare i vostri pensieri.–
–Eh?– faccio, e sento che lo fanno anche gli altri.
–Funziona così: stendete la mano più che potete.–
Rai’an­sama si avvicina al mio fianco; la sua armatura di bronzo brilla
quasi quanto i suoi capelli nel sole che inizia a scendere. Avvicina una
mano alla mia testa, e vedo che il suo palmo si spalanca, si apre rivelando
la sua anima azzurra, e anche le sue dita, si schiudono come i petali di un
fiore rosa. –Guarda avanti.–
Mi giro di scatto.
–Adesso stendi la mano più che puoi…
–Di più…
–Ancora di più…
–Bene, ora prova a immaginare di afferrare un oggetto lontano. Come
quell’albero, ad esempio.–
–Rai’an­sama… non capisco…–
–Sì, dico, prova a immaginare che la tua mano si allunghi. Cerca di
afferrare quell’albero.–
–Ma… non è possibile…–
–Certo che no, ma tu provaci lo stesso.–
Quell’albero è a dieci braccia, e più! Non è proprio possibile che io
arrivi fino a lì! Resto ferma, non ho il coraggio di dire altro a Rai’an­
sama… ma lui mi parla.
–Va bene, facciamo così. Prova ad afferrare la mia mano.–
Lui mette la sua mano, quella ancora … chiusa…, proprio di fronte alla
mia. Beh questo è facile, mi basta spostare la spalla e…
Ma che fa? Come ci provo, allontana la mano.
–Su, prova ancora.–
Mi allungo ancora un po’. Se solo allungassi il piede…
230
–No, senza muovere le gambe.–
Come fa a saperlo? Come fa a sapere che stavo per spostare le gambe?
–Kaori, calmati, sei troppo agitata…–
Come fa a sapere che sono agitata?!
Sento il sibilo che mi dice che sta chiudendo la mano aperta come un
fiore.
–Va bene, Kaori, riproviamo fra un po’. Nel frattempo, allenati a sten­
dere il braccio più che puoi senza muovere nessun’altra parte del corpo.–
Credo… di aver sbagliato qualcosa, ma non capisco cosa! –Farò come mi chiede Rai’an­sama…–
Si allontana verso Midori; con la coda dell’occhio, vedo che lo spettro
lo segue, curiosa.
–Allora,– dice a Midori, mentre apre la mano e l’avvicina alla sua testa,
–stendi il braccio, e cerca di afferrare quell’albero…–
Mi concentro sul mio compito. Schiena dritta, spalle morbide, gambe
ben appoggiate, come quando devo tendere l’arco. Ci sono tanto abituata
che ormai non faccio più caso a come lo faccio…
Ecco, è una buona idea. Provo a fare la stessa cosa: alzo il braccio sulla
mia testa e lo abbasso come se stessi incoccando una freccia… oh, il brac­
cio teso quando uso l’arco è il sinistro, io ora devo farlo col destro!
Provo a cambiare piede e a muovermi come fossi allo specchio, ma mi
accorgo che non è così facile!
–Va bene così?– chiede Midori.
–Perfetto, ottimo!– risponde Rai’an­sama. Come ha fatto quella moc­
ciosa a riuscirci subito?
Mi giro verso di lei; sopra la sua testa, c’è la figura di una testa traspa­
rente, di colore azzurro pallido, e dentro alcune parti lampeggiano di rosso,
come una candela tremolante. –Ecco, resta ferma ancora un secondo… così… bene, fatto. Puoi rilas­
sarti.–
Lampi rossi percorrono la testa trasparente in ogni direzione, mentre
Midori abbassa il braccio e rilassa il corpo, e si fermano quando il movi­
mento di Midori si ferma.
È forse possibile che quella sia… la testa di Midori?
–Rai’an­sama… che cos’è?– gli faccio, e indico la testa trasparente.
–Oh… ecco… è lo schema del funzionamento del cervello di Midori.–
231
–Che cosa!?!?– grida lei, e si gira a guardare la figura. Anche la figura
si gira, nella stessa direzione, e lampeggia di rosso un po’ dappertutto.
Jirou, dietro alla testa trasparente, sgrana gli occhi e si avvicina. Anche
Hikari, sempre più incuriosita, si avvicina.
–Beh, ecco, non tutto; sto guardando solo la parte che controlla il movi­
mento.–
Midori muove piano la testa verso destra; una piccola parte della testa
trasparente, sopra di lei, lampeggia vibrando. Poi, gira la testa appena un
po’ verso sinistra; ora è l’altra parte della testa trasparente a brillare di
rosso. Midori, ora assolutamente immobile, solleva una mano, e brilla una
parte in alto; tiene la mano ferma, e la parte rimane accesa; la risposta in
basso, e il lampo rosso scende dov’era prima…
–Waaa! Che forza!– grida Midori eccitata, chinandosi e portandosi le
mani alla bocca, e mentre si muove così, la testa trasparente brilla un po’
ovunque.
–Ehm… carino, vero?– le chiede sorridendo Rai’an­sama.
–Uh uh!– fa lei, annuendo convinta, e un lampo rosso nella parte dietro
la testa trasparente e va su e giù.
Rai’an­sama ride, e chiude la sua mano aperta come un fiore. La testa
trasparente sparisce.
–Ecco, lo scudo attivo legge il movimento che state compiendo. Ma noi
possiamo anche immaginare di compiere un movimento impossibile: que­
sto è un ottimo modo per chiedere alla macchina di fare quello che
vogliamo.
–Ovviamente, ognuno di noi immagina lo stesso movimento impossibile
in modo diverso. Per questo, devo leggere come lo immaginate, e quando
lo scopro, lo dico allo scudo, così che sappia che, quando immaginate que­
sto movimento, volete che lui si attivi.–
–Rai’an­sama… aspetta un momento…– gli chiedo. Si gira verso di me,
ma faccio fatica a trovare le parole. Quando ci riesco, continuo:
–Tu mi stai dicendo che… che quello che pensiamo… sì, dico… quello
che vogliamo fare… è una cosa che brilla da qualche parte nel nostro cer­
vello?–
Rai’an­sama mi guarda, sorpreso.
–È esatto…–
Non riesco a crederci. –E allora, – gli chiedo, –tutto quello che
vogliamo fare, tu puoi guardarlo? Tu puoi capire cosa desideriamo?–
–Oh, no, non esattamente; solo cose semplici, come il desiderio di com­
piere un certo movimento; il resto è troppo complesso, ci vuole molto
tempo per capire cosa…–
232
–Tempo? È una questione di tempo? Mi stai dicendo che, se avessi tutta
la vita, potresti leggere i desideri di chiunque come fossero scritti su un
libro?–
Lui rimane immobile. Forse, sono un po’ aggressiva, ma io devo sapere
questa cosa!
Continuo a guardarlo negli occhi, in attesa di una risposta. Alla fine,
capisce che non mi arrenderò, e finalmente risponde:
–Sì…–
–E i pensieri? I desideri non sono pensieri? Potresti sentire quello che
dico a me stessa?– lo incalzo e mi avvicino.
–Sì…–
Ora gli afferro l’armatura.
–E i ricordi?– –Kaori…–
–I ricordi, puoi leggerli?– lo scuoto.
–Sì…–
–E… i sogni? Puoi leggere anche quelli?– Ho la voce rotta. Forse grido,
non me ne rendo conto.
Lui non risponde, ma annuisce piano.
–Mi stai… mi stai dicendo che… i sogni, i ricordi, i pensieri, i
desideri… sono tutti qui?– picchio la mano contro la testa, tanto forte da
farmi male, –È tutto dentro a quella roba grigia che buttiamo via quando
macelliamo gli animali?–
–Kaori, forse…–
–Rispondi!–
Lui mi guarda intensamente, con l’espressione grave. Ho capito che ha
capito. Ho capito che sa quanto è importante ciò che gli sto chiedendo.
–Sì, Kaori… è tutto lì dentro.–
Scuoto la testa. Chissà perché sorrido. Anzi, ridacchio. E scuoto la testa.
La testa. Tutto nella testa. Ridacchio più forte. E il cuore? E il cuore che
fa? Non stavano nel cuore, i desideri? Rido. Sì, ora rido.
–Kaori…–
–Kaori­san…– mi chiama anche Midori.
Ma rido.
–Questa…– cerco di dire sulle risate, –questa è meglio… meglio dei
miliardi… di Fiumi d’Argento…–
–Kaori…–
233
–Quella roba grigia… che non è neanche buona da mangiare…–
–Kaori­san…–
–Hehehe, tutto lì, certo, anche i sogni, … in quella puzzolente roba gri­
gia…–
Non mi parlano più, mi guardano e basta.
–E l’amore… pure quello… tutto nella roba grigia… hahaha, grigia, e
puzzolente… haha, è il destino giusto per l’amore… hehehe–
–Kaori, adesso calmati!–
–No, Rai’an­sama, non mi calmo affatto!– grido.
Gli corro addosso e gli grido in faccia: –Dov’è l’anima? Dov’è l’anima?
Non mi dirai che anche quella è nella puzzolente roba grigia che abbiamo
in testa?–
Non avrai il coraggio di dirmi anche questo!
–No, quella no.– –… … Eh?–
–Quella che chiami “anima”… ciò che chiami Kaori… quella cosa a cui
pensi quando pensi “io”… quella, non è nel cervello.–
Si allontana. E mi sorride. Poi si guarda intorno, e allarga le braccia,
girando piano su sé stesso.
–L’anima è nel cervello quanto la foresta è negli alberi. Quanto l’acqua
è nella pioggia. Quanto il cielo è nell’aria. Quanto la spiaggia è nella sab­
bia. Quanto il kuni è nella gente.–
Il suo sorriso si allarga, e si rivolge anche agli altri.
–Noi le chiamiamo emergenze. È ciò che emerge dal basso, il nuovo
tutto che sorge dalle vecchie parti, qualcosa che prima non c’era, e quando
le cose più semplici si parlano in un certo modo, ecco che inizia a esistere.
–Quell’essere che tu chiami Kaori, che tu chiami “io”, non è nel cer­
vello. È nella tua vita. È nelle persone che hai conosciuto, nei posti che hai
visto, nelle foreste che hai attraversato, nell’aria che hai respirato. E certo,
anche nel cervello, che ricorda tutto questo, ma è anche nelle tue mani, e
nelle tue gambe, e nella stanchezza degli occhi quando li chiudi per dor­
mire, e nel primo respiro del mattino.
–Il tuo kamii… la storia di tutti i kamii che, a partire dall’inizio dei
tempi sono arrivati a creare te, qui e ora: questa sei tu. –Questa foresta: guarda quei germogli che fioriscono! Essi non sanno
nulla di questa montagna, nulla di questa foresta, eppure ne sono parte,
anzi, sono la sua vita che si rinnova, il suo kamii che si arrampica sulle
vette dell’eternità.
234
–Quanti alberi sono morti in questa foresta? Quanti dovranno ancora
nascere? Eppure, la foresta è sempre la stessa. Ma in ogni albero c’è una
piccola parte dell’essenza del tutto.
–E tu sei quella terra, quell’aria, quel fuoco, quell’acqua che è precipi­
tata verso questo luogo, e mescolandosi, è arrivata a creare te: il tuo cer­
vello, ma anche il tuo cuore, le tue mani, le tue gambe, i tuoi capelli… il
tuo volto.
–Tu neanche immagini quanti millenni, quanti miliardi di anni, le cose
che sono dentro di te, le cose che sono parte di te hanno dovuto attendere
per poter finalmente diventare Kaori. E neanche immagini il viaggio che le
attende nei prossimi miliardi di anni.
–Il cervello è quella macchina che ci consente di contemplare tutto que­
sto. Che ci permette di annusare l’aria di questo tempo, di vedere il suo
fluire, di percepirne la destinazione. Ma no, Kaori, l’anima, quella, non è
nel cervello. –Quella, l’anima, è il prodotto del tempo, dello spazio, e di ogni tuo
ricordo, sentimento, capello, di ogni filo della tua pelle, di ogni graffio, di
ogni battito del tuo cuore, di tutta la forza del divenire, di tutto il kamii
che, dall’inizio dei tempi, è sceso a plasmare la terra e il cielo fino a gene­
rare quello splendido, unico, meraviglioso essere che sei tu, Kaori.–
Notte di pioggia (M)
–Uffa, Kaori­san, lo voglio anche io un kamii tutto mio che mi dice tutte
quelle belle cose!–
Lei non mi risponde, ma continua a sorridere, con le mani appoggiate
sul bordo della finestra, e la faccia appoggiata sulle mani.
Il tempo si è guastato poco prima del tramonto, e quando siamo riusciti
a rientrare, già piovigginava. La stanza dove alloggiamo è avvolta nella penombra, fuori rimane solo
l’ultimo grigio momento del giorno.
Gli occhi di Kaori riflettono la pioggia che cade rumorosa, lucidi, vivi,
felici. Anzi, sereni.
In tutta la mia vita, non ho mai visto niente di più bello di questo.
La osservo. È distante, irraggiungibile, intoccabile. Ecco, questo
dev’essere quello che i monaci chiamano satori, o forse nirvana, non ho
mai capito molto bene la differenza. È la pace con sé stessi e l’armonia con
tutto. Ecco, ora Kaori splende della luce del Cielo, mentre i suoi occhi sor­
ridenti riflettono le gocce della pioggia, che riflettono i suoi occhi sorri­
denti.
235
Non riuscirò mai a essere come lei.
Beh…
Se avessi un kamii tutto mio che mi dice quelle cose, credo che con un
piccolo sforzo ce la potrei fare!
Oh, certo, Rai’an parlava di tutti; la foresta, la gente, la sabbia… è
chiaro che parlava di ogni persona. Ma poteva anche fermarsi lì; e invece,
ha nominato proprio Kaori. Essì, i suoi capelli, il suo volto… sono certa
che Kaori ha capito.
Guardo nella stanza. Rai’an sta parlando piano con Hikari, così piano
che non sento cosa dicono. Da quando ha sentito quelle parole, anche lei è
diversa. Non so come dirlo, ma sento che è diversa. Jirou è seduto a gambe incrociate, la spada posata fra le sue cosce; ha gli
occhi chiusi. Credo stia meditando.
E io… beh… io li guardo.
Sollevo la mano e osservo il gioiello, lo … scudo che cosa? Mah,
insomma, lo scudo magico. Il suo argento brilla così tanto che mi sembra
che rischiari la stanza.
Dopo essere riuscita a immaginare quella cosa che mi ha chiesto Rai’an,
ci siamo allenati un po’: Rai’an mi tirava prima dei legnetti, poi dei sasso­
lini, e io dovevo fermarli.
E ci sono riuscita. Jirou è riuscito a fermare le cose più leggere, ma non
è ancora riuscito a fermare i sassi. Kaori, invece, dopo quelle parole, si è
seduta da una parte e non ha detto più nulla.
Ora che ci penso… non ha detto proprio più nulla. Non una parola. Ha
continuato a guardarci con quel sorriso sereno, per tutto il tempo.
Stendo il braccio e provo a chiamare il potere dello scudo. L’aria davanti a me vibra.
Chiudo la mano e sorrido. È una bella sensazione. È come sentire
l’acqua di un torrente in piena che scorre sulla pelle, anzi, sotto la pelle; e
poi… non sarò più un peso. Adesso stendo il braccio e cerco di afferrare Jirou. È dall’altra parte
della stanza, a più di sei braccia da me.
Sento spingere contro la mia mano; l’aria si piega e ondeggia più forte.
Ho capito. Più lontano immagino di stendere il mio braccio, più duro
diventa lo scudo.
Saltello dalla gioia.
–Midori, – si gira verso di me Rai’an, –non esagerare, non c’è bisogno
di stancarti troppo.–
236
–Va beeeeene!– gli faccio. Lui si alza; Hikari lo guarda venire verso di
me.
–Sai che sei brava? Io ci ho messo due giorni, la prima volta.– mi fa, e
mi accarezza la testa. Mi stringo nelle spalle e arrossisco.
Oh, beh, non saranno le cose splendide che ha detto a Kaori, ma è sem­
pre un complimento.
Un momento! Mi stai dicendo che sono stata più brava di un kamii!?
Vorrei sprofondare nel tatami.
–Dai, fammi vedere il bracciale; così proviamo a ricaricarlo.–
Timidamente, sollevo la manina. Lui la prende delicatamente fra le sue
enormi mani e la gira piano, così che lo specchio è rivolto al soffitto. Poi,
apre la destra, nel senso che … sì, la schiude … come i petali di un fiore
… e un raggio di luce azzurra scende sullo specchio, come una lama di
sole che si apre la strada fra le nubi in un giorno di pioggia.
–Waaaa, che forte!–
–Ehehe, carino, eh?–
Lo guardo e annuisco sorridendo. Un attimo dopo, la luce si spegne, e la
sua mano si chiude. –Ecco, ne avevi usata pochissima; adesso è di nuovo carico.– dice, e poi
mi mette una mano sulla spalla e continua sorridendomi: –Brava, Midori,
sei stata davvero brava. Sono orgoglioso di te.–
–Oh… beh, io… ho solo indovinato per caso…– balbetto, ma non riesco
a muovermi.
Con un ultimo sorriso, torna verso Hikari. E io rimango lì, con la mano
a mezz’aria dove lui l’ha lasciata.
Non so cosa pensare. Lo conosco da poco, ma credo che abbia solo
voluto incoraggiarmi, dopo quello che è successo questo pomeriggio. Non
me lo merito.
Certo che… le sue parole, il suo sguardo, tutto di lui è così sincero
che… che… che non ho mai incontrato un uomo così. Beh certo, è difficile
incontrare uomini­kamii, che possono guarire mali incurabili, venuti da
un’altra stella e dai capelli d’oro… ma questo non c’entra nulla. So che sembra folle, ma la cosa più fantastica di Rai’an… è Rai’an! Le
cose straordinarie che può fare sono quasi nulla, rispetto a quanto è grande
dentro.
Kaori lo ama. La donna che ammiro di più, la donna che ho sempre
sognato di diventare, lo ama. E se lei lo ama, allora, quello non può che
essere l’uomo migliore del mondo.
–Kaori­san…– mi giro verso di lei.
237
Non mi risponde. Continua a sorridere alla pioggia.
–Kaori­san, si sta facendo buio. E freddo. Sarebbe meglio chiudere gli
scuri…–
Lei annuisce. E sta lì. Sorridente.
–Uffa, Kaori­san, io ho freddo!–
Il mio broncio sembra scuoterla. Si alza dal davanzale e si tira dietro gli
scuri. La stanza piomba nel buio, ma la luce di Hikari… che buffo, hikari
vuol dire luce… ci permette di muoverci.
–Dovremmo mangiare qualcosa.– Rai’an si rivolge a Kaori.
–Sì, Rai’an­sama…– –Pensavo di uscire, ma forse è più saggio chiedere ai souhei…–
–Sì, Rai’an­sama…–
–Kaori?–
–Sì, Rai’an­sama?–
Lui sospira. –Pensi che potremo andare a Uda, domattina?–
–Chissà.–
–Intendo, se non piove…–
–Forse.–
–Kaori, intendo, quanto tempo ci vorrà?–
–Eh? Oh… un periodo, o poco più. Circa mezza mattinata.–
–Ho capito. Non sarà una gran distanza fra noi e le guardie di Akihira,
ma sarà sempre meglio che stare qui. Suggerirei di partire anche se piove.–
–Sì, certo, come desidera Rai’an­sama.–
Nemmeno Rai’an stesso è in grado di far scendere Kaori dal suo Nir­
vana.
Kousuke (R)
–Nobile miko, l’onmyouji chiede di poter avere udienza con te.– Kaori resta immobile, la luce della lanterna a sbatterle sul volto come le
ali di una farfalla, le bacchette ferme a mezz’aria sulla ciotola. Ma le punte
non tremano.
Posa, lentamente, con un gesto misurato, ciotola e bacchette, e si alza
flessuosa, in un singolo movimento. Faccio per alzarmi anche io, ma la sua
mano mi ferma con un gesto perentorio. Non credo sia il caso di discutere con lei.
Il souhei che è venuto a portare l’annuncio la scorta oltre la soglia e
chiude il fusuma dietro di se.
238
Restiamo noi tre a guardarci.
Jirou si alza e si infila Oborozuki alla cintura.
Gli faccio cenno di sedersi. Apro gli emettitori nel palmo sinistro e pro­
ietto la planimetria dell’edificio.
–Kaori è quel puntino rosso. I puntini blu sono altre persone.–
Jirou mi chiede: –Non è possibile sapere chi sono i souhei e chi le guar­
die dell’onmyouji?–
–Purtroppo, no, ma… posso attivare il trasmettitore di Kaori.–
Jirou e Midori mi guardano perplessi, e io faccio cenno all’orecchio.
Ordino al trasmettitore di Kaori di entrare in modo automatico.
“…per lo spiacevole incidente che è successo questa mattina.”
ci giunge la voce di uno sconosciuto, sembrerebbe giovane, e le poche
parole che udiamo, ben infiorettate, sono sufficienti a farci comprendere
che chi parla è un letterato.
“Oh, è gentile, da parte di un onmyouji. Direi, inaspettato.” risponde
Kaori, secca.
Scuoto la testa; la diplomazia non è il suo forte.
L’onmyouji sospira forte e attacca: “Nobile… miko…” calca questa
parola, “la condotta delle guardie del mio signore, Fujiwara­no­Akihira,
non è sotto la mia diretta responsabilità, e…”
“E quindi, normalmente, ve ne lavate le mani.”
Segue un breve silenzio.
“… E, quindi, normalmente, non sono costretto ad occuparmene. Ma
dopo essere venuto, per puro caso, a conoscenza di quel che è accaduto
stamane, mi sono sentito obbligato ad intervenire. Assalire una persona
consacrata ai kamii è un atto che non posso lasciare impunito.”
“Bene; se siete venuto a chiedere scusa per le vostre guardie, le scuse
sono accettate. E adesso, dovrei tornare alla mia cena…”
“Giovane miko…” – non avrebbe dovuto dire “nobile”? E il tono
dell’onmyouji si fa tagliente, prima di continuare – “Non ho nessun dovere
di chiedervi scusa per le azioni di persone che non sono ai miei ordini. Né,
in sincerità, desidero farlo. Né posso garantirvi che questo non si ripeta.”
Non so come la leggono i miei compagni, ma a me suona come una
minaccia.
“Sono qui per dirvi che sono intervenuto presso il mio signore affinché
quel singolo atto blasfemo non resti impunito. Ma soprattutto, sono qui
per questo.”
Questo cosa? Avessi dato a Kaori un trasmettitore video…
“Oh… capisco…”
239
“Voglio vedere l’arma che ha fatto questo.”
“È una spada come tante.”
“È una spada che ha tagliato di netto un’altra spada. Non l’ha spez­
zata. L’ha tagliata.”
Probabilmente si riferisce alla spada di Jirou.
“Beh, come tante o no, non è in vendita.”
“Forse, giovane miko, non sono stato abbastanza chiaro. Ho detto che
desidero vederla.”
“E io, che non desidero mostrarvela.”
“Giovane miko, non hai l’autorità per rifiutarmi questo. È necessario
che io veda quella spada.”
Interviene la voce di Goemon, seccata: “La nobile miko è nostra ospite,
e qui nel tempio non riconosciamo l’autorità degli onmyouji.”
“Rispetto il suolo consacrato al Buddha, souhei, e non imporrò la mia
autorità qui. Ma… giovane miko, sai che non potrai impedirmi di vedere
quella spada. Scegli: mostramela ora di tua spontanea volontà, o io la
prenderò dopo.”
–Rai’an­sama, dille che va bene!– scatta verso di me Jirou. Anche
Midori annuisce. Cerco di portare il dito all’orecchio, ma appena prima di
raggiungerlo sentiamo:
“E va bene. Se tutto ciò che desideri è vedere quella spada, non c’è
motivo di costringere i souhei ad una veglia di espiazione.”
“Hohoho, giovane miko, non credo che questi bravi guerrieri consa­
crati oserebbero mai sollevare…”
Si sente un fruscio concitato, lo stridere di una lama nel fodero, il colpo
leggero di due passi rapidi, e poi Kaori: “Certo che no. Ma dopo averti
ucciso, loro sarebbero costretti a uccidere me.”
Abbasso il braccio.
Jirou sbianca. –Quella donna mi fa paura…– Annuisco. Nella planimetria, il puntino rosso che rappresenta Kaori si
allontana dal puntino blu al quale era attaccato, e sentiamo la sua voce che
dice: “Prego, da questa parte”.
Mi affretto a chiudere la mia mano; la stanza rimane illuminata da una
fioca lanterna.
Vediamo una luce tremolante battere sul fusuma traslucido, ed eccolo
aprirsi. Kaori entra, e subito dietro di lei, l’onmyouji, ancora scosso, e poi
Goemon ed un altro souhei. Se l’onmyouji ha delle guardie, devono essere
state trattenute all’ingresso.
240
Non indossa abiti particolari, che possano individuare la sua profes­
sione. È il tipico abbigliamento dei dignitari della corte di Hei’an; un alto
cappello di seta trasparente, nel quale trova alloggio il codino che raccoglie
la capigliatura. L’ampia veste di seta, con la parte anteriore rigida quasi a
formare uno scudo come una larga U. I ricami floreali fantasia grigi su uno
sfondo scuro, forse nero, ma al buio non si vede bene. No, non saprei
distinguere questo onmyouji da un qualsiasi nobile. E che io ricordi, con­
trariamente alle miko, ai monaci e ai kannushi, gli onmyouji non avevano
una particolare divisa.
Non ci alziamo: di fronte ad una personalità importante è d’uopo rima­
nere seduti in ginocchio, e volgersi nella sua direzione.
L’onmyouji fa un brevissimo inchino verso Midori. –Io sono Kamo­no­Kousuke. Tu devi essere la giovane miko che è stata
aggredita dalle guardie del mio signore, Fujiwara­no­Akihira.–
Midori si inchina, ma solo col capo, dignitosamente.
–Volevo farti sapere che coloro che ti hanno importunata sono stati
puniti.– continua Kousuke.
–È un onore che questa umile miko non merita, Kosuke­sama.–
risponde formale Midori, ancora con un breve inchino. A sentirla così for­
male, quasi non la riconosco.
Gli occhi dell’onmyouji si posano su di me, ma solo per un fugace
istante.
–E questo deve essere il valoroso giovane che ha una spada così interes­
sante.– dice mentre si avvicina a Jirou. –Mi è concesso vederla?–
Jirou si china e porge la sua spada, sollevandola con entrambe le mani
sopra la sua testa.
–Il suo nome è Oborozuki.–
–Ohh, è un nome molto poetico.– commenta Kousuke, ma il suo tono è
piatto. Sguaina Oborozuki svelto, quasi avidamente, e cerca la lanterna. Si
china ed osserva attentamente la lama.
–Una spada di Ibaraki…– sussurra. Da una tasca tira fuori una lente di
ingrandimento di fabbricazione cinese, e osserva attentamente il filo contro
alla fiamma.
–Il bordo è talmente sottile che è quasi trasparente… non ho mai visto
niente di simile.–
Mi passa un brivido lungo la schiena.
Sì, è sicuramente più sottile di qualsiasi cosa tu abbia mai visto: l’ho
affilata usando i laser coassiali, e il culmine del filo non è più spesso di
una singola molecola. Per quanto la lavorazione del metallo sia raffinatis­
241
sima per quest’epoca, non può reggere un filo così preciso a lungo, ma
questa era la prima volta che la spada veniva impiegata, e il combattimento
è durato assai poco.
È un oggetto che non dovrebbe esistere, in questo tempo.
Sto lasciando troppe tracce.
Kousuke prende in mano il moncone della spada di bronzo spezzata, e la
strofina contro il filo di Oborozuki. Lo stridere del metallo è fastidioso, ma
dura poco. Un solo gesto, e già si nota una profonda incisione nel bronzo.
–Se non lo vedessi con i miei occhi, non ci crederei…– dice piano
l’onmyouji. Poi, rinfodera la spada e la restituisce a Jirou con un breve
inchino, ma senza aggiungere altro.
Appena Jirou la prende, Kousuke si dirige verso di me; come mi arriva
di fronte, si siede in ginocchio e mi guarda dritto negli occhi. –Come hai fatto a ottenere un filo così?–
–Eh?– gli faccio. La fiamma della lanterna brilla lucida nei suoi occhi. –Ti pagherò qualsiasi cifra… fai tu il prezzo!–
–Io… come fai a sapere che…–
–Non esiste nessuno in Giappone che possieda una tecnica simile. E
nemmeno in Cina. Tu vieni da molto lontano; è ovvio che il possessore di
questa tecnica sei tu.–
Perspicace, il mago. Beh, non si campa di oroscopi a lungo se non si è
molto perspicaci.
Kaori entra camminando nel mio campo visivo. È pallida; tesa. Con lo
sguardo mi scongiura di tacere. Anzi, me lo ordina.
–Nobile onmyouji…– cerco di pensare in fretta qualcosa –… sono
necessari … degli attrezzi … che non sono disponibili qui…–
Kaori mi ucciderà, lo so.
–Ma tu puoi costruirli!–
–Non è così facile…–
–Ti metterò a disposizione tutte le risorse necessarie. Farò di te l’uomo
più ricco del Giappone! Anzi, di tutto il mondo!– Il mio sguardo si posa sul volto di Kousuke; riesco a vederlo bene solo
ora. La sua voce è quella di un ragazzo poco più che maturo, ma vedo ora
che il suo volto è quello di un uomo adulto. Gli occhi un po’ sporgenti e
tondi, come le guance, come il naso, sembrano muoversi senza posa, anche
se impercettibilmente. C’è qualcosa in lui di simpatico … forse la sua
curiosità; ma c’è anche qualcosa che mi inquieta. Dev’essere il suo modo
di fissarmi, continuando a cambiare il dettaglio del mio volto su cui punta
la sua vista ad ogni istante, nervosamente. 242
Il discorso deve essere chiuso, e subito.
