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INDICE Introduzione p. 4 Capitolo 1: Stati vegetativi e dintorni p. 8 1. STATI VEGETATIVI: UN PO’ DI STORIA p. 9 1.1. STATI DI MINIMA COSCIENZA p. 13 2. CRITERI DIAGNOSTICI p. 15 2.1. DIAGNOSI DIFFERENZIALE p. 18 2.1.1. SCALE DI VALUTAZIONE p. 19 3. STIMOLAZIONE SENSORIALE E COSCIENZA p. 20 4. MISURAZIONE DELL’ESPERIENZA FENOMENICA p. 22 Capitolo 2: Un problema di coscienza. Indagini filosofiche sull’identità di stati vegetativi e minima coscienza p. 27 1. UNA QUESTIONE DI IDENTITÀ: DALL’IDENTITÀ ALL’IDENTITÀ DIACRONICA p. 31 2. LA COSCIENZA p. 44 3. QUANTO È VEGETATIVO UNO STATO VEGETATIVO? p. 48 4. SENSAZIONE E PERCEZIONE: p. 51 LA REALTÀ OGGETTIVA E LA REALTÀ FENOMENICA Capitolo 3: L’intervento musicoterapico su pazienti in stato vegetativo p. 57 1. L’INTERVENTO SU SV E MCS: CHE TIPO DI LINGUAGGIO? p. 61 2. PERCHÉ LA STIMOLAZIONE SONORA? p. 66 1 3. L’ASCOLTO p. 70 3.1. IL SILENZIO p. 72 4. MUSICOTERAPIA E STATI VEGETATIVI p. 73 4.1. OBIETTIVI DELL’INTERVENTO MUSICOTERAPICO CON PAZIENTI SV p. 76 Capitolo 4: Intrinseco e Culturale p. 79 1. LA TEORIA DELLA MUSICALITÀ INTRINSECA p. 80 1.1. PSICOLOGIA DELL’ARTE p. 81 EVOLUZIONISTICA, NEUROESTETICA, BIOFILIA 1.2. MUSICALITÀ COMUNICATIVA E MUSICALITÀ INTRINSECA p. 83 1.3. RIPETIZIONE, VARIAZIONE, AFFETTI VITALI: LA DINAMICA DELL’INTERAZIONE MUSICOTERAPICA p. 86 2. DALLA MUSICALITÀ INTRINSECA ALL’ISO BENENZONIANO p. 93 3. PRECISAZIONI p. 100 Capitolo 5: Tutti abbiamo un corpo quindi tutti abbiamo la possibilità di comunicare p. 102 1. UTILIZZO DELLA MUSICALITÀ INTRINSECA NELL’INTERVENTO MUSICOTERAPICO CON PAZIENTI IN STATO VEGETATIVO (E MCS). p. 105 1.1. LA PULSAZIONE ISOCRONA: OCEAN DRUM E DJEMBÈ p. 107 1.2. VOLUME, TONO, TIMBRO: CHITARRA E METALLOFONI p. 109 1.3. LA VOCE p. 111 2. ESPERIENZE SUL CAMPO: STATI VEGETATIVI, MINIMA COSCIENZA E p. 114 DISABILITÀ GRAVE 2.1. STATI VEGETATIVI: ESPERIENZA DI AFFIANCAMENTO AL MUSICOTERAPEUTA MAURO SARCINELLA CON SILVIA, ENZA, LUIGIA; L’ESPERIENZA INDIVIDUALE CON GIAN CARLO. p. 115 2.2. STATI DI MINIMA COSCIENZA: ESPERIENZA DI AFFIANCAMENTO A p. 121 2 MAURO SARCINELLA CON DANIELA, GIANCARLO, SERGIO; ESPERIENZA INDIVIDUALE CON ANDREA B. E ANDREA M. 2.3. DISABILITÀ GRAVE: ESPERIENZA DI AFFIANCAMENTO A MAURO SARCINELLA CON EDVIGE, ANNA E LAURA; ESPERIENZA INDIVIDUALE CON ALBERTO. p. 127 Conclusioni: “ARTE DI ARMONIZZARE I SILENZI” p. 132 Appendice 1: SCALE DI VALUTAZIONE p. 138 Appendice 2: STEINHOFF N., HEINE A., VOGL J., WEISS K., ASCHRAF A., HAJEK P., SCHNIDER P., TUCEK G., A PILOT STUDY INTO THE p. 146 EFFECTS OF MUSIC THERAPY ON DIFFERENT AREAS OF THE BRAIN OF INDIVIDUALS WITH UNRESPONSIVE WAKEFULLNESS SYNDROME. Bibliografia p. 153 3 Introduzione Ha senso una vita in stato vegetativo? Mi sono posta spesso questa domanda, prima e dopo la mia esperienza di tirocinio. Inizialmente credevo che avesse un senso, che lo stato vegetativo godesse della dignità di una vita; lo credevo in maniera istintiva, per partito preso: sostenitrice della causa pro-vita a prescindere. Poi, dopo essere entrata in punta di piedi in quel mondo pieno di vite in stand-by, ho iniziato a pensare che non avesse poi molto senso quella condizione esistenziale; addirittura ho ritenuto che non fosse nemmeno vita: né per i pazienti, né per i loro famigliari. Oggi, sono tornata a ricredere nel valore di quella vita, ma con una consapevolezza diversa. È vero, gli stati vegetativi sono una patologia difficilmente inquadrabile, descrivibile e decifrabile; non sono nemmeno una vera e propria patologia. Essi sono il prodotto dell’evoluzione della tecnologia medica: un tempo quelle stesse persone sarebbero morte. Nel Capitolo 1 (Stati vegetativi e dintorni) viene proposto un excursus storico della sindrome dalle sue prime definizioni al dibattito contemporaneo, evidenziandone la difficoltà di riconoscimento e i criteri diagnostici utilizzati per stabilire la consistenza dello stato in questione e definire, attraverso le scale di valutazione, se si tratti di uno stato vegetativo effettivo o di una evoluzione di esso – stato di minima coscienza. Gli stati vegetativi sono una nuova identità che – in quanto tale – ha bisogno di una nuova definizione; questa, sebbene debba necessariamente fare riferimento alla definizione delle identità già esistenti (gli esseri umani), non deve altresì farsi limitare da essa. Nel Capitolo 2 (Un problema di coscienza. Indagini filosofiche sull’identità di stati vegetativi e minima coscienza) si affronta proprio la questione dell’identità – introducendo così una parentesi di natura propriamente filosofica – in riferimento agli stati vegetativi; si ha, infatti, bisogno di una nuova identità, che tenga conto dell’individuo in termini diacronici e che quindi consideri lo stato vegetativo niente più di uno ‘stadio’ della vita della persona. Ma si ha necessità anche di un nuovo modo di pensare ad essi: quello che facciamo oggi, erroneamente, è pensare ancora agli stati vegetativi dal nostro punto di vista, di esseri umani deambulanti e comunicanti verbalmente, e di rapportarci – dunque – ad essi come 4 esseri umani manchevoli di queste cose, o di “un qualcosa” essenziale alla vita umana. La nuova dimensione dell’individuo in stato vegetativo, che è ‘nuova’ nella misura in cui anch’io sono ‘nuova’ rispetto a com’ero all’età di 7 anni (e non potevo prevedere che sarei diventata quello che sono), deve essere ridefinita, partendo – nei limiti del possibile – dal suo punto di vista, o meglio, partendo a descriverla e pensarla senza pregiudizi. Il fatto di guardare al paziente dal suo punto di vista, ridefinendo la nuova dimensione dell’individuo in stato vegetativo a partire dal paziente, non può che giovare alle stesse attività di intervento terapeutico, perché ci rende più vicini al benessere dell’individuo, che non è necessariamente il benessere delle persone che gli stanno intorno (terapisti e operatori compresi). A tal proposito ho in mente un episodio accaduto in una delle due cliniche in cui ho prestato tirocinio, riferito all’utilizzo del puntatore oculare su un ragazzo MCS di 28 anni. La scelta del puntatore oculare su un individuo che potenzialmente può fare ancora molti progressi a livello riabilitativo, è una scelta comoda, che da soddisfazioni immediate ma che pone fine all’evoluzione riabilitativa. Quella scelta mette un punto, è come dire che A. è finito. Ricordo bene gli applausi e le risate di felicità della madre nel primo giorno di prova del puntatore; dev’essere stata una soddisfazione infinita riuscire a capire il proprio figlio. Non importa che le parole fossero composte lettera per lettera, non importa che non fosse la voce di suo figlio a pronunciarle ma un computer: ciò che contava era che, finalmente, A. aveva detto “ciao”. Quello di cui nè la madre (giustificatamente) né la logopedista (non altrettanto giustificata) si sono rese conto, è che quella è stata una forzatura, una decisione dannosa per A., perché lo ha posto di fronte all’evidenza che quello è un metodo per comunicare e quindi non vi è più la necessità di fare alcuno sforzo, alcun tipo di progresso. Finalmente A. è riuscito a farsi capire, la storia è finita. Perché è tanto più difficile per gli altri (genitori, amici, operatori), provare a capire A. Nello stesso capitolo si affronta la questione spinosa della coscienza, uno degli elementi determinanti nella definizione di questa sindrome: sempre restando in ambito filosofico, si percorrono alcune definizioni di coscienza (sostenendo, in ultima istanza, la posizione del pragmatismo deweyano, per non parlare più di una sequenza di stati di coscienza interni alla mente ma, piuttosto, di un flusso di eventi che esistono per tutti gli osservatori e che, in generale, possono essere pubblicamente sperimentati da tutti); si argomenta il rapporto sussistente tra la coscienza e la 5 consapevolezza – spesso utilizzata come sinonimo – evidenziando il carattere intrinsecamente soggettivo di quest’ultima. La letteratura filosofico-psicologica ci mostra l’inafferrabilità della coscienza e l’inevitabile discrepanza esistente tra l’essere coscienti e il manifestare all’esterno tale condizione; questione tutt’altro che sottovalutabile per una tipologia di pazienti quali sono gli stati vegetativi – per i quali si aggiunge un’elevata possibilità di confondere comportamenti reattivi automatici con comportamenti intenzionali e viceversa. In conclusione al capitolo, si analizza il rapporto tra realtà oggettiva e realtà fenomenica, mettendo a confronto sensazione e percezione – legge Weber-Fechner. Il Capitolo 3 (L’intervento musicoterapico su pazienti in stato vegetativo) svolge un po’ la funzione di preambolo al capitolo successivo, ponendo una serie di quesiti riguardandi il linguaggio musicoterapico e la funzionalità della stimolazione sonora con gli stati vegetativi; si analizzano, inoltre, alcuni concetti importanti per l’intervento musicoterapico (specialmente in questo ambito di applicazione), come il silenzio e l’ascolto e si conclude con un’analisi di quali possono essere gli obiettivi di un intervento di questo tipo su pazienti vegetativi. Il Capitolo 4 (Intrinseco e culturale) costituisce il cuore della dissertazione e ne evidenza la natura teorica1; in esso si analizza la teoria della musicalità intrinseca (ambito antropologico) e si evidenziano diversi contributi (psicologia evoluzionistica, neuroestetica, biofilia dell’arte) che suggellano le tesi della musicalità intrinseca, fino ad arrivare ad un confronto diretto tra essa e l’ISO benenzoniano, specialmente in riferimento agli stati vegetativi. Una volta argomentata l’importanza della musicalità intrinseca nell’applicazione della musicoterapia ai pazienti vegetativi, si giunge ad un capitolo conclusivo, il Capitolo 5 (Tutti abbiamo un corpo, quindi tutti abbiamo la possibilità di comunicare), in cui si fanno una serie di resoconti di esperienze pratiche (in sede di tirocinio) che permetto di analizzare elementi fondamentali quali la pulsazione isocrona, volume-tono-timbro e la voce. 1 L’intento iniziale non era quello di scrivere una dissertazione di questo tipo, ma dopo tre mesi di raccolta dati mi sono resa conto della difficoltà di poter sostenere una tesi pratica sulla base di risultati limitati nel tempo (sarebbero serviti tre anni, non tre mesi) e nel numero di soggetti (quattro pazienti). Per questo ho optato per la stesura di una dissertazione più teorica, ma con la funzione di diventare stimolo e spunto per sperimentazioni pratiche future: una sorta di ‘studio pilota teorico’. 6 Per concludere, l’Appendice 1 spiega in maniera più dettagliata le tre principali scale di valutazione utilizzate in ambito clinico per definire lo stato vegetativo (Glasgow Coma Scale, Disability Rating Scale, Coma Near Coma Scale). L’Appendice 2, invece, riporta un articolo di recente pubblicazione sugli effetti della musicoterapia nelle differenti aree cerebrali degli individui in stato vegetativo – o sindrome da vigilanza non responsiva (Steinhoff N., Heine A., Vogl J., Weiss K., Aschraf A., Hajek P., Schnider P., Tucek G., A pilot study into the effects of music therapy on different areas of the brain of individuals with unresponsive wakefullness syndrome, Frontiers in Neuroscience, Vol.9, August 2015). Nell’intervento musicoterapico, proprio per la sua natura preverbale e per l’utilizzo di uno strumento comunicativo non-verbale, ho riscontrato una buona roccia cui aggrapparsi e su cui confidare nella creazione di un rapporto relazione con questa tipologia molto delicata di pazienti. Considero la musicoterapia uno dei pochi interventi in grado di partire dal punto di vista del paziente, proprio perché la musicoterapia è un intervento che ha come assioma l’assenza di pregiudizio: il buon musicoterapista/musicoterapeuta deve porsi nei confronti del paziente in condizione di totale ascolto, entrare in sintonizzazione con lui, accordarsi empaticamente e instaurare un dialogo che parta dall’altro (il paziente) e che parli di lui. Music is not just what it is, but is that what it means to the people2. 2 Steinhoff N., Heine A., Vogl J., Weiss K., Aschraf A., Hajek P., Schnider P., Tucek G. (2015), pp. 2. 7 Capitolo 1 Stati Vegetativi e dintorni. “La musica ci può curare da tutto quello che è stato detto.” (Mercédès Pavlicevic)3 In reparto si respira un’aria strana. Gli operatori parlano e scherzano tra di loro; qualcuno di essi, passando per i corridoi, incontra una carrozzina e saluta Andrea senza soffermarsi troppo. Altri lo sfiorano senza distinguerlo dal resto dell’arredamento. Perché Andrea è un po’ così: silenzioso, immobile, posizionato di fronte alla finestra ad ammirare il bel panorama, ma con la testa orientata altrove, verso il distributore dell’acqua e la macchinetta del caffè. Andrea ti fissa quando passi, a volte chiude gli occhi. Lo stesso fa Giancarlo, anche se un po’ meno di Andrea. Giancarlo è più rumoroso: porta sempre con sè un macchinario che mantiene sotto controllo la saturazione; lo senti Giancarlo, da lontano: bip, bip. Giancarlo e Andrea, così simili e così diversi sotto tutti gli aspetti – come qualsiasi essere umano, mi verrebbe da dire. Il primo, uno stato vegetativo, il secondo, una minima coscienza: due diagnosi molto simili, quanto profondamente diverse, ma entrambe ai confini di quella che siamo soliti definire “vita”. Alcuni terapisti decidono di non dedicare troppo tempo ai pazienti in stato vegetativo perché preferiscono dedicarlo alle minime coscienze, laddove il contributo riabilitativo, a detta loro, ha un senso. «La concezione standard dà per scontato che la perdita delle funzioni cognitive precluda radicalmente la relazionalità, lo svolgere un ruolo sociale, l’essere in grado di scambiare significati, e perciò concepisce la qualità di vita di questi pazienti unicamente come cura del benessere e assenza di dolore: occorre invece mirare a preservare e recuperare, per quanto possibile, quelle capacità comunicative e relazionali che consentono anche al paziente demente, per lungo tratto della sua esperienza di malattia, di intrattenere relazioni significative4». 3 4 Pavlicevic M., (1997), pp. 182. Reichlin M., (2012) pp. 97-98 8 1.1. Stati Vegetativi: un po’ di storia Il progresso delle conoscenze, delle tecniche nel campo della rianimazione, e il miglioramento qualitativo dell’assistenza infermieristica, hanno accresciuto l’aspettativa di vita degli individui in stato vegetativo5. Lo stato vegetativo è forse il meno capito e più controverso fenomeno moderno, (praticamente sconosciuto fino a qualche decennio fa) prodotto dalla rianimazione e dalla terapia intensiva. A differenza del coma, in cui la perdita di vigilanza è conseguente alla depressione del tronco encefalo, nello stato vegetativo (SV) la funzione del tronco è conservata, ma viene a mancare l’interazione tra tronco encefalo, talamo e corteccia cerebrale6. Lo SV di solito si sviluppa dopo un periodo di coma di durata variabile, ma può anche seguire direttamente l’evento lesivo. Può portare al decesso o progredire come spesso accade verso uno stato vegetativo persistente (SVP)7. Quando si parla di stati vegetativi, si fa riferimento a persone8 che non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri bisogni primari, e per questo necessitano di essere sostenute, accudite, anche nelle loro funzioni più elementari. Qualsiasi discorso intorno a questa particolare categoria di pazienti, risulta confuso, estremamente eterogeneo e incompleto. Attualmente, in Italia, non esistono indagini multidisciplinari in grado di costrituire una valido (e condiviso) punto di riferimento per l’attività diagnostica e terapeutica dello stato vegetativo9. La multidisciplinarità è una precondizione essenziale all’approccio delle patologie vegetative perché è solo il 5 Secondo l’articolo del Ministero della Salute, “in Italia, i pazienti in condizioni di bassa responsività sono circa 1500.” 6 Defanti C.A., (1996). 7 Nei casi di eziologia traumatica, lo stato vegetativo viene definito ‘persistente’ quando si prolunga per un mese, mentre ‘permanente’ qualora persista per un anno; quest’ultimo aggettivo indica che l’esistenza di una probabilità di recupero è virtualmente nulla. Per tale motivo vi è stata la richiesta di modificare la terminologia stessa con cui si definisce lo stato vegetativo. Qualcuno addirittura proponeva di modificare proprio il nome. Vedi Defanti C.A., (1996). 8 Definendole ‘persone’ ci poniamo già in maniera evidente nella posizione di chi sostiene il diritto di esistenza di questi individui, oltre al fatto di considerarli persone aventi diritti di un certo tipo. Dichiariamo la nostra considerazione della dignità di questa particolare condizione di vita e tutto quel che ne consegue e che si svilupperà più avanti nel capitolo a proposito dell’identità personale dello SV e il discorso sulla coscienza. 9 Esistono solo riferimenti a questioni che potremmo definire parziali – sebbene siano di grande importanza – come la nutrizione e l’idratazione dei soggetti a bassa responsività (legato a questioni che nascono in seno al crescente dibattito bioetico). 9 contributo di diversi punti di vista che può fare luce su una complessa condizione patologica qual è lo stato vegetativo. Il problema, però, non può essere ridotto ad una questione nazionale; nonostante gli sforzi di anni per arrivare ad una nomenclatura condivisa, anche a livello internazionale il tema degli stati vegetativi porta con sé numerosi equivoci, diatribe e incompletezze. Per fare un esempio, è stato più volte proposto di modificare la connotazione ‘vegetativo’ – sebbene si riferisca al fatto che in questi soggetti restano presenti le funzioni vegetative (respiro, minzione) – in quanto il termine porta con sé un’accezione negativa/dispregiativa, mentre il sostantivo ‘stato’ porta a leggere una condizione cronica e irreversibile; per questo, alcuni autori, suggeriscono di utilizzare una differente sigla: sindrome da vigilanza non responsiva (UWS – unresponsive wakefullness syndrome). Lo stato vegetativo è, appunto, uno stadio cui si può giungere in seguito al coma. Dopo alcune settimane di coma, infatti, alcuni pazienti iniziano ad aprire spontaneamente gli occhi e a mostrare fasi irregolari di sonno-veglia durante la giornata, pur non rispondendo ad alcuna richiesta di comportamento attivo. Nello stato vegetativo, vigilanza e consapevolezza sono disassociati – per questo si parla di ‘wakefullness without awareness’ (vigilanza senza consapevolezza). Questa condizione di dissociazione è stata fin dagli anni Quaranta denominata in maniera differente: coma apallico, mutismo acinetico, coma permanente, coma vegetativo10; ma oggi si preferisce usare la denominazione di stato vegetativo (SV). Il termine ha origine nel 1963, quando nell’articolo Etats frontiers entre la vie et la mort en neuron-tramatologie11 comparve ‘vie vegetative’ in riferimento ad un sottogruppo di sopavvissuti a gravi danni cerebrali. Successivamente, nel 1971, Vapalahti M. e Troupp H. parlarono di ‘vegetative survival’; l’anno seguente, nel tentativo di porre 10 Il termine sindrome apallica fu coniato nel 1940 da Kretschmer, il quale ipotizzava che per il realizzarsi di questa condizione clinica fosse necessaria la perdita della funzione corticale di entrambi gli emisferi con preservazione della funzione del troncoencefalo (il termine è presto caduto in disuso fuori dall’area tedesca); si tratta di una definizione non corrispondente alla realtà clinica: come dimostrano i dati di imaging funzionale cerebrale, esiste un’amplia varietà di situazioni rispetto al danno corticale dei pazienti in stato vegetativo. Il termine mutismo acinetico è stato introdotto, invece, nel 1941 da Cairns per descrivere un paziente con un tumore cistico del terzo ventricolo che presentava una netta riduzione dei movimenti e del linguaggio, mentre era adeguatamente vigile e capace di seguire con lo sguardo; tale terminologia viene utilizzata, a volte, come sottocategoria dello stato di minima coscienza. Il termine coma vigile – o vegetativo – implica un paradosso semantico. Si veda Plum F, Posner J., (1982). 11 Arnould M, Vigouroux R, Vigouroux M., (1963);6:1–21. 10 un ordine alla confusione che andava delineandosi, Bryan Jennett e Fred Plum introdussero il concetto di persistent vegetative state per descrivere quei pazienti che presentavano funzioni vegetative e stato di veglia post-coma in assenza di manifestazioni comportamentali in risposta a stimoli esterni – individui che erano emersi dal coma e avevano riguadagnato una condizione di veglia apparente senza consapevolezza (appunto, wakefulness withouth awareness). Dicono Jennett e Plum: «talvolta possono notarsi frammenti di movimenti coordinati quali lo sfregarsi, o persino movimenti delle mani indirizzati verso gli stimoli nocivi…»12. Si tratta di una condizione di vigilanza in assenza di consapevolezza. Questa caratterizzazione poggia sulla distinzione che viene tracciata, a partire dal primo lavoro di Plum e Posner (1966), tra due elementi essenziale della coscienza: la vigilanza – essere svegli, avere un ciclo sonno-veglia – e la consapevolezza – di sé e del mondo esterno13. Non essendoci, al tempo, criteri sufficienti per stabilire l’irreversibilità della condizione, optarono per il termine persistente in quanto più prudente di permanente o irreversibile e più sufficiente/adeguato di prolungato. Secondo Plum e Posner, la caratteristica essenziale di questa condizione è l’assenza di una risposta adattiva rispetto all’ambiente esterno e di una mente funzionante (sia nel ricevere che nel fornire informazioni) in pazienti che hanno lunghi periodi di veglia14. Dopo l’articolo del 1972 di Jennet e Plum sono state proposte altre terminologie per superare l’insoddisfazione prodotta dai termini coniati da loro – prolonged post-traumatic unawareness, post-coma unawareness, post-coma unresponsiveness. Nel 1989 la World Medical Association definisce lo SV (persistente) come uno stato di cronica perdita di coscienza, diagnosticabile quando si verifichi una ‘assenza di consapevolezza per almeno 12 mesi’. Negli anni a seguire diverse pubblicazioni – di associazioni quali ‘Council on Scientific Affairs and Council on Ethical and Judicial Affairs of the American Medical Association’, ‘American Neurological Association Committeee on Ethical Affairs’, ‘American Accademy of Neurology’ – concentrano l’attenzione sui mesi di assenza di consapevolezza, portando una variazione – a seconda delle pubblicazioni – da un mese a un anno; tutto ciò porta molta 12 Jennett B., Plum F., (1972); 1(7753): 734-7. Reichlin M., (2012)pp. 6. 14 Posner J.B., Saper C.B., Schiff N.D., Plum F., (2007). 13 11 confusione. Nel 1994, la Multi-society Task Force (MSTF) pubblica un importante documento sul New England Journal of Medicine, in cui si definisce lo stato vegetativo persistente come «uno stato di incoscienza sveglia che duri più di alcune settimane»15. Questo generò ulteriore confusione terminologica attorno allo stato vegetativo persistente, anche in considerazione della tendenza di molti a dare, ad esso, lo stesso significato di stato vegetativo cronico o permanente16. In disaccordo con l’American Academy of Neurology, la British Medical Association pubblicava nel 1996 le sue linee guida, utilizzando l’aggettivo persistente al posto di permanente (utilizzato dalla MSTF per definire la condizione di irreversibilità)17. Ancora, nel 2003, il Royal College of Physicians of London definisce lo stato vegetativo persistente come uno stato vegetativo perdurante per settimane o più. La storiografia della definizione di SV (stato vegetativo) porta con sé numerose controversie; lo stesso termine SV non è universalmente accolto – dalla comunità scientifica – sia per obiezioni di carattere semantico, sia per il persistere dell’uso di precedenti definizioni (sindrome apallica, coma vigile, mutismo acinetico) dello stesso tipo di pazienti, malgrado la loro non completa corrispondenza con i dati della ricerca scientifica; sia, infine, per il tentativo di introdurre nuove terminologie, benchè imprecise scientificamente e non sufficientemente condivise dalla comunità scientifica18. Oltre a trovare una definizione allo stato vegetativo, occorre distinguerlo e differenziarlo dagli altri stati di vario livello neurologico (o coscienza minima)19, sebbene la linea di demarcazione tra lo SV e gli altri stati di coscienza ridotta sia molto sottile e sfumata. La diagnosi clinica di SV non identifica di per sé una condizione oggettivamente diversa e separata dalla minima coscienza ma, piuttosto, si evidenzia un continuum degli stati di coscienza ridotta, che colloca questa 15 Multi-Society Task Force on PVS, (1994); 330: pp.1572–1579. La MSTF precisava – nel lavoro del 1994 – che se la causa è traumatica il recupero della coscienza è improbabile dopo 12 mesi, e se la causa non è traumatica la ripresa di coscienza dopo 3 mesi è estremamente rara. Venne introdotto il concetto di stato vegetativo permanente, considerando permanente uno stato che persiste oltre 12 mesi da un danno cerebrale traumatico e oltre 3 mesi da un danno cerebrale non traumatico. La sigla PVS è dunque ambigua: mentre persistente indica una diagnosi, permamente indica una prognosi di irreversibilità – due cose profondamente differenti. Vedi Carusi D. (2013). 17 Jennett B., Teasdale G., Braakman R., (1979); 4: pp.283-9. 18 Borthwick C.J., Crossley R., (2004); 19: pp.381-9. 19 Quei pazienti che, pur non essendo pienamente coscienti, non corrispondono ai criteri diagnostici per lo stato vegetativo, dimostrano la presenza di consapevolezza, sebbene in modo minimale e non costantemente riproducibile. 16 12 tipologia di pazienti nell’ampio spettro delle disabilità. 1.2. Stati di Minima Coscienza I pazienti in stato vegetativo riacquistano la coscienza attraverso uno stato transitorio o definitivo, chiamato stato di minima coscienza – Minimally Conscious State – importante da riconoscere per la riabilitazione: è la condizione propria di quei pazienti che dimostrano limitati ed poco consistenti segni di consapevolezza. Come nello SV, la diagnosi deriva da specifiche e ripetute valutazioni cliniche; il recupero dipende dal tipo e dalla gravità della neuropatologia: i casi non traumatici hanno una prognosi peggiore di quelli traumatici. La maggioranza dei pazienti che sono nella condizione di minima coscienza a 12 mesi dall’offesa, di qualsiasi natura, può recuperare qualcosa, ma non va oltre lo stato di grave disabilità.20 La categoria di Minimally Conscious State è stata coniata dall’Aspen Consensus Group nel tentativo di introdurre e definire con un solo termine diagnostico tutte le condizioni cliniche successive allo SV – caratterizzate da severa alterazione della coscienza con presenza di una minima ma definita manifestazione comportamentale di relazione con il contesto ambientale: in altre parole, il paziente riesce ad eseguire ordini semplici, anche se in modo incostante e fluttuante. Allo stato di minima coscienza vanno attribuiti verosimilmente i pazienti con gravi disabilità posttraumatiche e con segni di comportamento cosciente (several post-traumatic dementia). Secondo la definizione dell’Aspen Consensus Group, i pazienti in stato di minima coscienza presentano comportamenti inconsistenti, seppur riproducibili o di distinguibili da un comportamento riflesso, ma attraverso i quali non è sufficiente affermare la presenza di consapevolezza21. Per quanto concerne lo stato permanente, la Commissione ne sottolinea la sola valenza probabilistica – come d’altronde veniva dichiarato anche nel documento della MSTF22. Giacinto J.T., Zasler N.D., et Al., (1997),12: pp. 79-89. In un certo senso, anche le risposte riflesse che si riscontrano nello SV si possono definire minimamente responsive 22 Multi-Society Task Force on PVS, (1994); 330, pp.1994:21: 1499-508. Il loro studio si caratterizza per una casistica non particolarmente ampia, fondata su un esame retrospettio di studi non controllati, priva di follow-up dopo i 12 mesi. 20 21 13 È poca la ricerca solida che abbia documentato il recupero a lungo termine dopo un danno cerebrale traumatico e/o a distanza di 3-6 mesi dopo un danno cerebrale ipossico-ischemico, a seguito di numerose limitazioni metodologiche, incluso la dimensione relativamente ridotta del campione di popolazioni studiate. Allo stesso modo è ancora molto scarsa la ricerca basata sull’evidenza riguardo ai metodi di trattamento per persone in SV permanente, per essere certi che non esistano interventi in grado di ribaltare questa condizione. Sappiamo che vi sonon pazienti che riemergono dopo oltre un anno dal trauma e perciò il termine permanente è intrisecamente inesatto (dal punto linguistico e della realtà medica)23. Concordo con Shewmon nel pensare che il vero problema circa gli stati vegetativi sia un problema di definizione, dovuto in particolar modo al fatto che vengano utilizzati almeno 3 diversi costrutti per la definizione dello stato vegetativo: l’anatomia, il comportamento e la coscienza (Anatomy, Behaviour, Consciousness); non esiste una concordanza, punto per punto, fra questi tre costrutti – il che comporta un ampio margine di indeterminatezza proprio nella definizione stessa dello SV24. Dal punto di vista della definizione anatomica, non possiamo identificare univocamente lo SV, in quanto, sotto il profilo neuropatologico, vi è un’ampia sovrapposizione fra SV e grave disabilità: per esempio – come spiega Piperino R. – un danno assonale diffuso (DAI) di grado 2-3 è presente nel 71% dei pazienti in SV ma anche nel 30% dei pazienti con disabilità severa 25 . Stephen J. Nelson, il neuropatologo che ha condotto l’esame autoptico di Terry Schiavo, notava che «The persistent vegetative state, and minimally conscious state, are clinical diagnoses, not pathologic ones»… «neuropathologic examination alone (…) cannot prove or disprove a diagnosis of persistent vegetative state or minimally conscious state»26. Similmente anche lo stesso Jennet (2002) afferma che il termine stato vegetativo descrive semplicemente un comportamento osservato, senza implicare una patologia strutturale specifica. 23 Zadler N., (2004); 19: pp.285-92. Giacinto J.T., Kalmar K., (1997), 12(4), pp.35-51. 25 Piperino R., Lo stato vegetativo, in Carusi D. (2013), pp. 25. 26 Borthwick C.J., Crossley R., (2004), 19, pp.381-389. «Lo stato vegetativo persistente, e lo stato di minima coscienza, sono diagnosi cliniche, non patologiche»…«l’esame neuropatologico da solo non può dimostrare o confutare una diagnosi di stato vegetativo persistente o stato di minima coscienza» 24 14 L’assenza di comportamenti motori intenzionali (behaviour) costituisce, però, il punto cardine delle definizioni diagnostiche più diffusamente accettate, nonostante le incertezze siano presenti e numerose: assenza di movimenti intenzionali non significa assenza di movimenti tout court. L’importante distinzione tra risposte riflesse e risposte di orientamento-localizzazione è spesso dubbia e/o convenzionale: a volte attribuiamo la natura di attività riflessa a risposte motorie nelle quali non siamo in gradi di riconoscere con certezza un significato comportamentale27. Senza dimenticare che la responsività dei pazienti può essere, spesso, contrastata dai farmaci; infine, non si può trascurare che conta molto chi interagisce con il paziente (e anche come). Il costrutto comportamentale, sebbene rappresenti l’essenza delle definizioni diagnostiche più diffuse, presenta molti aspetti di incertezza e porta con sé una elevata frequenza di errore diagnostico (40% dei casi). Il costrutto relativo alla coscienza (consciousness), è il più indefinibile e non misurabile. Non abbiamo alcun modo effettivo di determinare se un certo paziente ha una covert consciousness (una coscienza segreta, nascosta), o se ha una coscienza inconsapevole. 2.1. Criteri diasgnostici28 Per quanto concerne i criteri diagnostici attualmente usati per identificare gli stati vegetativi e le GCA (Gravi Cerebrolesioni Acquisite), si fa riferimento a quelli internazionalmente accettati dalla comunità scientifica 29 , che definisce lo stato vegetativo una condizione caratterizzata da: § completa perdita della coscienza di sé e di consapevolezza dell’ambiente § recupero della ciclicità del ritmo sonno-veglia § conservazione, più o meno completa, delle funzioni ipotalamiche e troncoencefaliche autonome30 27 Piperino R., Lo stato vegetativo, in Carusi D. (2013), pp.26 Royal College of Physicians of London, (2003). 29 American Congress od Rehabilitation of Medicine, Arch Phys Med Rehabil, 1995; 76:205-9. 30 Ministero della Salute, (2007); 21: pp.5-25. 