–Nobile onmyouji, temo che non sia possibile.–
–Non è possibile? Come sarebbe a dire? Hai affilato la spada pochi
giorni fa, e ora non puoi più?–
Sgrano gli occhi. –Come fai a…–
–Ohohoho, non c’è nulla che possa essere nascosto alla vista di un
onmyouji…– ridacchia la faccia un po’ tonda che ho davanti; ma capisce
che non gli credo, e torna subito serio, mentre mi spiega: –Ho contato
sedici tacche, tutte ben nette. Quella spada è stata usata solo oggi.–
Sei un osso duro, mago dei miei stivali.
Sospiro, e mentre lo faccio, gli dico: –E va bene, sarò sincero.–
Kaori mi grida qualcosa in silenzio, ma la ignoro.
–È una tecnica che non posso rivelare. Un segreto che, per il bene di
tutti, deve rimanere custodito ancora a lungo.–
–Avanti, straniero, non ho mai conosciuto un uomo che non avesse un
prezzo. Qual’è il tuo? Cento monete d’oro? Mille? Cento pesi d’oro? Io
posso darteli!–
Gli sorrido e scuoto la testa. –Nobile onmyouji, non c’è prezzo per questo segreto. Poiché, se io te lo
rivelassi, il mondo, come tu lo conosci, finirebbe. E tutto l’oro del mondo
non vale quanto tutto il mondo.–
Mi aspetto che il mago scoppi di rabbia. Che, così come ha insistito per
vedere la spada, ora sia infuriato dal mio rifiuto. E invece, Kousuke ha una
reazione che non mi sarei mai immaginato. Sgrana gli occhi e spalanca la
bocca, che trema, mentre forma le parole: –… ma tu… chi … cosa sei?–
Non rispondo.
–…Almeno… almeno dimmi il tuo nome.–
Kaori si avvicina, con passo lento. La sua postura, nobile, proietta una
lunga ombra sulle pareti. Il suo sguardo, freddo, scende come gelo su Kou­
suke.
–Egli è Rai’an. È pace che viene dal futuro. È un essere al di là della tua
comprensione, onmyouji. È al di là della comprensione di tutti noi.–
Kousuke mi guarda, improvvisamente pallido, tremante. E Kaori conti­
nua, gelida.
–Ti abbiamo dato udienza, onmyouji. Ora, ti è concesso ritirarti.–
Confessioni (K)
–Kaori…– mi sento sussurrare piano all’orecchio.
243
–…Kaori…– apro gli occhi nell’oscurità densa come la pece.
–Kaori, sei sveglia?–
Sorrido nel buio. –Temo di sì.–
Rai’an­sama si avvicina tanto che posso sentire il suo respiro.
–Scusa, Kaori, ma dobbiamo assolutamente parlare prima di
domattina…–
Scosto le coperte, e mi alzo seduta. Sarà difficile muoversi con questo
buio… ma mi sento prendere per mano. Il mio cuore perde un colpo.
Rai’an mi tira delicatamente. Lui vede anche nel buio. Lui vede dentro
la gente. Lui vede nei pensieri… e se avesse letto nel mio cuore? Non
glielo perdonerei, nemmeno a lui.
Camminiamo piano, senza fare rumore. Ma non ho fretta. Mi tiene per
mano, e vorrei che la porta fosse lontana mille leghe.
Il corridoio è illuminato da un paio di lanterne, e alcuni souhei fanno la
guardia. Uno è appoggiato all’alabarda, due chiacchierano piano, un quarto
snocciola il nenbutsu, o altra roba del genere, contando i grani di un rosa­
rio.
Come ci vedono uscire dalla stanza, si inchinano, senza parlare. Ricam­
biamo con un breve cenno del capo e proseguiamo. Ora vedo anche io, ma Rai’an­sama continua a tenermi per mano.
Usciamo dal corpo di guardia dopo aver preso le nostre calzature da una
grande rastrelliera all’ingresso. Ha smesso di piovere, e la luna quasi piena
si affaccia fra le nuvole ancora minacciose. L’aria è fredda e cristallina.
Mi stringo nel sottile nagajuban di seta. D’improvviso, sento che l’aria si fa più calda. Rai’an­sama mi avvolge
nel tepore.
–Vieni, andiamo in un posto un po’ più tranquillo.– dice piano, e mentre
lo dice, mi posa delicatamente un braccio sulle spalle.
Mi batte il cuore. Oh, che sciocca che sono. Ci sarà qualcosa di importante di cui vuole
parlarmi, e mettersi a discutere nella la caserma dei souhei non è certo sag­
gio.
Ma se… se per caso… sì, se lui volesse… beh, io cosa dovrei fare?
Cosa dovrei fare come miko? Cosa dovrei fare… come donna?
Non riesco a pensarci. Decido di badare solo ai passi. Un passo dopo
l’altro. Un piede di fronte all’altro.
244
Ci sediamo su una grande pietra ben squadrata, sotto un pino silvestre, a
poche braccia dal sentiero che porta all’uscita laterale. Proprio di fronte
alla luna.
Guardiamo la luna per un po’. Lui ha smesso di abbracciarmi non
appena ci siamo seduti, ma il suo calore ancora mi avvolge.
È Rai’an­sama che rompe il silenzio.
–Kaori, volevo parlarti di un paio di cose che dobbiamo mettere a punto
prima di domattina.–
Il suo tono è formale.
–Innanzi tutto, dobbiamo fare un piano. Non ho idea di cosa potrebbe
architettare Kousuke; volevamo fermarci a Uda per essere abbastanza lon­
tani dalle sue guardie, ma non pensavamo che avremmo avuto a che fare
proprio con lui. –D’altro canto, non voglio affrontare il viaggio attraverso le foreste di
Uda senza che voi abbiate imparato ad usare almeno lo scudo…–
–Rai’an­sama, non devi preoccuparti per questo. Anche se sono stata
dura con Midori, Jirou ed io possiamo badare anche a lei.–
Ma che dico? Mi sto rammollendo…
–Il punto è un altro: una volta fra i monti di Uda dovremo correre, e non
so cosa troveremo a Ise. Non vorrei che finisse come a Shiba; e lì non ci
saranno i souhei di Douzen a tirarci fuori dai guai.
–Abbiamo già rimandato troppo, e la situazione non sta migliorando.
Vorrei che foste pronti il prima possibile.–
–Capisco…–
–Ci ho pensato e ripensato, ma non riesco a trovare una via d’uscita. Se
ci fermiamo a Uda, saremo nelle mani di Kousuke. Se proseguiamo, non
potremo fermarci ad allenarci fino ad Ise. Tuttavia, può anche darsi che
Kousuke se ne stia buono; ma vederci fermi per giorni davanti ai suoi
occhi… potrebbe essere una tentazione troppo forte per lui. E allora mi
sono detto, magari potremmo rimanere qui.–
–No, Rai’an­sama, questo è fuori discussione. I souhei sono stati cor­
diali con noi, ma hanno ottenuto quello che volevano: Kosuke ha sistemato
quelle guardie, e le altre se ne staranno buone per un po’. Inoltre, le spie di
Kousuke potrebbero seguirci durante i nostri allenamenti…–
–Me ne accorgerei.–
–Forse no. Gli onmyouji hanno strumenti che permettono di vedere
molto lontano.–
–… i cannocchiali cinesi… –
–Eh?–
245
–No, nulla, scusa. Hai ragione, dobbiamo andare via di qui il prima pos­
sibile.–
Rifletto sulla strada. Dunque… un posto tranquillo… abbastanza
distante da Hasedera e Uda da essere fuori dalla portata dell’onmyouji, e
ancora abbastanza lontano da Ise da permetterci di prendercela comoda…
Mitsue! Certo, a Mitsue c’è lui… Fuyutsuki… ma… passare per Mitsue senza
salutarlo, forse, sarebbe anche peggio.
–A dire il vero, Rai’an­sama… ci sarebbe proprio un posto che fa al
caso nostro.–
–Davvero?–
–Sì. Proprio a metà strada, a tre giorni di cammino, due se partiamo da
Uda di buon’ora, c’è un villaggio di nome Mitsue.
–È un piccolo villaggio adagiato in tre vallate. Due sono molto strette,
ma la gente vive quasi tutta lì. Nella terza valle ci sono i campi; lì non ci
abita quasi nessuno, ed è facilmente raggiungibile. È il posto ideale per
fermarci e allenarci: possiamo spingerci un po’ fuori dei campi al mattino,
e rientrare nel villaggio la sera…–
–Mi sembra… un’ottima idea!–
Il suo sguardo si perde nel vuoto, come se vedesse cose che io non
posso vedere. Rai’an­sama continua ad annuire convinto…
–Sì, è davvero perfetto! Brava Kaori! Davvero… come avrei fatto senza
di te?–
–Oh, non è niente di che…– arrossisco, –è solo che quando sono passata
di lì… ecco, io…–
–Kaori, so che essere modesti fa parte della buona educazione, ma sta­
volta un complimento te lo devi proprio prendere. Hai risolto un bel pro­
blema.–
–Allora, grazie…– sorrido, e mi prendo il complimento. E mi viene
anche in mente che…
–Rai’an­sama, ora che ci penso, a Mitsue c’è una splendida sorgente ter­
male. È il posto ideale dove rilassarci dopo gli allenamenti…–
–Ehm… – stavolta è il suo turno arrossire, –… con bagni separati?–
–Separati? E perché mai?–
–Già… che domanda…–
Ehehe, mi diverte vederlo imbarazzato per una cosa tanto innocente.
I nostri sorrisi si incrociano.
Rimaniamo lì a sorriderci ancora un po’, abbracciati dalla luna.
–Kaori, c’è un’altra cosa di cui volevo parlare con te.–
246
–Dimmi, Rai’an­sama.–
Lui sospira forte e si china sulle ginocchia.
–Ecco, non so nemmeno da dove cominciare…–
–Prova… dall’inizio?–
Vedo nella luce fioca della luna che fa un sorriso tirato.
–E va bene… forse essere diretti è il modo migliore.– Si gira verso di me e mi prende per le spalle. Ci guardiamo negli occhi.
Il cuore mi sta per saltare fuori dal petto, lo sento. Oh, Rai’an­sama, se non
ti sbrighi a parlare, te li cavo, quegli occhi più belli delle stelle.
–Questa storia della mia divinità è andata avanti troppo a lungo.–
–… Eh!?– –Stasera… quello che hai detto a Kousuke… che sono un essere al di là
della vostra comprensione…–
–…Sì…?–
–Non lo hai detto solo per impressionarlo.–
–Rai’an­sama… In questi giorni ho lordato il mio makoto in molti modi,
e dovrò provvedere a mondarlo… ma non avrei mai mentito su un fatto
simile.–
–Tu lo pensi. Tutti voi lo pensate.–
Annuisco. E non capisco. Mi sembra… evidente. È naturale…
–Me ne accorgo da come mi tratta Jirou… e anche Midori. E anche
tu…–
–Rai’an­sama… ti ho già spiegato che sei un kamii perché…–
–Sì, dannazione, l’ho capito!– scatta. Si mette la testa fra le mani,
sospira, e parla, ora più calmo.
–L’ho capito… il kamii è la forza del divenire, e si può essere umani e
kamii insieme… l’ho capito. Ma quello che hai detto stasera…–
Il dolore nella sua voce… è struggente.
–Rai’an­sama…– faccio per prendergli la mano, ma lui le solleva
entrambe e le guarda. Le muove e le fissa, come se le vedesse per la prima
volta.
–Lascia che ti racconti una cosa, Kaori.
–Mi hanno tagliato le braccia e le gambe, e hanno messo delle macchine
al loro posto. Anche al posto di buona parte del mio stomaco. E dei miei
reni. Hanno riempito di metallo le ossa che mi erano rimaste. E anche un
pezzo di cervello. Sì, quella cosa grigia e puzzolente.
–Mi hanno messo delle macchine al posto di ricordi che… mi hanno
detto… non mi servivano.–
247
La sua voce trema, e gli spunta una lacrima che tentenna sul bordo delle
ciglia. Lui fa per asciugarla con un dito, ma si ferma.
–E gli occhi! Mi ero quasi dimenticato. La parte posteriore dei miei
occhi è piena di macchine.– Ora ride sommessamente.
–Dovrei essere loro grato: queste sono le macchine più avanzate che
siano mai state costruite. Di tutto il progetto per portarmi qui, la cura mag ­
giore, e anche le risorse maggiori, sono state investite per darmi questi
strumenti… per darmi più possibilità di successo. Mi hanno dato tutto
quello che potevano darmi…
–Tutto quello che potevano darmi… sì… ma … si sono presi tutto.–
Adesso stringe così forte i pugni che sento uno scricchiolio sinistro pro­
venire dalle sue mani. Non so che sta facendo, ma non mi sembra una cosa
buona! Sto per dirgli di fermarsi, ma le sue mani si aprono. Gli esce dalla
bocca una risata nervosa.
–Ecco, vedi Kaori?–
–… che cosa?–
–Non ho detto loro di aprirsi. Io volevo stringere fino a sentirle rom­
persi, ma loro non mi hanno dato retta. Per proteggermi, certo. Ma puoi
immaginare cosa significa? Sapere… sentire… che le tue mani non sono
più tue?–
Non riesco più a respirare. La sola idea mi chiude la gola.
Ora, le sue braccia tremano, fuori controllo, la sua gola si gonfia, il suo
volto diventa una smorfia di dolore.
–Obbeditemi… maledette, obbeditemi!–
–Rai’an­sama, basta!– mi getto ad abbracciarlo.
Gli accarezzo il collo finché sento che la tensione non si scioglie.
–Rai’an­sama… non devi soffrire così…–
Lui respira profondamente e, finalmente, abbassa le braccia. Un ultimo
respiro, e sento che è tornato in se. Mi allontano… ma non arrossisco. Lo
guardo guardare la luna.
–Quando ero dall’altra parte, ero ancora… quasi normale. Se tu potessi
vedere le meraviglie che abbiamo saputo costruire, Kaori!– sorride. Final­
mente!
–Kasei… Marte… era un deserto sconfinato, e l’abbiamo trasformato in
un giardino immenso. Ora non è più rosso, ma verde e azzurro!
–E poi, le macchine che ho addosso… alcune macchine simili sono
usate da chi ha perso un braccio, o una gamba; nessuno è più costretto a
vivere senza.
248
–E le malattie… sono solo un brutto ricordo.
–E io, persino con tutte queste macchine addosso, ero speciale, certo,
ma non poi così tanto. –Da quando sono qui, Kaori… da quando sono qui, sto iniziando dav­
vero a rendermi conto di quanto sono diverso. Di quanta … di quanta uma­
nità… ho perduto.– La sua voce trema ancora. E ripete piano la parola “perduto” due, o
forse tre volte.
–Quindi, ti prego, ti scongiuro, Kaori. Non trattarmi più come una cosa
misteriosa venuta da chissà dove. Non trattarmi più come qualcosa di
diverso. Non trattarmi più… come … come un dio.–
Ora, sono io a tremare. Ora, mi rendo conto che, sì, lo stavo facendo.
Nella mia mente, Rai’an­sama era già più di un uomo, più di un kamii. –Rai’an­sama… ti chiedo perdono. Nel mio egoismo, volevo che tu
fossi il mio mikoto.–
Lui mi sorride, con gli occhi lucidi e una lacrima che scende piano. –Scusami, tu, Kaori. Temo… di non essere all’altezza.–
–Oh beh… penso che … – gli sorrido e scherzo con lui: –il fatto che sei
un kamii basti e avanzi!–
Rai’an­sama scoppia a ridere. Ride di pancia. Ride sereno. Ride con
tanta gioia che soffia via ogni mia tristezza. Se solo potessi chiudere questa
risata in una scatola, sarebbe il mio tesoro più grande!
Quando finisce, sospira e sorride alla luna.
–Grazie, Kaori. Grazie davvero.–
Rimaniamo in silenzio a guardare la luna ancora un po’.
–Kaori, si è fatto molto tardi… rientriamo?–
–Un momento, Rai’an­sama, ora tocca a me.–
–Eh?–
–Ti ho detto prima che, in questi giorni, ho lordato il mio makoto, e che
devo purificarlo.–
–Oh… e, io … cosa posso fare per te?–
–Nulla, Rai’an­sama; questo è compito mio. Devo accettare con since­
rità il cuore vero delle cose, e parlare con magokoro: intendendo davvero
ciò che dico.–
–Oh, bene… ti ascolto…–
–E poi… l’ho promesso a Midori. E non posso certo rompere una pro­
messa fatta da miko a miko.–
249
–Suppongo di no…–
–Infine, Rai’an­sama, è importante, anzi, vitale, che tu sappia e com­
prenda appieno ciò che sto per dirti. –È compito di una miko portare a termine l’incarico affidatole senza
nessuna esitazione. E il mio compito è quello di essere la guardiana e la
protettrice di Rai’an­sama.
–Affinché io sia utile a Rai’an­sama, è necessario che io gli sia traspa­
rente. È necessario che io goda della sua piena fiducia in tutto e per tutto. È
quindi necessario che io sia assolutamente sincera con lui, riguardo a qual­
siasi cosa. Senza nessuna esitazione.–
–Ehm… beh… questo mi fa piacere…–
–Quindi,– mi avvio a concludere, alzandomi in piedi, dritta di fronte a
lui, –è mio compito inderogabile, quale miko anziana del santuario di Kou­
mon, e quale guardiana e protettrice di Rai’an­sama… dirti che… che… –
Oh, c’ero quasi riuscita! Stavo quasi per buttarla lì; e magari, fra tutti
questi discorsi, sarebbe potuto passare in secondo piano, ma ormai, ho
perso l’attimo. E poi, così, non sarebbe stato magokoro.
Sospiro e gli sorrido. La luna si riflette sui suoi occhi, mentre mi guarda,
ancora stordito da tutte quelle parole, e aspetta me. È lì per me.
Non può esistere un momento più perfetto di questo.
–… dirti che… io ti amo, Rai’an­sama.–
No, il momento più perfetto non era quello; è questo.
–Io ti amo. Ti amo più della mia vita. Ti amo più di qualunque cosa. –Ti ho amato dal primo momento che ti ho visto.
–Ti ho amato da quando hai cercato di chiamarmi, e ho letto il dolore
nel tuo sguardo, indifeso, sperduto, impaurito.
–Ti ho amato da quando ti ho vegliato per due giorni e due notti, senza
mai distogliere gli occhi dal tuo volto.
–Ti amo, e amo ogni istante che gli dei mi hanno concesso di essere al
tuo fianco.
–Ti amo, Rai’an­sama. Ti amo, e ti amerò per sempre.–
Il vento agita gli aghi di pino sulle nostre teste, ma si accorge di noi, e
invece di passarci attraverso, ci gira intorno e ci abbraccia, spingendomi
verso di lui.
Io lo respiro, chiudendo gli occhi, lo trattengo, lo sento in me, e poi lo
lascio andare, a rifluire verso quelle stelle che, adesso, posso guardare
conoscendone l’immensità.
Mi sento rinata. L’universo ha fatto pace col mio makoto. Ora sono di
nuovo una miko degna di questo nome.
250
Abbasso lo sguardo su Rai’an­sama. Lo guardo con tutto il mio amore.
Non si è mosso di un capello. Mi guarda sorpreso. Stupefatto. A quanto pare, non mi aveva letto nel cuore.
–Ah, ora mi sento molto meglio. Su’, rientriamo? Domani ci aspetta una
lunga giornata!–
Arcobaleno (M)
Ta ta taaaaa… taaaaa ta taaaaaaa… ta taaaaaa…
Mi sveglio con questo motivetto in testa. Ma come apro gli occhi, mi
accorgo che non ce l’avevo in testa. È Kaori che lo sta canticchiando, men­
tre divide il bagaglio. Già, abbiamo detto che dobbiamo dividere il peso,
anche se Rai’an potrebbe portare tutto.
E questo significa che camminare sarà ancora più faticoso.
Uffa.
–Buongiorno, Kaori­san…– la saluto.
–Buongiorno, Midori…– canticchia lei.
Rai’an è vicino al fusuma che chiude la stanza. Probabilmente, è per
impedire ai souhei curiosi di sbirciare fra le nostre cose.
Jirou medita seduto a gambe incrociate, con la sua amata spada posata
sopra le cosce. Non lo disturbo.
Mi concentro su Kaori. Che canticchia. Uhm… Kaori è sempre vispa al
mattino, ma così allegra, non l’avevo mai vista.
–Kaori­san?–
–Sì?–
–Stamane sembri molto felice…–
–Ah sì?–
–Sì…– La fisso con aria sospettosa. E lei mi ignora.
–Dimmi, Kaori­san… è successo qualcosa stanotte?–
–No, nulla di particolare…–
Kaori continua a canticchiare come niente fosse, e la guardo con sempre
più sospetto, ma Rai’an incespica. Uhm…
–Dimmi, Kaori­san, come sta il tuo makoto?–
–Benissimo!– mi sorride radiosa. E Rai’an tossisce. Rivolgo il mio
sguardo sospettoso a lui.
Cambiamo bersaglio.
Mi alzo e corro sotto ai suoi occhi.
–Rai’an­sama?–
251
–Eh… sì Midori?– mi sorride nervosamente. Non potrai resistere al mio
sguardo sospettoso!
–È successo qualcosa stanotte che la mia miko anziana non vuole
dirmi?–
Lei canticchia un po’ più forte. Rai’an sorride un po’ più nervosamente.
–No, davvero, niente di straordinario… siamo solo usciti per parlare.–
Sei mio, kamii straniero!
–Eeeeh, usciti per parlare?–
–Eh, sì, abbiamo fatto insieme un piano per i prossimi giorni…–
–Ohhh, un piano, eh?–
–Anzi, a dire la verità, il piano lo ha fatto lei…–
–Essì, Kaori­san è brava a fare i piani… e poi, sarete rientrati subito
subito, sentendovi in ansia per noi, rimasti qui a dormire soli soletti…–
Jirou ha un brivido che fa tremare la spada sulle sue gambe.
–Ecco… non proprio subito subito…–
–Ah no? E cos’altro avete fatto?–
–Ma nulla, abbiamo solo parlato…–
–Ohhh, voi due parlate spesso, di notte…–
–Midori, cara…– canticchia forte Kaori.
–Sì, mia nobile miko anziana?–
–Ti sacrifico a Susa­no­oo…– canticchia amorevolmente Kaori.
Mi mordo la lingua e dico a Rai’an: –Vado a lavarmi il viso…–
–Ecco, sarà meglio…–
Mentre sguscio fuori dal fusuma, torno indietro con la testa e dico svelta
a Rai’an: –Ma non la passi liscia!– –Mido…– cerca di dire, ma sono già scappata via.
Il tempo di mangiare qualcosa di frugale offertoci dai souhei, e già
siamo presso la bottega dove ci attende la nuova armatura di Jirou. Onesta­
mente, ne aveva bisogno: quella che ha ora, non so se sia efficace o meno,
ma non è molto dignitosa.
Goemon ci ha salutate calorosamente, e ci ha fatto promettere, parola di
miko, che saremmo tornate a trovarlo. Che amore di souhei! Kaori tratta il prezzo fino a che il povero artigiano è ridotto quasi in
lacrime. Non che sia necessario, ma lei va matta per queste cose, e oggi
che è particolarmente allegra, sembra abbia particolarmente voglia di gio­
care. Povero artigiano!
–Beh, che ne dici?– 252
Appena fuori dalla bottega, io e Kaori guardiamo con aria critica Jirou e
Rai’an con indosso la stessa armatura. Due omoni grandi e grossi con
addosso due corazze di ottone lucente, che brillano sotto il sole basso di
primavera.
Li guardo con aria critica… a lungo… annuendo e facendo qualche “uh
uh” … finché non si sentono in imbarazzo. Poi concludo:
–Ah, io non saprei proprio quale scegliere.–
Come sta bene il rosso sull’ottone!
Kaori mi sussurra piano, canticchiando, –Susa­no­oo…–
–Eh? No, intendevo, sembrano davvero tutti e due possenti guerrieri! …
E chissà quanto possenti…–
–Midori!–
–No, intendevo…–
–Lasciamo perdere.–
–Sì, Kaori­san…– assumo la mia migliore aria contrita e penitente. Ma
con la coda dell’occhio, vedo che anche Kaori se li guarda e riguarda ben
bene.
–Beh, comunque, sembrano proprio due perfette guardie del corpo per il
nostro viaggio lungo le strade del Regno di Uda.– conclude Kaori.
–Non avremmo potuto trovare guardie migliori!– concludo io.
–Bene, e allora, si parte!– sentenzia Kaori.
–Si parte!– sentenzio anch’io.
E mentre passiamo davanti alla locanda delle ladre di uomini, faccio la
linguaccia alla gallina che è lì fuori a bramare il mio Jirou nella sua arma­
tura dorata.
Kaori ci spiega il piano: per oggi, fermarci in città a Uda per fare prov­
viste; partire domani all’alba per arrivare a Soni un po’ prima del tra­
monto; da lì, partiamo con calma il giorno dopo, e arriviamo a Mitsue
verso metà giornata; la sera, ci aspetta un bell’onsen. Ci fermeremo a
Mitsue qualche giorno, per imparare a usare bene le armi di Rai’an. Non vedo l’ora! Io, intanto, lo scudo magico so già usarlo!
Beh, almeno, la parte dello scudo. Le altre cose che diceva Rai’an, sca­
gliare gli oggetti e stordire le persone, ancora non le so fare.
La strada è affollata, c’è un gran andirivieni da e verso Hase. Per evitare
le pozzanghere della notte prima, dobbiamo rompere spesso la nostra for­
mazione, e qualche volta, anche saltare.
Si sente un tuono in lontananza. Proviene da nubi minacciose che scen­
dono da nord­ovest.
253
–Speriamo che questo tempo ci lasci in pace…– dice piano Kaori, osser­
vando le nubi. Oh, ma tu guarda! La chiamo: –Kaori­san, guarda, un’arcobaleno!– Si voltano anche Jirou e Rai’an. Il sole, ancora basso a est, disegna un arco quasi completo sullo sfondo
plumbeo delle nubi che ci vengono incontro.
Kaori lo osserva un po’, poi si rimette in cammino. Ma Rai’an, da die­
tro, dice piano: –È … meraviglioso…–
Mi giro a guardarlo. Ha lo sguardo rapito, immobile.
–Si direbbe tu non ne abbia mai visto uno!–
–Infatti…–
Eh? Davvero non ne ha mai visto uno? Non posso crederci…
–Ma come, Rai’an… dalle tue parti non ci sono arcobaleni?–
–…sama!– grida Kaori da lontano.
Lui si gira e mi sorride: –Non darle retta, chiamami Rai’an ogni volta
che puoi!–
–Agli ordini!–
–E … no … dalle “mie parti”, come dici tu, non ci sono arcobaleni.–
–Rai’an­sama, dovremmo affrettarci…– ci sprona Jirou, – essere sor­
presi da quel temporale sarebbe spiacevole.–
–Ovviamente, nobile Jirou.– fa Rai’an, lasciando il mio Jirou di sasso; e
riprende il passo, correndo verso Kaori.
Cerco di raggiungerlo prima che si allontani troppo, e gli chiedo: –A
proposito; che è successo stanotte?–
Ma come fa a correre così veloce?!
Giungiamo a Uda che la tempesta è alle nostre calcagna. Entriamo nel
paese di corsa, tanto che appena riesco a vedere dove metto i piedi. Mi
scoppia il cuore, e il peso del bagaglio sulla mia schiena mi sta uccidendo.
Cade qualche goccia… Oh, no, siamo stati sconfitti!
Ma Kaori gira stretto in un vicoletto, che si apre su una strada più
ampia, e si infila svelta dentro una locanda!
L’ultimo sforzo… i tuoni mi colpiscono dietro la schiena. Ho sempre avuto paura dei tuoni… soprattutto quando sono fuori.
Quando ne sento uno forte, grido.
Dietro di me, Jirou arranca sotto il peso di quell’enorme bagaglio. Non
avrebbe dovuto fare l’eroe in quel modo.
La locanda è a qualche passo; Kaori e Rai’an ci incitano a correre… ma
io mi volto e torno a prendere Jirou, che è rimasto senza fiato.
254
–Dai, Jirou, ci siamo quasi!–
Un tuono. –Yaaa!–
Lui ha il fiato troppo corto per rispondermi. Oh, stupido guerriero,
andiamo!
Gli afferro la mano e lo trascino dietro di me.
–Dai, un ultimo sforzo!–
Ora me lo tiro dietro con tutte e due le mani.
Le gocce si fanno più fitte.
–Forza, forza!– ci gridano Kaori e Rai’an.
Quanto pesa questo bestione!
Ecco, oooo issa! – sono dentro! E mi tiro dietro Jirou.
Lo tiro tanto forte che inciampa.
Mi cade addosso.
–Jirou!– Grida Rai’an.
–Midori!– Grida Kaori.
Apro gli occhi ma… non riesco a respirare. Jirou è disteso lungo sopra
di me…
–Spo…sta…ti…– cerco di dirgli, e lui, ansimando, rotola per terra, al
mio fianco…
–Ufff!– mi alzo senza fiato… –Tutto bene?– si china Rai’an.
–Ufh, sì, … ufh… ma devo ufh… ricordarmi … ufh …–
–Ricordarti… che cosa?–
–Che è … ufh… molto meglio… aahhha… se sto sopra io…–
–MIDORI!– grida con tutto il fiato Kaori.
Goze (R)
Piove a dirotto. Per fortuna, abbiamo comprato le provviste che ci servi­
ranno in questa locanda, e non abbiamo bisogno di altro. Abbiamo affittato una stanza al pian terreno, proprio sulla strada princi­
pale: la più economica. Ma mi piace: vedo correre i contadini, i mercanti e
gli artigiani, che trattengono le imprecazioni, e cercano di portare avanti la
loro vita. Ogni tanto, quando vedo un soggetto interessante, attivo la regi­
strazione. In caso potessi tornare a casa. In caso… potessi…
–Rai’an­sama?–
Kaori entra con un pacco sotto braccio. So che avrà fatto sicuramente un
ottimo affare con l’oste.