28 15 Per poter diagnosticare una condizione di stato vegetativo non deve esserci alcuna evidenza di coscienza di sé o di consapevolezza dell’ambiente ed incapacità di interagire con altri; non devono riscontrarsi comportamenti durevoli, riproducibili, finalizzati o volontari in risposta a stimolazioni, produzione o comprensione verbale. Si possono, invece, riscontrare l’apertura degli occhi, il pattern sonno-veglia, un EEG più o meno rudimentale, delle funzioni vitali autonome (respiro, circolo), l’incontinenza vesciale/rettale e deficit di vario grado della funzionalità dei nervi cranici; inoltre, schemi motori primitivi, rigidità/spasticità e postura patologiche. La vigilanza è spesso compatibile con comportamenti reattivi automatici (risposta a stimoli esterni di tipo doloroso – uditivo, visivo), indipendenti da ogni intenzione cosciente o forma di controllo volontario; un controllo che presuppone appunto la consapevolezza. Lo stato vegetativo è definito dalla separazione di questi due elementi ordinariamente compresenti nella coscienza (mentre il coma è una condizione neurologica in cui mancano entrambe le caratteristiche di coscienza – vigilanza e consapevolezza). La presentazione del paziente in stato vegetativo da parte della comunità scientifica, è la seguente: - giace, apparentemente incosciente, anche ad occhi aperti - presenta funzioni cardiocircolatorie e respiratorie, termoregolazione, conserva funzioni renali e gastrointestinali - non necessita di tecnologie di supporto - mostra (alla TC e alla RMN) segni più o meno marcati di danno focale diffuso - presenta alla SPECT gradi variabili di riduzione sovrasensoriali di profusione cerebrale - evidenzia, alla PET, variabile topografica e gradi variabili di riduzione del metabolismo glucosio - mostra alterazioni variabili dell’attività di EEG31 Per quanto concerne, invece, i criteri diagnostici per l’MCS (stato di minima coscienza): 31 Jennett B., (2002); 73: pp.355-7. 16 § apertura spontanea degli occhi § ritmo sonno-veglia § range di vigilanza (ottundimento – norma) § percezione: riproducibile, ma incosistente § abilità comunicativa riproducibile ma incosistente § range di comunicazione: nessuna risposta – risposta si/no inconsistente – verbalizzazione – gestualità § attivita motoria finalistica: riproducibile ma inconsistente § inseguimento con lo sguardo § comportamenti ed azioni intenzionali (non attività riflessa) sulla stimolazione ambientale § comunicazione funzionale interattiva (uso funzionale di due oggetti diversi, verbalizzazione, scrittura, risposte si/no, uso di comunicazione alternativa o comunicatori facilitanti)32 Per le risposte osservate in stati di minima coscienza, occore tener conto sia della loro consistenza che della loro complessità; possono essere necessarie valutazioni estese e ripetute per determinare se una risposta osservata – quale per esempio un movimento delle dita, o una chiusura degli occhi – si presenta in seguito ad un evento ambientale specifico – la richiesta di muovere le dita o di chiudere gli occhi – o è una semplice coincidenza. Viceversa, per le risposte complesse possono essere sufficienti poche osservazioni per determinarne la consistenza. L’uscita dallo stato di minima coscienza e il recupero verso uno stato superiore avviene lungo un continuum il cui limite superiore è necessariamente arbitrario33. I criteri di valutazione dell’uscita da MCS possono, in alcuni casi, sottovalutare il livello di coscienza. Inoltre, la presenza di afasia, agnosia, aprassia 34 possono rappresentare fattori importanto per la ‘non-responsività’ del paziente. 32 Ministero della Salute, (2007); 21: pp.5-25. Secondo l’Aspen Consensus Group. 34 Incapacità di compiere gesti coordinati. 33 17 2.1.1. Diagnosi differenziale35 Lo SV deve essere distinto da altre condizioni cliniche sovente confuse con esso – sonnolenza patologica, morte cerebrale, coma. Si è precedentemente parlato di stati vegetativi e stati di minima coscienza, ma occorre evidenziare altre condizioni cliniche vicine a queste. Nella fattispecie, la LIS (locked-in sindrome) è una sindrome caratterizzata da immobilità assoluta ad eccezione della motilità oculare; in essa si possono riscontrare una coscienza conservata e la presenza di una chiara consapevolezza di sé e dell’ambiente: i pazienti, sostanzialmente, sono vigili e coscienti ma privi di mobilità spontanea, espressioni facciali e possibilità di vocalizzazione. Nella fase acuta, è molto difficile la valutazione cognitiva ed emotiva del paziente a causa della vigilanza fluttuante e dei movimenti oculari inconsistenti. I criteri diagnostici prevedono: § coscienza presente § ritmo sonno-veglia § quadriplegia § funzione uditiva e visiva conservata § comunicazione: anartria § stato emotivo conservato Sebbene sia stato più volte evidenziato che il passaggio tra i diversi stati di minima coscienza fanno parte di un continuum, dal punto di vista dell’analisi differenziale possiamo distinguere principalmente tre fasi: coma, stato vegetativo, minima coscienza. In mezzo vi sono una infinità di stati peculiari; uno dei principali è la sopra citata condizione neurologica di locked-in, in cui entrambe le caratteristiche della coscienza (vigilanza e consapevolezza) sono preservate, ma risulta inibita la capacità di manifestare, nel comportamento, tale condizione di piena coscienza (a causa di una interruzione delle vie responsabili delle risposte motorie a livello del tronco dell’encefalo). Durante le prime esperienze personali con gli SV, la sensazione che, in realtà, fossero tutti casi di locked-in era molto frequente: quando ti trovi di fronte ad un 35 Giacinto J.T., White J., (2005); 20: pp.30-5. 18 paziente in SV – e inizi a cercare di instaurare un’interazione con esso – si ha proprio questa sensazione di presenza cosciente ma impossibilità di rispondere in maniera comunicativa comprensibile allo stimolo. In diverse occasioni, e da diversi operatori – durante la mia esperienza di tirocinio a Monza – ho sentito la frase “eppure lui/lei c’è” come se vi fosse da parte dell’operatore (che interagisce con il paziente), una sensazione di presenza cosciente, o – tante volte – di una risposta coerente. Differenze tra COMA, SV, MCS, LOOCKED-IN SYNDROME36: 2.1.2. Scale di valutazione Lo SV viene definito come condizione che si verifica in conseguenza di una Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) di natura traumatica, vascolare, anossica o infettiva. La valutazione della persona in SV è basata su criteri diagnostici neurocomportamentali che devono essere tutti presenti (vedi paragrafi precedent). Ai fini della formulazione della diagnosi della condizione di Stato Vegetativo, risulta utile l’applicazione, fra le diverse possibili, di tre scale di valutazione, la Glasgow Coma Scale (GCS) la Disability Rating Scale (DRS)37 38 e la Coma/Near Coma Scale 36 37 Tabella tratta da: The Royal College of Physicians, (2003); 3(3): pp.249-54. Rappaport et al., (1982), 63: pp.118-123. 19 (CNC)39 40 41. Per i dettagli si veda l’Appendice. In accordo con le Linee nazionali42, sono considerati non più corretti i termini persistente e permanente per qualificare lo Stato vegetativo, dal momento che, anche se rari, sono possibili ‘risvegli tardivi’ o qualsiasi tipo di evoluzioni cliniche che possono produrre modificazioni della non responsività. Viene preferita, quindi, la definizione di stato vegetativo prolungato o cronico, associato alla data dell’evento eziologico acuto (‘stato vegetativo dal…’). Benché non sia possibile parlare in assoluto di irreversibilità della condizione, quando la persona in SV raggiunge la stabilità clinica ed entra in una fase di cronicità, deve essere considerata persona con gravissima disabilità. Anche il termine cronicità non definisce il quadro clinico di riferimento, ma solo il decorso temporale della malattia; la presa in carico della persona in SV deve essere attenta a garantire un sistema di monitoraggio delle condizioni di salute e dello stato di coscienza. 3.1. Stimolazione sensoriale e coscienza I principali tentativi adottati per il raggiungimento di un ‘risveglio cognitivo’ dal coma o dallo SV sono: la terapia farmacologia, la stimolazione elettrica del SN e la stimolazione sensitivo sensoriale. Se, nel coma, la meta da raggiungere è il risveglio, nello SV la metà è la ripresa della coscienza e può intendersi in modo compiuto solo quando presenta anche dei contenuti; il semplice risveglio (ossia la vigilanza) – tipico dello SV – non è un traguardo di per sé accettabile. Al fine di ricercare un risveglio dei contenuti della coscienza, la stimolazione neurosensoriale utilizza differenti mezzi e modalità di somministrazione (durata, intensità, frequenza dello stimolo) con lo scopo univoco di interessare uno o più dei cinque sensi. I parametri 38 Wright J. (2000), Disability Rating Scale. The Center for Outcome Measurement in Brain Injury. http://www.tbims.org/␣combi/drs (accessed January 16, 2010 ). 39 Rappaport, M. (2000), The Coma/Near Coma Scale. The Center for Outcome Measurement in Brain Injury. http://www.tbims.org/␣combi/cnc (January 16, 2010 ). 40 Rappaport M., (2005); 15(3/4): pp.442-453. 41 Boldrini P, Magnarella MR, Basaglia N., (1998). 42 “Linee di indirizzo per l’assistenza alle persone in stato vegetativo e in minima coscienza” approvate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano. 20 considerati per misurare l’efficacia di un trattamento di stimolazione sono solitamente o di tipo clinico o di tipo strumentale (EEG, ECG, PE, etc.)43; in realtà, la scarsa standardizzazione, rende il confronto fra i risultati di diversi autori di tali trattamenti di difficile comparazione ed i risultati individuali scarsamente convincenti. Come avviene la stimolazione sensoriale? I sistemi sensoriali registrano gli stimoli ambientali (o interni al corpo) e li trasmettono al cervello – traducendoli in segnali bioelettrici; questi sistemi rispondono a stimoli diversi e specifici e il loro limite è dato dal fatto che siamo sensibili solo agli stimoli per cui abbiamo recettori ed organi di senso. Ogni sistema sensoriale è in grado di registrare lo stimolo (l’energia) per il quale è sensibile – ad esempio, il sistema uditivo sarà sensibile al suono e registrerà questa tipologia di stimoli, mentre il sistema visivo sarà sensibile alla luce (onde elettromagnetiche). Ciò di cui si sta parlando è oggetto di studio della psicoacustica, che si occupa della relazione esistente tra stimoli fisici e le sensazioni interne del soggetto percipiente (variabili fisiche e variabili psicologiche). L’efficacia delle stimolazioni sensitivo-sensoriali (all’interno delle quali consideriamo l’intervento musicoterapico), trova conforto nel fatto che l’assenza di queste può portare rilevanti modificazioni cognitive e comportamentali anche nel soggetto sano, o ne compromette il regolare sviluppo. Inoltre, intensi programmi di stimolazione neurosensoriale possono portare ad un recupero più o meno valido delle funzioni cognitive deficitarie grazie alla neuro plasticità, cioè alla riorganizzazione neuronale centrale. 44 Ovviamente, le performances cognitive possono essere influenzate in maniera efficace qualora siano presenti livelli attentivi e percettivi, seppur minimi; dato questo presupposto, risulta evidente che nello SV tali potenzialità riabilitative risultano fortemente limitate. Va inoltre ricordato che, ipotizzando che stimoli sonoro-musicali possano giungere, in soggetti in SV, ad una elaborazione percettiva superiore, se sono stimoli troppo intensi, alcuni meccanismi di assuefazione potrebbero renderli inefficaci45. Per questo motivo vanno privilegiate 43 Wilson S.L., McMillan T.M., (1993); 3: pp.149-150. Giaquinto S., (1989). 45 Lombardi F., Brianti R., Mazzocchi A., (1998), pp.17-23. 44 21 le stimolazioni neurosensoriali che più si avvicinano, per modalità, intensità e durata alle sollecitazioni normali, come avviene quotidianamente durante le azioni di cura (nursing, sollecitazioni verbali, setting). Lo scopo ultimo di tali metodiche è quello di ridurre la durata dello SV e l’entità del possibile disturbo cognitivo. 4.1. Misurazione dell’esperienza fenomenica Ripercorrendo i sette criteri diagnostici dello stato vegetativo abbiamo: nessuna evidenza della consapevolezza di sé o dell’ambiente e una generica incapacità a interagire con gli altri; nessuna evidenza di un comportamento intenzionale e riproducibile in risposta a stimoli visivi, uditivi, tattili e olfattivi; nessuna evidenza di comprensione o espressione linguistica; vigilanza intermittente manifestata attraverso la presenza del ciclo sonno-veglia; una preservazione sufficiente delle funzioni autonome dell’ipotalamico e del troco cerebrale; incontinenza urinaria e rettale e riflessi spinali e del nervo cranico variabilmente preservati.46 Da questo punto di vista, lo stato vegetativo appare un mondo chiuso e invalicabile a qualsiasi tipo di contatto. Esistono misurazioni (ad esempio le tecniche di neuroimmagine) in grado di provare qualche evidenza sulla presenza/assenza di esperienza fenomenica, in uno stato che, secondo definizione, esclude la possibilità di un’esperienza cosciente?47 L’elettroencefalografia (EEG) è una misurazione dell’attività corticale ampiamente usata per lo studio degli stati di eccitazione, i più prominenti cicli di sonno-veglia, gli attacchi epilettici o le conseguenze delle droghe sul cervello. Nella pratica clinica è 46 47 Task-Force, pp. 1501 Panksepp J., Fuchs T., Garcia V.A., Lesiak A., (2007); pp.2:32. 22 anche usato per determinare la morte cerebrale. L’EEG di soggetti sani può essere utilizzato come un indicatore affidabile di stati di attenzione ed eccitazione48. Hanno ricevuto una considerevole attenzione i ritmi sostenuti delle frequenze più alte (beta e gamma) nell’EEG corticale, in quanto potenzialmente connessi alla coscienza49. Quando consideriamo l’EEG corticale di pazienti in stato vegetativo dobbiamo tener conto del fatto che: § gli SV sono uno stato e non una malattia – come ampiamente ribadito; è lo stadio finale di molte patologie. Di conseguenza, l’EEG di uno SV può variare a seconda dei pazienti; § allo stato vegetativo permanente si accede attraverso il coma; elettrofisiologicamente lo SV e il coma rappresentano un continuum; § lo SV è uno stato cerebrale a lungo termine ma variabile e, nel tempo, le proprietà dell’EEG possono cambiare50. Durante un lento recupero da lesione traumatica alcune proprietà di un’EEG sana possono ripresentarsi nel tempo mentre il paziente, tuttavia, rimane in uno stato vegetativo. La definizione di ‘sonno’ in uno SV è interamente comportamentale. Il paziente mostra i periodi di inattività comportamentale con gli occhi chiusi (sonno) che sono seguiti da periodi di – non intenzionale – attività comportamentale con gli occhi aperti (veglia). Studi EEG della fase di sonno nei pazienti in SV hanno rivelato che l'EEG durante questo ciclo di comportamento sonno-veglia può essere molto variabile.51 In alcuni pazienti non sono stati osservati cambiamenti della superficie corticale in EEG tra il sonno e la veglia, in altri, invece, sono stati osservati durante il sonno comportamentale un EEG di basso ampiezza delle onde delta e theta; in due di questi pazienti l’attività a onde lente è aumentata nel corso del tempo. Nessuno dei pazienti ha mostrato coerente produzione di sonno, e gli indicatori EEG di sonno REM erano del tutto assenti. Diversamente, altri studi sono stati in grado di 48 Ad esempio, in soggetti sani, i rapidi movimenti dell’occhio durante il sonno (REM) sono caratterizzati da un EEG simile alla veglia vigile, mentre ampie intensità sincronizzate a onde theta (4–8 Hz) e delta (1–4 Hz) si riscontrano durante le varie fasi del sonno non-REM. 49 Brenner R.P., (2005);11: pp.271–284. 50 Kinney H.C., Samuels M.A., (1994);53: pp.548–558 51 Oksenberg A., Gordon C., Arons E., Sazbon L., (2001); 24: pp.703–706. 23 identificare indicatori comportamentali del sonno REM in pazienti in SV. 52 Si potrebbe, quindi, interpretare questi risultati in un modo che i generatori mesencefalo/pontine e ipotalamo sonno/veglia siano funzionali e attivi. Tuttavia, poiché nella maggior parte dei casi di SV la connettività tra aree cerebrali inferiori e la corteccia è diminuita, l’attività corticale EEG non mostra l’intera gamma di cambiamenti associati con il sonno normale. Le ERP sono piccole deviazioni positive e negative della EEG che si verificano in tempo-fissato da segnali specifici (comunemente uditivi). Le ERP sono caratterizzate da deviazioni – che vanno da positivo (P) a negativo (N) – di componenti precoci, medi e tardivi che si ritiene contengano informazioni sull’elaborazione del segnale. I componenti tardivi sono tipicamente associati a livello di elaborazione corticale superiore e coincidono, in alcuni casi, con la presenza o l’assenza di esperienza cosciente. Questo li rende dei potenziali strumenti per la valutazione della consapevolezza. Con lo sviluppo di tecniche di neuro-immagine funzionale, come la tomografia ad emissione di positroni (PET), le scansioni e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), sono state ottenute nuove intuizioni sulla natura dello stato vegetativo persistente. La scansione PET di pazienti in stato vegetativo mostrano costantemente una riduzione del metabolismo cerebrale con attività metabolica inferiore associata alla durata dello stato vegetativo53. Gli studi che indagano l’elaborazione visiva, uditiva e somatosensoriale hanno mostrato che i pazienti in SV conservano alcune attivazioni delle aree della corteccia sensoriale primaria, senza ulteriori elaborazioni nelle aree associative vicine 54 . In breve, i segnali sensoriali in questi pazienti raggiungono la corteccia, ma fino a che punto questi segnali vengano vissuti come una percezione del processo primario rimane poco chiaro. Di conseguenza, ulteriori studi di condizionamento dovrebbero essere condotti con stimoli emotivamente provocatori per determinare quanta plasticità, in particolare delle capacità emotive, 52 Perrin F., Schnakers C., Schabus M., Degueldre C., Goldman S., Bredart S., Faymonville M.E., Lamy M., Moonen G., Luxen A., Maquet P., Laureys S., (2006); 63: pp.562–569. 53 Laureys S., Goldman S., Phillips C., Van Bogaert P., Aerts J., Luxen A., Franck G., Maquet P., (1999); 9: pp.377–382. 54 Ibidem. 24 persiste in uno stato vegetativo55. Detto questo, le tecniche della moderna neuroscienza non possono ancora fornirci – almeno attualmente – una risposta definitiva sul fatto che i pazienti in stato vegetativo conservino alcuni resti di esperienza fenomenica (sebbene lo studio sulla consapevolezza e sui correlati neurali della coscienza siano nuovi rami delle neuroscienze sperimentali e alcuni risultati promettenti incoraggino la ricerca futura sui residui di esperienza fenomenale negli SV. Storicamente, è stato spesso ipotizzato che l’esperienza cosciente fosse solo una proprietà della neocorteccia, ma pare esservi poco sostegno empirico per tale visione estrema corticocentrica della coscienza. Non c’è un valido motivo in grado di spiegare perché le strutture del cervello subcorticali non dovrebbero essere in grado di generare stati affettivi irriflessivi e le esperienze fondamentali come la sete o la fame; l’abbondante ricerca in modelli tratti dal mondo animale, che ha elaborato alcuni dei dettagli di quei processi cerebrali, rafforza questa ipotesi56. Il fatto che nei pazienti in SV i danni alla corteccia e al talamo siano più pronunciati dei danni alle aree cerebrali inferiori, suggerisce fortemente che tali stati affettivi primari57potrebbero ancora essere vissuta dai pazienti in stato vegetativo. Anche se nessuno ha decodificato come l’affettiva esperienza venga costruita dalle attività neurali, è chiaro che vi è un complesso cervello istintivo-emozionale situato in regioni subcorticali profonde58. Questo è semplicemente dimostrato dall’abilità di provocare una varietà di comportamenti emotivi coerenti utilizzando la stimolazione elettrica localizzata del cervello (ESB), applicata a quei circuiti.59 Secondo queste ipotesi, la coscienza affettiva (ad esempio, il dolore puro), nasce dalla capacità del cervello di sperimentare i valori biologici del corpo - le condizioni organismiche che possono incondizionatamente migliorare o peggiorare la sopravvivenza. La coscienza cognitiva – la capacità di distinguere le molteplici differenze nel mondo – non sembra essere fondamentale per la capacità cerebrale di 55 Owen A.M., Coleman M.R., Boly M., Davis M.H., Laureys S., Pickard J.D., (2006); 313: pp.1402– 1402. 56 Panksepp J., (2005); 14: pp.30–80. Inoltre, Panksepp J., (1998); 5: pp.566–582. 57 In originale ‘raw’, traducibile con crudo, che per il senso del discorso è stato reso con il termine ‘primario’. Sono gli stati affettivi irriflessi e le esperienze fondamentali di cui si è parlato sopra. 58 Denton D., (2006). 59 Panksepp J., Normansell L.A., Cox J.K.F., Siviy S., (1994); 56: pp.429–443. 25 avere esperienze affettive primarie. I pazienti in SV hanno ancora i resti di coscienza affettiva? Non possiamo esserne certi, ma possiamo essere sicuri del fatto che essi presentano ancora una varietà di comportamenti istintuali (esperienze affettive primarie) appunto, come ad esempio attacchi di rabbia apparenti, che non possono semplicemente essere ‘finta collera’ non accompagnata da stati sentimentali interni. Se le esperienze affettive primarie sono create da tali attività cerebrali, allora si potrebbe parlare dell’esistenza potenziale di esperienze affettive primarie nei limiti della mentalità residua di tali pazienti in SV. Tradizionalmente il sistema medico ha scelto di rendere il concetto di consapevolezza cognitiva un essenziale, se non l’unico, criterio per la definizione di coscienza. Così facendo, hanno – per semplice definizione concettuale – eliminato l’esperienza affettiva dalla potenziale mentalità residua dei pazienti SV. Se si considera l’evidenza maturata e la teoria sulla natura fondamentale degli affetti, e la si usa come linea guida, sarebbe saggio accettare la possibilità realistica (anche se forse non elevatamente probabile) che i pazienti in SV possono ancora sperimentare alcuni resti di esperienza affettiva, anche se le loro capacità cognitive sono perdute. Nel momento in cui riconosciamo la possibilità che un individuo in stato vegetativo possa sperimentare esperienze affettive primarie, riconosciamo con essa la debita importanza attribuita agli interventi che possono facilitare la comunicazione di tali esperienze affettive, quale la musicoterapia – che può, per esempio, sopperire all’incapacità di comunicare verso l’esterno la sofferenza. L’esistenza di forti sentimenti nel cervello (ad esempio, come le funzioni cerebrali generano le sensazioni emotive/affettive primarie), senza alcun residuo di capacità riflessiva cognitiva, è sostanzialmente supportata dalla nostra attuale comprensione di come funzionano i cervelli. In tal caso, queste possibilità dovrebbero ricadere pesantemente sulle discussioni etiche di come gestire le persone in SV. 26 Capitolo 2 Un problema di coscienza: indagini filosofiche sull’identità di stati vegetativi e minima coscienza. «Mi insegnò che senza coscienza non equivale a senza vissuto»60 Nelle precedenti pagine è stato evidenziato il problema della definizione degli stati vegetativi, con particolare riferimento ai tre costrutti principali che vengono utilizzati (anatomia, comportamento, coscienza) e di questi si è osservato come il costrutto relativo alla coscienza fosse il più indefinibile e non misurabile. Il discorso sulla coscienza è un discorso che si perde all’inizio dei tempi, ed è direttamente connesso alla questione dell’identità della persona. D’altro canto osserviamo nella stessa definizione degli stati vegetativi che la mancanza di coscienza di sé (e la mancata consapevolezza dell’ambiente circostante) è uno degli elementi di definizione di questo ‘stato’ 61 . Anche lo stato di minima coscienza, per essere descritto, fa riferimento alla coscienza: è una condizione clinica caratterizzata da una grave compromissione della coscienza. Qual è, dunque, l’identità di uno stato vegetativo? Se si accetta che una persona esista soltanto a condizione di presentare certe funzioni cognitive superiori, si deve ammettere che la classe delle persone è molto più piccola/ristretta di quella degli esseri umani. Soggetti con disordini dello sviluppo neurologico, con gravi patologie psichiatriche, ma anche i bambini e i neonati (che ancora non posseggono quelle funzioni cognitive) sono rimossi dalla categoria delle persone, se si considera ‘persona’ solo chi è in grado di esercitare facoltà come l’autocoscienza, il linguaggio e la razionalità. Personalmente ritengo che la persona sia qualcosa di più complesso della semplice presenza di funzioni cognitive superiori; la mia persona è un’unità inscindibile della 60 Da Gustorff H. Hannich H., (2000), pp. 39; la musicologa tedesca Dagmar Gustorff racconta la sua prima paziente Andrea, una donna in SV. 61 Si inseriscono le virgolette per la questione della nebulosità del termine evidenziata nel capitolo precedente. 27 dimensione biologica, psicologica e spirituale; è «lo stesso corpo in quanto capace di generare una sfera di significati che trascende la realtà biologica»62. In quanto tale, il soggetto in SV è una persona vivente, seppure gravemente disabile. Affermato ciò, non significa che esista o che si possa fare una qualunque conclusione normativa su che cosa sia giusto o sbagliato fare nei confronti di queste persone. Per quanto forzato – si cercherà di separare il discorso etico/bioetico da quello squisitamente ontologico. Sorgono molte discussioni sull’identità di persone affette da patologie neurodegenerative (che comportano la perdita di una concezione coerente e continua di sé e della propria vita); il discorso dell’identità personale può essere sviluppato attorno ad alcuni punti chiave del dibattito nato in seno alle demenze (in quanto patologie neurdegenerative). «Che tipo di persona è Alberto?» – chiedo. Risponde la moglie: «Dunque, dobbiamo distinguere tra prima e dopo il trauma; perché siamo di fronte a due persone diverse. Prima dell’incidente Alberto era una persona solare, socievole e simpatica; ora è una persona intollerante verso tutto e tutti, spesso scontroso e arrabiato»63. Le parole della moglie di Alberto esemplificano la posizione del senso comune in merito alla questione dell’identità degli stati vegetativi; la formulazione filosofica di tale opinione comune – ossia il fatto che il paziente, la cui personalità è radicalmente modificata (come può essere un paziente affetto da Alzheimer o in stato vegetativo) non sia più lui – è la visione denominata personalismo essenziale di Parfit 64 : l’individuo A è una persona se e solo se è attualmente in grado di esercitare le funzioni superiori di pensiero, linguaggio e razionalità; e un individuo A al tempo di t è identico all’individuo B al tempo t1 se e solo se tra gli stati mentali di A e di B si determina una sufficiente relazione di continuità e connessione da poter dire che si tratta del medesimo soggetto di stati mentali. Dunque, se l’individuo B presenta una sovrapposizione minima o nulla di contenuti mentali con l’individuo A, si deve concludere che non sono lo stesso individuo. Secondo la tesi di Parfit – che come detto ripercorre le linee del senso comune – la persona è identificata solo attraverso i Reichlin M., (2012), pp. 33. Da uno dei miei colloqui con i parenti nella raccolta amnestica sui pazienti. 64 Parfit D., (1984). 62 63 28 suoi stati mentali e ciò che conta (per la nostra integrità identitaria) è la continuità della nostra memoria. Locke propone una significativa rielaborazione di questa posizione, dando vita a quello che lui stesso identificherà come criterio psicologico dell’identità personale: è il flusso del pensiero che conta, la serie degli stati mentali – unificati grazie alla memoria – che crea l’identità personale; in altre parole ciò che conta è la continuità della coscienza. Locke fa numerosi esperimenti mentali per dimostrare ciò: così immagina, per esempio, di trasferire i ricordi di un principe nel corpo di un ciabattino, e argomenta che in questo caso la persona del principe si ritroverebbe in un nuovo corpo. L’identità di sostanza pensante65 senza coscienza e memoria non basta a fare l’identità della persona. Anche seguendo le conclusioni lockiane, dunque, i nostri pazienti SV non sarebbero persone – o almeno non le stesse persone prima del trauma; esattamente come la pensa la moglie di Alberto. Una delle critiche alla posizione lockiana – che si è visto collimare con la visione del senso comune – affiora nell’intervento di Leibniz che, nei Nuovi Saggi sull’Intelletto Umano (1704) 66 , mette l’accento su una difficoltà grave per qualsiasi teoria psicologica e funzionale della persona: per l’autore, infatti, l’identità qualitativa del contenuto mentale non produce di per sé stessa l’identità numerica della persona; detto altrimenti, non c’è nulla di inconcepibile (apparentemente) in due individui numericamente distinti, ma identici dal punto di vista mentale. Con ciò egli segnalava (a uno sguardo contemporaneo, almeno) come il criterio psicologico finisca per depotenziare sul piano ontologico la nozione di persona: sganciata da una sostanza, la continuità psicologica non fornisce garanzia di identità personale. L’essenza della critica lockiana (e neolockiana) è l’idea che noi potremmo sopravvivere al nostro corpo purché sia garantito un grado sufficiente di continuità psicologica. Una versione contemporanea di questa posizione (Shoemaker 1984, 1999) fa riferimento all’ipotesi del trapianto di cervello. Il criterio psicologico, in apparenza il più solido, non è esente da problemi, che Il concetto di sostanza pensante è preso direttamente dalla teorizzazione cartesiana, che distingue la sostanza pensante dalla sostanza estesa; la sostanza pensante, scevra di estensione e indivisibile, e, viceversa, la sostanza estesa e divisibile. Questi due tipi di sostanza sono reciprocamente distinti anche perché vengono distintamente conosciuti dall’intelletto i loro rispettivi attributi peculiari e fondamentali, che sono appunto il pensiero e l’estensione. È proprio in questo che consiste il dualismo cartesiano, che comporta il riconoscimento dell’autonomia della materia corporea dalla sostanza spirituale – in opposizione alla tradizione platonico-aristotelica (e cristiana) che vedeva nel corpo una ‘tomba dell’anima. Si veda Descartes R., (1967), vol. II, pp. 51-53. 66 Liebnitz G.W., (1982). 65 29 vertono principalmente su due argomenti: quello della dimenticanza e quello della circolarità. Nel primo caso, prendendo alla lettera la teorizzazione lockiana, non possiamo attribuire a noi stessi una sola delle azioni che abbiamo dimenticato67. L’obiezione della circolarità, invece, sostiene che la continuità della memoria pressuppone l’identità personale (e non la fonda); cioè, è la nostra stessa definizione di memoria che presuppone l’esistenza (e il concetto) di persona: quando dico che A ricorda b, fa parte dell’idea stessa di ‘ricordo’; il fatto che l’esperienza ricordata sia accaduta al soggetto che ricorda (A); da cui la circolarità. Le difficoltà68 relative al criterio psicologico generano due soluzioni contrapposte circa l’identità della persona: la teoria della semplicità e l’eliminativismo. Entrambe partono dal presupposto dell’impossibilità di trovare una soddisfacente definizione di identità personale, traendo però, da questo stato di fatto conclusioni opposte. Per la teoria della semplicità, quello di persona è un concetto semplice e primitivo69. L’eliminativismo ha invece molte sfaccettature: in un senso, la nozione di persona non corrisponde ad alcun tipo di entità (o, se esiste una qualche corrispondenza, non è rilevante ai fini pratici, etici, cognitivi); in un secondo senso, il contenuto e il riferimento del concetto sono socialmente negoziabili e culturalmente variabili; e infine, si considera l’idea stessa di io perdurante come un’utile finzione. Malgrado una certa prevalenza di aderenti al criterio psicologico, il dibattito sull’identità personale appare aperto a molteplici soluzioni, anche per le sue implicazioni e ramificazioni in differenti ambiti della filosofia, come la metafisica, la logica filosofica e la filosofia pratica. Per fare un esempio, David Hume nel Trattato sulla Natura Umana (1739-40)70 avanza la tesi opposta a quella lockiana: non esiste alcuna prova dell’esistenza di un Io unitario e perdurante come identico nel tempo; la nostra identità personale è il frutto illusorio di un’attività mentale che consiste nel 67 Una soluzione a questo problema consisterebbe nell’indebolire la forza della connessione psicologica necessaria per parlare di permanenza dello stesso individuo (per esempio parlando di continuità psichica; Shoemaker, 1984); possiamo richiedere, come condizione di persistenza di un Io, il sussistere di una catena di ricordi collegati causalmente gli uni agli altri in una relazione sufficientemente solida da costituire una trama psicologica accettabile. 68 Le difficoltà del criterio psicologico sono rafforzate anche, per esempio, dall’animalismo (Olson; 1997). 69 Strawson (1959), Lowe (1996). 70 Hume D., (2008). 30 flusso continuo di fasci o collezioni di percezioni. L’importanza del pensiero di Hume consiste nell’aver affermato che, non esistendo una sostanza perdurante e identica che fonda la nostra identità, in un certo senso non vi sono persone – o meglio, non vi sono persone intese come sono sempre state intese sin ora. Si tratta di una tesi che – malgrado esprima un apparente paradosso – è stata autorevolmente ripresa nel Novecento da Bertrand Russell e Ludwing Wittgenstein, ed è tuttora viva nel dibattito contemporaneo sull’identità della persona e la natura dell’io, della coscienza e della soggettività (Dewey, Lewis, Perry, Dennett). 