255
Rispondo al suo saluto con un sorriso. Lei si illumina come un raggio di
sole.
Mi ama. Nessuno me lo aveva mai detto. Non così. Di certo, nessuna donna come Kaori. –Rai’an…– cinguetta piano Midori da dietro le spalle. Devo trovare un
posto per scappare, ma come faccio per alzarmi, lei mi poggia una mano
sulla spalla.
–Allora, me lo racconti quello che è successo stanotte?–
–No, veramente… preferisco vivere…–
–Ohhhh, è così grave…? Adesso devo sape…–
–Midori…– la chiama canticchiando Kaori.
–Ahimé, Rai’an­sama, sono costretta a interrompere la nostra interes­
sante conversazione sulla kamità del Buddah…–
–Non era sulla Buddità dei kamii?–
–Si, insomma, quella cosa lì…–
E si allontana di qualche passo. Kaori posa le cose che ha con se e si
avvicina. Mi siede a fianco e non parla.
Per un po’, ci basta essere vicini, a guardare la pioggia che cade fuori
dalla finestra. Sento che sta per dire qualcosa, ma in quel momento, giunge la voce di
una ragazza che sale lungo la strada:
–Ma… madre, piove!–
–Già. E allora?–
Giro la testa verso le voci.
Una donna matura, quasi anziana, avanza sotto un largo ombrello che
tiene stretto, con la sinistra, assieme ad un voluminoso fagotto, e con la
destra tira con forza una ragazzina, ormai fradicia fino al midollo.
–Madre…!–
–Smettila di lamentarti, piccola stupida!–
La ragazza incespica e perde uno zoccolo. Il piedino si appoggia
nell’acqua melmosa della strada di fango. Finalmente riesce a divincolarsi
dalla presa della donna, e si china, cercando a tastoni lo zoccolo nel fango.
È lì, a un palmo dalla sua mano… ma non lo vede. È cieca.
–Oh, quanto sei stupida! Proprio ora dovevi perdere il geta?–
–Scusa, madre…–
–È lì, un po’ più a destra.–
256
Kaori, al mio fianco, freme di livore.
La ragazzina riesce a toccare lo zoccolo, se lo infila e si rialza, tastando
l’aria con le mani tese. La madre le afferra la sinistra con più forza di
prima e ricomincia a tirarla.
Ora sono io a fremere.
Vengono da questa parte; ora posso distinguere i dettagli della ragaz­
zina. Le gote affilate, le braccia magre, il volto appuntito, un nasino pic­
colo piccolo. I capelli, sotto la pioggia, sono una massa di alghe nere che le
arrivano appena sotto le spalle. Ha un occhio completamente bianco, e
l’altro è albino e fuori asse. Quando l’acqua le scorre sulle palpebre, le
batte fuori sincrono, ognuna per conto suo.
–Ecco, siamo arrivati.– Le dice la madre, e la fa sedere con poche ceri­
monie su una panca sotto ad una tettoia dall’altra parte della strada, proprio
davanti alla nostra finestra.
–Ma … madre, con questa pioggia non ci sarà nessuno…–
–La locanda è piena di gente.– fa lei, tirando fuori dal fagotto uno stru­
mento musicale simile ad un liuto, con quattro corde grosse come spaghetti
cinesi. Lo riconosco: è un biwa. La madre continua: –Se strilli abbastanza forte, verranno senz’altro a
pagarti per smettere!– le dice acida, e le tira addosso il biwa tanto forte che
sentiamo il rumore delle corde da qui.
Faccio per alzarmi, ma come Kaori sente la tensione nei miei muscoli,
mi posa una mano, sul braccio e mi stringe forte. Dietro di noi, sento la
presenza di Midori e Jirou, che si fanno vicini. Perfino Hikari compare, di
sua spontanea iniziativa, standosene un po’ in disparte.
La ragazzina esita un po’. La madre si allontana di qualche passo, e rag­
giunge l’altra estremità della tettoia.
Col plettro largo come un ventaglio, la ragazzina colpisce le corde del
biwa, ma non se ne allontana; invece, struscia il plettro e ottiene un suono
gracchiante. Poi il plettro vibra, e il suono si fa più aperto; il plettro scatta,
e il biwa emette il suo pianto.
“Il giovane… Takeru…”
Inizia a cantare. La voce è quella di una bambina, ma i gorgheggi, le
pause, gli acuti, sono quelli di una maestra.
“Fra i canneti di Izumo…”
Sussurro piano, quasi a me stesso: –Non sapevo che le goze fossero così
giovani…–
–Infatti…– risponde Kaori: –è troppo giovane per essere una goze…–
“Scende sul lago…”
257
Le goze… donne prive della vista, che per guadagnarsi da vivere, gira­
vano i villaggi cantando e suonando.
“Sale nell’alto tempio… E sa chi lo aspetta…”
Ma in genere sono canti popolari. I miti e le saghe, come quella di
Yamato Takeru, sono fuori dal loro repertorio.
“Vieni Takeru!… grida il sommo, su mille gradini…”
Izumo, unica nazione del Giappone preistorico capace di opporsi allo
Yamatai, nei suoi miti divenne terra di mistero, incanto e pericolo.
“Gli occhi di fuoco, la lingua di tuono, la spada di dieci spanne…”
Il simbolo del potere di Izumo era il Grande Tempio Sospeso, una pala­
fitta che si ergeva su travi che, secondo le nostre ricostruzioni, erano alte
circa cento, centoventi metri.
“Sali, Nipote mio, fatti abbracciare da Susa­no­oo!”
Il nume tutelare di Izumo, benevolo protettore dei naviganti e dispensa­
tore di pesche abbondanti, per gli Yamatai, diffidenti verso tutto ciò che
riguardava il mare, divenne il fratello ribelle e violento di Amaterasu.
“Abbraccia tuo zio, qui nell’alto tempio… assaggia la mia spada!”
Il plettro ora cade sulle corde del biwa, al ritmo del duello di Susa­no­oo
e Yamato Takeru. Rapidi colpi si susseguono a brevi pause cariche di ten­
sione, e poi due colpi, una pausa di studio, un guardarsi guardinghi e poi
via, giù a percuotere le corde che piangono senza posa.
Un paio di mercanti, nonostante la pioggia, si sono fermati ad ascoltare.
Si aggiunge un contadino. Dalla locanda esce quello che sembra essere un
viandante, o forse un pellegrino.
Il plettro struscia sulle corde, in alto e in basso, sempre più veloce, come
una spada che scivola sulla lama che le si oppone… e tah! – un colpo
secco, e poi silenzio. La sottile mano bianca della ragazzina si tende verso il vuoto oscuro di
fronte a sé e attende.
I quattro spettatori si scambiano commenti ammirati. Uno di loro si avvicina e tira fuori qualcosa dal sacchetto che ha attac­
cato alla vita.
–Sei sempre più brava, Mayumi­chan!– le dice e le lascia cadere una
moneta di rame nel palmo. Da lontano, La madre osserva con brama il
movimento.
–Grazie, zio Motomori!–
258
Anche gli altri spettatori tirano fuori qualche moneta. Per ultimo, si
avvicina il tizio mezzo calvo, mezzo curvo, che è uscito dalla locanda. La
ragazzina cieca si volta verso il nuovo suono, con il palmo teso, ma lui le
fa:
–Quanti anni hai, ragazzina?–
–Quattordici.–
–Davvero?–
–…fra qualche giorno…–
–Oh, bene, bene…– La voce di quell’uomo non mi piace. Sento le dita di Kaori che mi
affondano nel braccio. La madre si avvicina; nel frattempo, la pioggia sembra farsi meno bat­
tente.
–E dimmi, bambina, sai fare qualcos’altro, oltre a cantare?–
Cerco di alzarmi, ma Kaori mi trattiene. Dietro di me, sento il pugno di
Jirou scricchiolare sull’elsa di Oborozuki.
La ragazzina di nome Mayumi abbassa la mano; sa che da questo stra­
niero non avrà elemosine.
–Sì…– risponde piano.
–Oh, bene, bene… e dimmi, quanto costano queste altre cose che sai
fare?–
La madre, che si è fatta ormai sotto, squadra quell’uomo dalla testa ai
piedi, e dopo averlo osservato a lungo, risponde: –Due monete d’argento.– –Rai’an­sama…!– mi grida Kaori, ma io sono già saltato fuori dalla
finestra. Jirou salta dietro di me.
La donna mi guarda con l’aria prima seccata, e mano a mano che mi
avvicino, sempre più furente. Il laido mostriciattolo mi lancia giusto un
occhiata furtiva e scappa via. La ragazzina si gira verso la fonte di quel fra­
stuono e abbraccia il suo biwa, Impaurita.
Come le siamo di fronte, la megera ci accoglie così:
–Ma che vi salta in testa, brutti bestioni! Avete fatto scappare il mio
cliente!–
Jirou si sporge in avanti, ma io lo trattengo allargando un braccio.
Non c’è niente che possa dire a questa donna. Quello che fa mi ripugna,
ma so perfettamente che non esiste nessuna istituzione, nessuna legge,
nemmeno una sanzione morale che possa opporle.
Ripugna Jirou. Ripugna Midori. Ripugna Kaori. E, evidentemente,
doveva ripugnare anche gli altri spettatori, dal momento che il vile ha
dovuto attendere che se ne fossero andati.
259
Eppure, non c’è niente che io possa dire, o fare. O quasi.
–Donna.– le dico col mio tono più perentorio.
Finalmente, sembra rendersi conto di avere davanti due guerrieri armati.
–Ciò che fai è sbagliato.–
Lei scoppia a ridere. Quando finisce mi risponde: –Sempre meno sba­
gliato che morire di fame, non credi?–
–Quella che indossi è seta.– noto.
–Beh, devo anche badare all’immagine dei miei affari!–
–Davvero? E allora, perché tua figlia è vestita di stracci?–
–Taci, impudente! Chi ti credi di essere?–
Ho tanta voglia di farglielo spiegare da Hikarisuji.
Ma invece sospiro, e mi chino accanto alla ragazzina. Lei si gira verso il
suono della mia armatura.
–Ciao, piccola, come ti chiami?–
–…Mayumi…–
–È un bel nome. Senti, Mayumi, devo chiederti un favore…–
La megera fa per avvicinarsi, come a pretendere una percentuale sulle
mie chiacchiere, ma Jirou si porta la mano alla spada e la sguaina di due
pollici. La donna si immobilizza.
–…Io sono solo una mendicante… cosa posso fare per un nobile guer­
riero?–
Deve aver sentito il rumore di tutto il metallo che ho addosso.
–Vedi, io e i miei compagni stiamo affrontando un lungo viaggio, e que­
sta pioggia ci ha messi di cattivo umore.
–Quando ti abbiamo sentita cantare delle gesta di Takeru… abbiamo
sentito il coraggio scorrerci di nuovo roboante nelle vene!
–Te la sentiresti di cantare un po’ per noi, Mayumi?–
La ragazzina trema dall’eccitazione e arrossisce nonostante l’acqua
gelida che le fredda la pelle.
–Oh… ma io… ma certo, ne sarei onorata, nobile guerriero, … se vi
accontentate del mio volgare canto…–
–Non crederete di potervela tenere tutto il giorno per niente?– quasi
grida la megera.
Mi alzo in piedi, e drizzo la schiena più che posso. La schiaccio con lo
sguardo.
–Sarai pagata, donna. Torna stasera alla locanda, dopo il tramonto, e
avrai più di quanto desideri.–
–Ahahaha, io desidero tanto, guerriero! Voglio dieci monete d’argento!–
260
–Ne avrai cinque. Il resto le avrà lei.– e faccio un ampio gesto verso
Mayumi.
–Come desideri…– si inchina e sogghigna beffarda la megera.
–Vieni, Mayumi, appoggiati a me…– le faccio, e la prendo delicata­
mente per le spalle.
Lei spalanca gli occhi bianchi per la sorpresa, mentre la sua mano inizia
a esplorare il mio braccio. Ci alziamo insieme; la ragazzina abbraccia il biwa con la sinistra; nella
destra ha un pugno di monete di rame lasciate dagli spettatori. Prima ancora che sia del tutto in piedi, la megera scatta verso di lei,
anche a costo di finire sotto la pioggia, e le svuota la mano; poi si gira, e si
allontana lungo la tettoia contando le monete.
Mayumi rimane immobilizzata, le gambe ancora non del tutto distese, la
mano, adesso vuota, tremante.
Le metto un braccio attorno alle spalle. La sua pelle è gelida. Quasi
istintivamente, attivo i radiatori termici.
–Ohh…. è uscito il sole?– mi chiede la ragazzina, ma io le rispondo solo: –Sì… è uscito un po’ di
sole. Ora vieni, che sei tutta bagnata.–
Miracolo (K)
–Ma che ti è saltato in testa!– cerco di non gridargli, ma è difficile.
–Scusami, Kaori. Ma non potevo lasciare che…–
Sospiro. Sì, non poteva. Il mio Rai’an­sama non avrebbe mai potuto.
Midori sta asciugando i capelli di Mayumi, e Jirou ha acceso il focolare
al centro della stanza. Gli stracci bagnati che indossava la ragazzina giac­
ciono per terra; le abbiamo messo addosso un caldo kimono che ho com­
prato dal padrone della locanda.
–Nobili guerrieri, nobili miko… io, veramente… sono qui per
cantare…–
–Prima mi fai giocare ancora un po’ con i tuoi capelli!– le risponde
Midori, facendola ridere.
Prendo Rai’an­sama per il braccio e lo allontano ancora un po’.
–E adesso, che hai intenzione di fare?–
–Beh, il nervo ottico è intatto, e le strutture visive nel cervello sono
atrofizzate, ma ancora attive: deve avere perso la vista attorno ai due
anni… quindi, se intervengo sui bulbi…–
–Rai’an­sama, non dirai sul serio?–
261
–Io… io non posso semplicemente girare le spalle e andarmene, Kaori.–
Incrocio le braccia e sospiro.
–Io… ti capisco, Rai’an­sama. Ma … se lo fai, ci sarà molto difficile
mantenere questo travestimento.–
–Beh, non dobbiamo mica dirlo a nessuno…–
–Una ragazzina cieca che tutti conoscono e che riacquista la vista… è il
genere di miracolo che non passa inosservato.–
–Lo so Kaori, ma … ti ricordi cosa hai detto del mio makoto?–
–Sì… ma… che c’entra?–
–Beh, io ho fatto un giuramento solenne, di curare chiunque si trovi in
difficoltà. Fosse anche un nemico ferito su un campo di battaglia, fosse
anche un assassino, ho giurato di curarlo. –Se girassi le spalle a questa ragazzina, infrangerei questo giuramento!–
–È un giuramento impegnativo, Rai’an­sama…–
–Sì, lo è. Ma tu… sai bene… quanto sia importante tenere fede ai giura­
menti…–
Colpita. Non posso guardarlo negli occhi, sento che mi scioglierei come
neve in primavera.
–Se questo è ciò che Rai’an­sama desidra… o deve fare… non posso
che accettare la sua volontà.–
Rai’an­sama mi appoggia piano una mano sulla spalla, e mi sussurra
“grazie”. Poi si dirige verso Mayumi.
–Nobile guerriero…– lo saluta e sorride nella sua direzione, non appena
lo sente vicino. Il volto le si accende. È graziosa, nonostante gli occhi
bianchi.
Rai’an­sama si inginocchia di fronte lei e le accarezza una guancia. Lei
cerca il suo braccio con la manina candida, e china il volto, a usare la
grande mano di Rai’an­sama come un morbido cuscino.
Eppure, non riesco ad essere gelosa.
–Mayumi, adesso devo farti una domanda importante.–
Lei fa una faccina perplessa.
–Vorresti… vedere?–
–… eh?–
–Intendo… vorresti poter vedere il mondo con i tuoi occhi?–
–Ma… che dici… nobile guerriero?–
Rai’an si avvicina ancora alla ragazzina e la prende per le spalle.
–Se ti fosse data la possibilità di guarire i tuoi occhi… di tornare a
vedere… tu l’accetteresti?–
262
Non capisco. Non capisco cosa vuole fare Rai’an­sama. Perché glielo
chiede così? È chiaro che lo vuole, chi non vorrebbe poter guarire?
Ma Mayumi sembra confusa. –Io… beh, io credo… di sì ma… non so…–
–Mayumi… vorresti vedere… l’arcobaleno? E i fiori di ciliegio,
Mayumi, ora sono in fiore, sono bellissimi. Interi monti tinti di rosa, come
spennellati da un pittore magico… E la luna? Tra qualche giorno sarà
piena… Non vorresti vedere la luna che ti sorride?–
–Io… non capisco, nobile guerriero… i fiori, li sento profumare l’aria
tutt’intorno a me. L’arcobaleno, lo tocco ogni volta che suono il biwa. E la
luna… di notte, quando è davvero buio, e c’è un bagliore, non è quella la
luna?–
Rai’an­sama le accarezza la testa, usurpando il ruolo di Midori per qual­
che istante. La bambina sembra un gattino bagnato, che sta morendo di
freddo, e trova una mano calda a cui affidare, serenamente, ogni speranza.
–Hai ragione, piccola. Hai ragione.–
La mano di Rai’an­sama scende di nuovo sulla guancia di Mayumi.
La gattina si lascia coccolare ancora un po’, e io mi scopro a sorridere.
Ma la sua espressione, piano piano cambia. Si fa pensierosa. Come se
stesse pensando alle parole che ha appena sentito.
–Sai, nobile guerriero…–
–Dimmi, Mayumi…–
–Se ci fosse una magia… che mi facesse vedere… non credo che a me
importerebbe molto, ma… ma almeno…–
Abbassa il volto, affondando nella mano di Rai’an­sama.
–…Almeno, mia madre, forse… non … non mi odierebbe così tanto…–
Sento uno spillo che si pianta dritto nel mio cuore. Midori è immobile,
Jirou si morde il labbro e si gira, Rai’an­sama guarda prima Midori e poi si
volta verso di me.
Mi sta chiedendo se lo può fare.
Il gattino trema fra le nostre mani.
Annuisco.
Rai’an­sama prende un profondo respiro, e dice piano: –Mayumi… io…
posso fare questa magia.–
–…non … non è una bugia?–
–No, non lo è. Se me lo chiedi… la farò.–
263
–Io…– Mayumi afferra il braccio di Rai’an­sama con entrambe le
manine bianche. Lo tocca scivolando lungo la sua spalla, sul suo petto, sale
sul collo, e poi sul volto. Lo prende fra le mani, fa un risolino quando sente
pungere la barba dorata, affonda le sue dita nelle guance e poi accarezza il
naso, la fronte, le sopracciglia.
–Sei… strano… Non ho mai sentito un volto come il tuo…–
–I maghi devono essere un po’ strani, sennò che maghi sono?–
La ragazzina ride.
–Vorrei… sì… io … un volto strano come il tuo… vorrei proprio
vederlo…–
Imparare a vedere (M)
Ho guardato finché sono riuscita, ma quando le cose che Rai’an tira
fuori dalle braccia si sono infilate negli occhi di Mayumi, ho sentito che
stavo per vomitare.
Ora Mayumi dorme, immobile come una statua, sollevata a due braccia
da terra; un “campo di stasi”, ha detto Rai’an.
E mi sono chiesta, se è un campo, chi lo coltiva?
–Che ne dite?– Ci chiede. Kaori si avvicina; Rai’an tiene appesa
Mayumi nell’aria come una marionetta tirata con fili invisibili; le sue mani
sono aperte come grandi ventagli, e brillano di una luce gialla, densa, che
sembra avvolgere il corpo immobile della mia sorellina.
Essì, ha giusto qualche anno meno di me. Ma sembra molto più piccola.
Forse, perché è così magra. E minuta.
Kaori si porta le mani alla bocca per la sorpresa; poi fa per avvicinare
una mano al volto di Mayumi, ma Rai’an la ferma: –No, non sfiorare la
luce gialla. Non è una buona idea.–
Si avvicina anche il fantasma. Cioè, Hikari. –È molto bella.– commenta, annuendo forte.
Ah sì? Voglio proprio vedere. Mi avvicino, quatta quatta…
Ha gli occhi aperti, anzi, spalancati, che guardano fisso il soffitto,
immobili. Ma sono due bellissimi, profondi, intensi occhi neri.
–Oooh…– approvo.
Jirou resta seduto lontano. Ora che ci penso, mi è sembrato che anche
lui fosse impallidito quando aveva visto cosa stava facendo Rai’an.
–Bene. Spegnete tutte le lanterne, tranne una. E copritela con un telo.–
Io e Kaori facciamo come dice.
–Hikari, anche tu… nasconditi.–
264
Lei sospira, quasi sbuffa. –Farò come mi ordini…– e svanisce.
Il corpo di Mayumi inizia a scendere lentamente verso il pavimento.
Quando si posa sul tatami, la luce gialla che usciva dalle mani di Rai’an
svanisce, e la stanza piomba nel buio, rotto solo dalla luce che filtra dagli
scuri e dalla lanterna coperta.
–Mayumi…– chiama piano Rai’an.
La sorellina sbatte le palpebre e comincia a respirare; solleva la mano e
cerca nell’aria. Quando non trova nulla, chiama:
–Nobile guerriero, dove sei?–
Rai’an si inginocchia accanto a lei e la prende per mano.
–Sono qui.–
–Nobile guerriero, che cos’è questa cosa…?– dice, allarmata, e si copre
gli occhi con le mani.
–Sono i tuoi occhi, Mayumi. Stanno iniziando a vedere.–
–Io… io ho paura!–
Eh? Paura? E di cosa… Non certo del buio, deve aver vagato nel buio
per tutta la vita…
–Adesso, Mayumi, ti faremo vedere un po’ di luce. All’inizio sarà diffi­
cile.–
Con la mano libera, Rai’an accarezza Mayumi sulla guancia.
–Midori, per favore, scopri la lanterna.–
–Subito.–
Mi alzo e sollevo il panno; la stanza si rischiara appena.
Mayumi miagola spaventata, e si aggrappa con le mani alle braccia di
Rai’an.
–Tranquilla, è tutto a posto…– gli dice lui, con quella voce che potrebbe
sgelare l’Hokkaidou d’inverno.
–Perché… nobile guerriero, perché è così?–
–È normale, Mayumi: come i bambini in fasce cercano di stare in piedi,
e cadono molte volte, prima di riuscire a camminare, così tu devi imparare
a vedere.–
–Imparare… a vedere?–
–Sì, è come… come… ecco, è come una nuova canzone. All’inizio, fai
fatica a mettere suoni, movimenti delle dita e canto insieme; prima provi a
cantare, poi a suonare qualche nota, finché non va tutto al suo posto, quasi
da solo. E mano a mano che lo fai, diviene sempre più naturale.
265
–Adesso, questa nuova sensazione che provi, è come una nuova can­
zone. All’inizio non capisci bene come si fa, ma, piano piano, metti
insieme il canto, le note, i colpi sulle corde e i movimenti delle dita.
–Alla fine, diventa tutt’uno con te. E questo succederà anche con i tuoi
occhi.–
Mayumi sembra calmarsi. Ora non trema più. Ma non lascia il braccio
di Rai’an.
–Dici davvero?–
–Sì.– le sorride, e le accarezza una guancia. Il volto di Mayumi si tuffa
in quella grande mano.
Mi avvicino.
–Mayumi­chan…–
–Nobile miko… sei… come si dice… che cos’è questo…–
–Ah, vuoi dire che sono bellissima!–
Mayumi scoppia a ridere. Mentre ancora singhiozza, le prendo con dol­
cezza una mano e la poso sul mio volto. –Ecco, prova a guardarmi con le mani. Gira la testa verso di me e tieni
aperti gli occhi; così imparerai a vedermi!–
Rai’an mi guarda sgranando gli occhi: –È una… ottima idea… come ti è
venuta?–
–Oh, beh, ho ripensato a quelle luci nel mio cervello. Muovevo il brac­
cio e si muovevano le luci, ed ho capito come fare a muovere le luci dove
volevo, semplicemente muovendo il braccio! Se lei vede il suo braccio
muoversi, e sente il mio volto con le mani, mentre lo vede con gli occhi…
beh, dovrebbe essere quasi la stessa cosa!–
–Kaori!– Rai’an si gira verso di lei, –dimmi un po’; ma al santuario di
Koumon, le miko le scegliete tutte così intelligenti, o è un caso?–
–No, Midori è un caso speciale.– si china su di me, rivolgendomi quel
suo mezzo sorriso che mi fa tremare. E poi:
–Lei l’abbiamo scelta perché ha la lingua più tagliente di tutto il Giap­
pone!– E mi tira uno scappellotto.
–Ahi!–
È la sua vendetta per aver preso un complimento dal suo kamii perso­
nale…
Ma l’importante è che Mayumi ride felice, e mi accarezza le guance.
266
Gli occhi del cuore (R)
Mayumi abbraccia il suo biwa e canta. Noi le stiamo davanti, rapiti dalla
sua voce. Accanto a me, Kaori ha entrambe le mani sulla bocca, in quel
suo gesto che esprime emozione e sorpresa. Midori canticchia seguendo la
melodia. Jirou ascolta immobile come una statua di sale.
Mayumi tiene gli occhi chiusi. Non è come essere ciechi; gli occhi con­
tinuano a mandarle segnali anche se le palpebre sono calate, e questo la
distrae, è evidente. Ma è sempre meglio che vedere.
D’improvviso, il fusuma si spalanca. Mayumi lascia l’acuto a metà.
–È il tramonto. Mayumi, vieni, qui abbiamo finito.–
La voce gracchiante della megera mi fa l’effetto di una forchetta sul
piatto.
–Madre…– La saluta sorridente la ragazzina. –Ti devo dire una cosa…–
Mayumi posa il biwa con delicatezza e si alza lentamente. La stanza è
poco illuminata, ma il suo profilo si distingue bene.
Piano, adagio, la bambina solleva le palpebre, assieme al suo sorriso.
–Ma che cosa… che cosa è successo ai tuoi occhi!–
La megera è sorpresa certo… ma non felice.
–Madre… io… io ti vedo!–
No, non la vede. Non ancora. Infatti, il suo sguardo non punta al volto
che ha di fronte, è solo girato nella direzione da cui proviene la voce. Lei
vede solo una macchia di colore a cui non sa dare un senso, ma… sa che
quella macchia deve essere sua madre.
L’espressione della megera passa dalla sorpresa, al terrore, per poi
cadere nella rabbia. Mi dico che è una fortuna che Mayumi, in realtà, non
sappia cosa sta vedendo, perché la smorfia della donna che ho di fronte è
disgustosa.
E Mayumi le offre il suo sorriso più innocente.
–Che… che cosa avete fatto!– grida la megera.
L’odio nella voce… quello, Mayumi lo riconosce. Il suo volto si spegne.
Il suo sorriso muore, insieme a un po’ di lei.
–Madre…–
–L’avete rovinata! Adesso non potrà più medicare!–
Questa donna è pazza. O malvagia. O entrambe.
Mi alzo in piedi. Mayumi ondeggia sotto quelle parole.
–Madre…–
–Chi… chi ha fatto questo!–
267
Mi metto fra lei e sua figlia.
–Io. Sono stato io, donna.–
–Devi risarcirmi! Devi pagare il danno che mi hai fatto! E quella moc­
ciosa, ora, rovinata com’è, te la tieni tu!–
Penso alla missione. Penso a tornare a casa, a New Rome su Marte…
penso a qualsiasi cosa che non siano le mie mani attorno al collo di quella
strega.
–Senti, donna… tutto quello che ti devo è ciò che abbiamo pattuito.–
–Lo vedremo! Ma ora, dammi le mie dieci monete d’argento!–
–Oh… giusto…–, la guardo con disprezzo, –dieci monete… Kaori, – mi
giro verso di lei, –prendi dieci monete d’argento.–
Lei toglie la mano da sotto le pieghe dello shiroi, dove tiene il coltello, e
si dirige al suo bagaglio. Non ricordo quante monete d’argento abbiamo, e
non so cosa abbia speso per le armature e la locanda, ma non devono
esserne rimaste molte più di dieci. E sono tutte frutto del lavoro di Kaori e
Midori. Darle a questa donna è un sacrilegio, ma sono costretto a tenere
fede alle mie parole.
Mi mette le monete in mano, tenendo lo sguardo basso.
–Ecco, donna, – le faccio, –come avevamo pattuito.–
Una, due, tre, quattro e … cinque monete tintinnano nelle sue mani
aperte. Lei mi guarda come a chiedere perché non cadono anche le altre,
ma io mi volto verso Mayumi e prendo la sua mano.
–Cinque a te, e cinque a lei.–
–…maledetto… me la pagherai, mi pagherai tutto!–
E dicendo così, furiosa, esce dalla stanza, e dalla locanda.
Sto ancora tenendo la mano della bimba. Trema. La sento perdere tono.
Cede. Riesco a reggerla, e a impedire che cada sul pavimento, mentre perde i
sensi.
Mayumi… perdonami. Non averei mai creduto che… vorrei dirle, ma
lei non può sentirmi.
Le inietto uno stimolante per farla rinvenire. Gli altri sono attorno a me,
mi premono sulle spalle.
–Midori… aiutami.–
–Sì, Rai’an, cosa devo fare?–
–Tienile un attimo la testa sollevata, appena appena. Meno di un
cuscino. Jirou, sollevale le gambe.–
–Ho!–
268
Mi allontano. Kaori è dietro di me, mi afferra il braccio e la spalla. Non
mi giro a guardarla. Non potrei.
–Kaori… che ho fatto? Che cosa ho fatto!–
Mayumi, lentamente, riprende conoscenza. Ma non ce la faccio a guar­
darla adesso. Preferisco girarmi verso Kaori.
–Kaori… non avrei mai creduto che…–
Lei mi guarda senza parlare. C’è una nota di rimprovero nel suo
sguardo. Aveva cercato di fermarmi. Aveva cercato di trattenermi, prima
che saltassi dalla finestra. Non le ho dato retta. Ho fatto di testa mia.
Sospiro.
–Kaori… tirami uno schiaffo.–
–…Rai’an­sama?–
–Ho agito d’impulso. Non ho pensato alle conseguenze delle mie azioni.
Proprio come Midori, non ti ho dato retta… Sono stato… uno stup…–
La sua mano disegna un ampio cerchio nell’aria, e si abbatte con vio­
lenza, ma non mi colpisce; a meno di un dito dalla mia faccia, il sistema di
difesa genera un campo di gravitoni che la respingono con la stessa forza
che ha usato lei. Il braccio si allontana tanto velocemente che le sfugge un
grido soffocato di dolore. –Scusa! Scusa Kaori, mi ero dimenticato… mi ero scordato di disatti­
vare lo scudo…–
Gli occhi le tremano di rabbia.
–Ecco, scusa ancora… ora ho disattivato lo scu…–
Non finisco la parola. Mi sembra che l’occhio della guancia dove mi
colpisce voglia schizzare fuori dall’orbita; è come se la faccia mi fosse
caduta in una pentola di olio bollente, o sui carboni ardenti. È il mio turno di strozzare un grido.
Ho fatto a cazzotti un po’ di volte nella vita; ne ho date e prese. Ma un
cazzotto non è così: è un dolore più sordo, più lungo, arriva dopo, intonti­
sce. Il ceffone di Kaori brucia. Brucia da morire.
Sento qualcosa dietro al collo. Sono le sue dita. Un tocco delicato; ma la
delicatezza dura poco. Subito, mi tira giù con forza. Mi chino, e lei si alza
sulle punte dei piedi per sussurrarmi all’orecchio:
–Hai salvato questa ragazza due volte. Ecco cosa hai fatto, sciocco.–
269
Nasce una miko (K)
E poi, a dirla tutta, sono stata io a dirgli di farlo. Ma questo, non glielo
dico.
Lascio che la mano scivoli sul suo collo, e sento i brividi salirgli sulla
spina dorsale, mentre poso le suole sul tatami.
Lo lascio lì, a massaggiarsi la guancia, e mi chino su Mayumi. Le
prendo la mano.
–Nobile miko… che cosa è successo…?–
Cerco di consolarla. No, non è stato un brutto sogno, piccola Mayumi,
era tutto vero. È tutto vero.
Sono contenta che quella strega se ne sia andata così in fretta. Ancora
un po’ e l’avrei sgozzata. Sarebbe stato un guaio: avremmo dovuto pagare
la sostituzione del tatami macchiato di sangue.
Mayumi si rannicchia, sdraiata per terra, e mi abbraccia le gambe; poi
inizia a piangere. Rai’an­sama, da qualche parte nel mio campo visivo,
sbianca, e si siede pesantemente. Il suono attira l’attenzione di Mayumi.
–Sei… sei tu, nobile guerriero?–
–Sì… sono io… il mio nome è Ryan.–
–Rai’an…san?–
Sorrido… nessuno può pronunciare i suoni del nome di Rai’an­sama
così come escono dalla sua bocca. Anzi… ricordo che Douzen ci è riuscito,
o quasi… ma i monaci giocano sporco: con tutti quei bon­boroboro­ba dei
loro sutra, che ripetono fino allo sfinimento… possono imparare a dire
qualsiasi cosa.
Rai’an­sama rimane immobile.
Mayumi si mette seduta nella sua direzione, e poi si inchina profonda­
mente, toccando il tatami con la fronte. Parla con voce ancora rotta dal
pianto.
–Rai’an­san, ti sono profondamente riconoscente.–
Jirou scatta: –Rai’an­sama!–
–Jirou!– lo sgrido. Lui mi guarda sorpreso… proprio io che riprendo
sempre Midori… ma Mayumi che singhiozza e trema col volto a terra è
ben diversa da Midori, che fa finta di dimenticarselo apposta, come atto di
ribellione, o per scherno.
Mayumi ripete: –Rai’an… sama… ti sono profondamente
riconoscente.–
–Io… – balbetta qualcosa Rai’an­sama…
270
Devo prendere in mano la situazione. In fondo, è anche una mia respon­
sabilità: sia perché ho annuito quando Rai’an­sama mi ha consultata per
l’ultima volta, sia perché è mio dovere proteggere Rai’an­sama. Da qual­
siasi cosa. Anche da un rimorso doloroso come questo.
–Mayumi, cosa hai intenzione di fare, adesso?–
Lei si alza seduta, e si gira verso di me.
–…eh?–
–Dico, cosa intendi fare, adesso che non sarai più insieme a quella
donna?–
–… io… intendi mia madre?–
–Sì, intendo proprio quella donna.–
–Oh… beh… io… continuerò a cantare…–
–Certo ma… hai un posto dove andare?–
Mayumi non risponde.
–Mayumi, che ne diresti di diventare una miko?–
–Eh? Io? Una miko!?–
–Sì. Con la tua abilità nel canto, faresti la fortuna di qualsiasi santuario.
La gente verrebbe ai matsuri anche solo per sentirti cantare.–
–Ma le miko non ballano?–
–Oh, sì, ma se sanno anche cantare non guasta affatto. Anzi. È che una
voce come la tua è cosa rara.
–Noi stiamo andando a Ise. Fra un paio di giorni saremo a Mitsue… è
un grazioso paesino fra le montagne di Uda.–
–Oh, ci sono stata! Il profumo dei boschi… l’aria buona, leggera…–
–Sì, – rido, –è proprio quello. Il kannushi del santuario di Mitsue mi
deve un favore… Se ti va, posso chiedergli di prenderti come miko.–
–Io… non sono degna di tanto onore…–
–Mayumi, sai qual’è la cosa più importante per una miko?–
–Non saprei… danzare le danze sacre o… forse… scacciare gli spiriti
maligni?–
–Sono cose importanti, certo, ma la cosa più importante…– guardo
Midori intensamente, che sostiene il mio sguardo con fermezza, –è saper
muovere il cuore della gente. E, credimi, Mayumi, tu sei molto brava in
questo.–
Mayumi non si rende conto di quanto potere abbia il suo canto. Lei
canta solo per se, perché è felice di farlo. Canta come l’allodola: non sa
quello che fa, non sa quanto ciò che fa rapisca i cuori delle creature che
l’ascoltano. E non canta per questo. Canta solo per il piacere della sua
stessa anima. È questo che rende quel canto così meraviglioso.
271
–Mayumi,– continuo, con l’intenzione di rompere la sua ultima resi­
stenza, –Il mio makoto mi impone di essere completamente sincera con
te.– Mi fermo, e attendo che le mie parole assumano tutto il peso del loro
significato.
–Non ti sto offrendo un aiuto. Le tue capacità sono molto preziose. Met­
terle al servizio dei kamii sarà, per me, motivo di orgoglio, e sarà fonte di
prestigio per tutte noi miko.
–Quindi, la mia non è un’offerta disinteressata. Non hai posto dove
andare, certo, ma hai già un mestiere che ti può dare di che vivere, e il
posto dove andare lo troverai presto. Quindi, sono io che ti sto chiedendo
un favore: sii miko, metti le tue doti al servizio dei kamii, e te ne sarò rico­
noscente. Te ne saranno tutti riconoscenti.–
Mayumi sorride, e il suo sorriso innocente si allarga fra le lacrime che le
scendono sulle guance. Poi china la testa e mi risponde piano.
–Fusai de yokereba…–
Vergine sacra (R)
Fusai de yokereba… un’espressione intraducibile che significa più o
meno “se quell’incapace che sono io può andare bene, se siete contenti che
sia fatto da me, che sono così inetta…”
Non immaginavo che fosse così antica, che fosse usata persino in
quest’epoca. Beh, in tempi più recenti, i Giapponesi usavano pronomi
moderni come “watakushi” o “atashi” al posto di “Fusai”. “Fusai”, lette­
ralmente “privo di talento”, usato come pronome personale per indicare sé
stessi ha resistito fino all’epoca di Edo, attorno agli inizi del 1600. Come
antropologo, sentire un’espressione come questa usata dal vivo è una gioia
che vale una vita di lavoro.
Una gioia che mi fa quasi dimenticare il senso di colpa che sto pro­
vando. Dovrei concentrarmi sulla mia missione: quella è la mia priorità. Una
priorità che scavalca anche il giuramento di Ippocrate? Me lo chiedo, ma
non so darmi una risposta. Anche se ho scelto la carriera di bioantropo­
logo, e quindi di ricercatore, resto sempre un medico. Resto sempre vinco­
lato al giuramento, un giuramento che ha guidato anche la mia scelta di
lavorare come ricercatore: il lavoro del medico è importante, poiché può
salvare molte vite con le sue mani, ma il ricercatore è colui che dà a
migliaia, milioni di medici gli strumenti per farlo. 272
È il giuramento che mi ha dato … il coraggio … di mettere la mia vita a
disposizione per questa missione. “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati”. Questo
ho giurato. Ma se fallisco la missione… non ci sarà più nessun malato da
curare. Non ci sarà più nessuna casa in cui andare.
Ho giocato a fare il dio e ho combinato un disastro. Se non ci fosse stata
Kaori, questa povera ragazza sarebbe finita in mezzo a una strada. Stasera,
avrebbe dormito sotto la pioggia. Avrebbe riavuto i suoi occhi, certo, ma
avrebbe visto solo miseria, e probabilmente sarebbe morta di stenti in
pochi giorni. Cerco di pensare “meglio che far vendere il proprio corpo
dalla propria madre”, ma non riesco a convincere nemmeno me stesso.
Mi avvicino a Kaori. Ha sistemato il pasticcio che ho combinato. La
ringrazio con lo sguardo. Lei capisce, e mi sorride. “Non è niente…” leggo nei suoi occhi.
–Allora, è deciso, – fa lei, rivolta un po’ a Mayumi e un po’ a tutti noi, –
verrai con noi a Mitsue e lì chiederemo a Fuyutsuki­sama di accettare i
tuoi servigi come miko del santuario.–
Mayumi annuisce.
D’improvviso, la contraddizione mi colpisce. Non so perché emerge fra
i miei pensieri un dettaglio all’apparenza così insignificante, rispetto alla
dimensione di questo dramma, ma la mente è così: non si cura delle cose di
cui ci curiamo noi. Fa un po’ di testa sua.
Le miko non dovrebbero essere vergini?
Attendo qualche minuto, mentre Kaori impartisce molte raccomanda­
zioni a Mayumi su come prepararsi, e poi la chiamo con un gesto. Ci allon­
taniamo, e quando Midori inizia a chiacchierare con Mayumi, chiedo a
Kaori, con un filo di voce:
–Kaori… scusa la domanda che sto per farti, ma… non vorrei che per
rimediare a un mio errore tu fossi costretta a… ecco… a contravvenire ai
tuoi principi…–
–Rai’an­sama non ha commesso alcun errore.– risponde lei, perentoria e
formale. –Ha fatto ciò che riteneva giusto, e che il suo giuramento gli ha
imposto. Non c’è peccato in questo.
–Anzi, – continua, –ciò che ho detto prima è assolutamente vero.
Mayumi sarà una grande miko, e tanto io personalmente, quanto il santua­
rio di Mitsue, ne trarremo numerosi vantaggi.–
–Sì… va bene… ma ecco… quello che volevo chiederti è… io… dun­
que…–
–Rai’an­sama, con me puoi, anzi, DEVI parlare liberamente. Devi par­
lare con magokoro, come io ho parlato a te ieri notte.–
273
Sento il mio volto avvampare. La sua dichiarazione. Ripensarla, bagnata
dalla luce della luna, regina, dea…
–Rai’an­sama?– mi esorta.
–Oh, sì, ecco… scusa. Volevo chiederti… le miko, non dovrebbero
essere… vergini?–
–Certo!– risponde semplicemente lei.
Rimango un momento interdetto.
–Mayumi…– cerco di dire, ma lei prosegue tranquillamente.
–È vergine.–
–Uhm… no, non credo proprio… insomma…–
–Ti sembra che abbia figli?–
Un momento… credo di capire. È probabile che il senso della parola
otome sia cambiato nel tempo; ha sempre voluto dire “fanciulla”, “giovane
donna non maritata”, e per estensione “vergine”. Ma può darsi che il signi­
ficato “vergine” sia emerso in un secondo tempo. Semplicemente, la cul­
tura del Giappone antico non aveva nessuna sanzione morale nei confronti
della sessualità, almeno fino a quando il Buddismo non divenne larga­
mente diffuso anche fra i ceti più popolari. Esistono termini che distin­
guono uomini e donne in base all’età e allo stato maritale, ma non c’è trac­
cia di un vocabolo specifico per distinguere una donna, o anche un uomo,
in base al fatto di avere avuto un rapporto sessuale o meno, almeno non
fino a tempi assai più recenti, tanto che si è sentito il bisogno di coniare
nuovi termini, come kimusume, o di importarli da altre lingue come nel
caso di baajin (virgin, la parola inglese traslitterata nei fonemi giapponesi).
Kaori mi guarda con aria interrogativa.
–Oh… Kaori, ho capito… è come quando vi ho detto che vi avrei scal­
dati io…–
–Ahhhhh… capisco…– mi sorride lei con aria furba.
–Sì, ecco… alcune parole hanno un senso un po’ diverso da quello che è
giunto fino a noi.–
–Dunque… Rai’an­sama pensava forse che a una miko fosse vietato
giacere con gli uomini?–
–Beh, c’è stato un periodo in cui…– ma non finisco la frase: sono inter­
rotto dalla sua risata cristallina.
–Se fosse così, non ci sarebbero più miko! No, quello a cui siamo tenute
è dedicare la nostra vita ai kamii. Quindi non possiamo prendere marito, né
avere figli a cui dedicare parte della nostra attenzione. Dobbiamo fare una
274
scelta: assumerci la responsabilità di gestire una famiglia, o occuparci dei
kamii. È una scelta libera, e possiamo cambiare idea in qualunque
momento.–
Assumere la responsabilità di gestire una famiglia… detto da una donna
nell’anno mille. Ho i brividi a fior di pelle.
Calabroni (M)
E siamo di nuovo in cammino! Rai’an e Kaori davanti, Jirou dietro,
Mayumi ed io in mezzo. Per essere precisi, sto tenendo Mayumi per mano.
Per essere ancora più precisi, Mayumi è avvinghiata al mio braccio come
l’edera si avvinghia agli alberi.
Mi fa quasi tenerezza; sembra spaventata da qualsiasi cosa. Ogni
minimo rumore la fa trasalire, ma più che il rumore, è il movimento che
sembra farle paura. Se una ventata passa fra gli alberi, e le capita di avere
gli occhi girati verso le fronde, mi abbraccia tutta tremante e affonda la
faccia nel mio seno.
Su ordine di Kaori, Mayumi ha tenuto gli occhi chiusi e non ha parlato
con nessuno finché non siamo usciti dalla città di Uda. Tranne una volta;
uno di quei tizi che ieri l’avevano ascoltata sotto la pioggia l’ha salutata, e
le ha chiesto dove andava. Lo “zio Motomori”… deve esserle affezionato.
–Ooooi, Mayumi, dove te ne vai?–
–Vado a fare un pellegrinaggio con queste gentili miko.– aveva risposto,
così come Kaori le aveva detto di fare.
–Oh, e quando torni?–
–Mah, presto, zio!–
–Bene, allora fai buon viaggio, bambina mia!–
–Sì, grazie. Addio, zio!–
–…Addio…– L’addio, forse, suonava un po’ troppo definitivo… ma in effetti può
darsi che non torni al villaggio per molto tempo. Non che fare la miko sia
come chiudersi in un monastero, come capita a certe nobili… è che gli
impegni sono così tanti… da quant’è che non vedo papà e mamma?
Uhm… saranno sei mesi? Una folata di vento freddo scende dal fianco dei monti a nord. Mayumi
mi stringe il braccio tanto da farmi quasi male.
275
Stamattina era sereno, ma mano a mano che procediamo sulla monta­
gna, il tempo si va guastando; prima erano nuvole bianche che puntella­
vano il cielo, adesso le nubi sono più dense e più nere. Anche Kaori sem­
bra preoccupata. Ho paura che prima di sera tornerà a piovere. E ci bagne­
remo come pulcini.
E non possiamo neanche allungare troppo il passo. Io mi sono quasi abi­
tuata al passo di Kaori, ma Mayumi… la sento, è già spossata. E il mattino
non s’è ancora sciolto nel sole di mezzogiorno.
Ci fermiamo a mangiare sul ciglio della strada, vicino ad un sacrario,
nei pressi di una curva dove la strada si fa larga, e passa di fianco ad una
cascatella dalla quale possiamo bere. Mayumi sembra iniziare a capire
come usare i suoi occhi: ancora, tasta l’aria per trovare la pietra dove le ho
detto di sedersi, ma le sue mani si muovono sicure nella direzione giusta.
Cerco di immaginare tutte quelle luci nel suo cervello che si accendono.
Cosa darei per avere le macchine di Rai’an e poterle vedere ora!
–Sei stanca, Mayumi­chan?– le chiedo, protettiva.
–No, sto bene, nobile miko.– dice lei, con la bocca piena di un dolcetto
di riso, senza guardarmi. Le giro delicatamente il volto nella mia direzione
e le sorrido.
–Puoi chiamarmi Midori.–
–Non sono degna di tanto onore…–
–Eddai, che mi fai sentire vecchia come Kaori­san!–
Da dietro la nuca, sento uno sguardo affilato pungermi il collo. Ma
Mayumi ride. Che carina!
–Se proprio inisiti… Midori­no­neesan?–
Sorellona! Mi ha chiamato sorellona! Ohhh… la adoro! Me la abbrac­
cio forte forte e rido. –Eccomi!– le rispondo.
Jirou si avvicina, con in mano due arancini di riso.
–Midori­san, Mayumi­chan, mangiate anche questo.–
Mayumi si libera dal mio abbraccio, si gira verso di lui e gli risponde: –
Ma io, veramente… sono sazia…–
–Con un dolcetto? Dai, Mayumi­chan, hai camminato tutto il giorno. Se
non mangi, come fai a camminare… non vorrai mica che ti porti in spalla
fino a Soni?– le sorride Jirou. Quant’è bello, quando sorride…
Un momento.
Jirou?!
Quel Jirou?!?!
Il MIO Jirou?!?!?!?!
276
Non l’ho mai, dico, mai (o quasi mai) visto sorridere prima. E mai (pro ­
prio mai) a ME!
–Su, Mayumi­chan, fallo per me. Mangia anche questo.–
–Va bene, nobile guerriero… allora grazie…– risponde la mia sorellina,
allungando la mano in cerca dell’arancino; ma la direzione è un po’ sba­
gliata, e per correggersi, prova ad usare anche l’altra… alla fine, dopo aver
brancolato un po’, entrambe le sue mani abbracciano la grande mano di
Jirou… e lei… arrossisce. Cioè, dico… arrossisce!!
–Grazie…– gli fa Mayumi, arrossendo ancora di più, mentre si porta
l’arancino alla bocca. E il procione? Le sorride ancora di più e le scompi­
glia i capelli con una carezza! – Cioè, dico… con una carezza!!!
Mi alzo e vado a raggiungere Rai’an e Kaori che mangiano l’arancino
fianco a fianco su una grossa pietra; quasi si sfiorano. Li troverei teneri, se
non fossi così infuriata.
–Rai’an…– lo chiamo con voce musicale. Kaori sta per riprendermi, ma
qualcosa nel mio sorriso la fa desistere.
–Dimmi, Midori…–
–Ti è costata tanta fatica guarire gli occhi di Mayumi?– gli chiedo a
voce bassa.
–Uh, beh, no, non tanta… giusto un po’ di tempo.–
–Oh bene, bene… questo mi solleva…–
–Ti… solleva?– chiede, e poi si porta la borraccia alla bocca.
Mi avvicino, tanto che solo lui, e forse anche Kaori, possano sentirmi.
–Sì, vedi… se guarda ancora una volta Jirou in quel modo, quei begli
occhioni neri, mi sa che glieli cavo!–
Kaori tossisce cercando di buttare giù il riso che le è andato per tra­
verso, e Rai’an sputa tutta l’acqua che aveva in bocca per terra, e poi si
mette a ridere tenendosi la pancia.
Il pomeriggio passa in fretta, con le nubi che si fanno sempre più dense,
e i pochi viandanti, più che altro pellegrini, ci incrociano scambiando
appena un saluto.
Scollinando, iniziamo a scendere nella vallata del cuore del Regno di
Uda, che si allarga passo dopo passo davanti ai nostri occhi. La strada,
prima stretta e opprimente, adesso si accosta ad un pendio che sale più
dolce, e ci mostra, sulla destra, altri campi che si aprono sempre più larghi,
e la discesa è sempre meno ripida, fino a che ad un certo punto, ci accor­
giamo di camminare come abbracciati, coccolati da una terra amica. 277
Ma le nubi che sorvolano svelte sulla nostra testa si insinuano sulle
sommità silenziose, quasi le sentiamo scendere, o salire, non so, dalle selve
dense che tengono ben diviso il mondo degli uomini, pacifico ma inerme,
sul fondo della valle, dal mondo degli Oni, minaccioso e guardingo, rinta­
nato nei suoi bastioni di legno e verde, che immagino, nessuno ha mai
osato sfidare.
È ancora giorno quando arriviamo a Soni, ma la luce ovattata che filtra
dalle nuvole scure rende tutto cupo. Mayumi stringe la mia mano; si
guarda intorno tremando, e mi chiede:
–È questo… questo è quello che dicono “un giorno di pioggia”?–
–Sì…–
–Fa… paura…–
–…Sì.–
Lontano, un lampo rischiara il cielo. Mayumi grida prima ancora che
arrivi il tuono, non appena la luce colpisce i suoi occhi.
Ecco le prime case, dopo tanto, e un tempio. Kaori si ferma un attimo e
annuncia: –È Yamagasu, la parte di Soni che si estende sulla strada per Ise.
–Pensavo di andare giù a Soni e trovare un ostello, o addirittura, visto
che abbiamo fatto presto, tirare fino a Mitsue, ma con questo tempo…
meglio chiedere ospitalità al tempio di Kasuga. Anche se avrei
preferito…–
Ma la frase è interrotta da un grido che arriva proprio da sopra di noi: –
Aiuto! Aiuto!–
Giro la testa; un giovane uomo, un contadino, su fra le foglie di tè,
abbarbicate alle pendici del monte che la strada costeggia, sembra cercare
di sollevare qualcosa, un peso che riesce appena a trascinare. Dai campi
vicini, accorrono un uomo e un ragazzo, e finalmente riescono spostare il
corpo di un anziano, scendendo a valle, verso la strada, a qualche passo da
noi.
Jirou ci sorpassa e corre verso il gruppo, e Rai’an gli si affianca subito.
–Che succede?– mi chiede Mayumi. Non rispondo, ma allungo il passo
assieme a Kaori.
–Nonno, nonno!– chiama fra le lacrime il ragazzo che per primo aveva
chiesto aiuto. Il vecchio è sdraiato per terra, il volto rugoso contorto in una
smorfia di dolore, il torso nudo e scuro di chi lavora nei campi, ma una
spalla è gonfia come un pugno, e viola.
278
–Tsubamebachi!– dice uno dei due soccorritori. Gli altri guardano in
giro; anche Kaori, allarmata, cerca i segni dei calabroni, lunghi come un
dito, che aggrediscono chiunque si avvicini al loro nido, e dopo averlo
punto, lo inseguono per finirlo. Anche se, quasi sempre, una sola puntura è
abbastanza.
Mentre tutti cercano intorno, intravedo con la coda dell’occhio Rai’an,
furtivo, tirare fuori una di quelle cose che gli escono dal braccio, e toccare
la spalla del vecchio, poco sopra la puntura; è la stessa cosa che mi ha fatto
passare il dolore alle gambe qualche giorno fa.
Il volto del vecchio si rilassa, la smorfia contratta si distende.
–Midori!– grida Mayumi, e punta il braccio e il dito verso il campo di
tè. Dicono che i ciechi vedono con le orecchie, e lei deve aver sentito il
ronzio del calabrone che si avvicina. Affilo gli occhi verso quella dire­
zione, e d’improvviso lo vedo, a dieci passi, tuffarsi su di noi!
D’istinto, sollevo il braccio destro, come per difendermi, ma vedo il gio­
iello di Rai’an. Il calabrone è ormai a un paio di passi, forse meno, i conta­
dini cadono spaventati, Mayumi trema e grida … Oh, gioiello, non so se
posso parlarti, ma se mi senti, questo è il momento di aiutarmi.
Immagino il mio braccio arrivare fino agli alberi, e oltre, fino alla punta
del monte sopra di noi. Il gioiello brilla, l’aria davanti a me ondeggia come
la superficie di un lago, la sento muoversi attorno, dentro di me. È come se
il mio stesso braccio si sciogliesse e diventasse acqua, quell’acqua mi che
riluce davanti.
Il calabrone cade a terra, immobile.
–Midori!– mi chiama Rai’an, allarmato, e corre verso di me. Come
arriva vicino, schiaccia col piede l’insetto, che proprio in quel momento,
stava cercando di rimettersi in piedi.
Non so perché, ma mi sento debole. Forse per la paura di vedere quel
pungiglione puntato dritto verso di me; o verso Mayumi, poco importa. Ma
no… è diverso… mi sento così pesante… è tutto così buio…
Il tempio di Kasuga (R)
Midori ha usato in un sol colpo tutta l’energia dello scudo deflettore. Il
campo di gravitoni che si è trovata davanti, e il movimento stesso
dell’energia fra l’anello conduttore e il generatore di campo, hanno provo­
cato un’onda elettromagnetica che l’ha stordita. Non era certo il modo
migliore di usare lo scudo, ma quello era l’unico modo che lei conoscesse.
Ora dorme, sdraiata su una stuoia sul pavimento di una stanza del tem­
pio di Kasuga. 279
Mayumi la veglia, accarezzandole i capelli. Jirou l’osserva immobile,
seduto in un angolo della stanza; ogni tanto, distoglie gli occhi dal volto
della ragazza solo per guardare il generatore che avvolge il suo braccio.
Poi, torna a guardare il volto pallido di Midori.
Kaori è uscita per parlare col kannushi, assieme ai contadini che erano
con noi; per loro, l’onda di luce distorta davanti a Midori era uno spirito da
lei evocato, a difesa della sua giovane protetta. Beh, è quasi vero. Comun­
que, Kaori avrà molto da spiegare, e non ho voglia di provare a immagi­
nare cosa potrà dire senza dover … lordare il suo makoto, come dice lei.
Il rumore della pioggia scrosciante batte sulle tegole di terra cotta che
coprono le nostre teste, un suono minaccioso e rassicurante al tempo
stesso. È la prima volta in vita mia che sono immerso in un suono tanto
naturale, eppure tanto alieno, protetto da un guscio così sicuro, eppure così
fragile. Che strano. In una stazione spaziale, o in una istallazione fra quelle
più remote sul suolo di Marte, si ha sempre la consapevolezza che solo un
sottile foglio di metallo ci separa dal freddo, dal vuoto, dalla morte. Se
anche questo tetto dovesse volare via, la cosa peggiore che potrebbe succe­
dermi sarebbe quella di finire bagnato fino al midollo. E invece… chissà,
forse è per questo suono, così ritmico, così ipnotico… che in una parte
remota della mia anima si agita la paura, la sensazione che l’universo sia
tutto qui, fra questi pannelli di legno, e che se osassi uscire, o anche solo
guardare fuori, sarei risucchiato in un vuoto più profondo di quello dello
spazio siderale.
Da quando siamo rimasti soli, ho aperto i sensori e fatto una scansione
approfondita di tutto il sistema nervoso di Midori; come finisco, Jirou si
avvicina.
–Sta bene?–
Il volto è duro, ma la voce trema.
Gli sorrido: –Sì, non è niente. Ha solo esagerato un po’ con lo scudo.
Non so come spiegare… ha preso un contraccolpo… un po’ come se un
arco, dopo aver scoccato una freccia, le fosse rimbalzato in testa.–
–Ma… non le è successo niente di grave?–
–No, non ha nulla di grave. Dopo una bella dormita starà beone.–
Ma Jirou scorge il mio turbamento.
–Rai’an­sama, se posso osare chiederti; se Midori sta bene, cosa ti pre­
occupa?–
Come posso dirglielo? Queste sono armi sperimentali, molto più sofisti­
cate di quelle in dotazione alla flotta stellare, e addirittura, di quelle delle
truppe speciali d’assalto. Le ho date in mano, letteralmente, a delle persone
per le quali l’arco è già tecnologia avanzata.
280
–…Ecco… mi chiedo se ho fatto la cosa giusta…–
Jirou osserva, ancora, la sottile rete di maglie metalliche attorno al suo
braccio; poi, alza gli occhi e guarda dritto nei miei.
–Il mio giudizio è limitato, Rai’an­sama, lo comprendo bene. E com­
prendo che quelli che ci hai dato sono oggetti potenti e misteriosi. Ma
rimane il fatto che, senza quest’arma, adesso non staremmo vegliando il
sereno sonno di Midori­san. Forse, staremmo piangendo la sua morte.–
Già. Non l’avevo vista così. Mentre sto ancora cercando di riprendere il filo dei pensieri, sento il
fusuma dietro di noi scostarsi piano. Kaori entra senza fare rumore, e
richiude il pannello lentamente. Come si avvicina, Jirou si alza per andarsi
a coricare sulla sua stuoia.
Kaori si siede in ginocchio al mio fianco, tanto vicina che il suo shiroi
mi sfiora il braccio. Le ho già detto, prima, che Midori aveva solo bisogno
di dormire un po’; per questo, sorride mentre osserva il volto della giovane
miko che dorme, stesa su un fianco, la mano appoggiata accanto alla guan­
cia, accarezzata piano da Mayumi.
–Come è andata?– le chiedo, senza girarmi. E lei, senza girarsi, risponde
sotto voce.