1.1. Una questione di identità: dall’identità all’identità diacronica Nel paragrafo precende si è osservato che l’esperienza può essere intesa come un flusso di eventi, e l’Io una fascio di percezioni distinte dell’esperienza; ciò che mette in relazione il flusso di eventi e le percezioni distinte è la coscienza, non intesa come qualcosa di mentale e distinto dalla realtà, ma come un qualcosa in funzione dell’esperienza. Quando parliamo di Io, facciamo riferimento al concetto di persona e stabilire l’identità della persona diventa un passaggio fondamentale nel riconoscimento della dignità e dell’importanza dell’intervento musicoterapico con gli stati vegetativi. Il discorso sull’identità degli individui è un tema molto ampio, forse ancora più di quello sulla coscienza, e non è questa la sede per svilupparlo per intero. Ma è possibile, riportando alcuni fondamentali passaggi, arrivare ad una concezione esaustiva di identità dell’individuo che include comodamente le persone in stato vegetativo. Innanzitutto, è importante ripercorrere la distinzione tra identità numerica (l’identità che una cosa possiede con se stessa – che permane indipendentemente dalle differenze qualitative che insorgono) e identità qualitativa (l’identità che una cosa può avere con altre cose – l’indistinguibilità di cose che sono numericamente diverse). Ciò che conta per l’identità numerica non è tanto la continuità degli stati mentali, ma piuttosto che si realizzi una sufficiente continuità corporea, ossia che si tratti sempre del medesimo individuo in senso ontologico: esso può presentare diverse qualità (biologiche e/o mentali) in tempi diversi. La nostra identità essenziale 31 è quella di essere menti incorporate, ossia individui in grado di avere esperienze psichiche, non solo di tipo superiore ma anche di carattere sensibile ed emotivo71. Se parliamo dell’identità numerica, e quindi del fatto che continuiamo ad essere una medesima entità attraverso lo spazio ed il tempo e attraverso le mutazioni che queste due dimensioni producono, l’individuo demente (o colpito da patologia neurodegenerativa) è ancora il medesimo; se invece parliamo di identità narrativa, ossia del fatto di continuare ad essere il medesimo soggetto di vita e di esperienze, possiamo giustificatamente dire che si è determinata una frattura, una cesura prodonda nell’identità del soggetto demente, così come dell’individuo in stato vegetativo72. Infatti, per l’identità narrativa, la memoria costituisce una condizione irrinunciabile. È pur vero che, uno dei presupposti su cui poggia l’intervento musicoterapico è il fatto che il soggetto in stato vegetativo, pur non potendo comunicare verbalmente e pur presentando stati di coscienza quantomeno alterata, possiede una forma di ‘memoria emotiva’ che è ciò che permette l’aggancio e la costruzione della relazione terapeutica stessa (secondo alcune metodologie di intervento musicoterapico). L’individuo, all’interno della cui memoria e/o identità narrativa si è costituita una frattura, è pur tuttavia un ‘successore’ (un vero e proprio ‘stadio successivo), un individuo che presenta una continuità fisica con A e non semplicemente un altro individuo (alcuni interessi fondamentali di A sopravvivono al suo venir meno e possono essere sensatamente applicati a B)73. L’individuo è un’entità persistente. Le cose che persistono cambiano le loro proprietà intrinseche. Per esempio, la forma: quando sono seduto ho una forma inclinata; quando sto in piedi ho una forma diritta. Entrambe le forme sono proprietà intrinseche temporanee; le ho solo in qualche momento. Com’è possibile questo cambiamento?74 71 Da Reichlin M.,, (2012), pp.79-80. La perdita della propria identità narrativa rende, infatti, l’individuo incapace di agire, nel senso forte: l’agire umano implica l’espressione di significati, l’azione veicola dei valori. 73 Reichlin M., (2012), pp. 91. 74 Lewis (1986), pp.203-204. 72 32 Almeno in apparenza, infatti, un oggetto75 persistente rimarrà identico nel tempo pur cambiando. Ciò è in conflitto con uno dei principi chiave sull’identità, ovvero il principio leibniziano dell’indiscernibilità degli identici,76 per il quale «una cosa x e una cosa y sono identiche solo se hanno le medesime proprietà, ovvero solo se ciò che è vero di x è vero anche di y e viceversa».77 Schematizzando: x = y → ∀F(Fx ↔ Fy) Nelle parole di Trenton Merricks: Se un oggetto x, che esiste al tempo t1 come F, persiste sino al tempo t2, al cui tempo non è F (ma è Q) sembra esserci una proprietà che x al tempo t1 possiede ma che x al tempo t2 non possiede; quindi, x al tempo t1 e x al tempo t2 non sono indiscernibili. Ma se non sono indiscernibili non sono identici.78 Sostanzialmente, ciò che accade agli oggetti persistenti – rientrano in questa categoria anche gli individui in quanto soggetti persistenti – è che l’oggetto x al tempo t1 è uguale a se stesso (x) al tempo t2, anche se non è vera la relazione ∀F(Fx(t1) ↔ Fx(t2)), perché la proprietà presente al tempo t1 non è la stessa presente al tempo t2. Insomma, secondo il principio leibniziano, gli oggetti identici non possono differire in alcun aspetto, poiché l’identità numerica presuppone l’identità qualitativa, ossia il possesso di proprietà identiche 79 . Com’è possibile, dunque, salvare il principio leibniziano pur sostenendo che gli oggetti persistono? Per illustrare il ventaglio di risposte che sono state proposte, si consideri il seguente esempio in riferimento ad un oggetto materiale qualsiasi. Un girasole (x) che a mezzogiorno (t1) è aperto – ha una certa forma – ed è diretto verso il sole e dopo il tramonto (t2) è chiuso verso terra. Quello osservato nell’arco della giornata è sempre lo stesso girasole, nonostante il cambiamento della sua forma (e quindi delle sue proprietà). Schematizzando il discorso si avrà: - x al tempo t1 è identico a x al tempo t2 - x a t1 è P (= aperto e diretto verso il sole) 75 In ambito filosofico analitico si parla di ‘oggetti’ in senso ampio e generico, per indicare gli oggetti della riflessione logica; all’interno di questa terminologia possono rientrare indistintamente gli oggetti materiali, gli oggetti culturali, gli esseri viventi – compresi gli individui umani. 76 Forrest (2010), Leibniz G.W. in Loemker (1969). 77 Varzi (2006). 78 Merricks (1994), pp.1-2. 79 Varzi (2007), p.26. Si veda anche Varzi (2008), Gallois (2011) e per la reductio ad absurdum si veda Merricks (1994), p.168. 33 - x a t2 è Q (= chiuso verso terra) - (per il principio di Leibniz) se x a t1 è identico a x a t2, allora x a t1 è P se e solo se x a t2 è P - ma x a t2 non è P, poiché è Q, che è incompatibile con P - quindi, x a t1 non è identico a x a t2. Considereranno due principali soluzioni al problema degli oggetti persistenti: endurantismo e perdurantismo.80 Per la posizione endurantista un oggetto persiste attraverso il mutamento (delle sue proprietà) permanendo (to endure); 81 ossia, l’individuo esiste ripetutamente sempre identico. 82 L’oggetto endurantista è considerato avente semplicemente un’estensione spaziale: si sposta nel tempo come una mano si sposta sulla superficie del tavolo. L’endurantismo, ponendo l’accento sulle proprietà – per risolvere il conflitto degli oggetti persistenti con il principio leibniziano – sviluppa due soluzioni al problema. Ripercorrendo l’esempio del girasole, la prima soluzione endurantista si focalizza sull’istanziazione, ossia la relazione che sussiste tra l’oggetto e una sua proprietà. La situazione viene quindi così caratterizzata: - x è-a-t1 P (= aperto verso il sole) - x è-a-t2 Q (= chiuso verso terra), di conseguenza, non vi è alcuna contraddizione nel sostenere che - x è-a-t1 P ed è-a-t2 Q. Questa prima soluzione ha tuttavia un problema non banalmente risolvibile. Come ha fatto notare David Lewis (2002), l’istanziazione così concepita sembra, infatti, implicare un regresso infinito (conosciuto anche come regresso di Bradley). La seconda soluzione endurantista, invece, modifica il concetto stesso di proprietà, relativizzandolo ad un istante temporale. Schematicamente: 80 Si veda Varzi (2008), Hales e Johnson (2004), Hawley (2010). Per i verbi to endure e to perdure è utilizzata la terminologia di riferimento in Varzi (2008), p.X. 82 Per i sostenitori dell’endurantismo si vedano Thomson (1965; 1983), Geach (1967), Chisholm (1976), Mellor (1980; 1981; 1998), Lowe (1983; 1998), Simons (1987), Haslanger (1989), Van Inwagen (1990a; 1990b), Fine (2008), Strawson (1959). 81 34 - x è P-a-t1 - x è Q-a-t2 di conseguenza, non vi è alcuna contraddizione nel sostenere che - x è P-a-t1 e x è Q-a-t2 Anche questa seconda soluzione, tuttavia, è problematica. Come nuovamente evidenzia Lewis,83 relativizzare le proprietà a un istante significa rendere le proprietà intrinseche degli oggetti, proprietà estrinseche84; la proposta endurantista, insomma, priva del tutto gli oggetti concreti di proprietà intrinseche, risultando così paradossale: è il noto problema degli intrinseci temporali. La principale posizione alternativa all’endurantismo, come detto, è il perdurantismo (anche conosciuto come quadridimensionalismo). Invece di proporre una revisione dell’istanziazione o delle proprietà, i perdurantisti sostengono che sia l’oggetto a dover essere teoreticamente riconsiderato. Schematicamente: - x-a-t1 è P - x-a-t2 è Q di conseguenza x-a-t1 non è identico ad x-a-t2 e perciò non vi è alcuna contraddizione nel sostenere che - x-a-t1 è P e x-a-t2 è Q. È il girasole-a-mezzogiorno che è aperto verso il sole ed è il girasole-dopo-iltramonto che è chiuso verso terra. Ma che cos’è allora l’oggetto x – nel nostro esempio, il girasole? È la somma mereologica di (x-a-t1) + (x-a-t2) + … + (x-a-tn), dove t1…tn sono tutti gli istanti in cui x esiste. La somma mereologica viene in gergo 83 Lewis (1986), in Varzi (2008), pp.206-209. Ossia, rendere le proprietà che un oggetto o una cosa ha di per sé (indipendentemente da altre cose) delle proprietà che dipendono dal rapporto dell’oggetto con altre cose. 84 35 chiamata ‘lombrico’, mentre le sue parti vengono chiamate ‘stadi’. 85 Poiché la mereologia classica qui utilizzata include il cosiddetto principio di composizione come identità,86 il lombrico non è nient’altro che le sue parti. Il fenomeno del cambiamento, quindi, è spiegato dai perdurantisti appellandosi alla struttura mereologica degli oggetti:87 dire che il libro a t1 è pulito mentre a t2 è sporco significa dire che vi è un oggetto (lombrico) esteso nel tempo che ha una t1-parte pulita (simpliciter) e una t2-parte sporca (simpliciter).88 Similmente, dire che Anna a t1 ha i capelli lunghi, mentre Anna a t2 ha i capelli corti, significa che vi è un (s)oggetto-lombrico esteso nel tempo che ha una t1-parte capelli lunghi (simpliciter) e una t2-parte capelli corti (simpliciter). Gli oggetti che persistono, nella prospettiva perdurantista, si estendono nel tempo così come nello spazio e hanno parti temporali nello stesso senso in cui hanno parti spaziali (ossia sussiste un’analogia tra spazio e tempo): hanno differenti parti temporali in istanti differenti.89 Le varie tn-parti sono stadi dell’intero (che è dato dalla somma mereologica di essi). L’esistenza dell’intero (lombrico) dipende da quella di ogni sua specifica parte – se cambia una parte cambia l’intero. La verità è che tu puoi bagnarti due volte nello stesso fiume, ma non nello stesso stadio del fiume. Puoi bagnarti in due stadi di fiume, che sono stadi dello stesso fiume e questo è ciò che costituisce il bagnarsi due volte nello stesso fiume. Un fiume è un processo temporale, e gli stadi del fiume sono le sue parti transitorie.90 Come sostiene il pedurantista, ci si può bagnare nello stesso fiume due volte, ma non nella stessa acqua.91 A questo punto vale la pena considerare da vicino un’obiezione mossa al perdurantismo che risulterà utile anche per illustrare la posizione qui difesa. Si tratta dell’accusa di Peter Geach,92 secondo il quale il perdurantismo non sembra risolvere un problema fondante, ossia quello del cambiamento: 85 Per la terminologia si fa sempre riferimento a Varzi (2008). Si veda Lewis (1991). 87 Si veda Varzi (2005), pp.104-117. 88 Varzi (2007), p.31. 89 Si veda Sider (1996; 2001) 90 Quine (1950), p.621. Quine riprende il rompicapo suggerito da Eraclito nei Frammenti 41-2: ‘Non ci si può bagnare nello stesso fiume per due volte, perché sopraggiungono acque sempre nuove’. 91 Varzi (2008), p.191. 92 Geach (1965). 86 36 L’unico senso in cui un’entità quadridimensionale può cambiare è dato dalla possibilità che le sue parti temporali godano di proprietà diverse. Ma questo non è cambiamento vero e proprio: è semplice diversità temporale, proprio come il possesso di colori diversi da parte di una bandiera è semplice diversità spaziale.93 Le parole di Geach, però, non sembrano ridurre all’assurdo la nozione di cambiamento. Infatti, spesso la stessa diversità spaziale è descritta in termini di cambiamento: quando si dice che la superficie del tavolo ad un certo punto diventa bagnata, o che la strada comincia ad essere sterrata o, infine, che il cuore della torta è soffice mentre i bordi si stanno bruciando. Come sostiene Varzi in La natura e l’identità degli oggetti materiali (2007), parlare di parti spaziali non è meno enigmatico che parlare di parti temporali: man mano che il palmo della mano si sposta sulla superficie del tavolo la parte asciutta che era presente cessa di essere tale e diventa bagnata. Scrive l’autore: «il caso temporale non è diverso, salvo per il fatto che la direzione della serie è prefissata ed epistemicamente asimmetrica».94 Ciò che distingue le parti spaziali dalle parti temporali è l’arbitrarietà della direzione spaziale, assente nella direzione temporale: mentre il cambiamento spaziale è arbitrario – la mano può percorrere la superficie del tavolo sia in un senso che nell’altro: da asciutta a bagnata o da bagnata ad asciutta – quello temporale è prefissato dalla linea del tempo che procede inevitabilmente dal passato verso il futuro. Ma non per questo è lecita l’attribuzione di uno statuto speciale (almeno a livello metafisico) della diversità temporale. La soluzione proposta da Geach, differentemente sia dell’endurantismo che del perdurantismo, si fonda su un concetto diverso di identità: l’identità relativa. Ossia, i girasoli di cui si è parlato negli esempi precedenti, ai due istanti (t1 e t2) non sono identici tout court, ma solo relativamente.95 Il giovane Oscar e il vecchio Oscar sono lo stesso cane ma ciò nonostante oggetti temporali distinti; lo stesso pezzo di argilla può essere ora (identico a) una statua e ora ad un’altra; London e Londres sono la stessa città ma differenti “oggetti del pensiero”, e così via.96 93 Varzi (2007), p.32. Varzi (2007), p.37. 95 Geach (1973), pp.287-302. 96 Deutsch (2007). 94 37 Naturalmente la teoria dell’identità relativa non si esaurisce nella posizione di Geach e non sono da dimenticarsi – specialmente in riferimento all’analisi delle canzoni – i contributi di Andre Gallois (1998) ed Eli Hirsch (1982)97. La soluzione proposta dell’identità relativa è una delle più apprezzate per rispondere ai problemi ontologici relativi agli stati vegetativi. Ma in realtà fa sorgere alcuni problemi. Si è detto che l’identità relativa è “relativa a qualcosa”: ma che cos’è questo “qualcosa”? Tale relazione è unica o molteplice? Se fosse unica, occorrerebbe chiarire quale sia quell’unica relazione che lega tutte le parti o stadi; se, diversamente, si sostiene che ciò che rende le n-versioni delle n-versioni di me stesso, sono molteplici relazioni, i problemi non si ridurranno: le molteplici relazioni non sono mai uguali e universalmente definibili: x e y possono dirsi versioni dello stesso individuo poiché stanno nella stessa relazione biologica ma non nella stessa relazione psicologica, mentre una terza versione z condivide con x la relazionepsicologica ma non quella biologica. Eppure x, y, z sono tutte (per esempio) ‘versioni della stessa canzone’. Nonostante il modello dell’identità relativa si presenti come un utile metodo per chiarire quale sia la relazione tra le parti e il lombrico – si veda in particolare Hirsch (1982) – non è chiaro quali siano le relazioni unificanti, né si può fare riferimento a un’unica relazione nella definizione del rapporto che lega insieme tutte le diverse parti. Pertanto, pur ritenendo necessaria l’esposizione di questa alternativa, non sarà presa in considerazione come soluzione all’interno della dissertazione. Nel momento in cui si parla dell’individuo come un’entità che continua ad essere identica a se stessa nel corso del tempo, il tipo d’identità cui si fa riferimento è l’identità diacronica, che si distingue dall’identità sincronica – dove x è uguale a se stesso in un determinato istante temporale. Da un lato pare evidente che al trascorrere del tempo le cose cambino ed è altrettanto evidente che, pur cambiando, le cose possano rimanere sempre le stesse. Nei riguardi di un individuo che si sia presentato ieri, vestito con un paio di pantaloni in pelle nera, pesanti anfibi ai piedi, dichiarando 97 Il primo evidenzia la temporalità e la contingenza della relazione di identità (gli oggetti possono essere identici ad un tempo e distinti ad un altro) mentre il secondo avanza una concezione “relativistica” della persistenza stessa (la persistenza di un oggetto attraverso il tempo può essere considerata come il susseguirsi di stadi distinti). 38 una palese appartenenza alla cultura dark, e che si presenti invece oggi con camicia a fiori, pantaloni a zampa d’elefante e colorati simboli peace&love, non si avrà alcun dubbio nell’affermare che si tratti della stessa persona – nonostante si dubiti abbia subito un lavaggio del cervello. Lo stesso discorso vale ampiamente per le canzoni: sembra naturale affermare che una canzone si presenti sotto forme, versioni, diverse pur restando ai nostri occhi la stessa canzone; similmente avviene per Gian Carlo, che si presenta in forma, ‘versione’, diversa – prima del trauma era in grado di comunicare verbalmente e di muoversi, ora no – pur restando indiscutibilmente la stessa persona, perché nessuno dei suoi famigliari va a fare visita ad uno sconosciuto. Le cose sono allo stesso tempo identiche e differenti, da un tempo ad un altro. Ma qual è il fondamento di questa verità?98 Quando si dice che un’entità come l’individuo è identico nel tempo nonostante il suo cambiamento si fa riferimento ad un’identità quantitativa e non ad un’identità qualitativa: se due individui α e β sono qualitativamente identici significa che α somiglia esattamente a β. Dire invece che due individui α e β sono numericamente identici, significa dire che l’individuo α e l’individuo β sono una sola cosa e non due – sono un solo individuo. Parlare delle molteplici modi d’essere (α, β, γ, δ) di uno stesso individuo x, significa dire che tali modalità sono numericamente identiche senza esserlo qualitativamente, avendo differenti proprietà in tempi differenti e nello stesso tempo. Parlare dell’individuo in termini di identità diacronica significa sostenere che l’identità della persona non è determinabile solo in base a qualità formali (alto/basso, robusto/esile, capelli lunghi/corti, colore degli occhi, stile, ecc.) o funzionali (sistema neuro-sensoriale, sistema respiratorio e cardio-circolatorio, apparato locomotore, ecc) ma anche in termini di sviluppo; significa prendere in considerazione lo sviluppo nel tempo quale elemento fondante l’identità della persona x. La realtà, nel senso del perdurantismo, viene considerata quadridimensionale: le cose concrete vengono concepite come oggetti segmentati, come ‘vermi’ che riempiono particolari porzioni dello spazio-tempo, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga in modo continuoi o discontinuo. Con ciò, per il perdurantista, il problema della questione 98 Varzi (2001), Carrara (2001), Kripke (1982). 39 circa l’identità temporale o diacronica è già risolto: le cose stesse sono estese temporalmente, non ha senso interrogarsi sulla loro identità nel tempo. Considerare l’identità di una persona avente come elemento fondamentale lo sviluppo nel tempo, implica di per sé giustificare l’identità degli stati vegetativi come persone. È Alberto-prima-del-trauma che è socievole ed è Alberto-dopo-il-trauma che è intollerante e scorbutico: l’identità di Alberto è data dalla somma mereologica di (x-a-t1) + (x-a-t2) + … + (x-a-tn), dove t1…tn sono tutti gli istanti in cui x (Alberto) esiste. Si tratta di considerare l’identità nella sua relazione inscindibile con l’esperienza vissuta. Lewis definisce gli oggetti ordinari, e in particolare le persone, come somme transtemporali di stadi momentanei99. Se la relazione di unità fra coppie di stadi di una persona, così come la relazione di unità fra coppie di stadi del suo corpo (o di ogni altro oggetto), è una relazione di equivalenza, allora sia la relazione di unità personale sia la relazione di unità corporea godono delle tre proprietà seguenti: • riflessiva (ogni stadio porta la relazione di unità a se stesso) • simmetrica (se uno stadio porta la relazione di unità ad un altro, questo, a sua volta, porta la relazione di unità al primo) • transitiva (se uno stadio porta la relazione di unità ad un altro e questo, a sua volta, porta la relazione di unità a un terzo stadio, anche il primo stadio porta 99 In realtà, Lewis attribuisce questa definizione di “persona” al Quine di “Worlds away”, scrivendo, però, di esservi d’ accordo e non solo nel caso delle persone, ma di tutti gli oggetti. Cfr. Lewis (1986), p. 217: “in his ‘Worlds Away’, Quine [...] takes the analogy of time and modality as his guide. In the case of time we do not think of ourselves as momentary stages, but rather as trans-time sums of stages (I agree)” e Lewis (1983a), p. 47: “I wish to regard enduring things [il termine “enduring” è qui chiaramente utilizzato in modo neutrale, come sinonimo di “persisting”, n.d.a.] such as persons and bodies as aggregates –sets, mereological sums, or something similar- of momentary stages”. Egli, dunque, ritiene –peraltro- che le parti temporali (o nella sua terminologia, gli stadi) degli oggetti-4D siano momentanei, ma in Lewis (1983b), si specifica che “though I think that instantaneous stages also are unproblematic, I do not really need them. [...] It even has a temporal duration. But only a brief one, for it does not last long. (We can pass over the question how long it can last before it is a segment rather than a stage, for the question raises no objection of principle)”. Benché nei suoi scritti venga sempre aggiunto l’ aggettivo “momentaneo”, suggerendo così un’ estensione temporale nulla o tutt’ al più unitaria, di fatto gli stadi presentano una certa estensione temporale, seppur breve; secondo l’ autore, inoltre, neppure è importante quantificarla esattamente, né stabilire il limite oltre il quale una certa estensione temporale, anziché dare luogo ad uno stadio, dia piuttosto luogo ad un segmento. Sebbene, quindi, la concezione che Lewis presenta delle parti temporali si avvicini, per terminologia, a quella presentata da Sider, il quale le considera “istantanee”, in sostanza risulta più simile a quella sostenuta da Heller, il quale invece pensa alle parti temporali come ad oggetti essi stessi estesi nel tempo. 40 la relazione di unità al terzo: se a = b e b = c allora a = c)100. Tuttavia – viene specificato da Lewis – il fatto che questo accade solo per lo più e come fatto contingente; quindi gli stadi di una stessa persona risultano essere connessi in modo riflessivo, simmetrico e transitivo soltanto accidentalmente, anziché necessariamente, il che significa che, in alcuni casi, la relazione di unità, fra quelli che dovrebbero essere gli stadi di una medesima cosa, fallisce e la conseguenza sarà che, di fatto, quegli stadi non apparteranno affatto alla medesima persona o al medesimo oggetto. Che le relazioni di unità siano soltanto accidentalmente relazioni di equivalenza indebolisce notevolmente la connessione fra gli stadi di un medesimo oggetto-quadridimensionale, rendendo aleatoria la sua identità diacronica. L’identità diacronica della persona in questione viene messa un po’ in discussione101. Riprensando ad Alberto, infatti, Alberto è una persona, cioè – secondo la definizione di Lewis – una successione continua temporalmente estesa di stadi momentanei, in particolare è una successione continua dello stadio momentaneo prima dell’incidente, dello stadio momentaneo dopo l’incidente, dello stadio momentaneo dopo l’operazione e di tutti gli altri stadi momentanei intermedi (se la successione deve essere continua, fra uno stadio momentaneo e l’altro deve essercene sempre uno intermedio). Supponiamo che allo stadio ‘momento dopo l’operazione’ si verifichi un qualche evento tale da poter far emergere il dubbio sull’identità di Alberto dopo l’operazione, che è esattamente ciò che è possibile constatare nella realtà fenomenica, sono le parole della moglie di Alberto. Sulla base di queste ipotesi, siamo davvero di fronte a due persone differenti? Se ragionassimo dal punto di vista dell’identità semplicemente intesa, sì, Alberto prima dell’incidente/operazione e Alberto dopo l’incidente/operazione, sono due persone differenti – come giustamente obietta sua moglie. Questo perché l’identità (in senso generico) è una relazione biunivoca, in cui uno e un solo oggetto è sempre identico ad uno e un solo oggetto; ma se osserviamo la questione dalla prospettiva dell’identità diacronica, le cose cambiano, poiché questa è una relazione univoca, in 100 Lewis D., (1983). Si veda Lewis D.,(1983). Va ricordato che per persona, Lewis intende una successione continua di stati mentali momentanei (cioè una successione temporalmente estesa di stadi momentanei); ciò che deve essere importante per poter sostenere che una persona sia sopravvissuta dopo un certo istante di tempo è anche la sua continuità mentale e la sua connettività mentale. 101 41 quanto più oggetti distinti (aggregati di stadi) sono relati ad un unico oggetto (detto continuante). L’identità è una relazione del tipo ‘uno-a-uno’, mentre l’identità diacronica è del tipo ‘molti-a-uno’, poiché molti aggregati di stadi sono interrelati ad uno stesso continuante102. Infatti, si tratta di avere a che fare con due dipologie di relazione diverse; la relazione di identità è una relazione di equivalenza: le sue proprietà logiche sono la transitività, la riflessività e la simmetria – come evidenziava Lewis. L’identità diacronica, invece, così come ogni altra relazione con cui venga identificata o alla quale venga ridotta, in circostanze particolari, non sembra essere affatto transitiva. Una volta che siano state esplicitate le relazioni esistenti fra stadi momentanei affinché formino un singolo aggregato, è possibile formalizzare la definizione di persona: una persona continuante (definizione di Lewis) è un aggregato di stadi di persone, ciascuno relato a tutto il resto e a se stesso103. Il problema dell’identità personale non è dovuto alla difficoltà di stabilire a quale stato di cose equivalga il fatto che due oggetti siano identici in tempi differenti. La questione dell’identità personale è la questione dell’identità diacronica, la quale – a sua volta – si riduce al problema di rintracciare quella ‘particolare relazione’ che deve sussistere affinché si costituisca quello stato di cose a cui equivale il fatto che due oggetti siano considerati identici in tempi differenti. Per John Perry, trattandosi di persone (oggetto persona), la relazione cui deve essere ricondotta quella di identità diacronica è la continuità di coscienza, la continuità mentale: tutto ciò che viene denominato oggetto – compresi gli esseri umani – e che persiste nel tempo è, ontologicamente parlando, una storia, e di conseguenza gli oggetti e le persone, in quanto interi occupanti l’intervallo di tempo in cui esistono, sono sequenze degli eventi che accadono loro durante il tempo di esistenza 104 . Anziché essere semplicemente l’attore principale degli avvenimenti della sua vita, ciascuna persona è la sequenza degli avvenimenti della sua vita – è la sua storia; gli stadi-persona, quindi, in quanto parti di tale storia, sono le fasi della sequenza, ciascuna esistente 102 Questa idea non causa alcuna situazione dubbia: all’interno del quadridimensionalismo, infatti, porsi la domanda sull’identità di un oggetto quadridimensionale (o continuante) in tempi differenti equivale a domandarsi se lo stadio in un tempo e lo stadio in un altro tempo appartengano entrambe allo stesso oggetto, il che implica l’esistenza di una relazione ‘molti-a-uno’ fra gli stadi e l’oggetto. 103 Lewis D., (1971), pp. 203-211. 104 Perry J., (1978). 42 soltanto in un particolare tempo appartenente all’intervallo occupato dall’intera sequenza105. Ogni persona, in ciascun distinto tempo in cui esiste, è un diverso stadio-persona, da cui: la persona che, per esempio, esiste in un tempo t1 non è lo stesso oggetto che esiste nel tempo t2, sebbene portino il medesimo nome proprio, in quanto in t1 la persona è lo stadio-al-t1, mentre in t2 la persona è lo stadio-al-t2. Ciò che consente l’attribuzione del medesimo nome proprio ad entrambi gli stadi, benché siano distinti l’uno dall’altro, è la relazione di unità temporale R. Che la persona in t1 (lo stadio-al-t1) non sia, in t2, la stessa persona (= lo stadio-al-t2) significa che fra i due stadi non sussiste la relazione di identità, poiché lo stadio-al-t1 è un oggetto distinto dallo stadio-al-t2; tuttavia, che lo stadio-al-t1 e lo stadio-al-t2 siano la stessa persona significa che fra i due stadi sussiste la relazione di identità diacronica, ovvero che lo stadio-al-t1 porta R allo stadio-al-t2106. Questa è la grande novità dell’identità diacronica applicata all’identità personale: la moglie di Alberto non si sbaglia quando afferma che non si tratti della stessa persona, e nemmeno io mi sbaglio quando affermo che Alberto è sempre la stessa persona; la moglie di Alberto si esprime sul piano della relazione di identità (simpliciter), io mi esprimo sul piano della relazione di identità diacronica, che permettere di considerare i pazienti in stato vegetativo nella continuità della loro persona. Quello dell’identità nel cambiamento è un aspetto paradossale: ogni oggetto – compresi gli esseri umani – in quanto persistente nel tempo, subisce inevitabilmente qualche genere di variazione/cambiamento, eppure gli oggetti continuano ad essere considerati gli stessi nonostante le alterazioni subite. Siamo soliti parlare con naturalezza di ‘quando eravamo giovani’, come entità molto differenti da ciò che siamo ora ma non per questo identificandoci con un'altra identità di persona. A volte accade di guardare al nostro passato, a come abbiamo reagito e affrontato certe situazioni, e a non riconoscerci; la frase ‘col senno di poi’ è una riformulazione popolare del pensiero filosofico qui espresso. Molte persone che subiscono interventi di cuore cambiano notevolmente nella manifestazione del loro carattere. Ma a nessuno verrebbe il dubbio che non si tratti della stessa persona; sebbene in gergo si utilizzi l’espressione ‘non è più la stessa persona’, nessuno ritiene che non si tratti 105 106 Gabbani C., (2007). Perry J., (2002). 43 effettivamente (cioè materialmente) della stessa persona. Non vi è stato un cambio di identità come nei film d’azione; vi è stato un cambiamento, come ne avvengono tutti i giorni: qualcuno è più evidente, qualcuno meno. Così accade per le persone in stato vegetativo. 2.1. La coscienza: «La coscienza consiste in una serie di stati e processi soggettivi. Essi sono stati di consapevolezza di sé, interiori, qualitativi e individuali. La coscienza è allora quella cosa che comincia ad apparire al mattino, quando dallo stato di sogno e di sonno passiamo allo stato di veglia e permane per tutta la durata del giorno fino a sera, quando, tornando a dormire, diventiamo incoscienti. Questo è per me il significato del termine coscienza»107. Non esiste al momento alcuna definizione universalmente condivisa di coscienza, né la coscienza può essere misurata da alcuna indagine strumentale. La definizione più accettata è di tipo operativo e si riferisce alla consapevolezza di sé e dell’ambiente esterno. Nello stoicismo e nel neoplatonismo, la coscienza è una ‘voce interiore’, e il riferirsi alla coscienza era propriamente quel ‘dialogo dell’anima con se stessa’. Sant’Agostino, nelle Confessioni, riprenderà questo modello di analisi della personale interiorità e lo trasmetterà a gran parte del pensiero cristiano seguente. È, infatti, proprio con il Cristianesimo, che il concetto di coscienza viene assimilato a quello di morale. Anche in Kant, nella Critica della ragion pura, la morale è intesa come ‘voce della coscienza’, che afferma il valore assoluto della legge morale rispetto alle nostre inclinazioni sensibili; è questa un’esperienza morale che accomuna tutti gli uomini indipendentemente dalle loro differenti condizioni intellettuali e culturali (sulla linea del pensiero di Jean-Jacques Rousseau)108. Con Cartesio il termine coscienza acquista il significato di ‘consapevolezza soggettiva’ di sé; una coscienza diretta di noi stessi, indubitabile, mentre tutti i 107 J. Searle, (1997), pp. 185. Kant distinse, ulteriormente, una coscienza empirica (la singola sensibilità individuale) e la coscienza in generale (trascendentale) che si esprime nell’Io penso; un’attività di pensiero che appartiene a tutti gli uomini, strutturalmente identica in tutti come attività formale del conoscere che si realizza attraverso il giudizio sintetico a priori e le differenti categorie. L’Io penso kantiano diventerà Io Assoluto in Fichte (e nel primo Schelling). 