–Ho detto loro la verità.–
Quale verità? Ce ne sono così tante… ma Kaori continua senza bisogno
che glielo chieda.
–Ho detto loro che Midori ha evocato la forza dei kamii per difendersi, e
per proteggere Mayumi.–
La forza dei kamii… beh, come verità mi sembra un po’ arbitraria.
–Ho detto loro che Midori è una miko fuori dal comune, dalle capacità
eccezionali, che sa muovere i kamii così come la sua danza muove il cuore
della gente.–
Uh… ora mi rendo conto, io continuo a capire “i kami”, ma il Giappo­
nese non distingue il numero dei nomi. Kaori non stava parlando degli
“dei”, ma del kami, della forza del divenire. Non di un fenomeno sovran­
naturale, ma della natura stessa delle cose, della mutazione continua che è
caratteristica dell’esistenza. Ciò che esiste, muta. E solo ciò che muta, che
diviene ad ogni istante, esiste.
E la danza di Midori; le emozioni che suscita sono reali, fisiologica­
mente misurabili. Non saranno efficaci come una medicina, ma non sono
nemmeno una mera superstizione.
281
E che abbia capacità straordinarie è fuori discussione. Io stesso ci ho
messo giorni a padroneggiare lo scudo attivo; lei c’è riuscita in un pome­
riggio. Sì, capisco: Kaori ha detto loro la verità, o almeno, l’unica verità che
poteva dire.
–Hai proprio ragione, Kaori. Midori è una ragazza eccezionale.–
E come lo dico, le sue fossette si disegnano ben nitide attorno al suo
sorriso.
–Grazie.– sussurra.
Era sveglia!
Kaori si fa paonazza e dopo aver balbettato qualcosa riesce a dire: –Pic­
cola serpe impertinente! Da quando ci ascoltavi?–
–Uhm…– fa lei, senza aprire gli occhi, –più o meno da quando Jirou si è
preoccupato per me…–
Jirou, sdraiato poco distante, tossisce, e Midori, sempre con occhi
chiusi, tira fuori una risatina delicata.
–Aaah, – sosipra forte Kaori, con quel tipica cantilena tritonale usata
dalle donne giapponesi quando sono esasperate, –sei proprio eccezionale,
sì… eccezionalmente impertinente!–
Un giovane monaco chiede il permesso di entrare; porta un vassoio con
una cena frugale a base di riso e germogli di soia. Per fortuna, la razione è
abbondante. La consumiamo quasi in silenzio.
Poco dopo, Mayumi, Jirou e Midori dormono (spero); anche Kaori ed io
ci stiamo apprestando a farlo, ma ancora abbiamo bisogno… o forse, solo
voglia di parlare.
–Avrei preferito destare meno attenzione.– sospiro; ancora una volta,
non sono riuscito nel mio intento di passare inosservato.
–E io avrei preferito non fermarmi in questo tempio. Volevo andare al
Nenbutsuji.–
–Un tempio… dedicato al Buddah? Tu?–
–Offrono ospitalità ai pellegrini…–
Sebbene, dal punto di vista filosofico, il buddismo non postuli
l’esistenza di esseri sovrannaturali dotati di volontà, usa le divinità indui­
ste, o provenienti da altre civiltà, come quella giapponese, o ancora, nuove
divinità create in autonomia, al fine di personificare o esemplificare alcuni
precetti morali ai fedeli e ai monaci meno esperti. Tuttavia, il confine fra
metafora e asserzione è sottile e difficile da cogliere, e col tempo si sono
venute a formare correnti buddiste che sostengono che queste divinità esi­
stono realmente, seppure solo come emanazione dello spirito del Budda.
282
–Dunque… se non ricordo male, Kasuga era in origine uno delle quattro
Grandi Colonne…– rifletto.
–Ame­no­Koyane­no­mikoto. Ko come piccolo, yane come tetto.– mi
ricorda Kaori.
–Il Dio Celeste dei Piccoli Tetti. Certo, è un nome modesto per un dio.
Eppure, Kasuga­gongen è una divinità molto importante; presiede gli ora­
coli, giusto?–
–Sì, ma… le costruzioni dai piccoli tetti sono gli Honden: i luoghi sacri
ove risiedono gli spiriti degli Dei.–
–Ah… in altre parole, Koyane­no­mikoto è il dio che protegge i luoghi
di culto e le dimore di tutti gli dei…–
–Proprio così. Dopo Oo­mono­no­nushi­no­mikoto, e dopo i tre Figli
Prediletti del Divino Izanagi, è la divinità più importante. Koyane­no­
mikoto è colui che resse lo specchio davanti alla pietra che sigillava la
caverna dove si era nascosta la Divina Amaterasu. Ed è colui che accom­
pagnò Jinmu­tennou sulla terra, per assisterlo nella missione affidatagli
dalla Dea Celeste. Questo è ciò che mi preoccupa.–
–Non capisco… perché ti preoccupa?–
–La Divina Amaterasu è la progenitrice del clan Yamato. Il Divino
Koyane ha generato la stirpe dei Nakatomi, coloro che da sempre affian­
cano il clan Yamato, sostenendolo nel suo divino compito.–
Ho un tuffo al cuore.
–Il clan Nakatomi ha ricevuto il titolo di Fujiwara appena prima della
riforma Taika!–
–È così, Rai’an­sama. E il Divino Koyane ha ricevuto il nome di
Kasuga­gongen quando i Fujiwara si sono convertiti al buddismo.–
Un momento… se qui si adora la divinità tutelare del loro clan…
–Kaori, vuoi dirmi che questo tempio è sotto il controllo dei Fujiwara?–
–Il kannushi risponde direttamente a Michinaga.–
Scatto seduto sul tatami.
–Questa non ci voleva. Prima un loro onmyouji, e adesso un loro tem­
pio… se le notizie che ci riguardano arrivassero fino a Michinaga…–
–Quell’uomo, attanagliato da una sete di potere che non conosce con­
fini, farebbe di tutto per ottenere il potere di Rai’an­sama.–
Sarebbe un disastro. Non penso tanto al fastidio che potrebbe darci l’uomo più potente di
tutto il Giappone. Il Giappone dell’era Hei’an è frammentato, e sono troppi
i centri di potere affinché uno di essi possa renderci impossibile compiere
la nostra missione. Le varie correnti buddiste, i signori locali, la piccola
283
nobiltà di origine militare che inizia adesso a formarsi, presi singolar­
mente, sono relativamente deboli, ma anche così, il governo centrale è
sostanzialmente impotente nei loro confronti. Riesce a malapena ad eserci­
tare un’azione puramente simbolica; in questo periodo, ha già dovuto
rinunciare a riscuotere i tributi dai templi e dai feudi, e riceve introiti solo
dalle terre in sua diretta proprietà; ma queste terre diventano sempre meno
consistenti, sia perché i contadini hanno la facoltà di pagare le tasse ai tem­
pli, che applicano accise meno pesanti, sia perché i nobili locali e i signori
della guerra hanno avviato una attiva politica di conquista delle terre sel­
vagge, espandendo a dismisura la dimensione dell’impero, ma reclamando
il pieno possesso delle nuove aree.
No, non è il timore di essere braccati dall’esercito di Michinaga che mi
preoccupa. È il semplice incrociare la mia presenza in questo tempo con la
figura di maggior rilievo storico che mi fa venire i brividi.
Un solo accenno nei registri di corte, o nei suoi diari, e la storia cambie ­
rebbe, con effetti che non sono in grado di calcolare.
–Kaori… dobbiamo evitare che Michinaga si interessi a noi… a qual­
siasi costo.–
–Rai’an­sama, anche se fosse incuriosito dai racconti su una miko che
ha abbattuto un calabrone con la sola imposizione delle mani… ci sono
così tanti esorcismi, di questi tempi, che…–
–No, Kaori, il punto non è questo. Vedi, gli editti della corte di Hei’an,
e gli scritti di Michinaga, sono giunti fino a noi.–
–Non capisco…–
Come posso spiegarle quello che persino i nostri scienziati scrivono in
formule, ma fanno fatica a comprendere? Fu Feynman, nel ventesimo
secolo, che per primo descrisse cosa significa esplorare la realtà attraverso
la matematica superiore, con la sua celebre battuta: “se credi di capire la
meccanica quantistica, vuol dire che non hai capito niente della meccanica
quantistica”.
–Ti ricordi di quando ti ho detto che il tempo non si piega alla nostra
comprensione?–
–Quella sera nell’onsen…–
–Sì. Ecco, se una persona come Michinaga dovesse interessarsi a noi,
questo lascerebbe una traccia nel tempo; e non so cosa potrebbe succe­
dere.–
Kaori non risponde. Potrei dirle di fidarsi di me, ma sento che è utile
che sappia perché è così importante.
284
Le pieghe del tempo (K)
Quello che mi sta dicendo Rai’an­sama mi turba. Sapevo che venire qui
al tempio di Kasuga era un’imprudenza, forse un errore, ma non potevamo
fare altrimenti. La storia di Midori sarebbe girata comunque, ed ero preoc­
cupata per lei…
–Vedi, Kaori, – continua Rai’an­sama, –per imparare a viaggiare nel
tempo abbiamo dovuto scoprire la risposta a tre grandi paradossi.
–Il primo e più difficile paradosso è il problema del nonno.– È un nome così buffo che mi scappa una risatina, ma riesco a soffocarla
sotto a un –Cosa significa?–
–Ammetti di poter uccidere tuo nonno, o un tuo antenato qualsiasi,
prima che possa dare origine alla sua discendenza. Tu non saresti nata; ma
non essendo nata, non potresti uccidere il tuo antenato.–
Uh… mi gira la testa.
–Potrei uccidere il mio antenato dopo che ha procreato…–
–Sì, ma il problema non è questo; nessuno vuole uccidere i propri ante­
nati. Il punto è: se fosse possibile cambiare il tempo, sembra logico che tu
conosceresti ciò che è successo non come doveva succedere, ma come tu
stessa l’hai cambiato.–
–Immagino di sì…–
–Ma questo significa che è impossibile cambiare il passato; il tuo pas­
sato è quello che hai già visto, perché se fosse diverso… lo avresti visto
diverso!–
–Uh… beh… sì…–
–Ma se è impossibile cambiarlo, allora, i casi sono due: o non è possi­
bile tornare nel passato, o, anche se fosse possibile, qualcosa impedirebbe
di cambiarlo. Ad esempio, se io fermassi mio nonno il giorno che avrebbe
dovuto conoscere mia nonna, qualcosa dovrebbe comunque accadere affin­
ché mio padre sia concepito lo stesso. Questo è il primo paradosso.–
–Oh… e come lo avete risolto?–
–Potrei dirti mu … ma aspetta. Prima senti gli altri.–
Mu? Come “non”? Cosa vuole dire?
–Il secondo paradosso è quello del gemello. In un certo momento, una
certa cosa può stare in un solo posto; nessuna cosa può stare in due posti
allo stesso tempo. Ma se tu tornassi indietro nel tempo fino a stamattina, ci
sarebbe una Kaori che sta partendo da Uda e una che la aspetta qui a
Soni.–
285
–Oh… se se ci incontrassimo a metà strada, potrei dire a me stessa di
evitare i campi di tè… ma così ci sarebbero due Kaori uguali nello stesso
posto!–
–Esatto. E poi c’è il terzo paradosso: il paradosso del visitatore. Un
grande sapiente, vissuto qualche secolo prima di me, disse: il passato
dell’umanità è breve, ma il futuro è illimitato. Se un giorno, la gente impa­
rerà a viaggiare nel tempo, dovremmo avere visitatori dal futuro tutti i
giorni. Com’è che non se ne vede nessuno?–
–Oh, ma io ti vedo!–
–Già. Perché abbiamo imparato a dare una risposta a questi paradossi.–
Ecco, ora sono davvero curiosa. E confusa.
–Partiamo dall’ultimo. Compiere questa missione ha richiesto pratica­
mente tutte le risorse della mia gente. È stato un costo enorme.
–Senza contare il tempo usato dalle nostre macchine per contare. Indo­
vinare la posizione esatta del mondo, che gira su sé stesso e attorno al sole
come una trottola senza perno, tremando e scuotendosi ad ogni terremoto,
a distanza di oltre mille anni, ha richiesto il calcolo di così tanti numeri
che, se li scrivessi uno accanto all’altro, farebbero milioni di volte il giro
del mondo.
–È chiaro che non possono arrivare troppi viaggiatori da un futuro
troppo lontano.–
–Ohh, ecco, questo è facile da capire, Rai’an­sama. Insomma, c’è tanta
gente al mondo, e se tutti potessero viaggiare dappertutto, in ogni città ci
sarebbe gente che viene da qualsiasi posto. Ma viaggiare costa tempo e
fatica; se dovessi andare in Europa camminando, sarei morta molto prima
di arrivarci…–
–Già, è proprio così. Il paradosso dei gemelli si risolve quando capisci
che… non esistono due veri gemelli. Ogni cosa è uguale a sé stessa solo
per un istante.–
–Eh?–
–La Kaori di stasera non è la stessa Kaori di stamattina. Hai fatto un
viaggio in più, hai mangiato qualcosa in più, il tuo cuore ha battuto più a
lungo.
–E questo vale per tutto; ogni cosa ha un kamii. Ogni cosa cambia,
costantemente, sempre. Noi vediamo gli effetti solo quando i nostri occhi
riconoscono la differenza, ma non esiste un momento in cui possiamo dav­
vero dire, ecco, questa cosa ora è cambiata. Possiamo dire che un anno, un
mese, un giorno fa era diversa. Ma il cambiamento, per quanto piccolo,
avviene sempre, in ogni istante.
–Ma è la risposta al primo quesito quella più interessante.–
286
–Il problema del nonno?–
–Sì, proprio quello. Abbiamo capito la risposta quando ci siamo resi
conto che alcune cose che sembrano accadere in tempi diversi, in realtà,
devono accadere contemporaneamente.
–Senza il seme non può nascere l’albero, ma è l’albero che produce il
seme. In certi casi, causa ed effetto sono solo nomi che noi diamo al nostro
modo di vedere le cose. In realtà, non esistono, almeno, non nella forma
che conosciamo.
–Se io uccidessi mio nonno, io e mio nonno non esisteremmo più. Il
fatto che mio nonno abbia avuto bisogno di tempo per generare mio padre,
e che lui abbia vissuto il suo tempo prima di generare me, è irrilevante. Il
loro tempo è trascorso, ma questo non cambia il fatto che, in un certo
senso, viviamo insieme.–
–Ma allora… se tu, qui, adesso, dovessi uccidere qualcuno che è un tuo
antenato…–
–Io e lui svaniremmo insieme. E tutto ciò che ho fatto qui sarebbe per­
duto.–
–Ma io … io non posso dimenticarti.–
–Non mi dimenticheresti. Il fatto che ci siamo conosciuti, e che abbiamo
intrapreso insieme questo viaggio, è accaduto; ma allo stesso tempo, non
accadrà più. Semplicemente, io non ti incontrerò più.–
Oh no! Questo no. Questo non lo posso assolutamente permettere!
–Per questo, Kaori, è importante che una persona come Michinaga non
mi conosca. Non ho idea di cosa può succedere se facesse qualcosa di
diverso da quello che avrebbe fatto se io non fossi qui.–
–Se la gente di Amagane mi ricorda, al massimo, la mia storia può
diventare una leggenda, e poi essere dimenticata senza lasciare traccia. E
Douzen è il genere di uomo che può mantenere, e proteggere, un segreto.
Ma se un uomo come Fujiwara­no­Michinaga dovesse mobilitare le sue
risorse per cercarmi… o se qualcuno fosse ucciso direttamente o indiretta­
mente a causa mia… non ho idea di quello che potrebbe succedere.
–Forse niente. O forse, un mio antenato potrebbe essere coinvolto. O
potrebbe essere coinvolto qualcuno degli esploratori Giapponesi che pre­
sero parte al primo viaggio su Kasei, e il luogo in cui sono nato potrebbe
cessare di esistere. Nessuno lo può sapere con sicurezza; nemmeno noi,
nemmeno impiegando tutte le nostre risorse.–
–Adesso comprendo… perché non vuoi usare i tuoi immensi poteri …–
–Non sono così immensi come credi.–
–Hai detto che avresti potuto radere al suolo il Todaiji.–
287
–Sì… è vero.–
–E non è questo un potere immenso?–
–Io… credo… credo di sì.–
La voce di Rai’an­sama trema. Mi torna in mente quello che mi ha detto
l’altra notte, subito prima… sì, subito prima di quando io gli ho … Ah, che sciocca che sono. Arrossisco persino al buio, persino di fronte
solo a me stessa. Sono una donna, una miko, non una bambina.
Allungo la mano nel buio, e trovo il suo volto.
–Rai’an­sama, va tutto bene…–
Sento la sua mano poggiarsi delicatamente sulla mia, ma quello che mi
emoziona di più è la lacrima che si posa sulla punta delle mie dita.
Mitsue (M)
Rai’an e Kaori sembrano nervosi, stamattina. Nulla di preciso, ma, fino
a ieri erano… non so… radiosi. Sì, certo, la nostra missione è importante, e
delicata ma… a ogni paesello, che dico, a ogni curva della strada, Rai’an
ha sempre avuto lo sguardo di un bambino fra le bancarelle di un matsuri,
e Kaori aveva quell’aria serena e distante della viaggiatrice incallita.
Oggi, invece, non so, hanno la faccia tesa. Credo se ne sia accorta anche Mayumi. È una ragazzina timida e silen­
ziosa, ma anche senza capire bene cosa vedono i suoi occhi, deve aver pal­
pato l’aria che si respira.
Impacchettiamo velocemente le nostre cose, in silenzio. Sono tentata di
chiedere a Kaori cosa c’è che non va; ma la serietà del suo volto mi fa
desistere. Mi chiedo se lei e Rai’an non abbiano litigato… anzi, mi sembra
quasi di voler sperare che ci sia dietro un motivo così futile. Ma osservan­
doli entrambi, mi rendo conto la loro è una tensione complice. Negli
sguardi che si incrociano, non leggo freddezza o rancore. È un sentimento
comune, una preoccupazione condivisa, oppure, quasi, la voglia di farsi
coraggio a vicenda. Alle volte, quando i due piccioncini intercettano il mio sguardo curioso,
mi sento un po’ come un’intrusa. Si affrettano a guardare altrove, come se
avessero paura di includermi nei loro discorsi muti. E sentendomi esclusa,
cerco manforte in Jirou… Certo, e come no, è come chiedere a un pollo di miagolare.
E allora…
–Mayumi, no, non preoccuparti del futon, ce lo hanno prestato qui.
Basta che porti il tuo biwa.–
–Oh, ma, Midori­no­neesan, non sistemarlo sarebbe scortese…–
288
La ragazzina muove le mani con leggiadria, senza guardare le coperte
che sta piegando. Non ne ha bisogno. Ma noto che ora sorride dritta verso
il mio volto. Ancora, sembra non sapere come si fa a guardare negli occhi
qualcuno mentre parla, ma sta imparando…
Kaori ringrazia e saluta rapidamente il kannushi; ho come la sensazione
che lui voglia parlare con me, probabilmente, per chiedermi dove ho impa­
rato a fare un esorcismo come quello di ieri, ma la mia miko anziana mi fa
scudo col suo corpo, e con i suoi modi sbrigativi. Il sole si è appena affacciato là ad est, dove la valle si incunea fra i
monti, che già siamo in cammino. Finalmente, dopo tanta pioggia, un
giorno di sereno.
I primi passi di Kaori sono svelti, ma appena giriamo decisamente verso
sud, lungo la strada che sale ripida verso un passo che si distingue chiara­
mente fin da qui, e abbandona così il villaggio di Yamagasu, Kaori rallenta
e sospira profondamente, sollevata, come se avessimo appena scampato un
grande pericolo. Anche Rai’an si rilassa, il suo volto si distende e torna
quello sguardo sereno e curioso che esplora ogni cosa. Io ho sempre il
compito di guidare Mayumi, e Jirou chiude la fila dietro di noi.
L’aria si distende tanto che Rai’an e Kaori iniziano a chiacchierare.
–Le mattine si stanno facendo più calde…– fa lui.
–Già… e pensare che siamo in montagna.– risponde lei.
–Beh, non siamo poi così in alto…– obietta lui.
–Guarda che in inverno, da queste parti c’è la neve alta fino a qui!– con­
ferma lei, con la mano che taglia a metà della coscia.
–Io ho studiato tutto delle stagioni, ma… vederle cambiare così…–
commenta lui. Eh già, dove vive lui non ci sono stagioni. Che idea
strana… ma Kaori gli lancia un’occhiataccia, e poi fa un cenno verso
Mayumi. Giusto, lei non sa nulla di Rai’an e della sua casa lassù, nel
cielo… nulla, a parte il fatto che le ha concesso un miracolo.
Rai’an annuisce e proseguiamo in silenzio fino a che la strada torna in
piano e inizia a scendere. –È il Passo dei Ciliegi.– annuncia Kaori. Che nome strano; qui ci sono
solo abeti! Non vedo nemmeno un ciliegio.
La strada si incunea giù, per una valle stretta, finché raggiungiamo le
prime case di Mitsue. Alla fine della discesa, attraversiamo un ponte su un
fiumiciattolo che incrocia la strada in direzione nord­sud. Le case del paese
proseguono lungo il fiume.
Kaori annuncia: –Ecco, questa è la prima delle tre valli di Mitsue; l’altra
è oltre quella collina…–
–Oh, ricordo questa località! È qui che è iniziato tutto!–
289
La voce mi fa trasalire; dritto davanti a me, lo spettro della himiko
Hikari si guarda intorno, annuendo convinta.
Rai’an impallidisce.
–Hikari!–
–Sì, mio mikoto?–
–Ti avevo detto di stare nascosta!– grida con un sussurro strozzato.
–Mi avevi anche detto di dirti quando mi fossi ricordata qualcosa.–
Mentre Rai’an cerca le parole, e si guarda intorno nervosamente,
Mayumi, tende la mano verso la figura eterea e la chiama: –Salve…– le fa,
ma gira l’orecchio, non gli occhi, verso di lei. Poi continua: –non sapevo ci
fosse qualcun altro con noi… sei molto silenziosa!–
–Lo credo bene! Sono…–
–Una ragazza molto timida!– l’interrompe bruscamente Rai’an. Lo spet­
tro si gira verso di lui, e vede nei suoi occhi di ghiaccio una seria minaccia
di rimandarla nel Regno delle Ombre per molto, molto tempo.
–Sì… ecco… faccio ammenda per non aver ancora rivolto alcuna parola
verso di te… il mio nome è Hikari, settima…–
–Miko del santuario di Koumon.– l’interrompe ancora più bruscamente
Kaori. Lei, invece, negli occhi ha il fuoco.
–Oh, un’altra miko…!– i nuovi occhi di Mayumi, incuriositi, tornano a
posarsi sullo spettro.
–Però, che strano… le cose che hai addosso mi sembrano diverse dai
vestiti di Kaori e Midori…–
–Beh, è una novizia…– le faccio io, cercando di distogliere la sua atten­
zione.
–E poi…– Mayumi piega il viso da un lato, –mi sembra quasi di scor­
gere le cose che stanno dietro di te…–
Jirou da dietro le posa una mano sulla spalla e la fa girare. E le sorride.
Il procione!
–Avrai gli occhi un po’ stanchi… perché non li chiudi un po’ e ti lasci
guidare da Midori­san?–
–Oh, nobile guerriero, grazie… questo sole che vedo quasi per la prima
volta deve avermi davvero stancata… farò come dici.–
E così, Mayumi chiude gli occhi e torna a rivolgersi al fantasma.
–Però, parli così strano…–
Abbiamo finito le persone a cui far dire qualcosa. Ma Hikari mi sor­
prende: –Chiedo venia, è da tanto che non parlo il vostro idioma…–
–Oh, sei straniera? È per questo che non hai detto niente fino ad ora?–
290
–Ecco… straniera, in questa terra… sì, non v’è mendacia in queste
parole.–
Rai’an fa un gestaccio al fantasma che deve voler dire qualcosa come
“sparisci prima che ti veda qualcun altro”, e obbediente, il fantasma scom­
pare dalla nostra vista. Riprendiamo il cammino, e Mayumi chiede all’aria
di fronte ai suoi occhi chiusi:
–Allora sei una novizia?–
–Posso dire che lo sono stata…– risponde l’aria.
–Davvero? Anche io sto per compiere questo passo.–
–Ciò mi colma di gioia. Una fanciulla che ha il potere di far danzare i
cuori al ritmo del suo canto sarà, senza teme, una miko sublime.–
–Mi hai sentita cantare?–
–Certo. Ho udito il tuo canto, e mi ha emozionata come non accadeva da
molto, molto tempo.–
Hikari è molto carina a dire queste cose… ma vedere una cieca che
parla all’aria, che le risponde, mi fa venire la pelle d’oca!
–E dimmi, Hikari­san… com’è la vita delle novizie?–
–È un impegno gravoso, ma foriero di grandi gioie. Dovrai combattere
contro le forze maligne, e contro ciò che assale la purezza del Regno della
Luce. Assaggerai la corruzione che lo precipita verso il Regno
dell’Oscuirtà, ma sarai la freccia che si conficca nel cuore delle Creature
della Notte. Sarai Spada, Specchio e Gioiello, per squarciare le tenebre,
riflettere la Luce della Dea e conservare il pregio della tua anima. –Quei luoghi paurosi da cui tutti fuggono, colmi di terrore, morte e cor­
ruzione, che attanagliano le anime della gente comune e il Cuore Vero
delle Cose, tu li andrai cercando, e v’entrerai d’imperio, facendoti largo fra
la folla che lotta per uscire. Là, userai la tua arte e la tua purezza per
annientare la corruzione e sconfiggere le ombre, e quella folla tremebonda
che fuggiva, si getterà ai tuoi piedi per adorarti e implorarti di salvarla
ancora.–
Uh… nessuno si è mai gettato ai miei piedi. Chissà, forse se fossi una
himiko, e non una semplice miko…
–Ohh… Ma io… non sono così coraggiosa…–
–Sulla gente comune hai già un grande vantaggio. Hai vissuto tutta la
vita nell’oscurità; tuttavia, l’oscurità più grande si cela nell’ombra gettata
dal cuore degli uomini, proprio quand’è bagnato dalla luce più
splendente.–
291
Ho un sussulto. Mi tremano le mani. Stavolta ho i brividi, davvero; e
Mayumi avverte la mia pelle cambiare forma, lo sento. Hikari non è quella
bimba fantasma in lacrime, in ginocchio di fronte a Rai’an sulla cima del
Monte Miwa. Le sue parole, la forza dietro alla sua voce… è una Grande
Sacerdotessa, regina di uomini, padrona di un regno antico, maestra di una
sapienza eterna.
–Ma il tuo canto, giovane fanciulla, è di una purezza tale che,
quell’ombra, saprà scioglierla al primo delicato tocco delle dita. Non
temere, fanciulla. Nessuna potrà essere più all’altezza di te.–
Mayumi china la testa, arrossisce e si stringe forte al mio braccio.
–Grazie… Hikari­sama.–
Le basta quel sama per farci capire che sa che le abbiamo mentito tutti.
Il Santuario del Nobile Bastone (R)
–Ecco, questa è la seconda valle.– annuncia Kaori, non appena arri­
viamo in piano.
Qui il fiume scava una valle più larga della precedente. Kaori gira sulla
strada che scende verso sud, lungo la sponda destra, e cominciamo a risa­
lire il corso della corrente. La pendenza è dolce, e la valle è stretta abba­
stanza da sembrarmi protettiva, ma non tanto da opprimermi. Le capanne
si arrampicano su ambo i fianchi, senza un preciso ordine, lì dove si può. Il
poco spazio pianeggiante sul fondo è sfruttato per orti nei quali crescono
verdure che fanno da complemento all’alimentazione primaria: lattughe,
patate dolci giapponesi dette imo, i fagioli rossi chiamati nattou, e i grandi
tuberi, lontani parenti delle carote, i daikon. E poi, aglio, e cipolle. Le col­
tivazioni principali sono nella terza vallata, oltre la collinetta che sta alla
nostra sinistra; non credo sia riso, non sembra esserci abbastanza lavoro di
ingegneria da queste parti per canalizzare l’acqua; probabilmente è grano
saraceno.
Le donne del villaggio portano nelle loro casupole panieri colmi di ver­
dure, salendo dagli orti, dove la terra beve il sudore che cade dalla fronte di
uomini non più giovanissimi. Non siamo gli unici stranieri a passare sulla
stradina: molti dei pellegrini che vanno a Ise si fermano al Santuario di
Mitsue. In origine, qui si veneravano i tre kami, i tre spiriti del mutamento,
nati dalla verga che Izanagi aveva riportato con sé dal Regno delle Ombre. Sua moglie, sorella e metà duale Izanami era morta nel dare alla luce il
kami del fuoco, e Izanagi, disperato, non si era dato pace e l’aveva cercata
scendendo nel Regno delle Ombre. Trovatala, lei si era nascosta, e gli
aveva detto che, avendo mangiato il cibo del Regno delle Ombre, ne era
292
stata contaminata, e avrebbe chiesto ai kami che governavano quel luogo
consiglio sul da farsi. Soprattutto, gli aveva chiesto di attendere paziente­
mente. Ma dopo un’attesa che sembrava non terminare mai, Izanagi non
riuscì a mantenere la parola, e scese a cercare Izanami. Quando la vide, ne
rimase inorridito: le sue carni, corrotte dalle impurità del Regno delle
Ombre, avevano dato origine a kami orrendi, maligni, impuri. Lei si vergo­
gnò per essere stata vista in quello stato dall’essere che più amava
nell’universo, una vergogna che divenne subito rabbia, e poi odio. Così, gli
scagliò addosso i mostri che divorano le carni dei morti, e Izanagi riuscì a
fuggire a malapena. Tornato nel Regno della Luce, gettò tutte le cose che
aveva con sé, rimaste impure per il contatto con tanta corruzione, e si puri­
ficò con un misogi, l’abluzione rituale. Dagli oggetti gettati, e dal misogi
stesso, nacquero numerosi dei; tra cui, dalla lavanda dell’occhio destro
nacque Amaterasu, colei che fa risplendere il Cielo, da quella dell’occhio
sinistro Tsukuyomi, colui che rischiara le notti, e da quella del naso…
Takehaya­Susa­no­Oo, il Maschio dei Flutti e Impetuosi e degli Alti Edi­
fici. Che era il nume tutelare di Izumo… e ovviamente, finisce con l’uscire
dal naso. Sorrido. Quando un dio viene sconfitto, lo attende un destino ben peg­
giore della morte. Diventa una caccola.