108 44 contenuti mentali di cui siamo coscienti sono soltanto idee (di contro alle sostanze). L’avvicinamento del concetto di coscienza a quello di consapevolezza è una grande rivoluzione sul piano semantico, e si perpetuerà per tutto l’empirismo inglese, fino a Hume. Infine, l’idea della coscienza come coscienza di qualcosa si ritroverà nel XX secolo, con Husserl, e in alcuni autori dell’esistenzialismo come Sartre e Jaspers. Alla fine del paragrafo precedente, si è concluso accennando il nome di Dewey; questo autore ha un ruolo fondamentale nella tematica della coscienza, e della conseguente identità personale. John Dewey sostiene che non esista un dualismo mente-corpo, poiché l’uomo è da intendersi come unità psico-fisica. Similmente vale per la coscienza: essa non è qualcosa di indipendente rispetto alla realtà (realismo), né è qualcosa che racchiude in sé tutta la realtà riducendola a se stessa (idealismo). La coscienza è per Dewey il momento in cui l’esperienza ci mette alla prova, in cui incontriamo dei problemi: «se cammino semplicemente per strada sto interagendo con l’ambiente circostante; ma se per strada incontro delle pozzanghere prendo coscienza del mio camminare perché l’ambiente mi sottopone ad una situazione problematica che mi porta non semplicemente ad interagire con l’ambiente, ma anche a trasformarlo o correggerlo (dovrò correggere continuamente la direzione dei miei passi per non sprofondare in una di quelle pozzanghere). Dunque la coscienza non ha valore ontologico ma ha una funzione relativa all’esperienza» È proprio in ques’ultima affermazione che sta la novità deweyana: la coscienza ha funzione in relazione all’esperienza. Ed è per questo che abbiamo affrontato il discorso della coscienza in seno ad una dissertazione sugli stati vegetativi, persone che – secondo alcune definizioni – non hanno coscienza di sé e dell’ambiente (da cui l’importanza della contattabilità come fine perseguibile attraverso la musicoterapia). La concezione dell’esperienza, così com’è sviluppata dagli autori del pragmatismo americano, è profondamente innovativa rispetto a quella che può essere riscontrata, ad esempio, nell’empirismo lockiano o humeiano. Il nuovo concetto vede l’esperienza presentarsi, non come una sequenza di stati di coscienza interni alla mente, ma come un flusso di eventi che esistono per tutti gli osservatori e che, in generale, possono essere pubblicamente sperimentati da tutti. L’unità e la continuità dell’io sono illusori. Il soggetto per Hume – e più avanti per il 45 pragmatismo e il quadridimensionalismo – si dimostra come un insieme di fasci di percezioni distinte che si susseguono a formare una rappresentazione teatrale, di cui queste sono le attrici. L’io è un’illusione, una metafora, una «repubblica di stati mentali» e anche «l’identità che noi ascriviamo alla mente umana è un’identità fittizia, dello stesso genere di quella che ascriviamo ai vegetali e agli animali». Ciò che noi percepiamo come identità continua, altro non è che mera percezione di una catena progressiva di percezioni. Portando la questione della coscienza al nostro ambito applicativo, le neuroscienze ci mostrano che una qualche forma di coscienza può sopravvivere al danno cerebrale che generalmente causa lo stato vegetativo permanente. Evidenze neuroscientifiche, infatti, indicano che le sensazioni emotive primarie (definibili come affetti di processi primari) possono esistere senza alcuna consapevolezza cognitiva di quelle emozioni (si veda il Capitolo 1). Se i sentimenti affettivi possono esistere senza alcuna consapevolezza cognitiva di quelle stesse emozioni, allora è possibile che le azioni (istintuali) emotive e la sofferenza riflessa, spesso esibita dai pazienti in stato vegetativo, indichino alcuni livelli di mentalità rimanente in pazienti SV109. Alcuni ipotizzano (e rivendicano) che, anche se la coscienza esiste in un complesso meccanismo biofisico come il cervello umano, essa potrebbe essere epifenomenica (cioè essere un aspetto accessorio che non cambia il carattere del fenomeno essenziale), non avere efficacia causale sul controllo del comportamento110. Secondo l’Aspen Consensus Group, per valutare la reale presenza o assenza di consapevolezza si possono utilizzare dei criteri di valutazione quali: § somministrare stimoli adeguati per ottenere una risposta ottimale § valutare la presenza di fattori interferenti (uso di sedativi o antiepilettici) § valutare, se a seguito di un comando verbale, la risposta non sia riflessa § fare richieste che non superino le capacità/possibilità del paziente § analizzare bene il range di risposte § effettuare la valutazione del paziente in un ambiente privo di distrazioni § effettuare valutazioni ripetute e durevoli con osservazioni sistematiche § prendere in considerazione i componenti della famiglia, i cargivers e tutto lo 109 110 Panksepp J., Fuchs T., Garcia V.A., Lesiak A., (2007). Ibidem. 46 staff professionale dedicato all’assistenza per meglio definire le procedure di valuazione111 La consapevolezza112 è coinvolta nella definizione dell’identità della persona – ed è quella più utilizzata dai clinici: un individuo dotato di consapevolezza temporalmente ordinata di sé e dell’ambiente esterno113. La coscienza può essere sintetizzata come il prodotto di due funzioni cerebrali strettamente connesse: la vigilanza e la consapevolezza di sé e dell’ambiente114. Il contenuto della coscienza, a sua volta, è correlato a diversi processi come la memoria esplicita, la percezione, l’attenzione, emozioni, funzioni esecutive e motivazioni. Mentre non vi può essere la consapevolezza di sé e dell’ambiente in assenza di stato di veglia, il paziente può essere vigile, ma senza contenuto dello stato di coscienza nello stato vegetativo 115. Sembrerebbe che la stimolazione sensoriale abbia il doppio effetto di trasportare al cervello le informazioni che riguardano il mondo esterno e di fornire anche una parte dell’energia per l’attivazione di quelle parti del sistema nervoso da cui dipende lo stato di coscienza. Gli elementi semeiotici da prendere in considerazione oltre lo stato di coscienza in un soggetto in coma sono le condizioni del respiro, lo stato delle pupille e della motilità oculare e lo stato della funzione motoria116. 111 I neuroscienziati hanno proposto, inoltre, di usare l’imaging cerebrale al fine di fornire prove dell’esistenza di stati di consapevolezza in pazienti che non forniscono risposte comportamentali – tale idea si basa sull’esistenza di associazioni relativamente stabili tra certi contenuti mentali coscienti e l’attivazione di determinate aree cerebrali. La possibilità di ‘leggere’ certe intenzioni di agire mediante semplice rilevazione dell’attività cerebrale mediante fMRI è stata dimostrata in volontari sani, nei quali si è ottenuta una corrispondenza dell’80% tra ciò che essi avevano deciso di fare e ciò che era possibile leggere dall’attività delle regioni mediana e laterale della corteccia prefrontale. Si veda, Reichlin M., (2012), pp.17. Occorre constatare che questo tipo di approccio è tutt’altro che impeccabile, poiché fa uso della inferenza inversa: mentre ordinariamente si usano le tecniche di neuroimmagine per associare un certo compito cognitivo con certe attivazioni cerebrali, in casi come quelli dei pazienti SV si utilizza la presenza di una certa attivazione cerebrale come prova dell’esecuzione di un certo compito cognitivo – un tipo di inferenza che non è logicamente valido. 112 Occorre fare una ulteriore distinzione tra il concetto di coscienza e quello di autocoscienza: quest’ultima appare al termine di un processo sempre più complesso rispetto alla prima iniziale presa di coscienza nella quale sappiamo confusamente che siamo ma non ancora chi siamo. 113 James W. (1890), Plum F. (1994). 114 Plum F., Posner J., (1982). 115 Jennett B., Plum F., (1972). 116 Plum F., Posner J., (1982). 47 3.1. Quanto è vegetativo uno stato vegetativo?117 La mancanza di prove della consapevolezza, viene accettata come prova della sua mancanza; ma è chiaro che una simile prova non prova nulla, data l’impossibilità di esibire comportamenti che manifestino l’esistenza di un’interiore consapevolezza di sé e dell’ambiente esterno non equivale senz’altro alla mancanza di una simile consapevolezza118. Si dice che lo stato vegetativo non abbia alcuna consapevolezza di se stesso e dell’ambiente esterno, non sia in grado di intraprendere alcun comportamento motorio volontario, né di rispondere in maniera riproducibile e coerente a stimoli esterni di qualunque genere; inoltre, si sostiene che il paziente vegetativo non mostri in nessun caso di possedere un’esperienza cosciente del dolore o della sofferenza, poichè esperienza implica un’elaborazione a livello corticale che non è possibile in questi pazienti119. Ma l’esperienza concreta mi permette di storcere il naso di fronte a tali affermazioni. Indubbiamente è vero che un certo tipo di esperienza consapevole non è possibile in questi pazienti, o quantomeno non è decifrabile. Assumere che il paziente non abbia ‘alcuna consapevolezza di se stesso e dell’ambiente esterno’ significherebbe negare la possibilità d’intervento musicoterapico, che mira proprio a incentivare e guidare la contattabilità con l’esterno del paziente in SV. Il paziente in SV – così come i qualsiasi altro essere umano – ha una sua peculiarità, ha la sua individualità e unicità (che in questo caso, diventa tanto più un importante elemento di distinzione) che non si può dire valga universalmente l’affermazione dell’assenza di consapevolezza dell’ambiente esterno. Il fatto di non saper rispondere in maniera riproducibile è un assunto del tutto soggettivo (e lontano dai concetti di empatia e sintonizzazione – fondamentali nell’intervento musicoterapico). Nell’ultimo decennio, inoltre, molte indagini neurofisiologiche su pazienti SV, hanno rilevato delle risposte evocate a lunga latenza (definite con l’acronimo ERPs), compatibili con processi di elaborazione cognitiva – a volte caratterizzati da una complessità notevole120. In particolare, si sono osservate risposte a stimoli tonali semplici ma imprevedibili, a stimoli semantici (legati al contenuto), a stimoli 117 Si veda Schoenle P.W., Witzke W., (2004). Monti M.M., Laureys S., Owen A.M., (2010), pp. 292-296. 119 Reichlin M., (2012), pp.7. 120 Alcune fonti di questi lavori sono: Kotchoubey et al. (2001, 2005, 2006); Schiff et al. (2002); Schoenle e Witzke (2004); Wijnen et al. (2007); Cavinato et al. (2011); Faugeras et al, (2011). 118 48 nominali (nome proprio in rapporto ad altri nomi). La questione interessante è data dal fatto che le risposte vengono evocate solo dagli stimoli significativi (denominati target di riferimento) e non da quegli stimoli considerati irrilevanti: questo sottende un processo di riconoscimento e rappresentazione (o classificazione) percettiva. Simili risultati ci pongono di fronte ad una domanda: il rilievo di tali processi di elaborazione cognitiva in pazienti SV è connesso all’esistenza di forma di coscienza – seppur elementari – in questi soggetti? Ad oggi, non esiste una risposta a tale quesito, ma questo ci permette di screditare l’assunzione categorica che lo stato vegetativo sia privo di ogni interazione e percezione con l’esterno. Il discorso sulla consapevolezza resta uno degli aspetti problematici della diagnosi di stato vegetativo, proprio per il carattere intrinsecamente soggettivo della consapevolezza. La letteratura filosofico-psicologica ci mostra l’inafferrabilità della coscienza e l’inevitabile discrepanza esistente tra l’essere coscienti e il manifestare all’esterno tale condizione; se ad essa aggiungiamo l’elevata possibilità di confondere comportamenti reattivi automatici con comportamenti intenzionali e viceversa, si può facilmente comprendere gli errori diagnostici che – secondo alcuni autori – si aggirerebbero intorno al 43% (su 100 pazienti dichiarati in stato vegetativo, 43 si trovano invece in uno stato di minima coscienza o locked-in). Quando ho svolto il tirocinio presso la struttura monzese (San Pietro 2), il dott. Magnoni – responsabile del reparto di stati vegetativi – durante uno dei confronti bisettimanali svolti con gli operatori delle terapie alternative presenti in struttura (musicoterapia, pet teraphy e shiatsu), ci mostrò le tabelle sottostanti e ci pose di fronte al seguente quesito: su una cinquantina di pazienti ricoverati come stati vegetativi, una decina – almeno – di questi, secondo i risultati della Coma Near Coma Scale cui sono stati sottoposti, non risultano essere stati vegetativi ma potrebbero già appartenere alle minime coscienze. Come si spiega questo ‘errore’ di classificazione? L’errore di non riconoscere un eventuale stato di coscienza, può spesso avvenire a causa di gravi disabilità fisiche che possono severamente pregiudicare la possibilità di comunicare con la realtà esterna. The Economist intitolava un articolo del luglio 2009, Sfortunatamente per alcuni121, riferendosi esattamente alla questione degli errori diagnostici; in esso venivano 121 The Economist, Unlucky for Some, July 23rd 2009, http://www.economist.com/node/14082037 49 ricordati i resoconti statistici di Keith Andrews, nel 1996, sui pazienti ricoverati al Royal Hospital for Neurodisability di Londra122: il 40 % delle diagnosi di stato vegetativo erano errate. È pur vero che la categoria di ‘stato di minima coscienza’ non era ancora stata internazionalmente codificata in quegli anni (la sua codifica avvenne solo nel 2002) e quindi, si potrebbe obiettare, che quella percentuale sia oggigiorno superata. Ma purtroppo così non è, come esemplifica la stessa domanda postaci dal dottor Magnoni. 122 Andrews K., Murphy L., Munday R., Littlewood C., (1996), pp. 13-16. 50 La distinzione tra stato vegetativo e stato di minima coscienza è di grande importanza non solo per le caratteristiche intrinsecamente diverse delle due condizioni ma anche per le diverse prospettive prognostiche delle due tipologie di pazienti: con la minima coscienza, infatti, si possono pensare e strutturare veri e propri progetti di riabilitazione attraverso l’intervento musicoterapico, mentre con gli stati vegetativi si lavora principalmente sulla contattabilità e sul rilassamento. 4.1. Sensazione e percezione123: la realtà oggettiva e la realtà fenomenica Un ultimo paragrafo per un argomento ancora da considerare che potrebbe risultare utile nella trattazione dei pazienti in stato vegetativo. Anche in questo caso si tratta di un’argomentazione filosofica, che si può riscontrare nella maggior parte dei manuali. La realtà fisica e la realtà fenomenica non sempre coincidono, come mostrano chiaramente le famose illusioni di Müller-Lyer: 123 Distinguiamo la sensazione – impressione soggettiva, immediata e semplice che corrisponde ad una determinata intesità dello stimolo fisico – dalla percezione – organizzaizone immediata, dinamica e significativa delle informazioni sensoriali, corrispondenti ad una data configurazione di stimoli, delimitata nello spazio e nel tempo. 51 La prima freccia sembra più corta della seconda freccia, quando in realtà i segmenti base che definiscono le due freccie sono di uguale lunghezza. Secondo la realtà fenomenica quindi, noi: - percepiamo oggetti che fisicamente non esistono - percepiamo qualità che fisicamente non esistono - non percepiamo oggetti che fisicamente esistono Così come nelle illusioni ottiche, si tratta di una organizzazione del campo visivo: occorre domandarsi quali zone del campo tendono ad assumere il ruolo di figure e quali zone assumono il ruolo di sfondo; lo sfondo non ha né forma né contorni. Con la percezione, si hanno informazioni ben coordinate relative al mondo, sia coscientemente, sia inconsciamente. Lo stesso messaggio può essere modulato in un momento di depressione, di malinconia, o sotto l’influenza di droghe ed allora la 52 risposta allo stimolo sarà regolata in dipendenza dello stato mentale che c’è al momento. Se ci venisse chiesto quanti sono gli organi sensoriali, ciascuno di noi risponderebbe indubbiamente: cinque! Vista, gusto, udito, olfatto e tatto. In realtà, dal punto di vista della percezione, l’essere umano gode di un numero maggiore di sensi utili all’interscambio con l’ambiente; così ai cinque sensi conosciuti ai più, occorre aggiungere altri sensi: la temperatura, il dolore, l’equilibrio statico e la consapevolezza corporea (detta anche sensazione propriocettiva). In particolare questi ultimi risultano molto utili in ambito di SV. Spesso usate indistintamente, i concetti di sensazione e percezione portano con sé notevoli differenze; la sensazione deriva dal contatto con uno stimolo esterno e dalla conseguente attivazione dei recettori sensoriali. Invece, la percezione risulta essere la vera e propria organizzazione dei dati sensoriali, riuniti in un’esperienza complessa, come prodotto finale dell’elaborazione dell’informazione sensoriale proveniente dalle diverse parti dell’organismo. È importante ricordare, come si vedrà nel prossimo capitolo, che uno degli attributi della coscienza è quello di ‘percezione della realtà del mondo come a sé stante’. Non è possibile – come sostiene Wilhelm Wundt124 – descrivere le sensazioni, ma queste restano eventi esclusivamente soggettive e nessuno, al di fuori di noi stessi, può averne un’esperienza diretta – per quanto possiamo parteciparle ad altri. Se, nonostante quest’ampia variabilità soggettiva e intersoggettiva, un determinato evento dell’ambiente fisico è descritto in modo simile da persone diverse, può essere ragionevole assumere che queste persone possano avere sensazioni simili. Per questo motivo esiste una relazione sistematica tra lo stimolo fisico e la sensazione degli individui. Le relazioni di questo tipo sono dette relazioni psicofisiche, in quanto sono correlate a variabili fisiche e psicologiche (stimoli e sensazioni). 124 Wilhelm Wundt (1832-1920), filosofo, psicologo e fisiologo che ebbe un’importante influenza nello sviluppo della odierna psicologia scientifica, assumendo come paradigma sperimentale quello della psicofisica di Weber e Fechner. La Psicofisica s’interessa delle relazioni che intercorrono fra gli attributi soggettivamente definibili di una data sensazione e gli attributi fisici controllabili dello stimolo corrispondente. 53 Da un punto di vista scientifico – ma anche dal punto di vista specifico di questa dissertazione – potrebbe risultare interessante determinare le soglie della sensibilità umana; questo per poter stabilire in casi particolari – come quello degli stati vegetativi – il livello di ‘presenza’ della persona. L’essere umano non risponde a tutte le stimolazioni ambientali: la nostra sensibilità ha dei limiti. Siamo sensibili solo alle forme d’energia per la quale abbiamo appositi ricevitori: gli organi recettori o di senso. Inoltre, l’energia deve essere abbastanza intensa perché produca una sensazione avvertibile da un soggetto umano: una luce può essere vista solo se intensa, un suono può essere udito solo se abbastanza forte. Gli studi sulle soglie di udibilità hanno messo in evidenza come, variando l’intensità di uno stimolo, sia possibile determinare il livello minimo necessario a suscitare una sensazione (noto come soglia assoluta) che segna il confine tra i livelli d’energia sufficienti per suscitare una sensazione avvertibile e quelli troppo deboli per farlo. Gli psicologi hanno cercato di stabilire esattamente quanto una differenza nello stimolo debba essere grande per poter essere avvertita dai soggetti e sono giunti a determinare il concetto di soglia differenziale (si veda la legge Weber-Fechner, Capitolo 3). Nel 1834, un medico tedesco, Ernst Heinrich Weber verificò che la soglia differenziale (DeltaR) di ciascun tipo di stimolo è una frazione (proporzione) 54 costante (K) dell’intensità dello stimolo (R) iniziale, esprimibile secondo la seguente formula: K = Delta R R Nel 1860, Gustav Theodor Fechner concepì la sensazione come una variabile continua e si propose di esaminare in che modo potesse variare la sensazione S al variare continuo dell’intensità della stimolazione R. Fechner si rese conto che la sensazione è direttamente proporzionale al logaritmo dell’intensità dello stimolo secondo la legge di Fechner: S = c log R + C dove c è la costante di proporzionalità di Weber e C una costante di integrazione. In altre parole, all’aumento in progressione geometrica dello stimolo corrisponde un aumento in progressione aritmetica della sensazione. Numerose ricerche, condotte per le varie modalità sensoriali, hanno dimostrato la validità della legge di Fechner a un livello di approssimazione decisamente buono, salvo per i valori più alti e più bassi delle scale di intensità. Le tecniche per misurare le soglie sensoriali e la sensibilità alle variazioni nella sensazione, benché siano generalmente efficaci, non sono prive di difetti. I concetti di soglia assoluta e differenziale sono basati sull’assunto che, quando è presentato uno stimolo ad un soggetto, quest’ultimo o lo rileva o non lo rileva. Non si è tenuto conto che tale rilevazione di solito è associata con processi di decisione, perché il soggetto deve decidere la presenza o l’assenza di uno stimolo, rispetto ad un rumore di fondo ( filtri percettivi). 55 Vibrazione cellulare in risposta ad emissione sonora. Sensazione e percezione sono due potenti strumenti di connessione dell’individuo con il mondo esterno; c’è una vera e propria consapevolezza umana di essere di carne, sangue e ossa, oltre ad essere biologicamente vivi e reali. Il nostro essere intercalati in un corpo ci fa sentire esposti ai pericoli cui è soggetto il corpo (lesioni, mutilazioni, malattie, decadimento e morte) così come ci fa sentire suscettibili dei desideri legati al corpo o alle frustrazioni corporali. L’individuo diventa persona partendo dall’esperienza del corpo. Sono state proprio le ricerche su pazienti con il dolore e la paralisi dell’arto fantasma ad evidenziare relazioni importanti tra la sensazione dolorifica e l’immagine corporea. Esami con la fMRI (Risonanza Magnetica Nucleare Funzionale) mostrano che appena questi pazienti migliorano, le mappe motorie relative ai loro arti fantasmi si estendono ed il restringimento della mappa che accompagna l’amputazione diventa reversibile: le mappe sensoriali e le mappe motorie si normalizzano. Questa consapevolezza umana viene anche denominata coscienza-extra, ed è la parte di autoconsapevolezza (consapevolezza automatica involontaria, o consapevolezza in potenza), strettamente connessa col corpo e con la sua omeostasi generale125. 125 Vedi Budetta G.C.,(2012). 56 Capitolo 3 L’intervento con pazienti in stato vegetativo Mi piace il verbo sentire... Sentire il rumore del mare, sentirne l'odore. Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra, sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco. Sentire l'odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo col cuore. Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente... (Alda Merini) Sentire è il verbo delle emozioni. Che cosa sentono gli individui in stato vegetativo? Quanto è differente dal sentire di uno stato di minima coscienza? Nella mia esperienza di tirocinio mi sono trovata spesso di fronte all’esigenza mediconeurologica di misurare il sentire di questi pazienti. Avere una conoscenza oggettiva del loro sentire ci fa ‘sentire’ più sicuri, ci fa percepire come un po’ più di solida la relazione che stiamo vivendo o cercando di instaurare con il paziente. Ricordo, per portare un esempio, che mi si chiese di fare un esperimento con un paziente in SV: entrare nella stanza all’improvviso e fare ‘un gran rumore’ ma restando nascosta dal suo campo visivo, per testare il livello della sua percezione uditiva. Appunto, percezione uditiva, non il livello del suo sentire. Perché, sebbene nel linguaggio colloquiale, utilizziamo in maniera indistinta il verbo ‘sentire’ in riferimento esclusivo all’organo sensoriale uditivo, esso porta con sé numerose sfumature, che fanno di questo verbo un qualcosa di unico, è il verbo che ci rende esseri umani, persone. I seminari con Antonella Grusovin mi hanno affrancato un concetto letto e riletto sui libri: noi siamo prima di tutto corpo. È il corpo, tutto, che sente, non solo l’udito. Le lezioni con Bruno Foti mi hanno insegnato l’importanza della pelle che sente; le chiacchiere con Davide Ferrari hanno posto in evidenza l’importanza di 57 sentire il paziente e ascoltare come egli possa sentire, nei limiti della sua condizione. Il soggetto in SV ha un sentire diverso dal nostro; non possiamo immaginare di misurare il suo sentire sulla base dei nostri parametri percettivi (quello lo fanno le scale di valutazione, che hanno come fine ultimo quello di categorizzare i soggetti in uno ‘stato’ piuttosto che in un altro; non hanno il fine di capire il paziente e il suo sentire). Alcune linee guida le possiamo definire, possono essere utili, come – ad esempio – la mancanza di tempo di reazione (i pz in SV non hanno tempo di reazione rispetto allo stimolo uditivo – come può essere il battito del tamburo – ma essa avviene contemporaneamente allo stimolo stesso; per esempio, una paziente di Monza, chiudeva le palpebre a tempo, nel senso che esse cadevano nell’esatto istante in cui il mio tutor batteva la mano sul tamburo). Ma per tutto il resto, si tratta di una scoperta in sordina, fatta anche di risposte che sorprendono, che spiazzano. Molti operatori con cui ho lavorato, parlano dei pazienti in SV dicendo, “eppure lui/lei c’è”! Questo esserci è dato dal sentire, un verbo che assume un’importanza estrema in un contesto come questo. È l’esserci heideggeriano di Essere e Tempo, Per esistenza non si intende una "proprietà", cioè la semplice-presenza di qualcosa come questo o quell'essere umano. Per esistenza si intende ogni modo d'essere dell'uomo (esserci). "Esserci" non indica dunque l'uomo in quanto singolo (questo o quello) ma il suo "essere" in quanto "esistente" (esistente umano).Se l'esserci non è una proprietà ma il nostro modo d'essere - il mio, il tuo - noi possiamo sia "conquistare" il nostro modo d'essere, sia "perderlo", sia "conquistarlo apparentemente"126 E in questo senso, più di ogni altro individuo, lo stato vegetativo incarna questo esserci, comprendente l’esser-ci come situazione emotiva: non c’è esistenza priva di tonalità emotiva, fosse anche l'indifferenza, perché l’uomo è sempre immerso in un determinato umore; l’esserci è un esistere emotivamente. Ed è proprio su questo esistere emotivo che l’intervento musicoterapico poggia le sue basi. Partiamo dal presupposto che la musica sia veicolante di emozioni: noi ci accordiamo su queste emozioni, ci sintonizziamo affettivamente sul paziente. E in seguito a questa sintonizzazione creiamo un dialogo che va oltre il ‘parlare’, ed è in un certo senso più profondo – sia perché si tratta di emozioni (un conto è parlare della felicità e altro conto è essere felici), sia perché abbiamo oggettivamente a che fare con qualcosa di 126 Fabris A., (2004). 58 profondo, che sta al di sotto dalla superficiale (in senso letterale) comunicazione. Ma tornando alla richiesta ‘sperimentale’ che mi fu sottoposta in sede di tirocinio: che senso avrebbe avuto un esercizio del genere se non una rassicurazione personale (e del personale tutto)? Che senso avrebbe definire con precisione in quale range di Hz percepisce l’udito di Giancarlo? Il sentire di Giancarlo – come quello di qualsiasi altro ospite – è definito non solo in base alla sua percezione acustica, o quanto comprende (nel senso di elabora) di tale percezione, ma anche dal corpo, dalla pelle, dalla semplice presenza. Un esempio che chiarisce questo discorso è quello della filodiffusione; in entrambe le strutture in cui ho lavorato come tirocinante, era presente un sistema di filodiffusione che permette la diffusione, appunto, in tutte le camere, della musica da un monitor centrale. Il fondamentale problema di questo sistema è il fatto di essere un sistema unico, non separato in zone, tanto meno in camere. Se si invia la musica, la si invia in tutto il reparto. Questo intervento musicale viene percepito in maniera piacevole dagli operatori, ma che cosa dire dei pazienti? In questa maniera – innanzitutto – s’impone a tutti l’ascolto di una stessa canzone/musica senza tenere conto della differenza culturale e di generazione. Tuttavia, questa resta una questione tutto sommato trascurabile se confrontata con una seconda questione molto più importante: gli stati vegetativi costituiscono una tipologia di pazienti molto eterogenea, proprio perché differenti sono le cause del trauma cranico e, spesso, altrettanto differenti risultano essere le zone interessate dal trauma. Quindi, è altamente probabile, che ogni soggetto percepisca i suoni in modo del tutto soggettivo e peculiare, di una peculiarità che non si limita ad interessare l’ambito del piacere e dei gusti soggettivi, ma interessa la percezione acustica stessa. Il fatto stesso che una seduta-tipo di musicoterapia con questi soggetti si svolga all’interno di un contesto fatto di suoni semplici resi poco per volta più complessi, fa dedurre che l’arrivo improvviso di una canzone dalla filodiffusione, non venga percepito come tale, ma piuttosto come un grande fracasso, oppure non viene proprio percepito. A mio avviso, occorre domandarsi quanto i benefici della filodiffusione siano rivolti agli operatori o ai pazienti; non che gli uni possano essere destinatari di benefici e gli altri no, ma occorre avere ben presente ciò che si sta facendo. Personalmente sono contro questo genere di ‘percezione musicale’ ambientale: la clinica non è un supermercato, vi sono persone che stanno male, insieme a persone che cercano di tirare avanti, insieme ad altre che forse non hanno la coscienza dei 59 giorni che passano. Lo ritengo un intervento estremamente invasivo, che non tiene conto di troppi elementi importanti per il benessere generico della persona – non solo per quello dei pazienti. È l’assunzione e la presunzione di poter conoscere a prescindere da innumerevoli variabili (età, genere, cultura, gusti musicali) il sentire dell’altro, dei pazienti. Ciò non nega che sarebbe bello poter comprendere il sentire di uno stato vegetativo o di minima coscienza, capirlo e entrarvi dentro (cosa altrettanto difficile); è un grande sforzo (almeno inizialmente) quello che deve compiere il musicoterapista nei confronti di questi pazienti: non proiettare il proprio vivere sull’altro – anche in termini banali di percezione sensoriale (la nostra percezione è significativamente differente da quella di ogni altro essere vivente, ma la nostra e quella di uno SV lo è ancora di più), mantenere quella che un amico mi definì un giorno ‘separazione tra figura e sfondo’; deve imparare ad entrare e uscire nello stato emotivo che si crea nella relazione. Deve evitare il rischio di perdere di vista il paziente e sovra-caricarlo di stimoli nel nome di una proiezione sensoriale del tutto personale e rivolta al musicoterapista. Tutto questo dedicandosi a micro-obiettivi, valutazioni oggettive e monitorabili. Perché cadere nella trappola del coinvolgimento e della lettura personale dei pazienti è cosa molto ricorrente e facile da farsi, specialmente quando ci si trova di fronte a situazioni sfocate, difficilmente comprensibili e a volte molto oscure. Darsi i microobiettivi permette di costruire un percorso valutabile di settimana in settimana, di seduta in seduta, in modo da avere l’opportunità di modificare il percorso stesso – esattamente come avviene in qualsiasi forma di buona comunicazione, in cui l’emittente e il ricevente si accordano continuamente sulla base dei feedback reciproci, reimpostando le modalità della comunicazione di volta in volta, per renderla migliore. Come mi disse un giorno un amico, «l’aspettativa non è una questione che riguarda il paziente gravemente compromesso. Si può solo essere con lui, dedicarsi a lui, come con un neonato o un terminale». 