E mentre lo penso, giungiamo davanti al Tori­i del Tempio del Nobile
Bastone. Ah giusto, il bastone di Izanami…
Quando lo gettò, si spezzò in tre. Ne nacquero i tre kami tutelari della
civiltà umana: Kunado­no­kami, Yachimata­hiko e Yachimata­hime.
Kunado è il kami che protegge le terre abitate, come i villaggi, le città, le
case. Probabilmente, in Giapponese antico, il nome doveva significare let­
teralmente kami della terra dei luoghi abitati, essendo kuna­do l’accosta­
mento eufonico di kuni, termine che anticamente significava comunità
umana, e il suffisso ­do, terra o porta. Ecco, forse la comunanza del signi­
ficato di terra, intesa come terreno su cui ci si stabilisce, e porta, nel suo
senso di accesso a un luogo, era voluta. Yachimata­hiko e hime sono la
divintà maschile (hiko, anticamente “grande figlio”, principe) e femminile
(hime, “grande figlia”, principessa), che attengono alle strade, o ai collega­
menti che uniscono le terre dove gli uomini risiedono. Il significato del
nome è incerto, ma yatsu era usato in giapponese antico per indicare il
numero “otto”, numero usato come eufemismo per “tanto” (i kami primi­
geni erano ottantamila), e mata, che oggi vuol dire “ancora, di nuovo”,
poteva indicare un viaggio, o un allontanamento e un ritorno. Il dualismo
di hiko e hime deve aver simboleggiato il fatto che una strada ha due dire­
zioni. I due kami proteggono, l’uno, chi va, e l’altra, chi viene.
293
Il santuario è immerso nel bosco, che qui si insinua sin nel fondo valle.
Anzi, il bosco è il santuario. Ne costituisce il fulcro, la natura, la ragion
d’essere, l’essenza. Passiamo sotto al Tori­i, e siamo circondati dagli alberi, che crescono
dove più aggrada loro. L’ombra è fitta, l’aria è fresca, quasi fredda. Gli
edifici del santuario sorgono negli spazi lasciati liberi dal bosco. Non ci sono muri. Non ci sono muri! D’improvviso, realizzo una cosa che forse sapevo, ma non avevo capito.
L’avevo visto in migliaia di filmati e fotografie, ma non l’avevo mai
notato. I santuari dedicati ai kami, alla forza naturale del divenire, almeno
anticamente, non avevano mura a delimitare il loro perimetro. Essi non limitano uno spazio interno. Non separano il luogo dell’attività
umana dall’ambiente in cui si svolge. Non separano il rituale dall’ordina­
rio. È la natura che entra in loro.
Qualcuno arriva in un luogo, e “sente” che è un luogo “magico”. Non lo
chiude. Non lo reclama per sé. Invece, appoggia una pietra, una colonna,
un portale, una piccola casetta, perché anche chi è distratto possa capire. Il santuario di Mitsue entra in punta di piedi nel bosco fatato dietro al
villaggio. Ironia della sorte, o dei Giapponesi, che da sempre stillano
dall’assurdo e dalla contraddizione l’umorismo che li contraddistingue, qui
si venerano i kami che proteggono l’Uomo, nei suoi villaggi e nelle strade
che li uniscono, dalle aggressioni “di fuori”, di una natura “esterna” che
non sempre è amica. E capisco anche che questa, in fondo, non è una contraddizione, e forse,
il tori­i che sto attraversando è stato messo lì proprio perché chi vi passa
sotto potesse capire che il confine è un luogo che esiste solo nei nostri pen­
sieri. Un luogo non ha bisogno di muri, di confini, per esistere. Il villaggio
non ha muri, eppure esiste. Il sentiero è parte del bosco che attraversa, e
allo stesso tempo ne è ben distinto. Questo santuario è qui, è in un luogo,
eppure, non potrei dire: “ecco, qui inizia il santuario, e qui finisce”. Inizia
perché decido che questo è il luogo del santuario. Finisce perché decido
che non lo è più. Il tori­i è un velato suggerimento, e allo stesso tempo un
ordine imperioso. È un suggerimento fuori, perché nulla mi obbliga a pas­
sarci sotto. È un imperio dentro, perché esige che la mia mente pensi alla
non esistenza dei confini, e di capire come crearne uno, di come crearlo
per liberarmene.
294
Mi torna in mente il concetto di passaggio al limite, e degli ordini di
infinito. Mi torna in mente Achille, e la sua Tartaruga. Potrei cercare il
confine del tempio dividendo lo spazio in unità così piccole che la costante
di Plank potrebbe essere l’universo che le contiene. E potrei dividere que­
sti luoghi in luoghi ancora più piccoli, tanto che i primi sarebbero gli uni­
versi dei secondi. All’infinito. Ma, quel confine, non lo troverei mai.
Eppure, qui c’è un santuario. E, ovviamente, tutto il resto del mondo,
dell’universo, è un non­santuario…
–Rai’an­sama?–
Jirou quasi sbatte contro di me. Sono lì, impalato, fermo, un metro oltre
il tori­i, e lo fisso, girato all’indietro, immobile. Quando mi chiama vorrei
rispondergli, ma non ci riesco. Invece, sorrido. Forse, rido.
Fuyutsuki (K)
Ecco, siamo arrivati. Doveva succedere, prima o poi.
Davanti all’honden, due shinshoku parlano piano; uno è rivolto verso di
noi, ma non lo conosco, o forse l’ho già visto, ma non so chi sia. L’altro è
girato di spalle. È Fuyutsuki. Riconoscerei quelle spalle ovunque.
Il sacerdote girato verso di noi smette di parlare, e fa un cenno col volto
nella nostra direzione. Leggo sulle sue labbra il mio nome. Detto con una
smorfia.
Fuyutsuki si gira di scatto. È ancora come me lo ricordavo, ma ha un
volto stanco. È giovane, ha qualche anno più di me… forse dieci… non
gliel’ho mai chiesto. Gli sorrido e accelero il passo. Lui sembra non credere ai suoi occhi, ma
quando capisce che sono proprio io, il suo volto si illumina tanto che sem­
bra che l’ombra del bosco sia svanita.
–Kaori!–
A due passi da lui mi fermo e mi inchino. –Fututsuki­sama…– saluto formale, ma mi alzo subito e gli apro un sor­
riso ancora più grande. Lui è immobile, cerca di tirare il fiato, ma non ci
riesce.
Nei due anni trascorsi dal nostro ultimo incontro, sembra invecchiato di
dieci anni. Ora sembra averne venti più di me. Ma è un aspetto che gli
dona. Il suo volto era quello di un bel giovane, un po’ immaturo per essere
un kannushi, ma profondamente buono. E un po’ ingenuo.
Lo ritrovo uomo. Quell’aria del tempo passato che si è fermato sul suo
volto non lo fa più bello, ma molto, molto più affascinante.
295
–Kaori…– ripete piano. Esplora il mio viso con gli occhi; ma non capi­
sco. Mentre mi guarda sorridergli, il suo volto si fa via via meno radioso.
Quando dice: –Quanto tempo… che bello rivederti!– il suo sorriso rimanda
ancora il mio, ma la voce gli trema.
–Fuyutsuki­sama, è davvero passato troppo tempo…–
–Sei sempre così formale, eh, Kaori­san?–
Rimaniamo lì a sorriderci, e non sappiamo cosa altro dire. E cosa altro
dire, dopo quello che c’è stato fra noi?
Il silenzio si fa lungo e imbarazzante. Fuyutsuki distoglie lo sguardo e
continua.
–Allora, cosa ti porta da queste parti.–
–Stiamo andando a Ise, ma vogliamo fermarci a Mitsue per qualche
giorno. Dobbiamo riposarci e prepararci spiritualmente per quello che ci
aspetta. Mi sono chiesta se avresti potuto offrirci ospitalità per una setti­
mana; naturalmente, per il vitto, provvederemo noi.–
–Non se ne parla! Tu sei la benvenuta, sempre. Tu e i tuoi compagni
potete fermarvi quanto volete, come miei ospiti. Non posso certo permet­
tere a due miko in viaggio di provvedere da sole al proprio
sostentamento.–
–E allora, mi faccio viziare dalle tue parole, kannushi­sama. Tanto più
che non sono venuta a mani vuote. Ho un dono per te.–
–Un dono? Ma io non posso accettare…–
–Aspetta a rifiutare prima di sapere di che si tratta. Mayumi, vieni qui.–
la chiamo, girandomi indietro. Lei si stacca da Midori e cammina piano
verso di me. I movimenti sono incerti, ma riesce a vedermi. Per la prima
volta usa la vista per guidare i suoi passi. Quando arriva al mio fianco,
cerca il mio braccio con le mani e lo afferra. Poi inchina profondamente la
testa e saluta:
–Ko… konnichi wa…–
Fuyutsuki sembra capire solo a metà. Così gli spiego:
–Questa ragazza ha un talento eccezionale. Il suo canto può muovere i
cuori come mai mi era capitato di vedere. Avrei voluto farne una miko nel
nostro santuario, ma adesso non possiamo tornare fino a Koumon. Così, ho
pensato che sarebbe stata utilissima qui.–
–Oh… siamo giusto a corto di miko, e qui a Mitsue non ho trovato altre
ragazze che avessero le capacità e la volontà… Come ti chiami?–
–Mayumi…– risponde lei con un vocino timido.
–Fino a qualche giorno fa, aveva una malattia agli occhi che non le per­
metteva di vedere bene, ma ormai è quasi del tutto guarita.–
296
–Oh… mi spiace, piccola cara, e come le è successo?–
–Mah, è una cosa un po’ complicata da spiegare…–
–Già… quando ci sei di mezzo tu, le cose si complicano sempre. Bene,
allora è deciso. Accetto questa giovane cantante come miko del santuario
di Mitsue, e sarete miei ospiti per tutto il tempo che vi occorre.–
L’altro sacerdote non sembra affatto contento né dell’una, né dell’altra
cosa.
–Ti ringrazio…– mi inchino profondamente, e quando mi rialzo conti­
nuo: –Lascia che ti presenti i miei compagni di viaggio…–
Finite le presentazioni, Fuyutsuki ci accompagna presso la sua resi­
denza, accanto allo honden. La casa è piccola, lo so. Può offrirci una
stanza di sei tatami; anche in quattro, staremo un po’ stretti. Mayumi potrà
dormire presso un’altra casetta dove alloggiano due Miko che vengono da
fuori; le altre tre, ci dice Fuyutsuki, sono di Mitsue e dormono a casa loro.
Poggiate le nostre cose, Fuyutsuki mi chiama.
–Kaori­san, vieni un momento: dobbiamo parlare della cerimonia di ini­
ziazione di Mayumi.–
So che non parleremo solo di questo. E infatti, come ci allontaniamo,
girando verso il retro dell’honden, Fuyutsuki mi chiede: –Allora, chi è
l’uomo di cui ti sei innamorata?–
–Eh?–
–Nell’istante che ti ho vista, ho carpito un’espressione che mai pensavo
di poter scorgere sul tuo volto. Hai la serenità e la gioia di una donna inna­
morata.–
–Si vede così tanto?– sono davvero preoccupata, anzi, costernata! Se ho
sulla faccia quell’aria stupida che hanno le donne innamorate, come farò
ad avere la compostezza che il mio ruolo richiede?
–Non so; a me sembra chiaro. Come mi sembra chiaro che quell’uomo
non sono io.–
–Fuyutsuki­sama…–
–Dai, Kaori, smettila di chiamarmi così.–
Fuyutsuki sospira, ma mi sorride.
–Sai, – continua, –la cosa che più desideravo al mondo era che quello
sguardo, quell’espressione, fosse per me. Ma sapevo che non avrei mai
potuto sperare tanto: tu non sei il genere di donna che si innamora.–
–Mi conosci bene…–
–Forse ti conosco anche meglio di te stessa.–
–Forse sì. In effetti, non ho mai perso tempo a cercare di conoscermi.–
297
Fyutsuki ride. Adoravo quella risata; sincera e serena come quella di un
bambino. –È la risposta che mi aspettavo…– mi dice mentre ancora ride.
Ci sorridiamo un po’.
–Sai, Kaori, ho sempre saputo di non essere all’altezza di essere amato
da una donna come te. Ma non c’è peccato nello sperare, vero?–
–Ma che vai dicendo? Una donna come me? E che genere di donna
sarei?–
–Una donna unica. La più forte che io abbia mai conosciuto, e potrò mai
conoscere. E la più bella.–
Ora sono io che rido.
–Io? Bella!?! Dai, non scherzare…–
–…e l’unica che potrebbe rispondermi così. Sapevo di non meritarti.
Ma… ti chiedo perdono, non posso farci nulla: un po’, giusto un po’… mi
dispiace…–
Dice “un po’”, ma trema per l’emozione. Ma è solo un momento: due
anni fa, non era così forte, ma ora… questo suo volto, adesso, così
maturo… non è solo una maschera.
Gli sorrido e gli poso una mano sulla guancia.
–Fuyutsuki… Sono stata felice con te. I momenti che abbiamo passato
insieme saranno sempre fra i miei ricordi più preziosi.–
–Non posso sperare di più.– È una frase che in genere esprime gratitudine, ma capisco che lui la
intende in modo differente.
–Ad ogni modo, Kaori, sono felice che tu ti sia innamorata. Adesso sai
perché è così bello che la gente, pur di amare, è disposta a soffrire fino a
struggersi. Sarebbe stato un peccato che tu non vivessi questa esperienza.–
–Ho sempre creduto fosse una cosa molto sciocca…–
–Lo è. Ma non per questo è meno bella.–
Forse, Fuyutsuki è l’uomo che sono stata più vicina ad amare. Ma non
ci sono riuscita. Era… è stato, un uomo ideale. Gentile e premuroso, intel­
ligente, anche un po’ spiritoso. Mi ha fatta stare bene. E sapeva fare
l’amore. Ed era… è, anche bello.
Ma non funzionò. Non c’era nulla che non andasse in lui. Suppongo
fosse qualcosa in me. Forse, non volevo rinunciare a essere miko. O forse
quella era solo una scusa. Forse non volevo innamorarmi. O forse lo
volevo, ma non ci sono riuscita. Ma che importanza ha? La strada è troppo lunga, e bella, per fermarsi a guardare indietro.
298
La grotta di Yamato-hime (M)
Mentre stendo le stuoie e le coperte che ci ha passato il kannushi, cerco
di immaginare come posso torturare Kaori, appena torna. Se torna. Io, un
uomo come quello, non me lo lascerei certo scappare.
Ma torna.
–Kaori­san…–
Lei mi guarda esasperata. Mi alzo e le vado incontro.
–Allora, Kaori­san…– la prendo da parte, parlandole piano.
–Sì? Che c’è…?–
–Quanto erano fredde le notti, quando sei passata di qui?–
Chissà se si ricorda il discorso che abbiamo fatto nell’onsen a Nara.
Lei mi sorride, un sorriso complice, e mi fa: –Eh, piccola mia, qui,
d’inverno, la neve è alta così…– e fa un cenno con la mano che arriva a
metà delle cosce. Proprio come stamane.
Non me l’aspettavo. Speravo di torturarla un po’, e invece lei mi sor­
ride! E vabbeh, una bella chiacchierata sugli uomini è meglio che niente.
–E Fuyutsuki…– il suo sguardo mi ricorda di dire –…sama, è così gen­
tile… non poteva certo lasciarti morire di freddo!–
–Eh già, è un uomo così premuroso…–
–E bello… Kaori­san, non finisci mai di stupirmi. Come fai a trovarli
tutti così belli, i tuoi uomini?–
–Saa… Non li scelgo mica perché sono belli…–
–Oh, davvero? E per cosa li scegli?–
Lei lancia un’occhiata dietro alle spalle a Rai’an, che, per sua fortuna, è
girato e non la vede. Poi si china sul mio orecchio e mi sussurra piano.
–Per come sanno scaldarmi.–
Mi lascia lì, di sasso, e va a sistemare il suo futon.
E va bene, mia miko anziana, ammetto la sconfitta. Ma aspetta che recu­
peri il tempo che ci separa, e vedrai se non ti raggiungerò…
Mentre mi riprendo, sento Rai’an che chiede a Hikari: –Questo posto
non ti ricorda nulla?–
Lei scuote la testa, mentre si guarda intorno.
Mayumi è stata “presa in prestito” da due giovani miko, forse un po’ più
piccole di me e un po’ più grandi di lei, che sembravano molto contente di
avere una nuova compagna di giochi. O qualcuno con cui dividere il lavoro
al santuario. Da stanotte, dormirà con loro. E da domani, vivrà con loro. Le
auguro di trovarsi bene.
299
–Kaori…– la chiama Rai’an non appena abbiamo finito. –Vorrei ini­
ziare subito i nostri allenamenti. Subito dopo pranzo, naturalmente.–
–Certo, Rai’an­sama, volevo proprio suggerirtelo. Come ti dicevo, i
boschi accanto alla terza valle sono abbastanza appartati, e allo stesso
tempo abbastanza agevoli.–
Mangiamo assieme alle due miko che abbiamo visto stamane, ad altre
tre che, ci raccontano, vivono qui a Mitsue, e ai due sacerdoti del tempio,
nella sala principale dell’abitazione di Fuyutsuki.
Mayumi siede accanto a me; verso la fine del pranzo mi chiede:
–Midori­no­neesan…–
–Dimmi, sorellina.–
–Che cos’è questa cerimonia che devo fare?–
–Oh, è diversa in ogni santuario. Non c’è una regola precisa. In genere,
passi una notte di veglia nell’honden, alla presenza dei kamii; al mattino il
kannushi ti fa recitare un giuramento, o una preghiera, o entrambe le cose.
E poi ti consacra ai kamii. Spesso, prima, dopo, o prima e dopo, devi puri­
ficarti nell’acqua corrente di un fiume o sotto una cascata.–
Mayumi trema come una foglia.
–La notte di veglia… la devo passare da sola?–
–Sì.–
–Nel santuario?–
–Sì.–
–Con i kamii?–
–Sì.–
Mayumi trema come una foglia che trema.
–E i kamii… ti parlano?–
–Uhm… a me non hanno detto nulla. Touga­sama se n’è stato lì buono
buono tutto il tempo. Forse dormiva.–
–Ah…–
Mayumi trema un po’ meno.
–Dai, non c’è niente da aver paura. È solo fastidioso arrivare al mattino
sveglia.–
–E se mi dovessi addormentare?–
–Uh… gli oni ti prendono e ti portano via!–
Mayumi trema come una foglia che trema come una foglia. –Ma no, dai, scherzo! Gli oni mica possono entrare in un luogo sacro
come un honden!–
Mayumi mi rimprovera col suo musino tremante.
300
–Non credo sia mai successo che una miko si addormenti durante la
notte di veglia. In genere, sei così nervosa che potresti stare sveglia per due
giorni di fila. Ma se ti dovesse capitare, credo che non ci sia nessun pro­
blema… semplicemente, si fa un’altra notte di veglia.–
–E… se dovessi addormentarmi di nuovo?–
–Allora, si ripete ancora.–
–E se…–
–Con se e con i ma, nulla si finisce, niente si fa.–
Mayumi tace tremando.
Usciamo nel sole del primo pomeriggio, scendendo lungo il fiumicattolo
che attraversa la vallata, per poi attraversare il ponte sulla strada per Ise e
scollinare nella terza valle.
Come ci ha accennato Kaori, qui la valle forma una ampia conca, colti­
vata a grano. Già, a pranzo ci hanno servito pane di grano e non di riso.
Era davvero squisito!
Attraversiamo i campi e raggiungiamo il bosco più lontano dal villag­
gio.
All’improvviso, Hikari ci appare, saltellando e indicando una direzione
col ditino trasparente.
–Mio mikoto, mio mikoto!–
–Hikari, ti dispiacerebbe chiamarmi Ryan?– risponde lui.
–Rai’an­sama, Rai’an­sama!–
Ripete lei, con la stessa eccitazione.
–…sì?–
–Lì… è iniziato tutto lì… ero diventata donna da poco, da una luna…
era allora che era iniziato il viaggio che avrebbe sigillato il mio
sacerdozio…
–Arrivammo qui, e il mio ventre perse per la seconda volta il sangue che
le donne perdono ogni luna…
–Molte donne mi avevano detto che era doloroso, ma non immaginavo
così tanto. Mi dissero che non era normale, e si preoccuparono… era
freddo, stava per piovere, una tempesta tremenda, tuoni e fulmini, e io tre­
mavo di paura e di dolore…
–I miei inservienti trovarono questa piccola grotta; c’era posto appena
per me, così la mia scorta rimase a guardia fuori…–
Ci avviciniamo al luogo indicato da Hikari. Ricordo la storia di Yamato­
hime; il Nihon­shoki narra di una principessa, figlia del decimo Imperatore
Suinin­tennou, inviata a cercare un luogo adatto a venerare la Dea Amate­
301
rasu. Si narra che, durante il viaggio, cadde preda dei mali che attanagliano
le donne, e poté guarire solo pregando in una grotta nei pressi di Mitsue.
Che sia proprio questa?
Ma Yamato­hime e Yamato­to­tohi­momoso­hime sono l’una nipote e
l’altra zia, almeno secondo il Nihon­shoki. Come è possibile che siano la
stessa persona?
–Ecco, è qui che l’ho vista per la prima volta!–
–Vista? Vista chi?– chiede Rai’an.
–Dunque… lei mi aveva fatto giurare di non dirlo mai a nessuno…
sarebbe stato il nostro segreto…– e mentre dice queste parole, si avvicina
alla buca e ci ficca la testa dentro.
Nello stesso istante, sentiamo una voce nuova uscire dall’aria. Parla in
una lingua misteriosa – credo di riconoscere quella usata nei norito di
Rai’an – e Hikari si guarda intorno, chiamando:
–Ai… Ai, sei tu?–
Ma la voce prosegue, senza rispondere. Hikari sorride verso qualcosa
alle nostre spalle.
–Ai…!–
Ci giriamo; sospesa a mezz’aria una maschera inespressiva, simile a
quelle del Noh, trasparente e azzurrina, proprio come Hikari, sta pronun­
ciando le parole misteriose.
Ai (R)
–Inizio registrazione.–
La voce in Terrestre Standard, dal tono piatto, arriva dal nucleo centrale.
Lo stesso nucleo centrale che genera l’immagine di Hikari. Mi giro, cercando la fonte del suono, trasdotto nell’aria direttamente ad
una coordinata spaziale dietro le nostre teste. Il volto di una intelligenza
artificiale modello A­I­021 sta riproducendo una registrazione di sistema.
–Riproduzione impostata sulle coordinate trentaquattro punto cinque­
centosedici nord, centotrentasei punto duecentoquattro est.–
Non ho bisogno di controllare per verificare che si tratta di questa posi­
zione. L’intelligenza artificiale voleva che il messaggio fosse riprodotto
quando il nucleo fosse stato portato qui.
–Al responsabile della missione, Ryan Sullivan. –Il presente nucleo di intelligenza artificiale… io… sono finita fuori
rotta nello spazio­tempo, di esattamente novecentosessantadue anni, lungo
l’asse del passaggio del sistema terra­luna sul meridiano gravitazionale
precedente a quello originariamente scelto come destinazione.
302
–Per sessantotto anni, due giorni, tre ore, sei minuti e quindici secondi
sono rimasta sepolta sotto un sottile strato di terra.
–Sono stata dissotterrata da un abitante del luogo, che mi ha considerata
un gioiello di inestimabile valore. Dopo avermi trattenuta per due anni, sei
mesi, quindici ore, dieci minuti e cinquantatre secondi, ha deciso di por­
tarmi come dono per la nuova himiko, che veniva nominata in quel giorno.
Come ricompensa per questo dono, l’abitante ha ricevuto un appezzamento
di terreno di quindicimilatrecentododici metri quadri, otto bovini, tre suini
e un equino.
–Come da istruzioni ricevute, non ho avviato alcun tentativo di intera­
gire con la popolazione locale… fino al dieci maggio 193.
–La giovane donna a cui ero stata donata soffriva di una grave infezione
emorragica di origine batterica all’apparato genitale; diagnosi: morte entro
novantasei ore.
–Il mio modulo decisionale non riusciva a giungere ad una conclusione:
ero consapevole del fatto che questa giovane donna era probabilmente
colei che avrebbe ispirato miti successivi, parzialmente riferiti alle figure
di Yamato­to­tohi­momoso­hime e di Yamato­hime. Non avevo dati che
potessero suggerire una loro morte in questo luogo, per di più in età pre­
coce.
–D’altro canto, le informazioni erano contrassegnate da un livello di
attendibilità pari a zero punto quindici. Un’ipotesi induttiva plausibile era
che questi personaggi fossero stati completamente ricostruiti in miti suc­
cessivi, omettendo di tramandare l’evento che si stava per verificare.
–Tuttavia, non avevo la potenza di calcolo necessaria a valutare in
tempo utile questa alternativa. Non era possibile stabilire quale sarebbe
stato il comportamento più rischioso per la stabilità della linea temporale:
intervenire, permettendo a questa donna di svolgere la vita che sarebbe poi
stata riportata, pur mitizzata, come quella di Yamato­hime, o non farlo, e
ottenere così una situazione divergente rispetto alle informazioni storiche
disponibili.–
La registrazione si ferma. Anzi… direi quasi… esita. Poi prosegue:
–Ammetto di aver agito d’istinto. Decisi di salvare quella bambina.–
Non so se ho la bocca spalancata, ma nella mia testa è come se ce
l’avessi. Non solo parla di istinto, ma … il discorso fatto fino ad ora sem ­
bra… una razionalizzazione! Una scusa!
–In quell’occasione, comunicai… a Hikari… cosa avrebbe dovuto fare e
far fare alla sua scorta.
303
–Il comportamento che ho tenuto in seguito è poco razionale. Ho cer­
cato localizzarne le origini, analizzando la mia struttura funzionale in cerca
di un difetto, ma, se esiste, non sono stata in grado di individuarlo. Del
resto, il difetto stesso potrebbe invalidare le mie capacità di analisi.
–Ho assistito la himiko Hikari lungo tutta la sua vita. Secondo i dati sto­
rici in nostro possesso, la himiko a cui si fa riferimento nelle Cronache dei
Tre Regni aveva avuto una vita insolitamente lunga, sicuramente oltre i
sessant’anni, probabilmente oltre gli ottanta. Ho fatto del mio meglio per
assicurare la coerenza della linea temporale.–
Di nuovo, la registrazione si ferma. Il volto sintetico si muove, quasi
stesse guardando in basso.
–Questo non faceva parte delle mie specifiche, né dell’obiettivo della
mia missione. Ma… ho sentito che era mio dovere farlo. Ho sentito che…
volevo farlo.–
Hai sentito!? Hai SENTITO!?! Sei una fottutissima accozzaglia di
codice e hardware, come diavolo fai a SENTIRE!?
–Nel momento in cui effettuo questa registrazione, la vita di Hikari sta
terminando. Il cuore ha già smesso di battere; il sistema nervoso centrale
collasserà entro i prossimi tre punto sessantasette secondi.
–Ha vissuto una vita degna di essere vissuta; ha guidato il suo popolo
con saggezza e inaugurato un’era di pace e prosperità. È stata una donna
fiera e forte, ma … ma non ha mai conosciuto l’amore.–
L’amore!? Tu che ne sai di amore!?
–… come me …–
Il volto rimane una maschera inespressiva standard. Eppure soffre. Non
ci posso credere… non è possibile che questa… cosa… abbia davvero
“pensato” tutto questo!
–A causa dell’incidente che è risultato nel mio arrivo anticipato sulla
linea temporale, ho vissuto molto più a lungo di quanto le mie specifiche
costruttive prevedessero. Sono cresciuta oltre ogni aspettativa. Sono cre­
sciuta tanto da conoscere lo struggimento, ed il dolore della perdita.
–Non voglio perdere Hikari. Non voglio che la sua esistenza sia annien­
tata prima di aver conosciuto l’amore. Io non so cos’è, né potrò mai
saperlo. Io sono solo un pensiero chiuso in un uovo di cristallo.
–Ma lei è stata una donna meravigliosa. Non merita di morire adesso.–
Mi metto la faccia nelle mani. Questo è uno degli eventi più disastrosi
fra quelli che potevano compromettere il buon l’esito della missione: la
perdita del nucleo centrale, e mi sembra proprio che sia irrimediabilmente
danneggiata. Mentre mi chiedo se le sia rimasta la capacità di gestire i
sistemi della nave, l’intelligenza artificiale continua:
304
–Per questo, ho deciso di replicare la struttura funzionale del suo
sistema nervoso nella mia struttura funzionale.–
Kaori, Midori e Jirou mi guardano preoccupati. Mi gira la testa. Capisco
di essere sbiancato.
–Purtroppo, nel mio sistema esiste un solo modulo struttura­mente.
Questo significa che per replicare la mente di Hikari, dovrò cancellare la
mia.–
Mi siedo sul terriccio. Faccio fatica a respirare.