60 1.1. L’intervento su SV e MCS: quale tipo di linguaggio? Dal punto di vista clinico, le tipologie di intervento rivolte a stati vegetativi sono distinguibili in tre categorie: 1. gestione fisica del paziente 2. neuromodulazione farmacologica 3. neuromodulazione non farmacologica Nello specifico si esplicano in: diagnosi differenziale tra stato vegetativo e minima coscienza, indicatori prognostici in relazione al recupero della coscienza, alla disabilità (GOS, E-GOS, DRS) ed alla qualità della vita, trattamenti (farmacologici e non) e fattori interferenti con il recupero della coscienza. Sebbene da un punto di vista burocratico vi sia la tendenza a inserire la musicoterapia nei trattamenti non farmacologici, in realtà è bene esplicitare che questa tipologia di intervento si dedica alla persona nella sua interezza, sia come paziente, che come essere umano, sia come disabile neurologico che come disabile fisico, sia dal punto di vista del recupero della coscienza che della qualità della vita. Nel suo articolo Il primo approccio del musicoterapeuta al post-comatoso in stato vegetativo o “di minima risposta”127, Dario Benatti parla – e chi scrive condivide – degli obiettivi perseguibili dall’approccio musicoterapico agli stati vegetativi (o MCS), in questi termini: «Condurre il pz verso l’evocazione e lo sviluppo delle sue potenzialità residue e il riequilibrio del proprio rapporto con il mondo esterno, con sempre maggior autonomia e autosufficienza». Nel riequilibrio del proprio rapporto con il mondo esterno sta il miglioramento della qualità della vita del paziente in stato vegetativo e di minima coscienza; egli dev’essere condotto per mano alla scoperta del mondo nuovo e sconosciuto nel quale si è ritrovato improvvisamente; si tratta proprio di una condizione ‘nuova’, in cui lo spaesamento è uno degli elementi principali. Attraverso quelle che sono le potenzialità residue, che a volte appaiono minime e molto blande ma non per questo 127 http://www.musicoterapia.it/Il-primo-approccio-del.html 61 inutili, si può lavorare sull’orientamento in questo nuovo ‘esterno’ con il quale il paziente si trova a che fare. Parliamo di ambiente che cambia, ma ovviamente è la percezione del paziente nei confronti di questo ambiente che è mutata: il paziente, in seguito al trauma, assume un nuovo modo di vedere e sentire ciò che lo circonda e, inoltre, un nuovo e diversissimo modo di rapportarsi con esso. Noi, in quanto esseri umani in relazione con gli altri e con il mondo, ci creiamo delle ‘mappe del mondo’ che ci permettono di avere dei punti di vista sulla base dei quali orientarci nel nostro interagire costante. Il paziente in stato vegetativo (o di minima coscienza) deve essere aiutato a ridisegnare la sua mappa del mondo. Una nuova epistemologia entra in opera a generare la nuova personalità del soggetto. Tutto cambia: la modalità di input (a livello degli schemi sensoriali-percettivi), di elaborazione dei dati e di output o manifestazione-espressione di sé. Secondo il metodo Feuerstein, l’intelligenza non è un tratto ereditato geneticamente e perciò immutabile, ma è uno stato, il risultato di diverse componenti – di cui quella genetica non è l’unica, né la più importante. L’intelligenza è la propensione dell’organismo a modificarsi nella sua struttura cognitiva, in risposta al bisogno di adattarsi a nuovi stimoli, di origine interna o esterna che siano128. La prima cosa da fare (prima di applicare qualsiasi metodologia) è ricercare un contatto empatico con il paziente – consapevoli dei limiti che la situazione pone – e soffermarsi ad ascoltarlo, entrare nei suoi panni per avvicinarci il più possibile a questo modo di essere e di manifestarsi che è tanto nuovo per noi quanto per lui. Gli obiettivi specifici che dobbiamo considerare nel trattamento musicoterapico con questa tipologia di pazienti, sono: § favorire la ristrutturazione della coscienza del sé (dalla percezione di sé – che è qualcosa di totalmente nuovo per il paziente – alla ricostruzione dell’immagine di sé e del proprio schema corporeo) § favorire la ristrutturazione dell’orientamento spazio-temporale attraverso una vera e propria rieducazione dei tempi e dei modi dell’attenzione; è molto importante che il soggetto riesca a ritrovare un senso in ciò che gli accade, intorno e dentro di sé – nel tempo e nello spazio 128 Feuerstein R., (1998). 62 § favorire la ricostruzione di una reazione di attaccamento, per ottenere una buona sicurezza emotiva nei confronti del mondo circostante; ciò diventa di estrema importanza per migliorare la comunicazione e la relazione con l’esterno (siano essi i famigliari, gli operatori o semplicemente l’ambiente). La ristrutturazione della coscienza di sé avviene in virtù del fatto che il paziente, in seguito al trauma (e nella fase post-coma) non ha più la stessa capacità di percepire e immaginare il proprio corpo, poiché ha perso i confini tra quel corpo e l’ambiente circostante (e persino tra il proprio corpo e quello degli altri): dopotutto quel corpo è cambiato. Inoltre, il coma causa una sorta di parcellizzazione disorganizzata della memoria e della stessa coscienza. Quindi, la ristrutturazione della coscienza di sé necessita dell’integrazione di diversi percorsi (che cooperano e si influenzano reciprocamente) che comprendono la ristrutturazione dello schema corporeo e la riorganizzazione delle capacità residue della memoria in termini di ‘vissuti del corpo’. I soggetti in stato vegetativo e in minima coscienza, lavorano già in questa direzione in maniera istintuale: esiste già una organizzazione primitiva di questo tipo. In termini pratici, la ristrutturazione della coscienza di sé passa attraverso un continuo processo di destrutturazione e ristrutturazione dello schema corporeo, processi al quale contribuiscono in primis la percezione, la sfera affettivo-relazionale (e sicuramente anche una maturazione cognitiva). Per questo diventa molto importante la stimolazione sensoriale. Anche la componente emotiva è una forza importantissima per i processi costruttivi: nella fase post-comatosa, infatti, esattamente come nelle prime fasi di vita, gli eventi esterni si animano secondo valori emozionali e i percorsi esperienziali che proponiamo a questi pazienti devono essere sempre permeati di emozioni (positive), che a loro volta devono essere modulate con gradualità, per garantire una sana ristrutturazione dei confini perduti dello schema corporeo. In merito alla ristrutturazione dello schema corporeo, è interessante ricordare in questa sede la suddivisione delle modalità di rappresentazione del corpo di Frans Veldman 129 , medico fiammingo ideatore dell’aptonomia 130 . Sebbene Veldman 129 Veldman F., (1989). L’aptonomia (gr., hapsis = tocco + nomos = regola) viene definita ‘tecnica del contatto attraverso l’affettività’; il pioniere fu il medio fiammingo Frans Veldman, che inizialmente la pensò nella sua 130 63 evidenzi che in una visione olistica della persona non è pensabile considerare le modalità rappresentazionali come parti disgiunte, ognuno di noi si rappresenta in un corpo sostanziale (corps), un corpo funzionale (corporel) e un corpo espressivo (corporalité). Il corpo sostanziale rappresenta il puro e semplice corpo nell’insieme delle cellule che lo compongono; il corpo funzionale rappresenta l’insieme delle funzioni vitali – battito cardiaco, respiro, sistema neurovegetativo – che sono influenzate dalle caratteristiche del modo di vivere e dell’esperienza; il corpo espressivo, infine, racchiude e completa i primi due, esprimendo il modo di essere soggettivo (e del tutto personale e unico) del soggetto, nell’autentica manifestazione di sé (il ‘corpo rivestito di anima’ per riprendere le parole del medico fiammingo). La suddivisione di Veldman ci ricorda di prestare attenzione ai livelli corporei più profondi dell’espressività della persona, soprattutto in queste tipologie di persone. Diventa fondamentale allora, in questo contesto, utilizzare in maniera adeguata il contatto con la corporalitè, perché ci può fornire molte informazioni sul sé dell’individuo che abbiamo di fronte, oltre ad esserci molto utile nella pratica per sviluppare il lavoro di rispecchiamento e sintonizzazione. Per entrare in sintonia con il paziente, infatti, ogni musicoterapista fa sua la postura propria del soggetto, il tono muscolare, e persino il respiro per potersi sincronizzare su di esso; questi fungono da elementi ritmico-energetici sui quali possiamo costruire il progetto di lavoro. Partendo dai vissuti (attuali) del proprio corpo e del mondo esterno, il soggetto viene portato gradatamente alla ricostruzione dell’immagine di sé. In questo percorso, bisogna tener conto del fatto che il paziente vive per la maggior parte del tempo un rapporto conflittuale con il proprio corpo: il suo corpo è fonte di dolore. È importante, quindi, scegliere esperienze piacevoli, benefiche e gratificanti, nell’ottica della ristrutturazione neuropsicologica. È fondamentale, inoltre, ricordare l’importanza del contatto: la pelle ha un ruolo non solo di contenimento fisico verso l’esterno, ma anche di contenimento psichico verso l’interno. Unire la percezione applicazione alla fase neonatale. Da più di 10 anni è utilizzata con risultati molto soddisfacenti anche in altre fasi della vita, accanto alle cure palliative o come massaggio per la fase post-comatosa. Questa tecnica si basa sulla concezione del tatto come il senso del corpo interno: esso è l’organo di senso legato alla pelle e alla superficie del corpo ma, contrariamente alla vista e all'udito, ci fa sentire le cose “all'interno" di noi stessi. Allo stesso tempo, la pelle è l’organo attraverso il quale possiamo conoscere, memorizzare, valutare e registrare tutte le percezioni. Il contatto fisico è un bisogno fondamentale tanto per la persona quanto per il malato; l’aptonomia non è solo una tecnica del massaggio ma un modo per trasformare la vicinanza in dialogo, in reciprocità in grado di conferire rispetto, ascolto, accudimento alla persona. 64 uditiva (il suono, la musica) a quella tattile, può offrire al paziente un’esperienza più integrata e costruttiva. Certo, resta il dubbio di ‘fare cosa gradita’ al paziente. Sulla base di quale presupposto io posso affermare con certezza che nel contatto con la mano il soggetto che ho di fronte provi benessere? (a maggior ragione se partiamo dal presupposto che la pelle sia veramente un contatto più profondo di tanti altri). Come evidenziano Lucia e Michele Cavallari in Suono, Musica, Musicoterapia, Se il paziente, dopo la domanda, abbassa adagio le palpebre, sembra davvero voler rispondere. Ma lui le abbassa una volta sì e una volta no, le abbassa anche in altri momenti e, soprattutto, le abbassa a volte per parecchi secondi. È davvero una risposta? Un segno di comprensione di quanto gli è stato chiesto? La volontà di comunicare?131 La comunicazione che si sviluppa con lo SV e MCS è una tipologia di comunicazione che può essere descritta con una delle parole chiave di Stern: l’amodalità. La sintonizzazione è una comunicazione a tutto campo, che mette in gioco il corpo e l’anima delle persone coinvolte nel dialogo132. È una comunicazione altra, fatta di condivisione di una profondità che non può essere espressa dal linguaggio: «Attraverso il linguaggio è possibile comunicare l’esperienza emotiva, riflettere su ciò che si è già provato e attribuire a questa esperienza un nome, un’etichetta verbale; molto più difficilmente il linguaggio può essere usato come mezzo per esprimere in maniera diretta le proprie emozioni – solo alcuni linguaggio come quello poetico o mistico possono raggiungere questo scopo – mentre alcuni segnali non verbali, in primo luogo le espressioni facciali, riescono egregiamente ad assumere questa funzione»133. Entrare in relazione con soggetti in stato vegetativo e un lungo percorso di conoscenza; inizialmente mi ponevo in ansia di fronte alla necessità di trovare la strada comunicativa giusta da percorrere, di fronte alla frustrazione data dall’incomprensione dell’altro. Poi un amico, musicoterapista da più tempo di me, mi ha ricordato che occorre prima di tutto ascoltare; e così mi sono messa in ascolto. Ascoltare ci mette a disagio: un po’ per la presenza del silenzio – un elemento complesso della nostra esistenza – e in parte perché ci si sente inermi, fermi, nullafacenti. In realtà stiamo gettando le basi per costruire la nostra comunicazione 131 Cavallari L., Cavallari M., (2013), pp.19. Stern D., (1987), pp. 51 e pp.141-143. 133 Manarolo G., (2009), pp. 110. 132 65 sulla roccia e non sulla sabbia. I giorni passano, e ti rendi conto di ‘conoscere’ i pazienti, uno per uno, di sapere molte cose di loro, delle loro modalità, delle loro preferenze, di cosa li fa stare bene e cosa no. Eppure c’è stato ‘solo’ ascolto. Mi sono sentita spesso come una madre alle prime armi, che sente il bambino piangere e non sa perché, che cosa vuole comunicare. Passano pochi giorni – pochi incontri, nel nostro caso – e la madre sa perfettamente distinguere se si tratta di un pianto di fame, o se di dolore, se deve essere cambiato, o se vuole essere alzato e abbracciato. Eppure il bambino non ha parlato. È solo che la madre l’ha conosciuto, attraverso l’ascolto. Lo stesso accade con questi pazienti. Ed è di un ascolto del corpo che stiamo parlando. Il filosofo e matematico Poincaré anticipò alcuni concetti sul sé corporeo affermando: «lo strumento al quale rapportiamo tutto, non è altro che il nostro corpo (sé corporeo). È in rapporto col corpo che situiamo gli oggetti del mondo circostante, e le uniche relazioni spaziali di questi oggetti che ci possiamo rappresentare sono le relazioni col nostro corpo. È il nostro corpo che ci serve, per così dire, da sistema di assi di coordinate».134 2.1. Perché la stimolazione sonora? I ricordi musicali sono carichi di contenuti emotivi che sono recuperati in memoria molto facilmente anche in soggetti gravemente debilitati dal punto di vista cerebrale.135 Perché si dovrebbe dare valore e credito all’intervento musicoterapico in questo ambito clinico? La maggioranza degli studi dedicati agli effetti della musica sulle diverse malattie, condotti in ambito neurologico, mostrano evidenze di effetti positivi della musica su parametri motori e cognitivi di pazienti affetti da malattia di Parkinson, Alzheimer, sclerosi multipla, e spasticità; anche i pazienti affetti dalla sindrome di Tourette riescono ad acquisire una perfetta compostezza libera da tic mentre ascoltano o eseguono musica.136 137 138 134 Diacu F., (1996), pp. 66–70. Manarolo G., (2006), pp. 475. 136 Sacks O. (2008). 137 Henson R.A., Aspetti neurologici dell’esperienza musicale, in Critchley M., Henson R.A., (1987). 138 Storr A., (1993). 135 66 In un articolo del 2005 139 Wendy Magee definisce la musica uno “strumento diagnostico multidisciplinare” che consente una diagnosi differenziale tra SV (persistenti) e stati di MCS. Magee considera la musicoterapia un metodo di intervento clinico per stimolare in pazienti MCS una serie di comportamenti e di risposte fisiologiche ed espressive. Diversi sono gli obiettivi che l’autrice propone di raggiungere attraverso l’utilizzo clinico della musica: migliorare la comprensione del paziente (al fine di indirizzare gli interventi in conformità ai bisogni del paziente), utilizzare la musica come strumento di dialogo terapeutico (specialmente laddove il paziente non possa esprimersi verbalmente), e utilizzare la stessa come metodo riabilitativo in seguito a lesioni cerebrali. Nello stesso articolo Wendy Magee fornisce quattro ragioni per cui la musica può considerarsi trattamento efficace in queste casistiche cliniche. La prima ragione si basa sull’assunto che tutte le comunicazioni precoci si basino su parametri ‘musicali’ (altezza, tempo, metrica, composizione e articolazione, vocalizzazione). Un’altra ragione è quella che considera la musica un mezzo transculturale che dura tutta la vita; la terza ragione evidenzia la capacità della musica di rievocare e suscitare emozioni e trasmettere stati d’animo140. Infine, la quarta ragione, si riferisce al canale con cui viene percepita la musica, ossia l’apparato uditivo: dopo il tatto, è l’apparato più formato già ai primi mesi di vita ed è il più protetto dall’esterno. Alcune ricerche sulla percezione uditiva nelle sale operatorie141 confermano che nel canale uditivo, diversamente dagli altri sistemi sensoriali, le fibre uditive non sono interessate dall’anestesia, così continuano a trasmettere suoni, come se non smettessimo mai di sentire. Di fatto ciò accade anche quando dormiamo. Da ciò è possibile dedurre che anche in pazienti vegetativi o con un grado di coscienza minima, le fibre uditive continuano a trasmettere suoni e quindi la sollecitazione sensoriale uditiva diventa un canale preferenziale di stimolazione. Ciò nonostante, non bisogna dimenticare che l’apparato uditivo di un soggetto SV o MCS non è identico a quello di un individuo sano; le lesioni cerebrali – a seconda della loro natura – comportano una distorsione anche a livello uditivo (ne è un esempio il discorso della mancanza del tempo di reazione in alcuni di questi pazienti). 139 Magee W., (2005), 15 (3-4), pp.522-536. Si veda inoltre Bradt J., Magee W., Dileo C., Wheeler B.L., McGilloway E., (2010). 140 Questa tesi è sostenuta anche dalla pratica clinica di Gallo, si veda Gallo L., (2006). 141 Si vedano gli studi di Linda Rodgers: Freeman W.J., Rogers L., (2002), 87: pp.937-945. 67 Un ulteriore discorso a favore della stimolazione sonora (e quindi dell’intervento musicoterapico) è dato dall’analisi di Maurizio Spaccazzocchi a proposito di quelle che egli definisce memorie emo-fono-musicali; si tratta di un bagaglio mentale di suoni dalla natura dinamica, “capace di adattarsi e rinnovarsi in rapporto ai bisogni primari e secondari della nostra razza”142. Ogni suono presente nella nostra mente (e memoria) è inevitabilmente un indicatore di vissuti emotivi. Noi siamo questo bagaglio mnemonico interiorizzato, fatto di vibrazioni, rumori, suoni, ritmi, canti, musiche e sound, che a loro volta sono indicatori di tempi, luoghi, culture, eventi e vissuti esperienziali ed emotivi. Le esperienze di ascolto musicale che abbiamo fatto nella nostra vita, plasmano il nostro sistema uditivo: quindi la nostra memoria è l’insieme di tutto ciò che abbiamo permesso a noi stessi di percepire, selezionare e interpretare. «Siamo tutti portatori di un cervello musicale che, in ogni occasione della vita, potrà “riaccendere” memorie sonore che andranno a risvegliare vissuti emotivi di felicità e piacere come di tristezza e sofferenza»143. Anche questo da forza e sostegno all’intervento musicoterapico. La mente, il cervello, le nostre memorie e la nostra propensione percettivo-auditiva nei confronti del mondo esterno (che Spaccazocchi identifica come fonotassia) sono legati chimicamente alle nostre emozioni, agli stati d’animo, al nostro umore144. Molti altri sarebbero i contributi della letteratura a favore della stimolazione sonora, a partire dalla concezione stessa della musica in Benenzon (l’elemento sonoromusicale è inteso come espressione dell’identità sonora – ISO – che ha radici arcaiche e si colloca nella zona più intima dell’individuo) 145 , o il tema delle sintonizzazioni affettive descritto da Stern146, ma perderebbe di significato farne un excursus ora. Riprendo, pertanto, in forma di sintesi, le parole di Mancia: 142 Spaccazocchi M., Suoni in testa, in Spaccazocchi M., Postacchini P.L. (2012), pp.84. Ibis., pp.112. 144 Nello stesso articolo, Spaccazocchi riporta, infatti, una tesi di Pert (2000), in cui si spiega lo stretto rapporto tra memoria ed emozioni attraverso l’immagine dei peptidi come leganti, che trasmetterebbero emozioni e faciliterebbero il ricordo negli esseri umani. “L’emozione è quindi interpretabile a livello chimico come un peptide legante che si va a fissare sui recettori del nostro organismo, amplificando sia la percezione di tutti i sensi, sia riattivando la memoria in generale e quella fono-musicale” (Spaccazocchi M., Suoni in testa, pp.110). 145 Benenzon O., (1984). 146 Stern D. N., (1987). 143 68 Il linguaggio musicale è un linguaggio metaforico che, rispetto a quello verbale, può articolarsi anche in forme negate a quest’ultimo e che per questo può acquisire un valore superiore147. E sicuramente lo acquista in casi come il nostro, in cui il paziente è impossibilitato a comunicare verbalmente. Esistono diverse stimolazioni sensoriali che possono risultare adatte all’intervento con gli SV o MCS. La musicoterapia utilizza la stimolazione sonora, che risulta particolarmente adatta perché essa si percepisce non solo a livello della pelle (o cute), ma anche attraverso l’apparato scheletrico: entrambi trasmettono il suono lungo tutto il corpo. La possibilità di avere una percezione globale di uno stimolo, in soggetti in cui la capacità di registrazione dello stimolo visivo (stimolo per altro tra i più soggetti all’influenza dell’apparato neurologico) è compromessa dagli effetti del trauma cranico, così come avviene per lo stimolo tattile vero e proprio (altro discorso è la pelle), diventa una possibilità molto importante. Per quanto concerne gli stimoli olfattivi e gustativi, è presente in letteratura un importante riferimento alle disosmie olfattive e gustative, ossia l’alterazione di percepire odori e sapori, alterazione che si verifica – tra le diverse cause – anche in seguito ai traumi cranici. Anche lo stimolo sonoro non è indenne da alterazioni: indubbiamente il soggetto non riuscirà a registrare e interpretare lo stimolo al pari di un soggetto normodotato. Ma ciò che accade con questa tipologia di stimoli è differente dai precedenti: se non necessariamente come ‘nota musicale’ o come ‘accordo’, il suono, la musica vengono percepiti, in ultima istanza come vibrazioni – nella loro forma più elementare, prima ancora e oltre ogni culturalizzazione. Prima di essere musica, canzone, genere musicale, esso è suono, è un fenomeno fisico e in quanto tale percepito. Alcuni suoni poi, riecheggiano nel corpo emotivo, si legano ad un’emozione che – sebbene non sia completamente riconosciuta dal paziente – porta con sé un che di ‘famigliare’ che gli permette di percepire un senso di conforto, benessere, sicurezza, e di ‘sentirsi a casa’. Esattamente come il neonato che non ha ancora una percezione strutturata del mondo che lo circonda, che non riconosce bene i confini del suo io e quelli degli oggetti o delle persone intorno a lui, così il soggetto in stato vegetativo (e MCS) non si riconosce. Ma, istintivamente, riconosce un 147 Mancia M., (2002). 69 suono, una vibrazione, una pulsazione come famigliare, qualora questa si accordi o semplicemente incroci un’emozione, creando una preconcetta risonanza emotiva. Questo sintonizzarsi emotivo fa leva sulla musicalità intrinseca. 3.1. L’ascolto L’ascolto è in realtà l’atto intenzionale di accoglienza di sé e dell’altro da sé.148 Si è detto che l’ascolto è un elemento fondamentale nella costruzione della relazione terapeutica, specialmente con i pazienti in SV e MCS. Ma come possiamo rendere tale ascolto effettivamente una fonte di informazioni circa il paziente e la relazione musicoterapica che si sta instaurando? In parte si tratta di una capacità istintuale – quell’istinto materno di cui si diceva sopra – in parte possiamo regolare il nostro ascolto sulla base di quelle che Conrado identifica come strutture interpretative di ascolto (SIA)149: una struttura interpretativa d’ascolto non coincide con il suono in sé ma attiene a ciò che questo suono provoca nell’ambiente nel quale si inserisce, secondo la percezione che ne ha avuto l’ascoltatore; è una sorta di formula chimica che fornisce una rappresentazione, una formula di struttura contenente informazioni su legami e disposizione spaziale. Quante sono le strutture? Probabilmente sono infinite, ma le principali sono: ripetizione, incastro, parentesi, ripresa, sospensione, frattura, colorazione. Strumenti che aiutino a leggere le situazioni, fornendo un vocabolario di base con il quale raccontare i fenomeni sonori150. Le SIA, dunque, possono rappresentare uno strumento di lettura e descrizione molto utile nell’ambito terapeutico che stiamo trattando. Quando si parla di ascolto in ambito terapeutico, si sta parlando di un ascoltoaccoglienza; esso è, di fatto, un atto voluto e richiede in chi lo fa, il desiderio di superare la mera dimensione oggettivabile di quanto percepisce, volgendo il cuore e la mente alla ricerca intuitiva dei significati sottesi a quegli aspetti obiettivamente 148 Bonardi G., (2010). Conrado A., Paesaggi e strutture d’ascolto, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M. (2012), pp.120. 150 Conrado A., Paesaggi e strutture d’ascolto, pp.120-127. 149 70 rilevati con tanta cura151. Questo comporta che le diverse musicalità realizzate, le posture assunte dalle persone coinvolte nella relazione musicoterapica (il paziente, ma anche il musicoterapista) hanno un’anima (quindi un contenuto) da ascoltare e da accogliere. Come suggerisce Bonardi in L’ascolto come accoglienza: alla ricerca del kairos152, possiamo riprendere la distinzione degli antichi greci sul tempo, che loro definivano da un punto di vista logico-quantitativo utilizzando il termine kronos, ma che specificavano in termini qualitativi (definito come “momento giusto” o “tempo di Dio”) con la parola kairos. È a quest’ultima idea di tempo che facciamo riferimento nella seduta musicoterapica con pazienti in SV: cogliere quel momento giusto in cui accade qualcosa nella relazione, qualcosa che sembra impossibile vista la definizione che ne danno le cartelle cliniche. Il kairos è un’interazione emozionale che avviene quando due persone condividono per un tempo non misurabile quantitativamente (o, almeno, non è necessario misurarlo) un vissuto piacevole, che risuona ad entrambi. Di questa relazione, di questo ‘momento giusto’ non occorre conoscere il perché; è sufficiente interrogarsi sul come o, in alternativa, vivere l’esperienza e basta. All’interno del campo della percezione, è molto difficile stabilire delle relazioni e leggi oggettive; è ormai consolidata l’idea che uno stesso stimolo può provocare risposte diverse in soggetti diversi. Non solo. Come si è visto nel precedente capitolo, esiste una sostanziale discrepanza, tra quello che è lo stimolo e la percezione umana dell’intensità di tale stimolo – legge Weber-Fechner. Le risposte dei nostri sensi percettivi agli stimoli fisici esterni sono nient’altro che le sensazioni provate dal nostro organismo; in questo senso noi siamo sensibili soltanto agli stimoli per i quali abbiamo recettori ed organi di senso. Non sempre i pazienti in stato vegetativo o di minima coscienza posseggono tutti i recettori funzionanti; le sensazioni non sono altro che modificazioni dello stato (attuale) del sistema neurologico di un individuo, in risposta (o in seguito) al contatto con l’ambiente esterno; per questo l’intervento musicoterapico ha come obiettivo fondamentale la contattabilità del paziente. Essa definisce il prodursi o meno delle sensazioni: la 151 Bonardi G., L’ascolto come accoglienza: alla ricerca del kairos, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M., (2012), pp. 128-135. 152 Bonardi G., L’ascolto come accoglienza: alla ricerca del kairos, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M., (2012), pp. 128-135. 71 ricerca di un contatto diventa ricerca di sensazioni, per comprendere quali possono essere i canali di comunicazione con il soggetto che abbiamo di fronte. Si è detto ‘ricerca di sensazioni’ in quanto risposte ad uno stimolo, ma si tratta di risposte estremamente difficili da cogliere, catalogare, comprendere, se si pensa che la sensazione viene definita come uno ‘stato di coscienza’153, quella stessa coscienza che – in taluni casi e secondo alcune correnti – viene negata allo stato vegetativo154. Insomma, stimolo, percezione, sensazione, coscienza: questi sono gli elementi con i quali dobbiamo lavorare nella misura più oggettiva possibile; hanno la peculiarità di essere molto semplici da cogliere e molto difficili da definire, descrivere, mentalizzare. Esattamente come la musica. 3.1.1. Il silenzio: Con i pazienti in coma il silenzio è la sfida per il musico terapeuta. Non si tratta mai di un silenzio vuoto (Meschini R.) Rita Meschini sostiene che il silenzio assoluto non esiste, e riuscire a fare del silenzio uno strumento terapeutico al pari della voce, del suono, della musica, è la sfida di questa ambito di applicazione della musicoterapia. Il silenzio è anche l’unico momento che contrasta la sovra-stimolazione di input cui sono sottoposti i pazienti: il rumore continuo proveniente dagli apparecchi intorno a loro (saturimetro, idratazione, ossigeno, ecc), le voci dei parenti e degli operatori, radio e televisione accesi a volte tutto il giorno – nel paradossale tentativo di intrattenere i pazienti. Scrive Benenzon: «Il silenzio gioca un ruolo essenziale nella musicoterapia, fa regredire al periodo dell’assenza»155; esso è la prima espressione del paziente per ascoltarsi, conoscersi, riconoscere l’altro e soprattutto l’ascolto intimo dello stimolo da parte del paziente. Quindi il silenzio va vissuto come una fonte di informazione e comunicazione, sebbene il confronto con esso non sia sempre facile. Come ci ricorda sempre Benenzon, non ci vuole più di qualche secondo perché il musicoterapista risponda a qualsiasi delle prime manifestazioni del paziente con espressioni di tipo 153 Sensazióne (lat. sensatioonis, der. di sensusus «senso»): ogni stato di coscienza in quanto sia avvertito come prodotto da uno stimolo esterno o interno al soggetto: s. tattile, visiva, auditiva, olfattiva, gustativa; s. esterne, interne, secondo la provenienza degli stimoli. Vocabolario Treccani online (www.treccani.it). 154 Si deva il Paragrafo 3.1. del Capitolo 2 di questa dissertazione. 155 Benenzon R., (2002); pp.51. 72 sonoro-musicali. Nell’esperienza personale di chi scrive, le cose non sono andate tanto diversamente; specialmente nelle prime esperienze, la tendenza ad ‘occupare il silenzio’ era predominante e scoprire la ricchezza del silenzio non è stato semplice né immediato. Inoltre, spesso, sono le strutture stesse – all’interno delle quali si svolgono le sedute di musicoterapia – a non garantire questo silenzio. Molte volte – sia nella mia esperienza di tirocinio a Monza con Mauro Sarcinella, che nell’esperienza individuale alla clinica Virgo Potens – mi sono ritrovata nella condizione di iniziare una seduta ‘in cerca del silenzio’; la modalità adottata è stata quella di rivolgersi al paziente sempre con un tono di voce basso, cercare un contatto fisico (spesso fatto di carezze lente), e tentare di rallentare il ritmo frenetico dell’ambiente intorno per entrare in un tempo ‘altro’. Se il rumore degli apparecchi che tengono sotto controllo i valori del paziente non è eliminabile fisicamente (molte volte accade che non possono essere scollegati) cercare di farlo diventare parte della comunicazione musicale che nascerà: la pulsazione del tocco sul tamburo sarà quella del bip del macchinario – generalmente non si tratta di pulsazioni troppo veloci e quindi tendono anche a rallentare il respiro del soggetto qualora sia in stato di agitazione. 4.1. Musicoterapia e stati vegetativi Il lavoro di chi opera sulla relazione è ridare voce alla soggettività che ancora sopravvive, operare una sorta di rianimazione della soggettività psicocorporea che ancora permane dentro corpi talvolta assistiti ma non curati, corpi privati della loro valenza simbolica e ridotti ad oggetti da mantenere in buono stato.156 Come dice Bruce Jennings, «avere una mente e una capacità di mentalizzare (minding) non comporta tanto la capacità statica di esercitare certe performance cognitive, ma piuttosto quella dinamica di entrare in rapporto con altre menti, ossia la capacità di scambiare significati; questa capacità non passa unicamente attraverso le abilità linguistiche e la memoria, ma anche attraverso altre forme del significare, come quelle connesse al tatto, alla vicinanza corporea, al rivolgere lo sguardo, alla 156 Manarolo G., (2001). 73 postura corporea».157 Trovo le parole di Jennings emblematiche per la casistica di pazienti presi in esame in questa dissertazione. Lo “scambio di significati”, come lo definisce l’autore, è palpabile in ogni seduta, in ogni incontro. Con il tempo, può trattarsi anche di un incontro breve; più ci si conosce, più non c’è bisogno di aspettare per catturare, con una lettura interpretativa, una smorfia o un gesto pieno di significato. Con il tempo non vi è quasi più interpretazione, ma è tutto evidente, nella sua semplicità e immediatezza. Quando iniziai a lavorare con Alberto – una minima coscienza – attendevo che mi rispondesse “sì” o “no” con la mano (è solito farsi capire, alzando il pollice della mano verso l’alto o verso il basso per approvare o negare qualcosa); ora, lo guardo negli occhi, e so che se la risposta è affermativa, ingrandisce leggermente la pupilla, mentre se la risposta è negativa, la rimpicciolisce. Non solo con Alberto, cose simili mi succedono anche con Giancarlo – stato vegetativo; all’aumentare della sua attenzione a ciò che sta accadendo intorno a lui (sensazione o interpretazione) si accompagna, oltre ad un aumento della frequenza cardiaca (osservabile dal saturimetro), una maggior ‘presenza’ dello sguardo, come se gli occhi passassero da essere quelli spenti di un pupazzo a quelli vivi di un essere umano. Molte pubblicazioni, nazionali e internazionali, inducono a ritenere che lo stimolo sonoro-musicale sia particolarmente adatto alla cura dei disturbi dello stato di coscienza, e, inoltre, che la musica può diventare per il malato un importante mezzo per stabilire un contatto con l’ambiente esterno. Dunque, gli obiettivi che ci poniamo come musicoterapisti che intervengono su una tipologia di pazienti come gli stati vegetativi e la minima coscienza, sono: § verificare l’efficacia dello stimolo sonoro-musicale in questi pazienti, attraverso lo studio della variabilità di alcuni parametri fisiologici (per esempio la frequenza cardiaca, cambiare il colorito, modificare la respirazione) accompagnato dall’osservazione di alcune risposte del paziente (movimenti oculari, fisici, risposte vocali) § creare attraverso lo stimolo sonoro-musicale, un tipo di comunicazione alternativa, con la possibilità (ed eventualità) di migliorare la qualità di vita 157 Reichlin M., (2012), pp. 97. 