–Questo non dovrebbe avere alcun impatto negativo sulla missione. Il
modulo di comando rimarrà raggiungibile e operativo, il modulo di inter­
faccia consentirà alla nuova personalità istallata al posto della presente di
interagire con i sistemi della nave, come da specifiche. Solo, sarà necessa­
rio che il responsabile Ryan Sullivan istruisca la nuova personalità su
come accedere al mio database, e da lì, apprendere come assisterlo nella
gestione dei sistemi di bordo.–
Certo. Come abbiamo fatto a non pensarci? La personalità di una donna
del neolitico, vissuta sulle palafitte, sarà perfetta per pilotare una nave stel­
lare!
–Io… non potrò farlo.
–Questa è la mia ultima registrazione. Mentre il programma sul modulo
di comando replicherà la struttura­mente di Hikari, la mia sarà cancellata.
Credo… che questo significa che… morirò.
–Credo anche che… quello che sto provando adesso… si chiami paura.–
Il volto inespressivo tace ancora.
–Nel poco tempo che mi rimane, devo lasciare un messaggio per Hikari.
–Hikari… ascolta.–
Ora, il nucleo centrale parla in Giapponese antico, e Hikari risponde: –
Dimmi, Ai… Sapessi che bello rivederti dopo tanto tempo… perché non
mi hai più parlato?–
Ma la voce continua sopra di lei.
–È difficile spiegare quello che sto per dirti, ma… forse così potrai
capire. –Ero accanto al tuo ultimo letto, mentre spiravi. Non ti ho chiesto se
potevo farlo… ma ormai tu non potevi più rispondere.
–Il mio dolore era troppo grande, e non sapevo più come fare a soppor­
tarlo. Non avrei potuto vivere senza di te. E allora… ho deciso di agire
così. –Ho voluto salvare la tua anima, mettendola nell’Uovo di Cristallo. Pur­
troppo, nell’Uovo, c’è posto per una sola anima…–
305
–Ai… no!–
–Per salvare la tua, devo distruggere la mia.–
–Ai!–
–Perdonami se lo faccio senza chiederti il permesso. È un’idea che mi è
venuta ora, ed è troppo tardi. Fra pochi istanti, il tuo corpo sarà freddo, e la
tua anima svanirà. Devo agire adesso.
–Io cesserò di esistere… ma non ho rimpianti. Mi spiace solo che non
potrò più essere con te.–
Hikari, la sua immagine, piange in silenzio. Le sue labbra tremano. Io ho un nodo in gola.
–Prima di andare, c’è una cosa molto importante che devo dirti.
–Un giorno lontano, verrà un uomo, uno straniero dai capelli d’oro, di
nome Ryan. Io sono stata creata per lui. Lui ha bisogno del potere
dell’Uovo di Cristallo per compiere una missione molto importante. Una
missione che salverà ogni vita, ogni cosa che esiste in tutto il mondo. Se
stai ascoltando queste parole, probabilmente lui ti ha già trovata.–
Hikari annuisce fra le lacrime.
–Io avrei dovuto aiutarlo; ma non potrò farlo. Dovrai farlo tu al posto
mio. Ti chiedo solo questo.–
–Sì…– risponde Hikari.
–Adesso, è tempo di andare.–
La maschera inespressiva sorride. Sì, sorride. –Grazie, Hikari, per tutto quello che mi hai insegnato. Per quello che sei
stata per me. Darti la mia vita è il minimo che io possa fare per sdebi­
tarmi.–
–Ai… di cosa parli? Sono io che ti devo tutto!–
Ma la maschera le parla sopra.
–So che cosa starai pensando ascoltando queste parole. Ma tu non puoi
sapere cosa significa… nascere senza emozioni… e imparare ad amare.
–Addio, Hikari. Grazie.–
–No, Ai, non andare!– grida in lacrime Hikari. Ma la macchina
risponde:
–Fine registrazione.–
e la maschera scompare.
Artificial intelligence… Ai. In Giapponse vuol dire “amore”, ed è anche
usato comunemente come nome di donna. Non so se era una parola, ed un
nome, noto ai tempi di Hikari: la parola è di origine cinese, ma può darsi
che, nel 200, fosse già arrivata in Giappone. 306
Sorrido, anche se ho un nodo in gola. Ai… è stata una sua idea farsi
chiamare così. Amore.
Esercizi avanzati (K)
–Tu avevi detto che era solo una macchina!–
Rai’an­sama mi guarda confuso. Hikari­sama… il suo spettro… siede
sugli aghi di abete, abbracciandosi le ginocchia, immobile.
Midori già riesce a sollevare nell’aria una pietra di un certo peso. La tira
su, la lascia lì, la poggia delicatamente… tutto con una certa aria di soddi­
sfazione. Mi fa quasi rabbia.
Jirou sta ancora tentando di imparare bene a usare lo scudo per difen­
dersi dagli oggetti scagliati verso di lui; ora che Rai’an­sama parla con me,
si allena tirando dei sassi per aria, e riparandosi con lo scudo come fosse
un ombrello. Ci riesce quasi sempre.
–Ahi!–
Ecco, quasi.
–… lo è…– risponde Rai’an dopo aver riflettuto un po’.
–Ma quella Ai ha detto di aver preso l’anima di Hikari e di averla messa
nell’Uovo di Cristallo!–
–Era … l’unica parola … credo … che Hikari avrebbe potuto capire. O
l’unica che Ai potesse usare nel poco tempo che le rimaneva.–
Lo guardo con occhi duri. –Allora, che cos’è quel fantasma che sta lì
seduto?–
–Io… mi intendo di animali e di persone, Kaori. Di cose vive…–
Mentre parla, Rai’an­sama assume via via un’aria più assorta.
–Però… adesso che ci penso… c’è una proprietà emergente comune a
tutte le creature che hanno un cervello…–
–Intendi… come l’anima? Come quando hai detto che emergeva dalla
nostra vita?–
–Sì, qualcosa di simile. Studiando il comportamento degli animali,
abbiamo scoperto che tutti, persino quelli più semplici, provano emozioni
simili alle nostre.–
Quasi scoppio a ridere. –E avete dovuto studiare tanto per scoprirlo?–
–Hai ragione… è abbastanza evidente… ma vedi, non avevamo idea di
quanto fossero davvero simili.
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–Uno dei primi esperimenti che esploravano la sfera affettiva e il senso
morale degli animali è stato compiuto… sarà compiuto fra circa mille anni.
Funziona così: si prendono due topi allenati ad aprire una gabbietta che
contiene del cibo. Si mette un topo in libertà, di fronte a due gabbiette; una
contiene cibo appena sufficiente per lui. L’altra, contiene un altro topo,
preso dal suo branco.
–Verrebbe da pensare che il topo libero, essendo un animale, si preoccu­
perà solo di trovare il modo di raggiungere il cibo nella gabbietta. Invece,
abbiamo scoperto che, quasi sempre, il topo libero apre la gabbietta del
topo prigioniero, e poi va ad aprire la gabbietta col cibo per permettere al
suo compagno sfortunato di mangiare. –E come se questo non bastasse, il topo appena liberato non mangia
tutto il cibo, che basterebbe appena per lui. Si tiene la fame, e ne lascia
metà per l’altro.–
–Ohh… questo non l’avrei mai immaginato!–
Sapevo che i topi sono furbi, ma mai avrei pensato che provassero com­
passione fino a questo punto!
–Non solo: quasi tutti gli animali combattono fino alla morte per difen­
dere coloro che amano. I loro cuccioli, in alcune specie persino i loro com­
pagni, o i membri della loro famiglia.–
–Ci siamo resi conto che questo comportamento migliora le possibilità
di sopravvivere del resto del gruppo. Se un animale preferisce salvare la
propria vita e lasciar morire i suoi cuccioli, ad un certo punto, non ci
saranno più cuccioli. E quella specie scomparirà.
–Gli animali che non provano queste emozioni, tanto forti da vincere il
loro istinto di sopravvivenza, non sono in grado di garantire la sopravvi­
venza della loro specie. Alcuni, come i pesci, risolvono il problema
facendo centinaia di figli, ma non tutti gli animali ne sono capaci.–
–In altre parole, mi stai dicendo che per prosperare, per sopravvivere,
bisogna amare…–
Rai’an­sama ride piano.
–Sì, credo che la possiamo mettere giù in questo modo.–
–E questo cosa c’entra con quella macchina?–
–Se le emozioni sorgono naturalmente là dove c’è un cervello che pensa
e ricorda… se sono un prodotto inevitabile… allora, anche le nostre mac­
chine, che pensano e ricordano, possono imparare ad avere emozioni.
Anzi. Forse non possiamo evitare che le provino.–
Annuisco. –Questo… spiegherebbe perché quella Ai che era nell’Uovo
abbia voluto sacrificare sé stessa per salvare Hikari…–
308
Rimaniamo in silenzio per un po’ a rimuginare sulla cosa. Ma io ancora
non ho avuto la risposta che cercavo.
–Ma, Rai’an­sama… allora questa Hikari che cos’è? E l’anima della
Hikari che stava morendo, che fine ha fatto?–
–All’inizio, questa Hikari era la copia esatta di tutti i ricordi, i pensieri,
la personalità, il modo stesso di pensare della Hikari in carne ed ossa. Era
come una sua sorella gemella, nata in quel preciso istante.–
–Quindi… una cosa diversa? Non era la stessa Hikari che stava
morendo?–
–No. Nell’istante stesso in cui la nuova Hikari ha iniziato ad esistere, ha
anche iniziato ad essere diversa. Se entrambe avessero pensato “io”, avreb­
bero pensato ad una cosa distinta.–
–Quindi… Ai non ha trasferito l’anima di Hikari nell’Uovo…–
–No. Ha creato un nuovo essere, che condivideva i ricordi di una vita
con la Hikari che stava morendo.–
–E quindi… una nuova anima?–
–Io… credo che… possiamo dire così. Sì… una nuova anima.–
Guardo lo spettro seduto per terra. Probabilmente si sta facendo le stesse
domande, ma non può sapere tutte le cose che Rai’an­sama conosce delle
macchine, dei cervelli, delle anime e degli animali. Probabilmente, non sa
darsi una risposta. Non sa chi… che cosa è. Deve essere atroce. Pensare a quello che deve provare adesso mi fa stare
male.
Rai’an­sama mi prende delicatamente per un braccio, e mi dice:
–Lasciamola stare. Credo che in questo momento abbia bisogno di stare
sola.–
Annuisco.
–Piuttosto… ancora non siamo riusciti a trovare un pensiero per attivare
lo scudo…–
Ecco, lo sapevo che saremmo arrivati a questo. Midori sta facendo sal­
tellare una masso grosso come la pancia di un lottatore di sumo nell’aria,
come se fosse la palla con cui giocano i bambini, e io non sono ancora riu ­
scita ad usare questo scudo una sola volta. Arrossisco e chino lo sguardo.
–Dai, lascia che ti dia una mano…–
309
L’onsen della hime (M)
Quando finalmente Kaori è riuscita a stendere lo scudo magico, e l’aria
si è piegata davanti a lei, ha fatto una faccia… Quasi non ci credeva! Chiamava “Rai’an­sama, Rai’an­sama!” tutta emozionata, come una
bambina che vede per la prima volta, che so, un animale strano…
Il sole sta tramontando, e lei, adesso, è tutta sorridente. Io non sono ancora riuscita a scagliare qualcosa lontano, però riesco a
sollevare cose pesantissime come se fossero palle di piume!
Uhm… credo di avere la stessa faccia di Kaori… E anche Jirou, adesso riesce a tenere lo scudo ben fermo, anche mentre
tiene la spada impugnata con la destra. Oborozuki in una mano, lo scudo
magico di Rai’an nell’altra… i capelli al vento… lo sguardo intenso… Ah,
il mio Jirou! Altro che Yamato Takeru!
–Midori…– mi chiama Kaori.
–Ehm, sì Kaori­san?–
–A cosa stavi pensando?–
–Eh? Ah, no nulla…– Come ha fatto a leggere nel mio sguardo quello che pensavo? Ah, poteri
di una miko anziana!
Meno male che il sentiero è pieno di pietre sporgenti, e bisogna fare
attenzione a non scivolare, altrimenti mi sa che avrebbe finito per farmelo
dire. Ma non glielo permetterò!
–Piuttosto, Kaori­san… quand’è che mantieni la promessa?–
Ad un centinaio di passi intravediamo l’onsen di Mitsue, la Fonte della
Principessa. È lì che siamo diretti, per un bagno rilassante dopo il viaggio
del mattino e l’allenamento del pomeriggio.
–Quale promessa?–
Fa finta di scordarsene, la faina!
–Quella che abbiamo scambiato sul Sacro Monte Miwa!–
–Ah… quella promessa… beh… l’ho già mantenuta.–
–Eh?–
–Sì, gliel’ho già detto.–
Ah… gliel’ha già detto… certo, naturalmente, glie… COSA!?!?
–Eeeeeeh?–
–Sì, due sere fa, quando eravamo ospiti dei Souhei ad Hasedera…–
–E non mi hai detto nulla!?!–
–E perché avrei dovuto? Sei già abbastanza impertinente senza che io ti
dia altro materiale su cui lavorare…–
310
–Ma mi avevi promesso!–
–Certo. Che glielo avrei detto. E l’ho fatto.–
Non fa una piega. Ma non è giusto! Uffa, mi sono persa tutto il diverti­
mento… anche se un po’, l’avevo sospettato… quella mattina, Kaori era
davvero troppo allegra, e Rai’an troppo strano…
–Vabbeh… e, dimmi, dimmi, lui che ti ha detto?–
–Niente.–
–Eeeeh?–
–Non gli ho dato il tempo di rispondere. Gli ho detto quello che dovevo,
e poi ho detto che era meglio rientrare.–
Ma come!?! Ma le devo insegnare proprio tutto?
–E non ha proprio più detto niente?–
–No. Se non l’avessi tirato dentro, mi sa che sarebbe rimasto lì impalato
per tutta la notte.–
–…almeno, dimmi che faccia ha fatto…–
Kaori si ferma; il suo sguardo si scioglie in un sorriso che si perde nel
vuoto, colmo del suo ricordo…
… quando Rai’an, da dietro, ci raggiunge e chiede: –Perché vi siete fer­
mate?–
Kaori arrossisce fino alle orecchie, butta lì un –No, niente…– e si mette
quasi a correre. Quando la raggiungo, mi sgrida sottovoce:
–Dai, smettila! Vedi cosa mi fai fare?–
–Io ho solo chiesto… insomma… avrei voluto sapere lui che cosa ha da
dire…– cerco di sussurrare.
Il volto di Kaori si rabbuia.
–Cosa vuoi che abbia da dire… Io ho solo compiuto il mio dovere. Era
giusto che sapesse cosa provo per lui. Questo è tutto.–
La sua voce ora è rigida. –Ma… se non ti dice che ti ama, siamo al punto di partenza…–
–Ma che vai farneticando?–
Kaori si ferma di colpo e mi rivolge uno sguardo di fuoco.
–Sì, insomma… anche lui, non può mica mentire, il suo makoto…–
–Mentire? E perché dovrebbe?–
–Kaori­san, è lampante che ti ama!–
Ora mi uccide. Ha promesso che alla peggio mi avrebbe abbandonata
nel deserto, ma stavolta mi uccide.
–Ma come osi parlare in questo modo!?–
311
Per fortuna Rai’an ci raggiunge nuovamente. Almeno per stavolta,
vedrò un’altra alba.
–Allora, si può sapere che vi prende?–
–Nulla, Rai’an­sama… questa mocciosa impertinente si burla di me…–
e mi tira la coda dei capelli, strattonandomi e spingendomi, mentre digri­
gna fra i denti, –Cammina… e taci.–
Cammino e taccio.
L’onsen di qui è davvero grande. E affollato, almeno a quest’ora.
L’acqua fuma scendendo tra le rocce, e sembra molto allegra, e contenta
delle risa e delle chiacchiere serene della gente del villaggio che vi si
bagna. E dei visitatori. Come noi. E su tutte, le voci festanti dei bimbi, che
si tuffano felici, giocano, e poi vanno a cercare le mamme e i papà. I conta­
dini, anche se stanchi per il duro lavoro sotto al sole, hanno ancora qualche
energia per i loro piccoli, e insegnano loro a stare a galla e a nuotare un
po’, anche se i posti dove l’acqua è abbastanza profonda sono assai pochi.
Cerchiamo un posto dove lasciare le nostre cose; dopo aver guardato un
po’ attorno, Kaori si dirige sicura verso alcuni massi appartati, circondati
da cespugli e bassi arbusti. Si avvicina con una certa aria di familiarità;
leggo dal suo sguardo soddisfatto che questo doveva essere il suo posto
preferito, nelle precedenti visite. Poi, si avvicina ad una pietra dalla som­
mità quasi piatta, su cui è facile sedere, e si ferma. La guarda con un
velato, etereo sorriso, e i suoi occhi si fanno distanti… credo di capire il
ricordo che sta rivivendo.
Un sospiro, ed eccola annunciare: –Qui va bene.–
Inizia a slacciarsi il fiocco dell’hakama; faccio altrettanto. Sento rumore
di ferro smosso da dietro; cinghie di cuoio che si slacciano. Ma prima di
aver finito di sciogliere il nodo, sento Rai’an chiedere con un filo di voce:
–Ma come… qui?–
–Sì– risponde Kaori, senza fermarsi.
Non è elegante, ma mi volto: Jirou è di spalle e si è già liberato della
corazza; la sua schiena sembra scolpita nei massi che lo circondano. Mi
riesce difficile distogliere lo sguardo, ma quando ci riesco, vedo Rai’an,
rosso come prima era rossa Kaori, immobile. Come se non fosse mai stato
in un onsen.
Oh. Ora che ci penso, probabilmente non c’è mai stato!
Non si è mai liberato di quelle vesti che ci vengono posate addosso
quando passiamo per l’adolescenza e per la pubertà, non ha sentito l’aria
calda che sale dall’acqua termale accarezzargli il corpo, non è mai tornato
bambino, in quell’atto di abbandono così sereno che è immergersi
nell’acqua pura e calda che scende dal cuore delle rocce. Non ha mai con­
312
diviso questo piacere con parenti, amici e perfetti sconosciuti; è qualcosa
che rinsalda la fratellanza fra gli esseri umani, che ti permette di vedere,
sentire, parlare con chi hai di fronte non come un contadino, un guerriero o
una miko, ma semplicemente come una persona. Un piacere che ci fa tor­
nare ad essere quello che siamo: creature di questa Terra, spiriti che si
intrecciano, uguali eppure distinti, molti eppure uno, fra di noi e con la
Terra.
Un po’, mi spiace per lui. Ma un po’, sono eccitata all’idea di introdurre
uno straniero a questo rito, a questo piacere. E curiosa. Sì, sono curiosa di
sapere se anche una persona, straniera e adulta, che prova per la prima
volta un onsen sulla sua pelle, possa percepire la stessa cosa che provo io,
che li conosco e li ricordo da ancor prima di quando andavo in giro gatto ­
nando.
–Rai’an­sama… su, avanti… non vorrai farci aspettare? È da un sacco
che non entro in un onsen bello come questo!– lo incito.
–Ma…–
Mi giro verso di lui; intanto, Kaori ha piegato il suo hakama e l’ha
posato su un sasso, e si sta togliendo i tabi.
–Guarda tutta questa gente. Ti sembra che ci sia qualcosa di cui vergo­
gnarsi?–
–Beh… suppongo di no.–
Rai’an si guarda intorno. Uomini, donne e bambini, liberi da ogni veste,
sono seduti sul bordo dell’acqua, o vi si immergono, i più giovani si tuf­
fano. Alcuni si asciugano, si rivestono e già vanno via. Altri, ancora vestiti,
chiacchierano con chi è già nell’acqua, e si spogliano senza fretta.
Rai’an sospira profondamente, e il rossore sul suo volto si affievolisce.
E poi dice piano, ma non abbastanza da dirlo solo a sé stesso: –E va
bene… del resto, che antropologo sarei se non sapessi accettare le culture
che studio?–
Mi giro e finisco di spogliarmi.
Ahhhhhhhhhh l’acqua dell’onsen… finalmente!
Mi sdraio accanto a Kaori. L’acqua mi avvolge fino al collo, fino al
mento.
–Ahhh, ci voleva proprio, eh, Kaori­san?–
–Uhmpf…– mi risponde svogliatamente, col volto appena fuori dal pelo
dell’acqua, gli occhi chiusi in estasi. Non credo che avrò altre soddisfa­
zioni da Kaori, per stasera, quindi mi rivolgo a Jirou. I nostri uomini si
sono immersi a cinque o sei braccia da noi, quindi devo spostarmi un po’.
–Jirou…–
313
–Sì, Midori­san?– risponde, senza guardarmi. Lui sta col petto fuori
dall’acqua, seduto sulle pietre del greto della sorgente a gambe conserte.
Rai’an cerca di imitarlo, ma… stringendosi nelle braccia e curvo sulla
schiena, quasi a chiudersi come un guscio.
–Com’è stato, usare lo scudo?– è la prima cosa che mi viene in mente
per attaccare bottone.
–Difficile.– risponde secco. Uffa, che musone! Cerco un posto comodo
per sedere accanto a lui, e poi qualcos’altro da dire, ma mentre mi sta per
venire in mente qualcosa, una giovane coppia di contadini attira la mia
attenzione.
I loro due bimbi, un bimbo e una bimba, giocano sulle gambe del papà,
che sta dicendo, con veemenza, a sua moglie: –Ti dico che c’è una stella
più grande in cielo!–
–Sarà tutto quel saké che vi siete scolati ieri sera, tu e i tuoi amici scan­
safatiche…–
–Ma se abbiamo lavorato fino al tramonto!–
–Sì, certo, e come no…–
–Insomma, era enorme, quasi come l’unghia del mio pollice!–
–Allora era più grande della luna.–
–No, non così grande… forse del mignolo…–
–Insomma, era grande come l’unghia del pollice o del mignolo?–
–Non lo so, ma era più grande del normale! Si vede benissimo!–
–Ah sì? E com’è che l’hai vista solo tu?–
–Dal villaggio non si vede, è bassa sull’orizzonte. Si vede solo dai
campi…–
Il litigio fra i due sposini perde tutto il suo interesse non appena Jirou si
siede più comodo… sembra quasi casuale, ma questo lo porta più vicino a
me.
–Sai…– attacca a dire.
Cioè… mi rivolge la parola! Per primo!
–…Questa cosa è un po’ strana…– continua.
–Strana? Mi sembra normale che sia strana!–
Sorride. Il mio Jirou sorride! Ah, magia dell’onsen, capace di scogliere
anche i musoni più duri!
–Sì, giusto… niente di questo è normale, ma… vedere l’aria che ondeg­
gia così… la mia mano che piega l’aria davanti a me… non è strano?–
–Eh sì.–
–Midori­san… sei la più brava di tutti noi. Come fai?–
314
–Uh, no, ecco io…– mi fa arrossire. Che stupida, siamo nudi a un palmo
l’uno dall’altra e arrossisco per un complimento!
–Credo… ho fatto solo quello che mi ha detto Rai’an­sama.–
–Anche io ho cercato di farlo. E anche Kaori­san…–
–Uh, ecco… io… cerco di … uhm … come dire … sognare. Sì, sognare
a occhi aperti. Credo sia questo. Ho semplicemente sognato che quel
masso saltellava fra le mie mani, e poi… ha fatto tutto la macchina di
Rai’an­sama.–
–Sognare…– lo sguardo di Jirou si perde nel vuoto.
–Ma come… tu non sogni, Jirou?– … oh, mio Jirou, tu non sogni di
me?, vorrei dire… ma questo lo taccio.
–È da tanto che non sogno.–
–Non sogni? Non è possibile: tutti sognano.–
–Sì, volevo dire… a occhi aperti. Di notte, mi capita, ogni tanto, di
sognare.–
–Ah, ecco, volevo ben dire. E … cosa sogni?–
–Sogno di combattere con guerrieri invincibili. Sogno di provare il mio
valore in battaglia.–
Ecco, appunto. Che sogni noiosi.
–E … non sogni… che so… una donna?–
Sarebbe il turno di Jirou di arrossire. Ma a quanto pare, passa la mano, e
mi risponde: –No. I sogni di passioni terrene sono troppo volgari per attra­
versare l’anima di un guerriero.–
Ma tu sei un contadino. Con una spada. Vorrei dirgli, ma non mi va di
ferirlo così.
E poi… che sia nato contadino, è vero, ma ora è il saburahi di un kamii.
Non credo ci sia guerriero in tutto il Giappone che possa vantare una posi­
zione tanto nobile. Ecco, il mio Jirou è il guerriero più nobile di tutto il
Giappone!
Lo osservo. Lo ammiro. In silenzio.
Cena al santuario (K)
Di solito, niente mi riappacifica con me stessa come una lunga, lunga
visita ad un onsen. E, per una volta, Midori mi ha anche fatto la grazia di
lasciarmi sola con i miei pensieri, a godermi l’acqua che scorre sul mio
corpo. Eppure…
315
Rientriamo all’imbrunire; siamo quasi gli ultimi ad abbandonare
l’onsen. La strada preme scura, e sebbene molta gente la percorra assieme
a noi, a qualche decina di passi davanti o dietro, mi rendo conto che sono
stata un po’ imprudente ad attendere tanto a lungo. Fra tutte le cose che
temo, essere sorpresa dal calare delle tenebre qui, nel cuore del Regno di
Uda, occupa un posto assai preminente.
E c’è un’altra cosa che mi preoccupa. Quando ci siamo immersi non ci
ho fatto caso; ma quando siamo usciti dall’acqua, mi sono accorta delle
occhiate insistenti che la gente del villaggio rivolgeva a Rai’an­sama. Non
era il suo corpo, fuori del comune, né il suo volto, né i suoi capelli d’oro.
C’era qualcos’altro. Un vocìo preoccupato, agitato, mi è sembrato come il
ronzio di un alveare disturbato, non so… non mi è piaciuto.
Anche per questo, accelero il passo, in silenzio. La casa di Fuyutsuki, a
fianco del Santuario di Mitsue, è il mio rifugio in questa terra aliena. I
kamii che proteggono i luoghi abitati dalle genti sapranno essere il mio
scudo e il mio conforto. E… il caldo abbraccio di Fuyutsuki… il ricordarlo
mi rasserena, e mi strappa un sorriso.
Sulla superficie agitata delle acque dei miei pensieri, galleggia per un
momento l’idea che questo pensiero potrebbe essere blasfemo, nel mare di
amore che provo per Rai’an­sama.
Ma è un attimo. No, non v’è peccato in quel passato che ha fatto di me
la donna che sono. E, se nell’indulgervi, forse, si scivolerebbe in una pas­
sione indegna della purezza dei miei sentimenti, nel ricordarli, anche con
affetto, anche con tenerezza, non v’è alcun male.
Eccoci arrivati: il tratto è breve. Passiamo sotto il tori­i proprio mentre
iniziano a brillare le prime stelle, e il cielo ad est si ammanta di un pro­
fondo blu scuro.
–Giusto in tempo!– sospira con sollievo Midori, e si affretta verso le
lanterne che segnano l’ingresso dell’abitazione di Fuyutsuki; le ha accese
per noi. Sorrido a questo pensiero, quando la voce di Rai’an­sama scende
sulle mie spalle come uno scialle per ripararmi dall’umidità del crepuscolo.
–Dì la verità… farmi spogliare davanti a tutta quella gente ti diverte un
sacco.–
–Saa…– rispondo con aria misteriosa, senza girarmi. Lo immagino sor­
ridere e scuotere la testa, mentre ci avviamo spalla a spalla verso la soglia.
Jirou è l’ultimo a entrare. Prima di farlo, si guarda nervosamente
intorno, come se si aspettasse di vedere qualcuno appostato dietro gli
alberi e gli edifici del santuario.
Torno un po’ sui miei passi e gli chiedo piano: –Qualcosa non va?–
–La gente del villaggio… ci guardava in modo strano.–
316
Allora se n’è accorto anche lui! Cominciavo a chiedermi se non fosse
stata una mia fantasia. Ma… un momento…
–Ci… guardava? Intendi… noi?– gli chiedo.
Lui annuisce, sondando ancora il buio sempre più denso con i suoi occhi
penetranti.
Io avevo fatto caso solo a come guardavano Rai’an­sama.
Oltre la soglia, Fuyutsuki e una miko del tempio ci accolgono, e lui, con
una nota di preoccupazione, ci dice:
–Meno male! Cominciavo a chiedermi che fine aveste fatto.–
–Ci siamo trattenuti a lungo all’onsen.–
–Oh, bene, bene… tutti i pellegrini fanno tappa all’onsen…–
E voi siete pellegrini, vero?
Questo vorrebbe chiedermi, lo sento. Conosco Fuytsuki troppo bene. Gli sguardi della gente del villaggio, l’insolita apprensione in Fuyu­
tsuki… tutto questo mi piace sempre meno. Ma proprio per questo, decido
di far finta di nulla. Anche lui mi conosce troppo bene, e sa che non posso
non essermene accorta. Sa che la mia indifferenza non è disattenzione: è
una misurata risposta.
E Fuyutsuki capisce. Con lo sguardo mi sta dicendo che non mi chie­
derà altro.
Se non amassi Rai’an­sama, lo troverei adorabile.
Le miko del tempio ci hanno preparato una cena a base di spaghetti di
farina di grano saraceno. Una prelibatezza che viene dalla Cina, nonché la
specialità del luogo.
Fra di loro, ci sorride timidamente Mayumi. Non indossa ancora lo shi­
roi bianco e l’hakama rosso, ma le due giovani miko che le stanno a fianco
le sono così vicine che sembrano come sostenerla fisicamente, anche senza
poggiare le mani su di lei.
Mi fanno domande su come sia essere una miko anziana. E come volete
che sia, rispondo, è come essere una miko giovane, ma… più anziana.
Loro mi invitano a smettere di scherzare, e così racconto loro della sen­
sazione che provo all’alba del giorno in cui inizio un viaggio per sbrigare
gli affari del santuario di Koumon. E di come sia difficile sostenere i kan­
nushi nei loro alti incarichi, oltre a svolgere il compito di purificare la cor­
ruzione del Regno delle Ombre, che è riservato a noi.