74 dei pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza Pochi obiettivi, onde evitare di cadere nell’errore di interpretare eccessivamente e dare un significato ad ogni cosa. Bisogna mantenere una certa aderenza alla realtà, basandosi sulla concretezza dei fatti, per mantenere una – seppur difficile – scientificità nell’applicazione di questa disciplina in un tale campo d’indagine, complesso da decifrare e monitorare. Il musicoterapista assiste a cose meravigliose che – spesso – non può comunicare con nessuno; quando si racconta di pazienti che fanno cose particolari la risposta degli operatori con cui ci si confronta è del tipo “si tratta di un movimento involontario”, “è uno spasmo”, oppure “è frutto dell’immaginazione e della necessità di avere risposte relazionali”. Che vi sia una forte componente di speranza, questo è indubbio, ma che tutto si riduca ad una inconsistente sensazione, mi pare assurdo. Eppure lo sappiamo bene, come dice Aldridge: «La scienza naturale (...) sottolinea la ragione, la costanza e la prevedibilità. (...) la musicoterapia creativa si trova in completa opposizione a questa filosofia»158. E allora cosa fare? Non è che questi elementi non siano presenti nell’intervento musicoterapico, è che dobbiamo dedurli dai loro opposti. La prevedibilità è una variabile che ci dobbiamo creare, dobbiamo fare in modo che dall’improvvisazione costante in cui ci troviamo ad operare, si creino di volta in volta i tasselli che ci permettano di raccontare una storia: ciò non ci permette di parlare di prevedibilità in senso specifico, ma sicuramente ci permette di darci dei confini entro i quali operare, come quando – alle origini del teatro – gli attori possedevano solo un canovaccio, conoscevano molto bene la trama e su di essa dovevano ogni volta improvvisare. Partiamo dal presupposto che una stessa cosa si possa dire in molti modi diversi. 158 Aldridge D., (1996), pp. 87. “Natural science (...) emphasizes reason, constancy and predictability. (...) Creative music therapy stands in complete opposition to this philosophy.” 75 4.1.1. Obiettivi dell’intervento musicoterapico con pazienti SV: La musicoterapia ci permette di costruire intenzionalmente delle relazioni comunicative a fini terapeutico-riabilitativi attraverso due elementi distinti: la relazione e la musica (intesa come universo sonoro)159 Gli obiettivi del trattamento musicoterapico su pazienti in SV o MCS sono pochi, semplici e mirati; la letteratura in merito ci elenca, in primis un tema ricorrente, quello del miglioramento della qualità di vita di questi pazienti; in secondo luogo, accelerare il recupero, o aumentare la probabilità di recupero. Infine, aiutare i pazienti, ma anche l’equipe e i parenti, a trovare nuovi canali e livelli di comunicazione. Obiettivi generali che possiamo ritrovare nell’applicazione della musicoterapia anche in altri contesti, per esempio quello della demenza. Se consideriamo questa tipologia di pazienti come individui umani provanti emozioni – e nei precedenti capitoli abbiamo sostenuto ciò – la più grande sofferenza (sebbene non sia registrabile né quantificabile) è data – ipoteticamente – dall’impossibilità comunicativa, che si esplica in impossibilità di farsi capire ed essere ascoltati. La musicoterapia – che per definizione crea canali comunicativi alternativi alla comunicazione verbale – può dare al paziente la possibilità di esprimersi. Certamente non si tratta di una comunicazione semplice: o meglio, è talmente semplice, basilare e preverbale che è difficile decifrarla, interpretarla e infine comprenderla. Ma non impossibile. La passività peculiare dello stato vegetativo porta l’individuo a subire un’infinità di cose senza poter dire nulla in merito: persone che gli/le parlano senza aspettarsi una risposta, televisori accessi su programmi che non interessano, operatori che ti aspirano come se stessero giocando all’allegro chirurgo (sebbene sia a beneficio del paziente), operatori che lo/la cambiano e puliscono parlando del loro weekend al mare, persone intorno che parlano di lui/lei come se non ci fosse, come se fosse trasparente. In un certo senso la non comunicazione ci rende trasparenti: i reietti della società sono individui asociali, che non parlano con la gente. La comunicazione ci mette in relazione, è relazione; l’assenza di relazione sembra quasi negare la possibilità di tale comunicazione. Ed è proprio qui che occorre intervenire, nel creare una relazione con il paziente, specialmente laddove non via sia la possibilità di una comunicazione verbale, spesso 159 Benenzon R., (2002), pp. 105. 76 erroneamente riconosciuta come la principale modalità comunicativa (in realtà, il codice verbale costituisce solo il 7% della comunicazione – vedi Capitolo 5)160. Dice Lucia Cavallari: «Mettersi in ascolto e, soprattutto, dimostrare di cogliere le loro reazioni, significa spezzare il circolo vizioso dell’impotenza. Fermarsi accanto a loro e rispettare i loro tempi, i loro silenzi, i loro impedimenti, è molto più di un semplice aiuto. È una restituzione d’identità».161 L’obiettivo principale dell’intervento musicoterapico con gli stati vegetativi, dunque, è quello di stabilire un contatto con la persona, facilitare il recupero della coscienza e favorire il ripristino di un rapporto con l’esterno, privilegiando la comunicazione non verbale attraverso l’utilizzo dell’elemento sonoro-musicale 162 . Detto altrimenti: promuovere l’integrazione psicofisica della persona, partendo dal corpo e dall’esperienza sensoriale; per questo risulta importante la stimolazione sensoriale negli SV e MCS. Nello specifico, l’intervento su pazienti in stato vegetativo sarà orientato prettamente alla contattabilità, mentre l’intervento su pazienti in minima coscienza verterà maggiormente sulla riabilitazione. La contattabilità è la qualità dell’essere contattabile: il problema principale nell’interazione con gli stati vegetativi – caratterizzati da un’assenza di coscienza e da un ritmo sonno-veglia non regolarizzato – è quello di rendere la persona in gradi di essere contattata, creare le possibilità affinché si crei un contatto con il paziente, attraverso qualsiasi canale risulti più efficace. Essendo l’elemento sonoro a fondamento delle primitive modalità espressive e comunicative di ogni essere umano, ed essendo il canale uditivo il primo strumento di conoscenza della realtà esterna, spesso il canale più efficace per attivare una contattabilità è proprio quello legato all’elemento sonoro. Inoltre, in seguito a gravi danni cerebrali, sono proprio i canali uditivo e tattile a restare, molto spesso, integri e quindi praticabili come vie d’accesso. Quello che si cerca, attraverso l’esercizio della contattabilità, è una qualche forma di responsività alle proposte sonoro-musicali, se non addirittura una vera e propria evoluzione della comunicazione non verbale. 160 Mehrabian A., (1972). Cavallari L., (2013), pp. 79. 162 Benenzon R., (2002), pp. 112. 161 77 Gli obiettivi specifici di un percorso di musicoterapia con pazienti in stato vegetativo coinvolgono, in particolare, due ambiti inscindibili tra loro: quello relazionale e quello emotivo-musicale. Infatti, in questo contesto operativo, è di fondamentale importanza il nutrimento affettivo ed emozionale in persona che si trovano in condizioni di disorientamento, di non riconoscimento dei limiti spazio-temporali di sé e dell’altro, oltre che dell’ambiente. L’idea di fondo è che la persona in stato vegetativo viva una condizione di estrema fragilità; si risveglia catapultato in una dimensione che non conosceva e in una percezione di sé che non riconosce. Il mondo esterno è come se costituisse una continua minaccia alla propria integrità – proprio perché non si distinguono i confini del proprio corpo e degli altri corpi; questa condizione di indefinitezza crea frastornamento e timore. Per questo motivo l’obiettivo principale è quello di «favorire l’integrazione spaziale nella ridefinizione propriocettiva dell’unità corporea»163. Presupposto di questi obiettivi, dunque, è il conseguimento di uno stato di rilassamento, che permette ai pazienti una maggiore capacità recettiva rispetto agli stimoli provenienti dall’esterno164. L’atteggiamento che il musicoterapista deve avere nel perseguire gli obiettivi, deve essere quello di attesa: occorre non avere fretta, rispettare i tempi del paziente – che in questi casi si fanno molto lunghi – lasciando spazio ai silenzi senza sentire la necessità di riempirlo a tutti i costi; accettarlo, desiderarlo e comprenderlo. 163 Benenzon R., (2002), pp. 114. Anche perché le spasticità e le ipertonie di vario genere si presentano spesso in associazione ad uno stato di agitazione motoria complessiva. 164 78 Capitolo 4 Intrinseco e culturale Ricordi che cosa dice Darwin della musica? Sostiene che il potere di produrla e apprezzarla esiste nella razza umana da molto prima della favella. Forse è per questo che esercita un’influenza così pervasiva. La nostra anima conserva vaghi ricordi di quei secoli nebulosi in cui il mondo era ancora alla sua infanzia165. La maggior parte delle definizioni, descrivono lo stato vegetativo come un soggetto che non ha alcuna consapevolezza di sé stesso e dell’ambiente esterno, non è in grado di intraprendere alcun comportamento motorio volontario, né di rispondere in maniera riproducibile e coerente a stimoli esterni di qualunque genere. Eppure quando sono in seduta con Giancarlo, gli appoggio la mano sull’ocean drum e lentamente lo porto a sentire che le sue dita possono, una per una, battere sulla pelle del tamburo e produrre un suono; poco dopo, lui muove il pollice e l’indice – uno per volta; similmente, se appoggio l’ocean drum sul suo braccio destro e lo faccio suonare a contatto con la pelle, lui alza la mano destra e muove le dita. Alcuni operatori sostengono che si tratti di movimenti involontari, altri sostengono che non sia così, sebbene sia difficile sostenere siano movimenti finalizzati; la risposta nell’una o nell’altra direzione può essere dettata dal grado di scetticismo o meno che si ha nei confronti della ‘presenza’ dei soggetti in stato vegetativo. Dal personale punto di vista di chi scrive, sarebbe molto bello poter asserire, con certezza, che quelli prodotti da Giancarlo siano movimenti finalizzati. Mi piacerebbe trovare un modo per dimostrare che quei movimenti sono una risposta alla contattabilità che andiamo cercando con Giancarlo; lo osservo in altri contesti: quando è da solo, quando è con il papà, quando viene trattato da altri operatori, quando gli viene data la terapia, quando viene cambiato. Chiedo agli operatori di riscontrare la presenza di quei movimenti, ma la loro risposta è negativa. È presente uno spasmo del mignolo sinistro e del pollice destro, ma non sempre e non con la stessa frequenza. Certe tipologie di movimenti (come quello di alzare la mano e le dita, o quello di 165 Doyle A. C., (2010), pp. 81. 79 spalancarmi gli occhi rendendo lo sguardo più profondo) si verificano ‘esclusivamente’ nei momenti condivisi di intervento musicoterapico; o forse, è solo in questi momenti che qualcuno si ferma in ‘ascolto’ di Giancarlo e quindi nota la sua modalità comunicativa. 1.1. La teoria della musicalità intrinseca: Our emotional response to art is undeniable, but why we react is the tougher question. Scientists think the answer may be in our genes166. La letteratura in ambito psicologico evoluzionistico – insieme alla biofilia167 – ci mostra che il passato evolutivo degli ominidi – i nostri progenitori – ha plasmato e modellato, almeno in parte, i nostri orizzonti di preferenze168 – dove con questo termine si fa riferimento al gusto e all’estetica propri degli esseri umani. La teoria della musicalità intrinseca, sostiene che il passato evolutivo modelli anche le nostre preferenze musicali e la nostra predisposizione a rispondere emotivamente (o affettivamente) ai suoni. Parlare di musicalità intrinseca significa parlare di predisposizione estetica, di sensazioni emotive (percepite durante l’ascolto musicale) prevedibili o, quantomeno, categorizzabili. Daniela Lenti Boero, con la collaborazione di Luciana Bottoni, ha svolto uno studio – dal punto di vista evoluzionistico – in cui ipotizza che la musica possa nascondere un codice universale e adattivo di determinate preferenze: le due autrici hanno considerato l’eventuale pressione selettiva che avrebbe dovuto plasmare, almeno in 166 Themel K., (2008): «La nostra risposta emotiva all’arte è innegabile, ma perchè reagiamo (ad essa) è la vera questione. Gli scienziati pensano che la risposta potrebbe essere nei nostri geni». 167 Il termine significa letteralmente “passione per la vita”; venne usato per la prima volta da Erich Fromm e poi ripreso (nella stessa accezione) da Edward O. Wilson, per descrivere i legami che gli esseri umani cercano con gli altri organismi viventi. La peculiarità di Wilson è che ritiene che al biofilia sia il frutto della convergenza tra evoluzione genetica e culturale. Non si tratta solo di istinto d’autoconservazione (come definiscono molti dizionari), ma si tratta di una vera e propria coevoluzione genetico-‐culturale che porta con sé una serie di conseguenze quali – la scelta dell’habitat, la predisposizione ad amare i cuccioli, fino ad arrivare ai gusti estetici. 168 Orians G.H., Heerwagen J.H., (1992). 80 parte, le nostre preferenze emotive del suono e della musica, e hanno abbozzato un confronto tra i parametri di alcuni suoni naturalistici e quelli musicali169. Ciò non vuol dire che per ogni percezione sonora esistano sensazioni emotive necessarie e sempre verificabili, quindi oggettivabili; significa piuttosto che esistono delle categorie emotive che possono corrispondere a determinate categorie di produzione sonora170. Ogni persona vive esperienze sonore del tutto personali, che formano la predisposizione soggettiva a reagire in particolari modi a determinati suoni; per esempio, alcune persone sono irritate dal phon, mentre altre ne risultano piacevolmente attratte perché considerano il suono di questo elettrodomestico rilassante, magari perché tale suono è connesso a ricordi percettivi legati al passato. Similmente, mentre la maggior parte delle persone ricorda con piacere la voce di E.T. – l’extraterrestre del film di Spielberg – io provo, ancora oggi, un senso di paura e i brividi mi percorrono la schiena; questo perché, la prima volta che guardai quel film ero piccola e mi trovavo da sola in un salotto buio, senza i miei genitori e rimasi impressionata da una (sola) scena di quel film – guarda caso una scena di buio totale in cui l’unico elemento predominante era la voce dell’extraterrestre. Le reazioni ai suoni sono davvero personali; tuttavia, le evidenze della sperimentazione psicoacustica indicano che, nonostante la soggettività dell’esperienza percettiva sonora, si possano stabilire delle tendenze reattive. Tali tendenze non sono dettate dal caso o da un calcolo statistico, ma sono il frutto di quel passato evolutivo che ha plasmato i nostri orizzonti di preferenze. 1.2.Psicologia evoluzionistica, neuroestetica e biofilia dell’arte La musica è umana non per caso, ma per essenza: al di là delle culture e delle epoche, essa è la fonte di tutte le forme di espressione e di linguaggio171. Secondo la psicologia evoluzionistica, sia i suoni biotici – animali e piante – che quelli abiotici172 – aria, acqua, luce, temperatura, clima, piogge – potrebbero essere 169 Lenti Boero D., Bottoni L., (2008), pp. 585-586. 170 Il discorso è molto vicino alla posizione di Imberty in Suoni, Emozioni, Significati (1999). 171 Imberty M., Non c’è musicalità senza intenzionalità. Ritorno alle origini della musicalità umana, in Addessi A. R. (2008). 81 apprezzati emotivamente in termini di valore potenziale (positivo o negativo) della specifica situazione ambientale in cui i nostri antenati hanno fatto esperienza di tali suoni, in termini di danno o vantaggio che questi suggeriscono173. Il filosofo Stephen Davies – professore all’Università di Auckland – si è interrogato sulla connessione, dal punto di vista evolutivo, tra la produzione artistica, l’arte in sé e l’essere umano. In The Artful Species, Davies esplora l’idea che le nostre risposte estetiche e i nostri ‘comportamenti’ artistici – come li definisce il professore – siano connessi alla nostra natura umana evolutiva174. Inizialmente, nei primi ominidi, l’istinto estetico era utilizzato per risolvere problemi legati alla sopravvivenza175: La bellezza non è una proprietà intrinseca dell’oggetto che noi chiamiamo bello. Piuttosto, essa è il prodotto dell’interazione fra alcuni tratti dell’oggetto e il sistema nervoso dell’essere umano evoluto, così che gli oggetti che consideriamo belli hanno proprietà che si traducono in prestazioni migliorate in qualche aspetto della vita176. In sostanza, ciò che ci aiuta a sopravvivere, lo consideriamo bello. Diversamente, se qualcosa minaccia la nostra sopravvivenza, reagiamo con disgusto. Da cui, secondo la biofilia applicata all’arte, esistono degli attributi visivi che possono essere considerati universalmente attraenti: in Aesthetic Appeal: Is it in our DNA?177, Kate Themel sostiene proprio questa tesi. Per esempio, i paesaggi sembrano piacere in maniera universale, specialmente quelli che raffigurano ambienti ospitali. Discorsi analoghi si riscontrano in Orians e Heerwagen178 che identificano specifici segnali visivi nelle rappresentazioni pittoriche di paesaggi che piacciono alla maggioranza delle persone, attraverso le culture: l’acqua, i grandi alberi, le visuali distanti rispetto l’orizzonte, spazi semi-aperti. I fiori, scrive Themel, sono largamente accettati come qualcosa di meraviglioso; ma l’aspetto dei fiori è evoluto in funzione degli insetti, per attrarli, non degli esseri umani. Ma allora, perché siamo così attratti dai fiori? 172 «Ogni ecosistema è definito e regolato da fattori ecologici di due tipi, biotici e abiotici, in grado di influenzarsi reciprocamente. I fattori biotici dipendono dalla presenza dei viventi e comprendono le interazioni intraspecifiche (tra organismi di specie diverse) come competizione, predazione, parassitismo, simbiosi, inoltre le capacità di spostamento e ogni tipo di comportamento. I fattori abiotici, dipendenti dall’ambiente fisico, sono di natura fisica (temperatura, luce, pressione, modo ondoso, correnti) oppure chimica (composizione dell’atmosera e suolo, abbondanza di acqua, salinità, pH)» – Balboni V., (2001). 173 Lewis S.L. et al., (2004). 174 Davies S., (2012). 175 Come si evince in Orians G., (1998). 176 Ibidem. 177 Themel K., (2008). 178 Orian G., Heerwagen J.H., in Barkow J.H., Cosmides L. and Tooby J., (1992). 82 Perché i fiori hanno giocato un ruolo nella nostra sopravvivenza: essi, infatti, sono l’indice visivo di una futura fonte di cibo – i fiori appaiono sugli alberi prima che questi producano frutti; sono indicatori di fertilità. Resta da definire quando i fiori siano diventati piacevoli di per sé, indipendentemente dalla loro connessione utilitaria alla sopravvivenza umana. I biofili dell’arte risponderanno che è proprio nel momento in cui diventano parte del nostro DNA che possiamo parlare di attributi visivi universalmente attraenti, e di fiori che piacciono di per sé. Da questa posizione ha luogo una serie di deduzioni riguardanti il rapporto tra la visione e la percezione della visione che possono tornare utili al nostro discorso; Lynne Isbell, docente presso la U.C.L.A., porta l’esempio visivo delle linee diagonali e a zig-zag confrontate con le curve morbide e la simmetria: le prime eccitano la mente, agitano, mentre le seconde ci fanno pensare al movimento. Questo ricorda molto l’esperimento sul fonosimbolismo di Maluma e Takete, condotto nel 1929 da Wolfgang Köhler, consistente nel chiedere ad un campione di soggetti di associare le due parole “maluma” e “takete” a due diverse forme – l’una costituita da linee rette, spigolose e a zig-zag, l’altra da linee curve e morbide. Nella maggior parte dei casi la parola maluma viene associata alla forma curvilinea, mentre la parola takete alla forma spigolosa 179 . Il suono prodotto dalla parola maluma risulta morbido e tondeggiante, mentre quello della parola takete viene percepito come spigoloso; le lettere che compongono le due parole sono in un caso principalmente spigolose, composte da rette (come le T e la K in takete), differentemente in maluma sono – foneticamente – tondeggianti (come la M e la U). 1.3.Musicalità comunicativa e musicalità intrinseca I risultati del fonosimbolismo, della neuroestetica e della biofilia dell’arte, ci portano nella direzione della musicalità intrinseca. Sussistono alcune ipotesi (evoluzionistiche) in accordo con l’approccio della musicalità intrinseca: per esempio, i suoni gravi emessi da grandi animali (o da grandi strumenti – come il 179 Ciò accade perché il nostro cervello percepisce le parole prima di tutto come immagini, cui successivamente viene fornito un significato. 83 bassotuba) possono essere associati alla paura e all’ansia (similmente alle linee rette e spigolose); l’elemento dell’intensità (dei suoni) evoca un accrescimento dell’eccitazione (tale proprietà, associata al tono – acuto e grave – viene utilizzata in musica come strumento dell’espressività – il Bolero di Ravel, la Sinfonia No. 5 di Beethoven). Il timbro – a seconda della specie animale cui è associato – può trasmettere stati di ansietà e paura, oppure tenerezza. La ricchezza e la variazione del suono in un territorio, sono connesse ad una abbondanza di specie (e quindi, per gli ominidi, di prede): i paesaggi sonori più ricchi di suoni sono più apprezzati. Il ritmo – secondo le ricerche nel campo della musicalità umana biologica – si presenta sempre in forma di pulsazione isocrona, per una necessità dell’organismo di ripetersi con lo stesso intervallo di tempo (per esempio, la regolarità del respiro o del ritmo cardiaco). Infine, anche la variazione melodica – come quella degli uccelli – è considerata una caratteristica apprezzata dagli esseri umani180. Quindi, gli elementi che riscontriamo nelle teorie evoluzionistiche e che possiamo connettere alla musicalità intrinseca sono: § Tono § Volume (rumorosità) § Timbro § Variazione melodica § Ritmo (pulsazione) § Ricchezza del suono Tutto ciò è molto lontano dall’affermare che la musica sia di per sé stessa intrinseca, innata, e che esistano delle musiche che universalmente sortiscono gli stessi effetti su individui differenti. Queste teorie ‘alla Effetto Mozart’ sono già state ampiamente demistificate e non è intenzione di chi scrive riportarle in auge. Non si sta parlando di musica intrinseca, ma di musicalità intrinseca. Una delle domande fondamentali della filosofia della musica è: quale componente della musica è intrinseca e quale culturale? Si potrebbe rispondere che la musicalità è una componente intrinseca, mentre le componenti strutturali della musica 180 Connessa alla storia dell’addomesticazione; si veda Catchpole C.K., Slater, P.J.B., (1995). 84 (componente orizzontale – melodia – e componente verticale – armonia, per esempio) sono culturali. Potremmo, in sostanza, considerare la musicalità come quell’elemento protomusicale che darà poi origine alla musica (intesa come produzione artistica), al canto, ma anche al linguaggio. Nel dizionario Treccani, la musicalità è così definita: la qualità dell’essere musicale, soprattutto in senso estensivo (la m. del verso; la m. della lingua italiana; versi privi di musicalità)181. O anche detta “naturale inclinazione per la musica”. La ricerca su come i bambini partecipino e stimolino la musica in maniera intuitiva nel gioco vocale con i genitori e come loro possano imitare e ricambiare le espressioni coordinate, ci suggerisce fortemente che siamo nati così e che la partecipazione dei bambini nasce da un’innata coerenza ritmica dei movimenti corporei e della modulazione delle espressioni affettive. Noi crediamo che l’acquisizione di competenze musicali motorie e la percezione di forme musicali coltivate sia alla base della musicalità intrinseca182. Colwyn Trevarthen e Stephan Malloch hanno definito la musicalità umana come musicalità comunicativa, intendendo con essa la capacità di entrare in comunicazione con i nostri simili in modo interattivo; è una capacità di regolazione delle emozioni, degli affetti, ma anche dei comportamenti nel tempo, che favorisce gli scambi individuali e sociali. Tale musicalità è pertanto intrinseca all’essere umano, come competenza protomusicale. Questa definizione – come afferma lo stesso Michel Imberty – ha rivoluzionato la psicologia cognitiva classica e la psicologia della musica183. Il concetto di musicalità comunicativa di Trevarthen e Malloch (2000), è interessante nella misura in cui i due ricercatori estendono le osservazioni sulla musicalità dell’interazione precoce dei bambini per creare una nozione di costruzione-della-relazione-umana che sia incentrata su queste capacità protomusicali. Ciò che viene proposto, infatti, è che le dimensioni musicali dell’interazione precoce rivelino, in una forma relativamente pura (proprio perché intrinseca, innata, immediata), le capacità e i parametri che evidenziano tutte le relazioni umane184. La conseguenza di ciò, secondo i due ricercatori, è che tale musicalità comunicativa – caratterizzante le interazioni precoci – può spiegare l’efficacia terapeutica della musica, in quelle applicazioni in cui è di primaria 181 Treccani 2014. Dizionario della lingua italiana, (2013). 182 Trevarthen e Malloch, (2000), p.4. 183 Imberty M., (2008). 184 Aigen K.S., (2013). 85 importanza stabilire una relazione umana. Si è visto che gli elementi della musicalità intrinseca sono tono, volume, timbro, variazione melodica, ritmo e ricchezza del suono. Se noi proviamo a confrontarli con le tre dimensioni della musicalità comunicativa di Trevarthen e Malloch, vedremo che tra queste ultime vi è una diretta corrispondenza con gli elementi della musicalità intrinseca in ambito musicoterapico; queste tre dimensioni sono: pulsazione, qualità e narratività. La pulsazione è il ritmo di base del comportamento185. Con il termine qualità s’intende il contorno di tensione/distensione di una sequenza di eventi (basti pensare all’importanza che assume la qualità espressiva vocale nel linguaggio maternese). La terza caratteristica è la narratività, che è manifestazione dell’intenzionalità. All’elemento della pulsazione, possiamo associare il ritmo (e la variazione ritmica), alla qualità rinviano il tono, il volume e il timbro; infine, alla narratività corrisponderanno la variazione melodica e la ricchezza del suono. 1.4. Ripetizione, variazione, affetti vitali: la dinamica dell’interazione musicoterapica Nell’ambito della musicalità umana biologica, la pulsazione è sempre isocrona. Dall’elemento della pulsazione isocrona si possono dedurre intuizioni utili al nostro percorso, per quanto concerne i concetti di ripetizione e variazione, che stanno alla base dell’intervento musicoterapico. La ripetizione è un elemento sempre presente nelle sequenze di comportamento madre-bambino (come ci insegna Stern): c’è un ritmo regolare che si ripete con una pulsazione regolare, attraverso frasi, gestualità e le musicalità di diversa natura ad essa connessi. Il bambino di pochi mesi non comprende il contenuto concettuale di queste interazioni, ma ne osserva – e conserva – il ritmo e la melodia vocale, insomma la musicalità. In musica, come nel caso dell’interazione madre-bambino, parlare di ripetizione, significa parlare inevitabilmente di variazione. La madre sa che se ripete troppo – nella stessa modalità – il bambino non presta più attenzione. La variazione permette al bambino di riconoscere e percepire, adattarsi a qualcosa di nuovo, e arricchire di conseguenza 185 La pulsazione si distingue dal ritmo, in quanto quest’ultimo è una figura musicale che si articola sulla pulsazione; quindi dentro il ritmo è possibile identificare la pulsazione ma non viceversa. 86 il proprio repertorio. Esiste un equilibrio preciso tra ripetizione e variazione e tale equilibrio determina la qualità dello scambio. Lo stesso deve avvenire in ambito di seduta musicoterapica, specialmente con i pazienti in stato vegetativo e minima coscienza, in cui – se vogliamo – tale equilibrio è talmente delicato da determinare la riuscita o meno dell’intero percorso. Un altro principio fondamentale, dell’intervento musicoterapico, è quello degli affetti vitali, concetto appartenente al vocabolario di Daniel Stern e ripreso da Pier Luigi Postacchini, ma che risulta essere condiviso da molti musicoterapisti di matrice psicodinamica. Gli affetti vitali corrispondono alle qualità dinamiche e cinetiche degli affetti, il loro “colore”, i loro “modi di essere”. E. Werner ha avanzato l’ipotesi che alcuni aspetti delle persone e delle cose vengano sperimentati come affetti (rabbia, tristezza, felicità....). Questi sono gli affetti “tradizionali”; invece chiameremo affetti vitali per distinguerli da questi, quelli inerenti ad ogni comportamento. S’intendono fenomeni concreti come: una crisi di rabbia o di gioia, la percezione di essere inondati di luce, una sequenza accelerata di pensieri, un’ondata incommensurabile di sentimenti evocata dalla musica186 Per Stern, gli affetti vitali sono quelle “qualità sfuggenti che si esprimono meglio in termini dinamici, cinetici, come fluttuare, svanire, trascorrere, esplodere, crescendo, decrescendo, gonfio, esaurito”187. Anche in questo caso, la vitalità (degli affetti) – come approfondisce Stern in Le Forme Vitali (2010) – è radicata nel corpo e ancor più specificatamente nel cervello, dove i neuroni specchio 188 giocano un ruolo essenziale nello scambio e nelle esperienze di corrispondenza intersoggettiva che influenzano il senso di vitalità189. Come fanno i suoni, che sono, dopo tutto, solo suoni, ad avere il potere di (s)muovere in maniera profonda in coloro che ne sono coinvolti?190 La musica è un esempio eccellente dell’espressività degli affetti vitali, perché ciò che viene trasmesso non è un contenuto semantico (di cui la musica è priva) ma un modo di sentire. La musica e il suono sono vettori di senso (e non di significato): essi non 186 Lenarduzzi N., Il mondo interpersonale del bambino, http://volebni.net/nadia-‐cv-‐pdf.html. 187 Stern D., (1987), pp.69. I neuroni specchio, dedicati al riconoscimento dei comportamenti e delle emozioni attraverso la percezione che ci forniscono degli altri, svolgono la funzione di regolazione delle nostre reazioni nei confronti degli altri con cui entriamo in realzione. 189 Ammaniti M., Ferrari P.F., (2013); pp. 185-‐196. 190 Reimer B., (2003), pp.73 188 87 ci dicono nulla della forma, del coloro, del movimento o del significato di qualcosa che emoziona, ma ci fanno direttamente sperimentare l’affetto vitale – relativo a ciò che ci provoca una sensazione – attraverso una sorta di analogia. Se pensiamo ad una band, affinché l’insieme musicale sia omogeneo, occorre che i musicisti si regolino gli uni sugli altri, che si ascoltino per accordarsi, non soltanto dal punto di vista dei parametri oggettivi (tonalità, tempo, accenti, pause) ma anche dal punto di vista del “sentire” la musica che suonano. Occorre che la loro accordatura sia anche di tipo affettivo: L’accordamento affettivo è un processo essenziale della costruzione del legame interpersonale e intersoggettivo che si realizza quando, verso il settimo mese, il bambino scopre che ha qualcosa nella testa e che ciò che ha nella testa può esistere nella testa degli altri ed essere condiviso. Ma ciò che ha nella testa a questa età sono esperienze emozionali da condividere. Nell'osservazione delle condotte delle madri con il proprio bambino, questa condivisione è resa visibile dagli aggiustamenti interpersonali che riguardano il tempo, il ritmo, l’intensità e la forma: non un’imitazione del bambino da parte della madre o l’inverso, piuttosto una ricerca dell’esatto corrispondente emozionale e delle forme di condotta percepite. Si tratta insomma di trovare quel "colore" o quella "tonalità" riascoltata e ormai condivisa utilizzando tutte le capacità di trasposizione transmodale di cui il bambino è capace191. Questo ‘accordo affettivo’ viene definito da Stern sintonizzazione192, ed è considerata dall’autore una modalità relazionale a fondamento di qualsiasi tipo di comunicazione non verbale. Nella sintonizzazione, quindi, troviamo uno strumento che può aiutare e facilitare la comunicazione in casi di grave disabilità psicofisica, nei quali sembra impossibile utilizzare consapevolezza 193 qualsiasi strategia comunicativa fondata sulla . Quando comprendiamo e interpretiamo correttamente i movimenti, le mimiche, gli atteggiamenti dell’altro, lo facciamo in base a ciò che noi stessi abbiamo provato, come in una sorta di specchio194: la maggior parte delle percezioni che abbiamo degli altri sono da noi interpretate immediatamente in termini di affetti vitali, ancor prima di decifrare, in esse, un significato articolato 191 Imberty M., (2008). Per il discorso degli affetti vitali si veda principalmente Stern D., (1987). La sintonizzazione consiste nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitare l’esatta espressione comportamentale. Si veda Postacchini P.L., In viaggio attraverso la musicoterapia, Scritti di musicoterapia, Cosmopoli, Torino, 2006; pp. 107-110. 193 Vedi Benenzon R., (2002), pp.107 194 Vedi nota24. 192 88 secondo un codice linguistico, sociale, culturale195. Postacchini svolge un lavoro di integrazione concettuale tra le forme musicali e le forme affettive (gli affetti vitali): «se cerchiamo di analizzare i fondamentali parametri percettivi, comuni alla simbolizzazione musicale, a quella plastica, a quella pittorica e a quella psicomotoria, ne troveremo sempre tre: Forma, Intensità e Durata»196. Ma se andiamo a rivedere le tre dimensioni della musicalità comunicativa di Trevarthen e Malloch, notiamo che alla pulsazione (ritmo base del comportamento) può corrispondere la Durata, alla qualità (contorno di tensione/distensione) l’Intensità e, infine, alla narratività la Forma. E se, ancora, associassimo – in un lavoro di ‘integrazione concettuale’ – questi elementi con quelli della musicalità intrinseca? Variazione melodica e ricchezza di suono concordano con la Forma, tono/volume/timbro con l’Intensità, ritmo con la Durata. Forma Narratività Variazione melodica / ricchezza di suono Intensità Qualità Timbro / Volume / Tono Durata Pulsazione Ritmo Postacchini, inoltre, nell’articolo Come armonizziamo i saperi che concorrono alle teorie e alle prassi della musicoterapia?197, riporta i risultati degli esperimenti svolti da Patrik Juslin sulla sintonizzazione empatica tra intenzioni esecutive (del musicista) e risposte degli ascoltatori, indicando le cinque emozioni primarie (felicità, tristezza, rabbia, paura, tenerezza) e i parametri sonoro-musicali che le caratterizzano in modo differenziale198. Juslin e colleghi – dell’università di Uppsala – sono riusciti a isolare i parametri di fondo che possono interferire in maniera significativa sulla qualità della percezione emozionale dell’ascoltatore: 195 Come si legge in Imberty M., (2005). 196 Postacchini P.L., (2006), pp.190; il riferimento di Postacchini è Mancia M., (1995). Postacchini P.L., Come armonizziamo i saperi che concorrono alle teorie e alle prassi della musicoterapia?, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M., (2012), pp. 16-63. 198 Si fa riferimento a Juslin P.N., (1997). 197 89 Felicità Tristezza Rabbia Paura o Timore Tenerezza - metro rapido moderate variazioni di durata livello sonoro medio-alto tendenza ad inasprire i contrati tra note lunghe e brevi come in un modello punteggiato articolazione prevalentemente staccata attacchi rapidi timbro brillante vibrato leggero o assente intonazione lievemente crescente - metro lento variazione di durata relativamente ampie livello sonoro basso tendenza ad attenuare i contrasti tra note lunghe e note brevi articolazione legata attacchi morbidi vibrato lento e ampio rallentando finale timbrica morbida intoazione a volte lievemente calante - metro rapido livello sonoro alto contrasti relativamente aspri tra note lunghe e corte assenza di rallentando finale articolazione per lo più non legata attacchi molto secchi timbro brusco note distorte - ampie varianti di metro ampie varianti di durata delle note livello sonoro tendente al basso, ma con notevoli variazioni dinamiche articolazione prevalentemente staccata vibrato rapido e irregolare pause tra le frasi spettro sonoro morbido - metro lento veriazioni di durata relativamente ampie livello sonoro da basso a medio tendenza a contrasti relativamente morbidi tra note lunghe e brevi articolazione legata attacchi morbidi timbro morbido vibrato intenso Il contributo degli studi di Juslin riguardante il rapporto tra musica ed emozioni non si esaurisce qui; in particolare, occorre ricordare l’articolo di Juslin & Västfjäll, Emotional Response to Music199, in cui i due autori sostengono che la musica può «indurre una vasta gamma di entrambe le emozioni (di base e complesse) in 199 Juslin & Västfjäll, (2008). 90 ascoltatori attraverso meccanismi psicologici che le emozioni musicali condividono con altre emozioni.»200 Con il termine ‘emozioni musicali’ gli autori intendono emozioni indotte dalla musica, e ipotizzano sei meccanismi psicologici coinvolti nell’induzione musicale di emozioni: § riflessi del tronco cerebrale: una o più caratteristiche acustiche fondamentali della musica sono percepite dal tronco cerebrale come segnali di un evento urgente e potenzialmente importante; questo perché, secondo J&V, alcune qualità del suono sono indicative di cambiamento (per esempio, la dissonanza è indicativa di pericolo negli ambienti naturali, perché si verifica nella minaccia e nelle chiamate di allarme di molte specie animale)201. I riflessi del tronco cerebrale (alla stimolazione musicale) possono funzionare anche prima della nascita, come indicato dalla constatazione che la produzione di musica ad alto volume produce sui feti una accelerazione della frequenza cardiaca e un aumento delle risposte motorie, mentre la musica soft produce moderate decelerazioni della frequenza cardiaca e una riduzione dei movimenti (si veda Lecanuet 1996) 202. § condizionamento valutativo: si riferisce ad un processo in cui una emozione è indotta da un brano musicale semplicemente perché questo stimolo è stato accoppiato ripetutamente con altri stimoli positivi o negativi. Così, ad esempio, un particolare brano musicale può essersi verificato ripetutamente insieme nel tempo con un evento specifico che sempre ci ha resi felici; attraverso abbinamenti ripetuti, la musica, alla fine, viene ad evocare la felicità anche in assenza dell’interazione con altri stimoli positivi203. § contagio emotivo: l’emozione è indotta da un brano musicale perché gli ascoltatori percepiscono l’espressione emotiva della musica, e poi “imitano” questa espressione internamente, e attraverso l’attivazione delle relative rappresentazioni emozionali del cervello, porta ad una induzione della stessa 200 Juslin & Västfjäll, (2008), pp. 561. 201 Juslin & Västfjäll, (2008), pp. 564. 202 Lecanuet J.-P., (1996), pp. 3–34. Si veda anche Goydke K.N. et al., (2004), 21: pp.351-59. 203 Juslin & Västfjäll, (2008), pp. 564. 91 emozione (Juslin, 2001)204. Per esempio, per poter indurre tristezza negli ascoltatori una musica dovrebbe avere un’espressività triste (tempo lento, livello del suono basso, toni bassi); il fatto che una musica con una specifica espressione musicale possa dare vita alla stessa emozione (espressa dalla musica) negli ascoltatori è dimostrato da diversi studi (per esempio, Kallinen & Ravaja 2006)205. § immagini visive: l’emozione è indotta nel fruitore di un brano musicale perché l’ascolto musicale evoca immagini visive (per esempio percepire un movimento melodico crescente come qualcosa che va ‘verso l’alto’). § memoria episodica: l’emozione è indotta negli ascoltatori perché la musica evoca un ricordo di un particolare evento nella vita dell’ascoltatore. È l’esempio di molte canzoni del cuore206. La ricerca suggerisce che la musica spesso evoca memorie 207 (si pensi all’efficacia della musicoterapia nelle demenze), e quando la memoria viene evocata, con essa riemerge anche l’emozione associata a quella memoria. § aspettativa musicale: un’emozione può essere indotta in un ascoltatore anche quando una caratteristica specifica della musica conferma, oppure vìola, le aspettative dell’ascoltatore circa la continuazione stessa della musica; il più grande sostenitore di questa tesi è Meyer (1956)208. Ovviamente, l’aspettativa musicale è fortemente caratterizzata in termini culturali: le risposte che un ascoltatore si aspetta dipendono dal background socio-culturale in cui è cresciuto e vissuto; ciò non toglie che, pur essendo caratterizzato culturalmente, questo sia un meccanismo psicologico universale209. 204 Juslin P.N., (2001), pp.309-‐337. 205 Kallimen K. & Ravaja N., (2006), 10: pp.191-213. Nel contagio emotivo, inoltre, giocano un ruolo rilevante i neuroni specchio. 206 Davies J.B., (1978). 207 Sloboda J.A., (1992), pp. 33-‐46. 208 Meyer L.B., (1956). 209 Per i nostri autori. 92 Questi meccanismi non si escludono a vicenda, ma devono essere considerati come vie complementari attraverso le quali la musica può indurre emozioni. Similmente Nattiez210 ci parla di una corrispondenza tra suono ed emozione, che lui definisce potenzialità evocativa dell’elemento sonoro/musicale; l’associazione simbolica è radicata nello stesso funzionamento del corpo umano: gli stati psichici fondamentali (tensione-distensione) si traducono in analoghe gestualità caratterizzate da precisi profili temporali ed energetici (si vedano i parametri della tabella). La trasposizione sul piano sonoro/musicale di questi profili costituisce il fondamento dell’espressività musicale. D’altronde, Benenzon afferma che: L’osservazione clinica dimostra che il ritmo binario tranquillizza, riduce l’ansia e la sensazione di allarme; al contrario, una discontinuità può produrre un’alterazione dello stato emozionale. Nella vita extrauterina rimane un residuo di queste sensazioni cinestetiche, talmente intense durante la vita fetale che possono ricomparire in stati regressivi, come nel caso del paziente in coma211 (o in stato vegetativo). Molti sono i contributi sulle connessioni esistenti tra l’esperienza sonoro-musicale nei suoi vari parametri e la risonanza emotiva prodotta: a quelli già menzionati si possono aggiungere le teorie di Dogana (1983) 212 e Imberty (1986) sul fonosimbolismo e sugli schemi di rappresentazione dell’espressività sonora, e le loro derivanti rielaborazioni di Postacchini, Ricciotti e Borghesi (1998)213. 2.1. Dalla musicalità intrinseca all’ISO benenzoniano La musica trascrive le forme (dinamiche) vitali del sentimento214 In ogni comunicazione – sia essa verbale, non verbale o paravarbale – c’è un livello del contenuto (che ci indica il che cosa dell’informazione che si trasmette) e un 210 Nattiez J.J., (2002). 211 Benenzon R., (2002), pp. 73. 212 Dogana F., (1983). 213 Benenzon R., (2002), pp.109. L’opera di riferimento di Postacchini P.L., Ricciotti A., Borghesi M., (1998). 214 Concetto base della teoria hanslickiana della forma musicale. Si veda Hanslick E., (2007). Se la musica non può esprimere il sentimento (perché altrimenti dovremmo ammettere che la musica è intrinseca, cioè che a determinati parametri musicali corrispondano necessariamente certe emozioni), che cosa può fare? Esprimere il movimento, inteso come forma vitale – e quindi dinamica – del sentimento, anche se non esprime verbalmente il sentimento. 93 livello della relazione (che ci informa sul come una cosa venga trasmessa); similmente, come sostiene Mauro Scardovelli, c’è una musica che è contenuto e una musica che è relazione; su questo livello della relazione si basa la musicoterapia. I primi contenuti negli scambi madre/bambino sono delle emozioni, dei sentimenti, che si esprimono attraverso una forma temporale, come tutte le emozioni vissute dall’essere umano, e si traducono in movimento215. Sono gli affetti vitali di cui parla Stern, o le forme vitali che costituiscono il fondo psicologico dell’espressività musicale nel formalismo hanslickiano (vedi nota 34). Il movimento, o meglio il dinamismo, è un elemento che caratterizza un altro concetto – fondamentale nel modello benenzoniano – che si trova in stretta relazione con la musicalità intrinseca: l’ISO, l’identità sonoro-musicale, è, infatti, descritto in termini di un “processo dinamico formato da suoni” (vedi nota 38). Esiste, o può esistere, una corrispondenza tra il modello dell’ISO (in particolare si farà riferimento all’ISO Universale) e il modello della musicalità intrinseca? Quali sono gli elementi sovrapponibili e quali i punti di distacco? Com’è noto, il concetto di ISO (identità sonoro musicale) è al centro dell’approccio musicoterapico di Rolando Benenzon216: esso evidenzia l’esistenza di un suono (insieme di suoni o di “energie sonore, di movimento e silenzio” 217 ) che ci caratterizzano e che ci individualizzano e che rappresentano il nostro vissuto sonoro. «La conoscenza dell’ISO del paziente consente al musicoterapista di avviare un rapporto interpersonale con finalità connesse al benessere e alla evoluzione del paziente»218; la sua identificazione ci permette di comprendere come la persona utilizzi l’elemento sonoro-musicale e che ruolo esso giochi nel suo equilibrio psicofisico. Chiamo ISO (Identità Sonora) il cumulo di energie e il suo processo dinamico formato da suoni, movimenti e silenzi che caratterizzano ogni essere umano e lo distingue da un altro. E chiamo principio di ISO quel principio della musicoterapia che dice: per aprire canali di comunicazione tra un paziente e il musicoterapista è necessario 215 Esiste una connessione così stretta fra emozione e movimento a quest’età che l’espressione delle emozioni è definibile come transmodale: si esprime attraverso la voce, attraverso i suoni, ma anche attraverso movimenti e atteggiamenti del corpo intero. 216 Benenzon R., (1984). 217 Benenzon R., (2002), pp.53. 218 Manarolo G., Piattino S., Lorenzi C., Pirillo&Del Puente, Sviluppo di una sequenza sonoro/musicale da impiegare come strumento d’indagine nella fase di valutazione musico-‐ terapica, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M., (2012), pp.158. 94 riconoscere gli ISO del paziente e metterli in equilibrio con quelli del musicoterapista219. L’identità sonora di cui parla Benenzon è presente nei processi di comunicazione più essenziali e primitivi, come quello tra madre e bambino ai primi mesi di vita; ed è questo che maggiormente ci interessa dell’ISO per il nostro discorso.220 Infatti, Il paziente in coma [e il paziente in stato vegetativo] è costituito quasi esclusivamente dall’inconscio e da pochi aspetti preconsci. Ciò che funziona in pieno è l’ISO universale221. Il concetto benenzoniano più vicino alla musicalità intrinseca, è sicuramente l’ISO Universale (IU), definito da Benenzon come archetipo corporeo-sonoro-musicale, formato dall’eredità ontogenetica e filogenetica 222 : i fenomeni corporeo-sonorimusicali hanno stimolato in maniera ripetitiva e quotidiana l’essere umano per millenni; tale stimolazione ha provocato percezioni e sensazioni che sono entrate dinamicamente a far parte dell’inconscio di ogni individuo. È così che si è formato l’IU, tramandato da individuo a individuo sino ai giorni nostri, contenente i modelli originali, i prototipi del suono, del movimento e del silenzio. L’IU è formato dai seguenti archetipi corporeo-sonoro-musicali: § battito cardiaco (struttura base del ritmo binario) § suoni dell’acqua § suoni di inspirazione/espirazione § vento § ritmo del movimento (camminare, trottare, correre) § sistemi di messaggi degli animali (specialmente balene e delfini)223 Questi costituiscono i prototipi (sonori) primitivi, ai quali si aggiungono – con l’evoluzione della razza umana attraverso la civilizzazione e la cultura – altri suoni 219 Benenzon R., (2007), pp.33. Il termine ISO riassume, dunque, il concetto d’identità sonora; ognuno di noi rappresenta delle caratteristiche sonore, specifiche di ogni individuo e allo stesso tempo simili a quelle del gruppo famigliare in cui ogni individuo vive e a quelle della società. Benenzon distingue diverse tipologie di ISO: Iso universale (archetipo corporeo-sonoro-musicale, formato dall’eredità ontogenetica e filogenetica), Iso gestaltico (insieme di caratteristiche sonore specifiche di un singolo individuo), Iso complementare (modificazione dell’Iso gestaltico sulla base delle circostanze ambientali specifiche), Iso gruppale (intimamente connesso allo schema sociale all’interno del quale l’individuo cresce e si evolve) e, infine, Iso culturale (patrimonio culturale sonore proprio di una comunità). 221 Benenzon R., (2002), pp.69. 222 Benenzon R., (2007), pp. 34. 223 È stato osservato nei malati autistici che sono soliti imitare il suono di questi animali e sono attratti dagli stessi (http://www.mircomarchetti.it/wp-content/uploads/2013/10/ModelloBenenzon.pdf). 220 95 che verranno anch’essi introiettati nell’individuo: § suoni emessi attraverso tubi (corno, canne di bambù, sonagli) § la comparsa degli intervalli melodici, le melodie stesse, le scale (modale, cromatica, armonica, pentatonica); nessuno insegna a cantare una ninna nanna, eppure gli intervalli di seconda e di terza minore accadono in modo ‘istintivo’ § il silenzio (e le pause ad esso connesso) Quindi, l’IU è l’identità sonora dinamica che caratterizza tutti gli esseri umani, indipendentemente dai contesti sociali, culturali, storici, insomma, dalla sua biografia. È identico in tutti gli individui.224 Si potrebbe dire che è intrinseco nella natura umana (è parte intima dell’essenza umana). È evidente che la terminologia utilizzata nella descrizione del concetto benenzoniano è simile (se non identica) a quella utilizzata per descrivere la musicalità intrinseca. Ad oggi l’articolo di Lenti Boero – Bottoni (2008)225 è la principale fonte sulla questione della musicalità intrinseca nei termini qui affrontati. La musicalità intrinseca, si dice, è una predisposizione estetica, è un codice adattivo e universale di determinate preferenze (emotive) di suoni. Per esempio – si legge nell’articolo - «il suono dell’acqua, fondamentale per la vita biologica, è universalmente apprezzato, come testimoniano le numerose fontane nelle nostre città e l’attrazione della gente per i corsi d’acqua e le cascate (Schafer 1977)».226 Ma è esattamente questo che si dice dell’ISO Universale, il quale è descritto come insieme di fenomeni (corporeosonoro-musicali) che sono entrati a far parte dell’inconscio in seguito alla stimolazione ripetitiva e quotidiana. Ciò che ci si sta chiedendo è se parlare di archetipo corporeo-sonoro-musicale (ISO) e di codice adattivo e universale di determinate preferenze di suoni (musicalità intrinseca), non sia – in sostanza – la stessa cosa. Entrambi i concetti sono manifestazione di tendenze reattive agli stimoli sonori, frutto dell’evoluzione degli esseri umani. Inoltre, presentano elementi fondamentali comuni, come il ritmo 224 Sarà poi l’ISO gestaltico a caratterizzarsi come patrimonio del singolo individuo, formandosi a partire dalla storia dell’embrione. 225 Lenti Boero D., Bottoni L., (2008), pp.585-‐586. 226 Lenti Boero D., Bottoni L. (2008), pp. 585. 96 (pulsazione, periodicità e aperiodicità, battito cardiaco, ritmo del movimento), la variazione melodica (scale musicali, intervalli), il timbro (suoni emessi attraverso i tubi, sistemi di messaggi degli animali), il volume (suoni d’inspirazione/espirazione, il vento, il silenzio), il tono e la ricchezza del suono (suoni biotici e abiotici, suoni dell’acqua). Il fatto che, per esempio, la musica strumentale classica – con i suoi suoni periodici – sia apparentemente preferita dai nostri antenati rispetto ai suoni che mostrano spettri aperiodici (come i suoni minacciosi prodotti dai predatori mammiferi, o i suoni dei temporali) perché percepiti come suoni aspri227, può essere spiegata sia in termini di ISO universale – la periodicità e aperiodicità sono archetipi corporeo-sonoro-musicali dell’essere umano – sia in termini di musicalità intrinseca – periodicità e aperiodicità sono parametri del suono – che l’essere umano ha interiorizzato, attraverso un processo evolutivo e adattivo – che determinano le sue preferenze in termini di sensazioni emotive piacevoli o spiacevoli. Quando Benenzon parla dell’ISO, sostiene che esso si strutturi in ogni essere umano secondo una legge definita e identica, ma che la dinamica energetica che si sviluppa sia infinitamente diversa tra un essere umano e l’altro; similmente, quando precedentemente si è introdotto il concetto della musicalità intrinseca, si è detto che ogni individuo percepisce i suoni in maniera soggettiva, ma che certe emozioni legate alla percezione di certi suoni sono prevedibili, categorizzabili. Musicalità intrinseca ed ISO: concetti simili, dunque, ma non identici. Si legge nell’articolo (sopracitato) di Lenti Boero – Bottoni che la ricerca sulla musica (in generale) e sul suono biotico, suggeriscono che l’avversione per un suono dovrebbe prima di tutto coinvolgere alcune caratteristiche intrinseche del suono stesso (Beament 2001; Borchgrevink 1975; Lenti Boero & Nuti 2006; Lenti Boero et al. 2007; Miraglia 2007; Zentner & Kagan 1996).228 L’avversione (o l’attrazione) per il suono, è un comportamento che caratterizza la nostra identità corporeo-sonoro-musicale, il nostro ISO; tali comportamenti, tendenze o preferenze, coinvolgono alcune caratteristiche intrinseche del suono stesso (come il timbro, l’intensità, il ritmo, ecc.), ossia quegli elementi che 227 Beament, J., (2001). 228 Lenti Boero D., Bottoni L. (2008), pp. 585. Inoltre, i riferimenti citati sono: Beament, J., (2001); Borchgrevink H.M., (1975) Musical chord preferences in humans as demonstrated through animal experiments, in Frova, A., (1999), pp. 203-208; Lenti Boero, D. & Nuti, G., (2006), pp. 106; Lenti Boero et al., (2007), pp. 613–14; Miraglia, S., (1996). 97 costituiscono il codice adattivo e universale di determinate preferenze di suoni (musicalità intrinseca). Quando si parla di musicalità intrinseca si fa riferimento al fatto che tra certi parametri del suono (intensità, timbro, variazione melodica, ritmo/pulsazione, ecc.) e certe emozioni sussiste una corrispondenza diretta e universale; esistono determinate categorie emotive cui possono rispondere determinate categorie sonore e tali corrispondenze formano una sorta di codice universale di preferenze. È un insieme di sensazioni emotive (percepite durante l’ascolto musicale) prevedibili o almeno categorizzabili. L’ISO, invece, è un insieme di suoni, movimenti che caratterizzano tutti gli esseri umani, come specie; il concetto benenzoniano ci permette di capire come una persona utilizza l’elemento sonoro musicale (per il suo equilibrio psicofisico) mentre la musicalità intrinseca ci permette di capire che cosa, dell’elemento sonoro musicale, risuona nella persona. L’ISO «è un concetto psicocorporeo, è un’identità multisensoriale che abbraccia non solo il suono, ma anche il movimento, il gesto, la musica, l’odore, la temperatura e molti altri elementi ancora sconosciuti»229. La musicalità intrinseca più che essere un concetto psicocorporeo è un parametro (o meglio, un insieme di parametri) che mette in connessione (e interdipendenza) l’essere umano con i suoni, con il musicale in senso generico. In un certo senso potremmo dire che ciò che distingue i due concetti è l’oggetto di cui sono riferimento: se per l’ISO universale questo è l’essere umano, per la musicalità intrinseca è il suono. E procedendo nel ragionamento, si potrebbe sostenere che è proprio la presenza di questo parametro del suono (la musicalità intrinseca, appunto) nell’essere umano che, nel tempo, si sviluppa un archetipo corporeo-sonoro-musicale – che si basa sugli elementi che costituiscono il parametro della musicalità intrinseca. Cercando si esemplificare attraverso una tabella visiva: 229 Benenzon R., (2002), pp.75. 98 Musicalità intrinseca ISO (universale) archetipo corporeo-sonoro-musicale parametro, codice adattivo di determinate preferenze emotive (riferito all’) essere umano (riferito al) suono È come se, proprio dall’incontro tra musicalità intrinseca e ISO universale, si generasse la nostra stessa possibilità di parlare di “risposte emotive all’ascolto musicale” (per citare Juslin & Västfjäll, 2008). Non sono solo le due facce di una stessa medaglia, come lo possono essere differenti metodologie di applicazione della musicoterapia; non si tratta di scegliere un percorso piuttosto che un altro per il conseguimento dello stesso obiettivo. Musicalità intrinseca e ISO universale possono considerarsi due elementi compresenti e co-integranti, specialmente nella pratica musicoterapica con gli stati vegetativi e di minima coscienza. È corretto affermare che la musicalità intrinseca, essendo una predisposizione estetica, una tendenza reattiva, sia anch’essa una proprietà dell’essere umano; con la differenza che è riferita al suono: è il volume di certi suoni, la pulsazione di certi ritmi, la variazione melodica di certi canti degli uccelli, la ricchezza sonora di certi paesaggi che agiscono sulla percezione umana in una determinata maniera piuttosto che in un’altra e, in quanto tali, costituiscono un vero e proprio codice sonoro (universale e adattivo) di determinate preferenze emotive. Queste preferenze emotive, inizialmente determinate dall’istinto estetico (ci piace ciò che contribuisce alla nostra sopravvivenza), hanno stimolato in maniera ripetitiva l’essere umano fino ad entrare a far parte dell’inconscio e ad arrivare a rappresentare il vissuto sonoro universale di ogni individuo. L’ISO universale costituisce un insieme di risonanzeaffettive, così come le definisce Benenzon, ma queste risonanze hanno a che fare con delle risposte (generali, quindi universali, riscontrabili in ogni tipo di cultura – oltre ogni cultura) che nascono dall’interazione dell’individuo con l’elemento sonoro – 99 con alcuni particolari parametri del suono – che genera in lui determinate preferenze, in termini di emozioni legate ai suoni stessi. Come spesso accade, uno stesso oggetto (di pensiero) può essere definito in molti modi a seconda delle diverse prospettive da cui lo si osserva; ai due concetti presi in esame accade sostanzialmente la stessa cosa. Si potrebbe, infatti, affermare che il concetto di musicalità intrinseca e il concetto di ISO siano due concetti sovrapponibili, che vertono intorno lo stesso ‘oggetto’ d’indagine ma hanno modalità differenti di riferirsi ad esso, di definirlo: la musicalità intrinseca è la modalità che sviluppa il punto di vista antropologico, mentre l’ISO universale è la modalità espressiva del versante psico-analitico. Ma, dal punto di vista di chi scrive, i due concetti in questione non sono solo questo (modalità d’approccio differenti): sono concetti interdipendenti. Separare i due concetti, sarebbe come pretendere di separare sensazione (contatto con lo stimolo esterno e conseguente attivazione dei recettori sensoriali) e percezione (organizzazione dei dati sensoriali). Sebbene sembri esservi una dipendenza causale e temporale dei due termini in questione, in realtà essi sono interdipendenti e la loro temporalità non è che non sussista, ma perde di significato. Sensazione e percezione sono entrambi potenti strumenti di connessione dell’essere umano con il mondo esterno e lo sono in maniera interdipendente. Similmente, musicalità intrinseca e ISO universale sono potenti strumenti (interdipendenti) di connessione dell’essere umano con la sensibilità emotiva connessa all’ascolto sonoro-musicale. 3.1. Precisazioni: Esistono, tendenzialmente, due possibilità di approccio nella musicoterapia applicata agli stati vegetativi: l’una basata sulla biografia individuale (lo stimolo sonoro è incentrato sulla sonorità del paziente prima del trauma), l’altra sulla musicalità intrinseca – che si sviluppa come recupero degli elementi costitutivi dell’identità sonoro musicale del paziente a partire da quegli elementi propri della musicalità intrinseca che possono facilitare la contattabilità con i pazienti in SV. L’approccio scelto in questa dissertazione è il secondo, ma nell’idea che lo stimolo sonoro – come 100 fonte di stimolazione sensoriale – possa collocarsi in un continuum che va dalla musicalità intrinseca e l’ISO universale (quindi tutti quegli aspetti che ci caratterizzano come esseri umani, dal punto di vista della specie) alla biografia individuale (ossia tutte le esperienze musicali che costituiscono la nostra unicità e irripetibilità), integrando le due estremità in base agli obiettivi terapeutici e alla gravità dei pazienti: nel caso di stati vegetativi, il lavoro resterà principalmente separato e orientato verso il polo della musicalità intrinseca – pur integrando (con estrema delicatezza) elementi biografici laddove possibile; nel caso della minima coscienza, l’integrazione tra le due polarità risulta più evidente anche se non del tutto scontato. Infatti, non è assicurato che la biografia dell’individuo prima del trauma corrisponda a quella dell’individuo dopo il trauma; porto l’esempio vissuto con Andrea M. Il paziente (MCS) è stato descritto – dall’anamnesi sonora con i genitori – come un amante di Vasco Rossi e di Valentino Rossi; ma questi elementi, nella pratica di intervento musicoterapico, non sono mai comparsi come significativi. Addirittura, Vasco Rossi – che in linea teorica avrebbe dovuto essere il suo artista preferito – non provoca in Andrea nulla più di un semplice sorriso, lo stesso che manifesta di fronte ad una battuta di spirito. Differentemente, artisti del panorama musicale rap italiano (come Fabri Fibra e Marracash), suscitano in lui una risposta emotiva molto chiara e un evidente coinvolgimento che non si percepisce, invece, con l’ascolto di Vasco. La conclusione di testare la reazione di Andrea allo stimolo sonoro di Fabri Fibra è arrivata in seguito ad un fatto esperienziale: un giorno, camminando lungo il corridoio, incrocio Andrea il quale era molto divertito dall’ascolto della suoneria del telefono di un’infermiera; si trattava di Applausi per Fibra, del rapper sopracitato. Per questo motivo ritengo che il punto di partenza e la base di ogni intervento musicoterapico rivolto a questa tipologia di pazienti (siano essi SV o MCS) debba essere orientato alla musicalità intrinseca prima che alla biografia individuale. 101 Capitolo 5 Tutti abbiamo un corpo, quindi tutti abbiamo la possibilità di comunicare. Darwin propose che il canto fosse utilizzato per attrarre il sesso opposto; le ninne nanne sono impliciti tentativi di connessione tra bambino e genitore attraverso il canto e la musica – al fine del raggiungimento di una ‘coesione di gruppo’. Così, si è giustificatamente ipotizzato che la percezione della musica e la creatività nella musica siano legati allo stesso spettro fenotipico delle abilità sociali cognitive umane, come il legame umano e l’altruismo.230 La musicoterapia utilizza i suoni e la musica come strumenti comunicativi laddove non sia possibile utilizzare il canale verbale; è un modo per stare insieme all’altro (il paziente) ed è direttamente connessa all’espressione delle emozioni. Serve a tirare fuori ciò che abbiamo dentro e non riusciamo a comunicare, sia essa un’impossibilità fisica, psichica, o di origine traumatica. Per Mithen – Il Canto degli antenati231 – la musica è linguaggio esclusivo delle emozioni, la cui funzione è quella di fornire una guida all’azione. «L’espressione delle emozioni non si limita all’invio di un’informazione, ma serve anche a suscitare reazioni empatiche»232. Nell’ambito degli stati vegetativi (e minima coscienza), si cerca, attraverso la stimolazione sonora, di trovare un canale di comunicazione alternativo in grado di mostrare le funzionalità residue del paziente e, con esse, riprendere contatto con l’ambiente esterno e con il proprio corpo; la musicoterapia, infatti, presuppone una visione integrante e partecipativa del corpo del paziente: il corpo diventa espressione della totalità della persona; possederlo, avere un corpo, significa avere la possibilità di comunicare. Il percorso riabilitativo musicoterapico agisce proprio sugli aspetti del rapporto quotidiano di questo Io-corpo con il mondo esterno e favorisce, appunto, l’armonizzazione tra il tempo interiore e il tempo esteriore, l’integrazione tra L., Onkamo P., Raijas P., Karma K., Järvelä I., (2009). Dimostrazione, a livello molecolare, della connessione della musica con l’essere umano, per comprendere le basi neurobiologiche della musica nell’evoluzione umana e nella comunicazione; i risultati suggeriscono che la neurobiologia della percezione musicale e della produzione sono probabilmente correlati ai percorsi che riguardano il comportamento di attaccamento affettivo. 231 Mithen S., (2007). 232 Benenzon R., (2002), pp. 107. 230 Ukkola 102 memoria (tempo passato) e progettualità (tempo futuro), il rapporto sintonico fra oggetti e corpo (tempo presente)233. La musicoterapia è un percorso che affianca e completa la pratica medica; arricchimento emotivo, stimolazione delle facoltà residue, identificazione di possibili canali comunicativi alternativi, sono solo alcune delle sue finalità. In un articolo del 2005, Magee Wendy234 fornisce tre ragioni per cui la musica può essere considerata un trattamento efficace. Primo: tutte le comunicazioni precoci sono basate su parametri ‘musicali’ come l’altezza, l’articolazione, i tempi di fraseggio, la vocalizzazione 235 . In secondo luogo, la musica si presenta come un mezzo interculturale che dura tutta la vita. L’ultima ragione risiede nella capacità della musica di rievocare e suscitare emozioni e trasmettere stati d’animo. Ma più di tutto la musica è efficace in ambito terapeutico perché l’intersoggettività è dinamica. In casi estremi di intersoggettività critica, quali possono essere gli stati vegetativi, la musica è l’elemento che può creare quella dinamica che manca nello scambio interpersonale con i pazienti SV. Ripercorrendo i punti salienti fin ora evidenziati, si è visto come la valutazione della consapevolezza in pazienti che presentano disturbi della coscienza sia un’impresa difficile, a causa della complessità di questa tipologia di pazienti, e i tassi di diagnosi errata restano alti; non solo, ma anche la classificazione tra stato vegetativo e stato di minima coscienza – sulla base delle attuali scale di valutazione – risulta spesso non conforme alla realtà fenomenica. La musicoterapia può essere uno strumento efficace nella valutazione e nella riabilitazione di questa popolazione di pazienti, proprio grazie agli effetti che gli stimoli musicali (e sonori) hanno sull’eccitazione, sull’attenzione e sull’emozione, a prescindere dai deficit verbali o motori236. Sono stati fatti studi neurofisiologici e comportamentali per confrontare l’elettroencefalogramma (EEG), la variabilità della frequenza cardiaca, la respirazione, e le risposte comportamentali di 20 soggetti sani con quelli 21 persone in stato vegetativo o di minima coscienza (VS o MCS). I risultati di questi test hanno 233 Benenzon R., (2002), pp.106. 234 Magee W.L., (2005). 235 Si veda il discorso precedente sulla musicalità comunicativa. 