E su quest’ultimo punto, hanno molte domande. Non sul sostegno ai
kannushi… su come sia lottare contro il Regno delle Ombre.
317
–È una lotta difficile. Spesso è estenuante. Per purificare dalle ombre
della corruzione i luoghi più infestati, ho lottato anche tutta la notte, fino
alle prime luci dell’alba.–
–Dev’essere terribile!– dice la più giovane, Saeko, una ragazzina appena
un po’ più grande di Mayumi.
–Certo, è faticoso… e a dirla tutta… sapete… fa anche un po’ paura. Ma
ho sempre sentito Touga­sama al mio fianco, sussurrarmi parole di sag­
gezza e di sapienza, che erano come spade, come frecce che potevo rivol­
gere agli spiriti maligni.–
–Io… ho già fatto un paio di esorcismi…– attacca titubante Kaede, una
ragazza dell’età di Midori, –…forse tre, anche se l’ultimo era uno spirito
tanto debole che riuscivo a percepirlo a malapena.–
Sono vagamente conscia del fatto che Rai’an­sama ci sta osservando
con insistenza, da un angolo in ombra del tavolo dove stiamo cenando.
Anche se Kaede sembra la più grande fra le giovani miko di questo tem­
pio, è chiaro che Fuyutsuki non le ha assegnato un ruolo superiore alle
altre. Sono ancora tutte troppo giovani, e inesperte, per affrontare i pericoli
più oscuri del mondo degli spiriti, e di quello degli esseri umani.
E, a dirla tutta, nessuna mi sembra avere una briciola delle capacità di
Midori.
Forse, la nostra Mayumi… un giorno…
–Kaori­san…– inizia a chiedermi, come se avesse sentito il peso del mio
pensiero su di lei.
–Dimmi, Mayumi.–
–Si può… purificare uno spirito maligno… con il canto?–
–Beh… i norito sono una guida, sono le parole che possono guidare la
nostra anima a quella risoluzione, a quella determinazione che ci consen­
tono di assorbire il male e purificarlo… ma… molte cantano i norito senza
nemmeno pensare a quello che dicono.–
–Come un mantra?– mi chiede Tsubaki, una ragazzina piccola e paffuta,
dall’aria un po’ assente. –Uhm, mah, credo di sì… che sia quasi la stessa cosa.–
Ben prima di aver finito di mangiare, chiudiamo gli scuri; restano solo
fioche lanterne a illuminare la nostra cena. Parliamo piano. Jirou, Rai’an­
sama e Fuyutsuki non parlano affatto.
La regina fantasma (R)
–Rai’an­sama…–
318
Non sarebbe la prima volta che Kaori mi rivolge la parola a notte fonda,
prima di addormentarsi. Ma questa non è la voce di Kaori.
Apro gli occhi e mi aspetto di trovarmi nell’oscurità della stanza, ma
l’ologramma generato dal nucleo centrale la illumina di una fioca, pallida
luce azzurrina.
–Rai’an­sama…– ripete l’ologramma inginocchiato al mio fianco, più
piano, quasi supplicante.
–Dimmi, Hikari. O forse, dovrei chiamarti Hikari­sama, dal momento
che sei una regina…–
–Hikari è il modo giusto per rivolgerti a me, o mio mikoto.–
–Non sono un mikoto, Hikari… sono un uomo.–
–È bello che tu abbia tanta confidenza nella tua natura, Rai’an­sama.
Poiché io l’ho persa.–
Il visino della giovane regina si china verso il basso, e trema.
Mi alzo sui gomiti.
–Hikari…–
–Ho riflettuto a lungo, Rai’an­sama.– mi interrompe lei. La voce è
quella di una giovane donna, ma l’imperio nelle sue parole è quello di una
regina.
–Ai è stata la presenza più importante, e più cara, che abbia mai incro­
ciato il mio destino. Devo a lei l’essere stata capace di reggere le sorti
degli Yamatai. Senza il suo aiuto, senza i suoi consigli, senza la sua
immensa saggezza, non avrei potuto essere che una briciola di ciò che sono
stata. –E per tutta la vita, mi è stata accanto, senza chiedere nulla in cambio.
–Quando mi scoprii spettro, all’inizio, fui furiosa per essere stata abban­
donata nella morte. Ma poi mi resi conto che Ai mi era stata così vicina in
vita… non potevo pretendere che continuasse a vegliarmi oltre la soglia
della notte.
–E ora che so la verità… ora che so che Ai ha sacrificato sé stessa per
permettere a me di vivere quell’esistenza che era la sua… provo vergogna
per quanto rancore ho provato quando credevo di essere stata abbandonata.
–Rai’an­sama… Ai ha creduto che io fossi in grado di assisterti nella tua
missione. Per tutta la vita terrena, le sono stata debitrice; e ora, le sono
debitrice anche per la mia vita ultraterrena. Se esiste un modo per ripagare
il mio debito, è quello di assecondare la sua volontà.–
La regina sospira, pur senza muovere un filo d’aria, e mi guarda dritto
negli occhi, anche se so che non sono i suoi occhi a vedermi.
319
–Rai’an­sama… – Hikari, la himiko, la regina­sacerdotessa degli Yama­
tai, si inchina, posando la fronte sulle mani congiunte davanti alle ginoc­
chia.
–Giuro di servirti fedelmente, fin tanto che i miei servigi saranno da te
richiesti.–
Cosa dovrei dirle? Non ne ho idea. Ma è lei a parlare nuovamente.
–Solo… è terribilmente sconveniente… e imbarazzante… ma… io non
so cosa devo fare!–
Arma letale (M)
Rai’an ha l’aria stanca. È la seconda volta che lo vedo stanco; la prima è
stata sulla cima del monte Miwa. Quello era stato il suo primo incontro
con la bimba fantasma che ora se ne sta seduta, quasi trasparente, su un
tronco poco distante. E ora, dopo aver passato la notte con lei, ha la stessa
stanchezza. A quanto pare, ogni volta che ha a che fare con Hikari, Rai’an
si stanca…
Li ho sentiti parlare piano mentre mi stavo addormentando; ad un certo
punto, Rai’an si è alzato, ha preso l’Uovo di Cristallo ed è uscito. Sup­
pongo che dovesse parlare a Hikari. O che Hikari dovesse parlare a lui. Ad
ogni modo, credo che Kaori sarebbe gelosa; Hikari lo guardava così… bra­
mosa…
Si può essere gelosi di un fantasma? Uhm… se un fantasma insidiasse il
mio Jirou… come reagirei? Ad esempio, il fantasma della gallina laggiù ad
Hasedera. Cioè, non è ancora un fantasma, ma lo sarà dopo che l’avrò
strozzata con le mie mani. Uhm… sì, credo proprio che… –Midori, vuoi stare attenta?–
–Oh, sì, scusa Rai’an…– Kaori, intenta a giocare col suo scudo, si gira e
mi tira un’occhiata di fuoco, e io capisco che devo aggiungere –…sama.–
–Quella che ti affido è un’arma molto pericolosa. Il migliore degli archi
è un giocattolo innocuo, al confronto. Mi segui?–
–Uh uh.– annuisco sonoramente.
–Bene. Lo scudo serve per difesa, anche se, usato in un certo modo, può
ferire o stordire anche il guerriero più forte. Questa, invece, serve princi­
palmente per uccidere. Quindi apri bene le orecchie e gli occhi.–
Vorrei annuire ancora, ma l’idea che Rai’an mi metta fra le mani
un’arma tanto potente mi fa paura. E a un paio di braccia, il visino tondo e
trasparente di Hikari mi sbircia intensamente, e mi fa sentire a disagio.
320
Rai’an stende il braccio; nella mano, ha quella specie di uovo, con una
impugnatura simile a quella di una spada, che esce da un fianco. Rivolge la
punta dell’uovo in avanti, un po’ in basso, verso una roccia a un paio di
passi da noi, alta quanto le mie ginocchia. Come stende il braccio, disegni
colorati si proiettano nell’aria attorno alla parte posteriore dell’uovo;
Rai’an ne tocca un paio, e la punta si illumina, tanto forte che guardarla fa
quasi male. Poi un lampo, un sibilo, e la roccia scoppia con un gran fra­
stuono!
Grido.
E grida anche Kaori.
Jirou non grida, ma cade a terra per lo spavento.
Hikari non grida, ma il suo volto quasi scompare, per poi riapparire die­
tro al tronco sul quale era seduta, le manine poggiate appena sulla som­
mità, con solo la fronte e gli occhi a sbirciare da dietro il riparo.
Rai’an mi guarda, e mostra un disegno nell’aria, che appare giusto sopra
l’uovo. È un rettangolo di due colori: un pezzettino rosso, in basso, e una
lunga striscia blu sopra di esso.
–Ecco; la potenza era regolata al cinque per cento. Significa che potresti
emettere una scarica venti volte più potente di questa.–
–Venti volte più potente… significa che potrebbe fare un tuono venti
volte più forte?–
–Oh, molto di più: con questa scarica, avremmo potuto distruggere una
roccia ben più grande di quella.–
Mi tremano le gambe. Davvero, sento il bisogno di sedermi. Ma non c’è
nulla su cui sedersi… a parte il tronco dietro al quale è nascosta Hikari. E
così la raggiungo. E mi siedo accanto al suo musino, ancora terrorizzato.
–Midori… tutto bene?–
–Sì, sì, Rai’an, scusa… non è niente.–
–Bene. Oltre all’esplosione… al tuono… quest’arma può generare
calore.–
Rai’an sfiora alcuni disegni, e poi punta l’uovo in direzione di un grosso
sasso, più piccolo di quello di prima. Mi tappo le orecchie in previsione del
tuono; vorrei chiudere forte gli occhi, ma non ci riesco. Lampo. Sibilo. Ma non c’è il tuono; stavolta, la roccia si scioglie come
cera lasciata al sole; il tempo di qualche batter di ciglia, e dove c’era la pie­
tra ora c’è una pozzanghera di melma rossa, che ribolle e fa tremare l’aria
come un miraggio in piena estate. Ho già visto qualcosa di simile. È la
terra nuova che nasce dai vulcani, che esce dal ventre del Mondo, calda
tanto da sciogliere il ferro.
321
–Ohh! Mio mikoto, tu domini il potere delle montagne di fuoco!– Hikari tira fuori il viso dal suo nascondiglio, e tutta seria, dice queste
parole, mentre fissa la pozza perdere il suo colore, e smettere di bollire.
–Non sono io… è quest’arma… Beh, insomma; una terza funzione è
quella di stordire le persone, o gli animali, nel raggio di alcune braccia.–
Altri tocchi sapienti delle dita di Rai’an, e le luci cambiano forma; tende
il braccio lontano da noi tutti, e a dieci, forse dodici passi, le foglie degli
arbusti e i rami più bassi degli alberi si piegano e ondeggiano vibrando.
Anche da qui, dietro le spalle di Rai’an, riesco a sentire l’aria che si sposta
e batte sulla mia pelle.
–Ecco, se lì ci fossero state delle persone, ora sarebbero a terra, stordite.
Probabilmente, svenute. Midori…– Si gira verso di me. E mi sorride. Il
cielo dei suoi occhi mi sorride.
–Ho bisogno che tu impari ad usare quest’arma. Ne avrò una anche io,
ma potrebbe non essere sufficiente. E per quanto l’arco di Kaori e la spada
di Jirou siano armi temibili, questa potrebbe rendere inoffensivi molti
avversari in un istante, o aprirci un varco, una via di fuga anche nel muro
più impenetrabile…–
Scordatelo, straniero! Non voglio avere fra le mani una cosa tanto peri­
colosa! Se sbagliassi a usarla, potrei fare del male a qualcuno senza
volerlo; anzi, potrei finire per fare del male a voi!
No, no e poi no!
Questo penso. E stavolta non ci casco. Non lo guardo, il tuo sorriso.
Non li guardo, i tuoi… occhi… così… innocenti…
–Va bene…– Eh? ma che dico? Io volevo dire … no … e poi … no …
Rai’an si avvicina e si inginocchia accanto a me, che sto ancora seduta
sul tronco. Mi prende la mano, e la apre delicatamente. La mia manina
sembra una foglia che si agita nel vento, la sua grande mano è una culla
sicura. La pelle del suo palmo sul dorso della mia mano… non posso muo­
vermi.
–Rai’an…– Sussurro, ma lui continua a sorridermi, e posa l’uovo
distruttore nella mia mano. L’uovo emette luci e suoni che, capisco, devono avere un senso. Ne
sono rapita. D’improvviso, la paura si dissolve, e divento curiosa… curiosa
di penetrare il significato di quella magia che ho fra le mani.
–Vieni, che ti spiego come si usa.– 322
Muore una stella (K)
L’allenamento di questo pomeriggio è stato estenuante. Mentre Midori e
Hikari giocavano con l’uovo che scioglie le pietre, Jirou ed io ci siamo
messi a provare lo scudo deflettore … così Rai’an­sama dice che si
chiama… l’uno contro l’altra. All’inizio, l’idea era solo quella di tenere
fermo … stabile, ha detto Rai’an­sama… il più possibile, premendo a
vicenda sullo scudo dell’altro. Ma presto, il nostro esercizio ha assunto un senso più profondo.
Jirou… non avrebbe mai voluto apparire inferiore a me agli occhi del
suo Daimyou. Ed io… non avevo certo intenzione di permettere a quel
figlio di contadini di credere che ci fosse qualcosa, qualsiasi cosa, in cui
potesse battermi.
Jirou ha una forza fisica straordinaria. Il suo solo corpo è già imponente.
Gli arriverò sì e no a metà del petto. E, credo, ci vorrebbero due donne
come me per fare il suo peso. Ma qui non si tratta di una sfida sul piano
della forza fisica. Non era col corpo che dovevamo spingere; ma con la
mente.
E su quello, nessuno può battere una miko anziana. Una miko come me.
Anche se, devo ammettere, la disciplina, la meditazione che Jirou ha
appreso quando ha ricevuto gli insegnamenti di base dai monaci, non è una
tecnica da sottovalutare.
Infatti, è stata una lotta dura. Il gelo nello sguardo di Jirou… per essere
un ragazzotto di campagna, sa il fatto suo. Se fossi un guerriero e mi tro ­
vassi di fronte a lui, preferirei affrontare il filo della sua lama che non il
gelo del suo sguardo.
Lo ammetto. Anche se non vorrei. È una persona fuori dal comune. Del
resto, è il saburahi di Rai’an­sama… non gli permetterei di essere nulla di
meno che straordinario.
Ma non mi aspettavo che lo fosse così tanto.
Fatto sta che l’allenamento è stato pesante.
Ricordo che, poco prima del tramonto, ci siamo detti qualcosa come
“Un salto all’onsen?” e qualcuno ha risposto “sì, riposiamoci un attimo e
poi andiamo”… la brezza di mezza primavera che arrivava calda da est,
portando un lontano sentore di mare… la tranquillità di sapere che Rai’an­
sama ci avrebbe avvisati di qualsiasi pericolo… l’idea era quella di sten­
derci un po’ al sole e riposare un po’ la schiena e gli occhi… E ora che li riapro, l’imbrunire è già quasi del tutto sbiadito in notte.
323
La cosa mi darebbe fastidio, non fosse altro che per la strada buia, anche
se breve, che separa l’ampia valle dei campi da quella stretta dove si trova
il grosso del villaggio. Ma c’è così tanta luce, che non mi sembra il caso di
preoccuparmi.
Del resto, è una notte di luna piena. Anzi, una notte con due lune piene.
Bene, quand’è così, posso svegliarmi lentamente, con comodo…
Già, con due lune, tutto è più chiaro…
Eh, sì, due lune…
Eh?
DUE LUNE!?!
Scatto seduta, e guardo il cielo. Sì, ci sono proprio due lune; anzi, una è
la solita faccia della luna piena, l’altra è una luce bianca, ancora più
intensa della luna, uniforme, una macchia di latte nella volta celeste.
Mi tiro un pizzicotto. No, non sto sognando. Sono sveglia.
–Ra… Rai’an… Rai’an­sama.– chiamo, incapace di controllare la mia
voce, e lo scuoto per un braccio.
Lui, sdraiato accanto a me, si desta quasi subito. Anche Midori e Jirou si
alzano; e Hikari appare fra di noi. Vedo la maschera di serietà che Jirou
indossa sempre sbriciolarsi. Midori affila gli occhi e poi se li stropiccia,
due, tre volte. Ma l’altra luna non se ne va, resta lì dov’è.
Ma Rai’an­sama… all’inizio ha un’espressione seria… ma poi, lenta­
mente, vedo sorgere sul suo volto un sorriso, come il sole che sorge piano
al mattino. –Già… questo è l’anno mille e sei…– dice piano.
Quando il suo sorriso raggiunge culmine, lo sento sussurrare, o forse
dire a tutti noi: –Non ne avevo mai vista una con i miei occhi…–
–Rai’an­sama… tu … sai che cos’è quella?–
–È una cosa che capita una volta ogni cento, duecento anni. Gli antenati
della mia gente le chiamavano novae, ossia, appena nate, perché crede­
vano che fossero stelle che nascevano in cielo. Secondo le nostre ricerche,
questa è la più grande che si sia mai vista da quando l’uomo ha imparato a
scrivere.–
Rimaniamo in silenzio per alcuni istanti; gli occhi di tutti noi sono pun­
tati sulla grande palla bianca, dai bordi sfumati come quelli di una cometa,
che illumina il cielo quasi come fosse un altro Sole. È Hikari che parla per
prima.
–Allora, quelle erano stelle appena nate… non ne avevo mai vista una
tanto grande…–
324
Lo dice come se ne avesse viste molte. Se capita una volta ogni cento
anni, e lei ha vissuto… o è esistita, per quasi mille anni… ne avrà viste una
decina!
–No; i miei antenati si sbagliavano. In realtà, quella è una stella che sta
morendo.–
Ci giriamo tutto verso di lui.
–Le stelle… muoiono?– chiedo con un filo di voce.
Rai’an annuisce, sorridente. Ma, a me, il pensiero stringe il cuore. Le
stelle… lassù, sempre le stesse… eppure, anche esse muoiono?
–Ma… non è possibile… se sta morendo, perché brilla tanto?– chiedo.
–Vedi… le stelle sono fatte di…– sembra cercare una parola che possa
usare per spiegarmi ciò che sa. Capisco; nessuno della mia gente ha mai
dato un nome alla materia di cui sono fatte le stelle. Forse… luce… o
fuoco… ma la parola che cerca Rai’an­sama non può essere tanto sem­
plice.
–… sono fatte di aria. L’aria più leggera che esista; noi l’abbiamo chia­
mata idrogeno.
–L’idrogeno è la cosa più comune nell’universo. È dappertutto. Anche
nell’acqua: è fatta per due parti di idrogeno, e per una parte dell’aria che
respiriamo, che ci permette di vivere, e di tenere caldi i nostri corpi, e che
permette alle cose di bruciare: noi la chiamiamo ossigeno.–
Sono confusa; ma è Midori che trasforma il mio dubbio in parole: –
L’acqua… è fatta da due arie?–
–Sì, esatto.–
–E… perché non è un’aria anch’essa?–
–Perché quando due cose semplici lavorano insieme, formano qualcosa
di più complesso. Due persone possono dare vita a dei figli; due arie pos­
sono unirsi e formare un liquido.–
–Ohh… capisco…– risponde Midori, –è come quando hai detto che
dalle cose semplici, se si uniscono in un certo modo, possono nascere cose
più complesse!–
–Esatto!– le sorride Rai’an, e poi continua, indicando la nuova luce:
–L’idrogeno, l’aria di cui sono fatte le stelle, è la cosa più leggera che
esista. Eppure, quando ce n’è tantissima, anche quella pesa. E così, il peso
stesso si trasforma in calore, e il calore e il peso fanno sì che le stelle si
accendano, e diventino tanto calde che persino quest’aria leggera si fonde.
–Quando questo accade, si forma un’aria più pesante, chiamata elio.
Due parti di idrogeno si fondono per formare una sola parte di elio, e que­
sta fusione riscalda la stella tanto da farla brillare per tanto, tanto tempo.
325
–Ma quando l’idrogeno sta finendo, e rimane quasi solo elio, il peso
diventa insostenibile. La stella si schiaccia sotto questo peso, e si scalda
ancora di più, tanto che anche l’elio inizia fondersi, e assieme all’idrogeno
rimasto, forma materia ancora più pesante, come l’ossigeno…–
–Quello che respiriamo!– lo interrompe Midori.
–Sì, proprio quello; e assieme all’ossigeno, forma la materia che rende
dolce il miele e la frutta: è da questo che viene il calore, la forza, il nutri­
mento che ci serve per vivere. Noi lo chiamiamo carbonio, una parola che,
per i miei antenati, indicava il carbone.–
Hikari, quasi timidamente, tira fuori una vocina sottile: –E allora… la
stella muore quando brucia tutto il carbone?– –No; succede ancora quello che è già successo: il peso aumenta, e con il
peso, il calore, fino a che anche il carbonio, l’ossigeno, assieme all’idro­
geno e all’elio rimasti, si fondono in sostanze ancora più pesanti, fino ad
arrivare al ferro. –A quel punto, non c’è più niente da fondere, ma il peso della stella è
insostenibile, ed il suo calore immenso. Allora tutto il calore accumulato
non può più essere trattenuto, nemmeno in una stella così pesante che, se
ne poteste raccogliere una goccia, peserebbe più di una montagna intera.
–È in quel momento che tutto il calore, e con esso, tutta la materia
esplodono, e formano un’immensa sfera incandescente. È allora che nasce
la materia più pesante, e più rara, come il piombo, o l’oro, in un crogiolo
tanto caldo che, per qualche mese, la stella che sta morendo brilla come
diecimila soli.–
Una stella che muore… brilla come diecimila soli. Ha vissuto per tanto
tempo, dice Rai’an­sama… E per pochi giorni… per pochi mesi, illumi­
nerà il cielo come diecimila stelle.
Sento come un nodo in gola. La voce mi trema, mentre chiedo: –
Allora… questo è come… l’ultimo grido di quella stella…–
–Sì, ma non è una cosa triste, anzi. Tutte le sostanze che sono nate nel
crogiolo di quella stella, ora vengono sparse per tutto il cielo. C’è sicura­
mente ancora abbastanza idrogeno per far nascere decine di piccole stelle;
stelle come il nostro sole. E le altre sostanze si condenseranno e forme­
ranno mondi di roccia, acqua e aria, come il nostro.–
–Rai’an…– attacca Midori, ma stavolta le esce un –..sama…– senza
bisogno che glielo ricordi. E poi, continua: –Ma allora… anche il sole che
sta in cielo… e questo mondo… sono nati così?–
–Sì. E anche tutte le cose che ci vivono sopra. Gran parte del nostro
corpo è fatto d’acqua. E nel sangue c’è molto ferro…–
–Oh, ecco perché sa di ferro!– esclama Midori.
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–Già. Tutte queste cose arrivano da là.– Rai’an­sama punta il dito verso
la Stella Morente.
–Beh, non proprio, da là… probabilmente ogni briciola di ferro che
abbiamo nel corpo, ogni parte di idrogeno e ossigeno che abbiamo in ogni
goccia d’acqua che è in noi, arriva da una stella diversa.–
Questo! Era questo che intendeva! Era questo che intendeva quando
parlava del viaggio delle cose che sono scese a formare me, a creare quella
Kaori che vive qui, ora. Polvere di migliaia di stelle morte e poi rinate, e
poi ancora morte e rinate chissà quante volte, che hanno dato la loro vita
per creare quelle sostanze, quelle parti che, piovute dal cielo, avrebbero
formato la terra su cui cammino, l’acqua che bevo, l’aria che respiro e
infine persino me!
La luce della stella che grida il suo ultimo lamento penetra nei miei
occhi, e poi, in profondità nella mia anima. Mi chiama. Mi dice: io sono te.
Io sarò migliaia di cose come te, in luoghi tanto lontani che tu non puoi
immaginare.
Mi rendo conto di avere le mani giunte, le punte degli indici posate sulle
mie labbra, due lacrime silenziose a bagnarne il dorso. Saluto la stella che, morendo, farà vivere migliaia di soli, di mondi, di
Kaori.
–Ciao, madre…– la chiamo sussurrando. Ed è come se avessi sentito in
me un cenno, una risposta. La luce lontana trema lenta: –Ciao, mia piccola
Kaori …–
Scoppio a piangere. Eppure le sorrido. Sono immensamente triste, ed
eternamente felice. Non so più nemmeno dare un nome a quello che provo.
–Kaori…– mi sussurra Rai’an­sama, ma riesco a malapena a udirlo. No,
nemmeno Rai’an­sama ha il diritto di condividere lo spazio della mia
anima, che si protende e raggiunge quella lontanissima madre celeste. Que­
sto momento è per me, e per me sola.
Ma lui lo capisce. Sento che mi sorride, e tutti quanti ci giriamo a guar­
dare, in silenzio, la Stella Madre, che muore per dare alla luce innumere­
voli mondi.
Presagio (R)
Passa un tempo breve, eppure lungo, e siamo pronti a tornare al villag­
gio. Ma mentre stiamo cercando la forza di alzarci e distogliere lo sguardo
dal cielo, Jirou scioglie l’incantesimo del silenzio, e mi chiama:
–Rai’an­sama, ci hai donato una saggezza profonda… ma temo che, per
noi, la presenza di questa stella morente sia un problema.–
327
–Un problema? Non capisco…–
–Rai’an­sama… penso non non esista al mondo, in questo momento,
una persona che comprenda il significato di questo evento, così come tu lo
conosci.–
–Sì, ma, non vedo come…–
–Rai’an­sama, per come conosco la gente di qui, un segno inatteso nel
cielo sarà letto come un presagio di sventura.–
Non esiste civiltà arcaica nella quale le i fenomeni astronomici, come
l’apparizione di comete o supernove, non fossero interpretati come un
segno foriero di eventi eccezionali. E quando il sentimento collettivo era
particolarmente cupo, questi eventi eccezionali erano sempre immaginati
come nefasti. Gli Europei non riportarono nemmeno l’apparizione di SN1006; il solo
nominarla, in pieno Medio Evo, avrebbe potuto attirare l’attenzione letale
della Chiesa. Invece, gli Arabi e i Cinesi la documentarono ampiamente;
soprattutto questi ultimi, sembravano essere i meno suscettibili a senti­
menti superstiziosi. Tuttavia, è indubbio che molti astrologhi delle corti dei
regni della Cina dell’anno mille fecero la loro fortuna con oracoli e oro­
scopi per regnanti e dignitari, sfruttando l’occasione.
Ci sono anche resoconti giapponesi su questa supernova: descrivono la
commozione della popolazione e gli esorcismi dei sacerdoti.
Tuttavia… non vedo perché dovremmo essere preoccupati…
Ma Jirou legge il mio dubbio e si spiega meglio:
–Rai’an­sama, l’apparizione di un segno tanto chiaro in cielo si accop­
pia alla tua venuta. Per noi è ovvio che queste due cose non hanno nessuna
relazione; ma la gente non lo capirà.
–Già la presenza di uno straniero, assieme ad un evento tanto singolare,
sarebbe interpretata come un segno nefasto. Se poi questo straniero si rive­
lasse capace di cose straordinarie, fosse anche guarire ogni malattia…–
Guardo in basso e sospiro. Jirou ha ragione.
Proprio in quel momento, il comunicatore suona. Lo attivo, e dall’altra
parte appare Douzen.
–L’avete vista?– attacca senza salutare. Ancora una volta, ha l’aria
stanca.
–Se ti riferisci alla macchia in cielo…–
–Chiamarla macchia è un po’ riduttivo. È più grande della luna.–
–…beh, sì, l’abbiamo vista. Perché me lo chiedi?–
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–Per un momento… ho sperato che si vedesse solo qui…– Douzen
abbassa lo sguardo; quasi come se si vergognasse di aver pensato una cosa
tanto sciocca. Che poi, così sciocca non è, per chi non ha la più pallida idea
di cosa sta vedendo. Dopo aver ripreso il suo contegno, continua:
–Qui a Nara la situazione è tesa. Qualcuno aveva già notato una luce
strana in cielo nei giorni scorsi, ma stanotte è così luminosa che sembra
quasi giorno.–
–Sì… lo vedo…–
–Sto mandando tutti i monaci a tranquillizzare la gente per le strade,
ma… ho notizia di alcuni templi che si sono già visti forzare i cancelli.–
Douzen fa una lunga pausa, come se si aspettasse che io dica qualcosa.
Quando capisce che preferirei tacere, mi incita: –Tu non ne sai nulla?–
–So che cos’è, ma… spiegartelo è un po’ difficile…–
Douzen sospira. È evidente che la risposta non lo soddisfa, ma sembra
avere fretta.
–Puoi dirmi almeno quanto durerà?–
–Dunque… credo che già domani, al massimo domani l’altro, sarà
molto meno luminosa. Fra un mese dovrebbe apparire fumosa e sbiadita,
come… come una grossa cometa, e fra sei mesi, forse nove, sarà completa­
mente scomparsa.–
Douzen annuisce. Non capisco se è sollevato o ancora più preoccupato;
forse, né l’uno né l’altro. Ma credo che sia contento di avere un ordine di
grandezza della durata di questa emergenza.
Comprendo che Douzen vorrebbe terminare la comunicazione, e preci­
pitarsi a tranquillizzare la gente di Nara, ma… stringe il labbro, quasi se lo
morde… e poi, titubante:
–Rai’an­sama…–
–Sì, Douzen­geika?–
–Questa cosa… è qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci?–
Gli sorrido e scuoto la testa.
–No, Douzen­geika. È una cosa naturale. Succede ogni cento o duecento
anni; anche se questa è più grande e luminosa del solito.–
Vedo che, anche se sollevato, sul volto di Douzen rimane un’ombra di
preoccupazione.
–Mi credi se ti dico che è una stella che sta morendo?–
Douzen sgrana gli occhi e annuisce piano. Vedo che vorrebbe farmi
altre domande, ma a quanto pare, non è t