236 O’Kelly J., James L., Palaniappan R., Taborin J., Fachner J., Magee W.L., (2013). Tuttavia, manca una base di dati che identifichi su quali procedure la stimolazione sia più efficace. 103 indicato una serie di risposte significative, nei soggetti sani, in corrispondenza dell’eccitazione e attenzione (accompagnate da maggiorazioni della frequenza respiratoria) in risposta alla musica preferita; per quanto riguarda i soggetti SV e MCS si sono registrate degli aumenti di ampiezza dell’EEG per stimoli associati alla musica preferita – e i dati comportamentali mostrano un aumento significativo del tasso di lampeggio per la musica preferita all’interno della coorte SV237. Questi e altri risultati, suggeriscono il potenziale che ha la musicoterapia nel sostegno della neuroplasticità in programmi di riabilitazione. Inoltre, non va dimenticato che la plasticità propria del sistema nervoso centrale (SNC) – dovuta alla capacità dei neuroni di produrre, nell’arco della loro esistenza, nuove sinapsi, che permette di mantenere elevato il numero di connessioni sinaptiche nonostante la diminuzione del numero di neuroni – è regolata anche dalla stimolazione esterna, come quella sonoromusicale; il SNC elabora in maniera più efficace proprio di fronte ad una stimolazione sonoro-musicale che una stimolazione ‘rumorosa’ (intesa come stimoli acustici non strutturati)238. Quindi, la musicoterapia – in ambito di SV e MCS (ma più genericamente di lesioni cerebrali) può aiutare la riabilitazione, lo sviluppo e il recupero delle funzioni perdute, nonché il ripristino di quelle residue: per esempio, l’uso della stimolazione ritmica per aiutare il movimento e a camminare, il canto per affrontare il parlato e la qualità vocale (in MCS), l’ascolto della musica per ridurre il dolore, l’uso delle improvvisazioni musicali per l’espressione emotiva e rafforzare un plausibile senso di benessere 239 . In tutto ciò è utile tenere conto del fatto che l’attenzione dell’individuo diminuisce esponenzialmente quando il SNC è ipersollecitato da tanti stimoli esterni diversi tra loro e spesso non riesce ad elaborarli tutti andando in confusione. Quindi, tenuto conto anche della condizione tipica degli stati vegetativi, la stimolazione sonoro-musicale dell’intervento musicoterapico dovrà tenere conto di questo ed essere modulata in modo da offrire un giusto equilibrio di variazioni e stimolazioni. 237 Si veda lo studio O’Kelly J., James L., Palaniappan R., Taborin J., Fachner J., Magee W.L. (2013). 238 Benenzon R., (2002), pp.85-‐86. 239 Bradt J., Magee W.L., Dileo C., Wheeler B.L., McGilloway E., (2010). 104 Che la musica produca degli effetti (positivi o negativi) sugli esseri umani è un dato di fatto ed è storicamente documentato (si ricordi, inoltre, il percorso della psicologia evoluzionistica in riferimento al musicale, della biofilia dell’arte, della neuroestetica, ecc.). Anche la musicoterapia come intervento clinico è stato ampiamente dimostrato essere uno strumento utile al miglioramento degli stati d’animo in una varietà di popolazioni (di pazienti); tuttavia, questo non è altrettanto facilmente dimostrabile empiricamente per soggetti con deficit neurologici (quali sono gli SV e MCS). In un articolo di Magee e Davidson, The effect of music therapy on mood states in neurological patients: a pilot study (2002)240, i due autori presentano i risultati di uno studio pilota che esamina proprio l’effetto della musicoterapia sugli stati d’animo in pazienti con neuro-disabilità acquisite e complesse. Confrontando gli stati d’animo pre e post sessione musicale, i risultati hanno mostrato che, in termini di polarità quali tranquillo-ansioso, energetico-stanco, gradevole-ostile, vi è una differenza significativa tra pre e post intervento musicoterapico (in termini positivi). Secondo questi esperimenti, dunque, l’inserimento della musicoterapia risulta essere anche un intervento efficace per affrontare stati d’animo negativi nei casi di neuroriabilitazione. Ma come si traduce, nella pratica, l’affiancamento della musicoterapia ai percorsi medici in pazienti in stato vegetativo e minima coscienza? Come si applica la musicalità intrinseca nell’intervento musicoterapico? Quali sono i parametri musicali maggiormente utili con questa tipologia di pazienti? Come avviene l’aggancio? 1. Utilizzo della musicalità intrinseca nell’intervento musicoterapico con pazienti in stato vegetativo (e MCS) La musica apre a chiude ogni volta un discorso, si offre totalmente per poi negarsi, si concretizza come un evento ogni volta differente241. Sono già stati evidenziati gli elementi fondamentali della musicalità intrinseca, che sono anche gli elementi archetipi che costituiscono l’ISO universale del soggetto. È 240 Magee W.L., Davidson J.W., (2002). 241 Cavallri L. e Cavallari M., (2013). 105 proprio su questi elementi che si snoda il percorso musicoterapico con la tipologia di pazienti descritta in questa dissertazione. Si sfrutterà la pulsazione isocrona, il volume, il tono e il timbro, nonché gli elementi della ripetizione e della variazione. Lo strumentario e il setting di un intervento musicoterapico varia molto a seconda che si tratti di stati vegetativi o minima coscienza242; questo perché, nel primo caso, – lo ricordiamo – si tratta principalmente di lavorare sulla contattabilità del soggetto, mentre, nel secondo caso, si lavora sul piano riabilitativo. Ma, in entrambi i casi, il setting è molto minimale; non è contemplato il movimento nello spazio e si usano pochi strumenti come ocean drum, djembe, glockenspiel, energy chimes, triangolo, metallofoni vari, tamburello, chitarra e voce. La durata delle sedute varia da 20-30 minuti – per quanto concerne i pazienti in stato vegetativo – a 45-60 minuti – per i pazienti in minima coscienza. Si tratta di sedute la cui struttura è tendenzialmente standardizzata (in riferimento ai singoli pazienti): ciò permette di evidenziare eventuali forme di riconoscimento dello stimolo sonoro da parte del paziente o se la relazione stimolo e risposta sia di tipo casuale o causale243. Infatti la ripetitività della sequenza musicale induce il paziente in uno stato di rilassamento e rassicurazione prodotti dal riconoscimento della seduta e del rapporto che si è instaurato con la musicoterapista; ciò permette una maggior ricettività rispetto alle stimolazioni provenienti dall’ambiente esterno, e può favorire il recupero della coscienza e il ripristino di un rapporto con l’ambiente circostante, privilegiando la Comunicazione Non-Verbale attraverso l’utilizzo dell’elemento sonoro-musicale.244 La risposta dei pazienti in stato vegetativo viene letta attraverso i parametri neurovegetativi: frequenza cardiaca – che risulta essere il parametro più sensibili alla stimolazione sonora (specialmente per quanto concerne variazioni sonore di volume e ritmo), frequenza respiratoria e pressione arteriosa (minima/massima); accanto a questi parametri possono esservi degli indici comportamentali come l’apertura e la chiusura degli occhi, la fissazione dello sguardo o il suo orientamento nello spazio, il movimento della testa o degli arti e gli automatismi – come la masticazione, la suzione, o la deglutizione. Il paziente in stato vegetativo è una persona che vive – come già detto – una 242 Vivendo costantemente nel ragionevole dubbio che si tratti una minima coscienza come stato vegetativo – anche se è rara la situazione contraria. 243 Si veda Videsott M., Sartori E., (2008), pp. 110-‐111. 244 Videsott M., Sartori E., (2008), pp. 122. 106 condizione di disorientamento: possiede una percezione sfasata dei suoi confini corporei e di quelli delle altre persone, oltre a non avere una chiara definizione dell’ambiente circostante; è come se si fosse ritrovato catapultato in una dimensione completamente nuova, che deve – sicuramente – imparare a ridefinire ma che, al contempo, fa molta paura. Per questo, spesso, gli stimoli esterni vengono vissuti come una minaccia da parte del paziente. Questo è il contesto all’interno del quale ci si ritrova ad operare ed è per questo motivo che occorre approcciarsi e avvicinarsi al paziente con estrema delicatezza, rispettando i suoi timori. Ad un tale approccio ‘in punta di piedi’ corrisponde l’utilizzo di stimoli sonori semplici (che abbiano un significato ma che non siano troppo intensi sul piano emotivo), con intervalli di tempo lunghi, silenzi, composizione di melodie in forma graduale, ripetizione di una stessa sequenza sonora; e poi ancora, di nuovo, silenzio e ascolto. Tutto ciò per favorire la contattabilità del paziente, senza inibirlo con stimoli eccessivi e complessi. «I diversi parametri musicali vengono trattati, utilizzati e modificati separatamente, per poter offrire al paziente messaggi chiari, rassicuranti e comprensibili».245 1.1. La pulsazione isocrona: ocean drum e djembe. L’aggancio deve essere, innanzitutto, una sintonizzazione sulle qualità ritmiche, dinamiche e agogiche del respiro del paziente.246 Essendo l’intervento musicoterapico con pazienti in stato vegetativo un incontro molto delicato, occorre dare estrema importanza a quello che viene definito l’aggancio musicoterapico. L’aggancio, in questi contesti, non è solo il momento in cui il paziente si accorge della presenza del terapista e lo riconosce come interlocutore; è, prima di tutto, un accordarsi del paziente con se stesso, con il suo corpo o, meglio, con i ritmi del suo corpo. Il paziente deve prima di tutto sentirsi per poi sentire l’altro e spesso può succedere che non si arrivi nemmeno a sentire l’altro. Il primo modo per sentirsi in un corpo – come avviene per le tecniche di meditazione 245 Benenzon R., (2002), pp. 116. 246 Videsott M., Sartori E., (2008), pp. 111. 107 – è sentire il proprio respiro. Per questo motivo la prima ‘mossa’ del musicoterapista è quella di sintonizzarsi sul respiro del paziente. I principali strumenti che possono essere utilizzati a questo scopo sono l’ocean drum e il djembe; altrettanto efficace è la voce. Questi strumenti sono calibrati sul respiro del paziente e ciò permette a quest’ultimo di appropriarsi del proprio ritmo corporeo, attraverso una modalità estremamente semplice, ossia il respiro. Si è visto, precedentemente, come la pulsazione – nell’essere umano – sia sempre isocrona, ossia si ripeta con lo stesso intervallo di tempo, per una necessità biologica di regolarità e ripetizione data dal battito cardiaco e dalla respirazione. Con il djembe, o l’ocean drum, non si fa altro che sintonizzarsi sulla pulsazione isocrona del paziente e iniziare un dialogo sonoro su questi elementi sonori minimali. La calibrazione sul paziente ha proprio tutti i connotati di una sintonizzazione: è transmodale, oggetto della corrispondenza non è il comportamento del paziente ma qualche aspetto che ne riflette lo stato d’animo (per esempio la velocità del respiro), i parametri su cui ci si modula sono parametri musicali (intensità, durata, forma) e, molto importante, solo apparentemente si tratta di imitazione del respiro del paziente attraverso il suono del djembe; in realtà, vengono apportati degli aggiustamenti interpersonali continui, basati sul ritmo, l’intensità, la forma, e tali aggiustamenti sono finalizzati a trovare il corrispondente affettivo esatto – il colore – del paziente. Una volta sintonizzati, si può introdurre la variazione che può portare, per esempio, a diminuire la velocità del respiro, e quindi ridurre lo stato ansioso, portando il soggetto a rilassarsi. L’aggancio musicoterapico, infatti, deve essere anche un modo per raggiungere il livello di rilassamento tale da permettere al paziente una maggiore concentrazione sugli stimoli esterni ricevuti. Anche nell’intervento con pazienti MCS, in cui il livello d’interazione appare maggiore (in realtà è solo ‘diverso’) rispetto a quello che s’instaura con pazienti SV, il momento dell’aggancio musicoterapico è di fondamentale importanza: serve a dare un ‘inizio’, a separare i confini tra gli stimoli sonori percepiti quotidianamente e quelli percepiti in seduta; serve, anche in questo caso, a raggiungere uno stato di rilassamento che prelude la concentrazione utile al lavoro di riabilitazione. 108 1.2. Volume, tono, timbro: chitarra e metallofoni. Riteniamo che il timbro possa aiutare a descrivere e comprendere il mondo interno del paziente attraverso un’analisi accurata del modo in cui l’oggetto strumento è utilizzato, e che il timbro possa raccontare aspetti fondamentali della personalità del paziente e rappresentare una strada maestra per entrare in relazione con il vissuto del paziente247. Il rapporto tra corpo e suono si manifesta nel timbro. È già stato preso in esame il contributo di Michel Imberty in riferimento al rapporto tra le opzioni strutturali del suono e le opzioni emozionali suscitate dall’ascolto musicale. L’autore sostiene che «l’espressione delle emozioni si manifesti mediante tutta una serie di atteggiamenti corporei, mimici, mediante gradi diversi del tono muscolare»248 e che ad uno stesso grado di tensione/distensione muscolare, quindi, corrisponda uno stesso grado di tensione/distensione emotiva. La relazione sussistente tra questi discorsi e il timbro si manifesta nella vocalità: la voce è un suono prodotto dal passaggio dell’aria nella laringe e fatto vibrare dalle corde vocali, strutture tendinee caratterizzate proprio dai meccanismi di tensione e distensione. Il primo timbro da considerare, infatti, sarà proprio il timbro vocale (in quanto la voce è lo strumento musicale primario); esso è influenzato da caratteristiche morfologiche delle corde vocali, ma anche dalla conformazione fisica in generale: è l’intero corpo a caratterizzare il timbro vocale. Lo stesso accade per gli strumenti musicali: il timbro di uno strumento è dato dall’aspetto ‘fisico’ dello strumento, la sua forma, oltre che dalle caratteristiche connesse ai materiali di costruzione. Quindi, anche per gli strumenti musicali, il timbro è ciò che mette in relazione il corpo (dello strumento) e il suono. Se si osservano gli altri elementi strutturali del suono menzionati nel titolo del paragrafo, si noterà che, per il tono (la tonalità) e il volume (l’intensità), valgono gli stessi discorsi: anche nel caso della tonalità il corpo influisce – sia il corpo dell’essere umano che quello dello strumento musicale. Riprendendo uno strumento già menzionato come esempio, la caratteristica forma del collo del sassofono baritono serve a limitare l’altezza complessiva (tonalità) dello strumento. Similmente, se osserviamo la forma/dimensione del sassofono baritono e la 247 Dall’articolo Suvini F., Strobino E., Dal silenzio al suono. Percorsi attorno agli strumenti musicali, in Postacchini P.L., Spaccazocchi M., (2012), pp. 202-217. 248 Imberty M., Indicazioni per una psicologia cognitive della musica, in Lorenzetti L.M., Antonietti A., (1986). 109 confrontiamo con quella del flauto traverso, è evidente che a uno strumento verrà associato ‘istintivamente’ un certo volume, differente – e quasi opposto – all’altro249. Timbro, tono e volume ci dicono una cosa importantissima, che può essere esemplificata attraverso le parole di Antonio Di Benedetto: Il mondo viene percepito, pensato, attraverso il corpo che diviene suono, ritmo, intensità, prende vita nelle forme vitali individuate da Stern250. Nell’intervento musicoterapico con gli stati vegetativi, i diversi parametri musicali sono generalmente trattati il più separatamente possibile (anche se non è reale la possibilità che il timbro possa essere separato dal tono e dal volume), per permettere al paziente di cogliere messaggi chiari, semplici, rassicuranti e comprensivi. Si parte da una nota sola, che viene ripetuta più volte, intervallata da pause, regolata sul respiro del paziente. Poco per volta, a seconda della sintonizzazione che si viene creando, il musicoterapista può scegliere di inserire una seconda nota (che diventa una variazione) e poi una terza; questo funziona bene con strumenti musicali appartenenti alla categoria dei metallofoni (anche piastre singole o combinazione di 2/3 piastre), specialmente gli energy chimes: il suono prodotto è ben prolungato, si propaga nello spazio/ambiente a lungo ed è quindi più incisivo di uno strumento il cui suono è netto e breve. Un simile affetto, in questo contesto, può essere raggiunto anche attraverso la chitarra; nelle sedute osservative con Mauro Sarcinella, la chitarra era spesso utilizzata in questi termini: il musicoterapeuta introduceva lo strumento suonando un arpeggio lento di tre note in maniera ripetitiva, per poi passare ad introdurre l’accordo intero fino ad arrivare ad un insieme di accordi semplici, spesso presentati nella forma musicale del rondò. Il rondò è utilizzato da Sarcinella per la sua peculiare circolarità strutturale e per la presenza di un tema (o episodio) fisso al quale si alternano temi differenti – nella sua forma più semplice, ABA. Nell’esperienza individuale alla clinica Virgo Potens, mi sono ritrovata ad utilizzare la chitarra non solo per queste sue caratteristiche funzionali legate ai tre parametri sopracitati, ma anche per la questione delle vibrazioni; ispirata dall’innovativa 249 Naturalmente, si sta parlando di strumenti a fiato e quindi non va dimenticata l’importanza che ha – nella produzione sonora – la modalità di immissione del fiato nello strumento (e anche qui la distinzione tra il sassofono baritono e il flauto traverso è netta). 250 Di Benedetto A., (2002). 110 tecnica dei sound bed251 (molto prodotti in Europa ma ancora poco conosciuti e inutilizzati in Italia), ho utilizzato la chitarra in appoggio sul corpo del paziente (generalmente si trattava o della mano o di un braccio o del ventre) per trasmettere una risonanza vibrazionale direttamente sul corpo del paziente. Ho avuto modo di notare, inoltre, che grazie alla caratteristica conformazione materiale del materasso dei letti dei pazienti, appoggiando semplicemente la cassa di risonanza della chitarra su di esso, la vibrazione si propagava per tutto il letto come un vero e proprio sound bed – sebbene la vibrazione fosse di molto ridotta rispetto a quella che si può percepire in un massaggio sonoro su sound bed. 1.3. La voce La voce umana non assomiglia a nessun’altra voce nel mondo degli esseri viventi, grazie a caratteristiche quali la flessibilità, l’articolazione, le sfumature nella tonalità, nel ritmo, nel contorno melodico. La voce manifesta l’intenzionalità e ha dunque un ruolo fondamentale nei primi rapporti fra il bambino e la madre, già prima della nascita, e quindi immediatamente dopo, perché è attraverso questa voce che il bambino può cominciare a capire le intenzionalità delle persone che ha vicino (madre, padre, famiglia ecc)252. In che senso la voce ha un ruolo nell’espressione dell’intenzionalità? È molto semplice, se si pensa alle intonazioni che possiamo dare con la voce e quanto queste intonazioni influiscano sul significato – e sull’intenzione – di una frase; detto altrimenti, a determinare l’intenzionalità positiva o negativa di una frase (o di una parola) sarà proprio l’intonazione che si utilizza. Come ci ricorda Rita Meschini253, nei primi mesi di vita la voce umana rappresenta l’unica forma di relazione con il mondo esterno: è il primo strumento di conoscenza del mondo esterno. Il neonato è immerso in un bagno sonoro costituito da tutti i 251 Si tratta di un monocordo – corde che producono la stessa nota – costruito in legno massello o multistrato di betulla, su cui sdraiarsi a scopo terapeutico, riabilitativo, per il rilassamento e per il proprio benessere; sdraiandosi sul piano (piano armonico) del letto-‐monocordo è possibile percepire le vibrazioni e le armonizzazioni sonore prodotte attraverso l’arpeggio della sezione di corde sottostante (53 corde generalmente). Il corpo della persona sdraiata sul piano del letto sonoro subisce una continuità vibratoria, dovuta alla vibrazione diretta che dalla cassa di risonanza dello strumento viene trasmessa, per contatto, al corpo della persona, con l’assorbimento delle onde sonore che la investono: massaggio sonoro, appunto. 252 Imberty M., (2008). 253 Meschini R., (2002). 111 rumori e suoni dell’ambiente circostante; sente delle persone che parlano tra di loro e che parlano con lui/lei. Ma la cosa interessante è che le parole (o gesti vocali) sono legati a movimenti del corpo (della madre) e il bambino non separa questi eventi sonori dal movimento perché entrambi presentano le stesse caratteristiche ‘temporali’ per il bambino: ritmo, durata, velocità. Hanno, dunque – come dice Imberty – una forma temporale254. La fusione temporale tra suoni e movimenti è scoperta dal neonato attraverso l’uso della voce: il bambino ha fame e per manifestare l’attesa che la madre lo prenda per allattarlo, inizia a produrre dei versi che diventano grida se lei non risponde alla sua richiesta; allora arriva la madre che lo prende e lo allatta. Ma com’è che tutto ciò assume una dimensione temporale nel bambino che non ha ancora un concetto di tempo? Imberty trova una risposta nei meccanismi di tensione/distensione: attraverso la successione di tensione (quando si agita per comunicare alla madre che è affamato) e distensione (quando finalmente prende il latte, i suoi muscoli si distendono) si genera, seppur minimale, una forma temporale, una unità di tempo che il bambino vive con il valore di unità di senso. Il paziente in stato vegetativo vive una condizione molto simile al neonato: anch’egli è immerso in un bagno sonoro di suoni e rumori provenienti dall’esterno e come il neonato non ha molti strumenti per comunicare con l’ambiente circostante; la produzione verbale è assente (o al più ridotta a emissioni vocali non articolate), il corpo è decisamente limitato nella sua funzionalità, nel movimento. Il paziente in stato vegetativo si trova a ripercorrere le tappe psico-evolutive del bambino, con la differenza che non è una ‘persona nuova’: ha un passato esperienziale, ha un danno cerebrale e quindi un alterato stato di coscienza. Tuttavia, questa somiglianza, ci consente di «riconoscere un’elevata potenzialità dell’esperienza sonoro-musicale nell’individuare il livello di regressione in cui è possibile instaurare una qualche forma di comunicazione con la persona, a partire dalle ampie implicazioni sensoriali e percettive del linguaggio musicale»255. E la voce, in tutto ciò? La voce è uno strumento potente per un’infinità di motivi. È potente dal punto di vista emotivo-relazionale: «la voce, risuonando nel corpo sia di chi produce suono sia di chi lo riceve, facilita la covibrazione attraverso la sintonizzazione di due mondi diversi, ma affettivamente partecipi di uno stesso 254 Ritroviamo l’idea dell’essere umano come essere temporale. 255 Meschini R., (2002), pp.115. 112 legame»256; quindi la voce, più di qualsiasi altro strumento, avvicina, ci mette in relazione, proprio grazie alla condivisione di corpi in vibrazione. Come dice Tomatis in L’orecchio e la voce (1993), cantare è un po’ come suonare il corpo dell’altro. Ma la voce è potente anche da un punto di vista strutturale vero e proprio, non solo perché – come sostiene Benenzon – essa rappresenti uno degli elementi sonoromusicali più regressivi e capaci di risonanza intima, ma anche per la questione connessa al paraverbale. Facciamo qualche passo indietro. Nella comunicazione, in generale, possiamo riconoscere tre codici comunicativi: il codice verbale (la lingua, le parole), il codice non verbale (microespressioni facciali, gestualità, prossemica) e il codice paraverbale (tono, volume, timbro, intensità). Una condizione comunicativa ottimale – come parlare vis a vis – consente l’utilizzo congiunto di questi tre codici comunicativi; l’assenza di uno o due codici comporta un impoverimento nell’efficacia comunicativa, ma dipende da quale codice eliminiamo. Questo perché, come afferma la letteratura in ambito di tecniche di comunicazione, nella nostra comunicazione il codice verbale incide soltanto per il 7% su ciò che viene detto, mentre il codice non verbale ha un’incidenza del 55% e, a seguire il codice paraverbale del 38%. Ciò significa che – a discapito di quanto generalmente pensiamo – in ciò che comunichiamo non contano tanto le parole, ciò che diciamo, ma come lo diciamo. Il livello della comunicazione non verbale e paraverbale ha un’incisività esponenzialmente maggiore rispetto al verbale; basti pensare a quanto accade nel bambino, il quale comprende dal tono della voce ancora prima che dalle enunciazioni semantiche. Inoltre, come afferma Carrè in Metodologie e strategie del risveglio musicale (1993) 257 , il sistema nervoso centrale (SNC) elabora più facilmente uno stimolo sonoro-musicale rispetto al rumore (stimoli acustici non strutturati); inoltre, il SNC danneggiato può essere stimolato in maniera più proficua da un linguaggio non-verbale – come la musica – piuttosto che dal linguaggio verbale. Il paraverbale rappresenta un codice estremamente importante nella comunicazione in generale e in quella con gli stati vegetativi in particolare, e l’elemento identificativo del codice paraverbale è sicuramente la voce. La voce è corpo o, semplicemente, “la voce è” – per utilizzare le parole di Antonella Grusovin. La vocalità umana è preverbale, oltre che paraverbale: l’uomo prima di 256 Meschini R., Consuelo P., La voce che incontra il silenzio di pazienti in stato vegetativo, in Videsott M., Sartori E., (2008). 257 Carrè A., (1993), pp.108-‐109. 113 parlare ha cantato. Lo dice Tomatis (1987), lo dice la psicologia evolutiva nei contributi di Steve Mithen in The Singing Neanderthals.258 Gli elementi della voce sono innanzitutto il timbro, il tono, il volume, l’intensità, di cui si è evidenziata l’importanza nell’intervento musicoterapico con pazienti SV e MCS nel paragrafo precedente. E, ancora, la voce esprime la capacità del corpo di connettere in maniera diretta la dimensione sensoriale a quella emotiva 259, connessione assolutamente fondamentale per la riattivazione della memoria psico-corporea dei pazienti in stato alterato di coscienza. 2. Esperienze sul campo: stati vegetativi, minima coscienza e disabilità grave. Ogni paziente scegli e il modo più adeguato per farsi “sentire”.260 Sebbene si sia ampiamente evidenziato come la suddivisione dei soggetti in categorie prestabilite non sia sempre aderente alla realtà, per praticità verranno suddivise le esperienze di tirocinio in tre categorie di pazienti, sulla base della nomenclatura segnata sulle cartelle cliniche. In quest’ultimo capitolo le argomentazioni a favore dell’utilizzo della musicoterapia in ambito vegetativo e di minima coscienza sono state già mostrate, ma è mia particolare premura, riportare l’esperienza vissuta in prima persona di quelle che, sulla carta, restano teorie, metodologie, consigli, perché sono convinta che l’esempio tratto dalla realtà ci permetta di indagare più a fondo questa dimensione indefinita di sospensione – come spesso è descritta. Inoltre, desidero riportare le storie che si sono venute a creare tra me e questi pazienti come segno di riconoscenza per tutto quello che mi hanno donato e per il contributo fondamentale che hanno dato alla mia formazione. Per quanto concerne l’esperienza di tirocinio in affiancamento a Mauro Sarcinella, si è svolta presso il centro geriatrico polifunzionale ‘San Pietro’ di Monza, una RSA gestita dalla Cooperativa La Meridiana Due inaugurata nel 2001 e destinata al 258 Mithen S., (2005). 259 Si veda Bolelli R., Rantolo, dunque canto: la voce umana tra estetica e musicoterapia, in Videsott M., Sartori E., (2008). 260 Videsott M., Sartori E., (2008), pp. 122. 114 ricovero a lungo termine di persone anziane non autosufficienti e stati vegetativi (all’interno del progetto SLAncio). Il periodo di tirocinio è stato di quattro mesi con una frequenza bisettimanale, per un numero complessivo di 200 ore. Nell’estate del 2015, invece, ho svolto un’esperienza individuale – ma supervisionata da Mauro Sarcinella – presso la struttura ‘Virgo Potens’, una RSA gestita dall’Associazione ONLUS Silenziosi Operai della Croce, inaugurata a marzo 2015 che ospita un nucleo NSV (stati vegetativi e minima coscienza) e un nucleo NAC (alta complessità neurologica – SLA e Locked-in). 2.1. Stati Vegetativi: esperienza di affiancamento al musicoterapeuta Mauro Sarcinella con Silvia, Enza, Luigia; l’esperienza individuale con Gian Carlo. Silvia era il caso più grave e più difficile da decifrare, sebbene fossero abbastanza chiari i momenti in cui stava bene e quelli in cui non stava bene. Con lei si è sempre iniziato l’incontro con l’ocean drum, passando poi – generalmente – al djembè con il battente, e poco per volta aumentare la complessità dei suoni prodotti attraverso il glockenspiel, per finire sulla chitarra suonata (e a volte anche qualche brano cantato da Mauro). Si passa da suoni singoli fino ad arrivare a suoni più complessi: per esempio, durante un incontro Mauro ha suonato Fra Martino con il glockenspiel componendolo poco per volta (suonando prima il Do, poi il Re, poi il Mi, mettendoli successivamente insieme), passando – poi – alla chitarra per riproporre la stessa melodia con l’aggiunta di qualche piccola variazione. Spesso, Silvia arriva stanca agli incontri, in parte a causa della sua condizione clinica, in parte perché è stata appena alzata dal letto. Questo è un problema che si presenta anche con altri pazienti: a volte vengono alzati e subito portati alle attività (o gli orari delle attività sono programmati in prossimità delle alzate) e questo comporta che il paziente giunga all’incontro stanco, perché l’alzata – sebbene avvenga completamente ad opera degli operatori – implica, in realtà, molta fatica per loro. Come capita a tutti gli esseri umani, ci sono volte in cui Silvia è attiva e volte in cui lo è meno. Quando è attiva, da molte risposte (o segnali di interazioni) con gli occhi e resta vigile per buona parte della seduta. Usa molto lo sguardo, che sembra perlustrare lo spazio in cerca di 115 stimoli e/o rassicurazioni; a volte lo sguardo sembra seguire la musica, non nei termini di una risposta allo stimolo sonoro ma come se il suono la accompagnasse ad essere nell’ambiente. Quando Mauro, verso il termine della seduta, prende la chitarra e suona una musica celtica (sulla base dell’analisi sonoro-musicale compilata con il marito), mi sembra di cogliere nello sguardo di Silvia una maggiore reattività a livello oculare e un maggior coinvolgimento; si scorge quasi dell’emotività – ma questa è una personale interpretazione. Tendenzialmente Silvia termina ogni incontro rilassandosi completamente – spesso addormentandosi dopo aver fatto un lungo respiro liberatorio; anche in questo caso, diventa difficile stabilire se sia la musica e il suono a rilassarla sino a portarla ad addormentarsi o se non sia lei che, stanca dall’alzata, si addormenta. Su Silvia – come sugli altri pazienti – si lavora a seconda della giornata, di come arrivano in seduta; è successo di lavorare sul rilassamento perché è entrata in stanza con un respiro molto affannoso, così come abbiamo lavorato sulla stimolazione perché era molto presente: un giorno, per esempio, Mauro ha sbagliato un accordo di una melodia che aveva proposto e composto poco per volta durante la seduta e Silvia ha direzionato lo sguardo immediatamente nella direzione in cui proveniva il suono – come se ne fosse accorta, come se quella nota deludesse le sue aspettative. Nei momenti in cui si lavora sull’attivazione, una delle proposte di Mauro è quella di cantare con la chitarra brani del repertorio favorito di Silvia (nello specifico il genere cantautoriale); anche in riferimento a questa esperienza le sensazioni che qualcosa di diverso accada, sono numerose ma resta difficile poter stabilire se si tratti di interpretazioni personali o di fatti concreti. Luigia è una paziente che Mauro ha preso in cura un mese dopo il mio arrivo; quindi con lei ho avuto la possibilità di osservare l’inizio del trattamento – siccome con gli altri Mauro lavorava già prima del mio arrivo. Attraverso l’anamensi sonora si scopre molto dell’identità sonoro-musicale del paziente e della sua biografia; i parenti raccontano un sacco di cose, hanno voglia di raccontare il più possibile e ascoltare è un ottimo esercizio e fonte di informazioni: di esse è interessante cogliere il ‘lato sonoro’, se così si può definire. I suoni e rumori del luogo in cui il soggetto ha lavorato per una vita, l’ambiente sonoro della casa, il suo carattere e la sua personalità, la presenza di famigliari intorno: sono tutti elementi che concorrono alla buona riuscita del lavoro musicoterapico, accanto ai parametri della musicalità 116 intrinseca. Luigia è una donna molto attiva – anche ora – e continua a fare movimenti con la bocca, sembra voler scandire le parole con il movimento della lingua – ma è solamente un’interpretazione personale. Reagisce ai suoni (specialmente al tamburo): si attiva quando c’è il suono e sta ferma quando non c’è. Mauro nota una forte contattabilità in questo soggetto. Caratteristici di Luigia sono gli occhi e la bocca spalancati e il connesso movimento della lingua. È molto reattiva agli stimoli sonori – una volta abbiamo provato a suonarle uno strumento lontano dal suo campo visivo (a sud-est rispetto a lei) e ha girato lo sguardo indietro, proprio verso il suono. Luigia si esprime molto con lo sguardo: è uno sguardo che esplora lo spazio ma che è anche molto attento al suono, alla sua provenienza e al suo timbro. È successo un po’ di volte che Luigia facesse scendere delle lacrime dagli occhi: la prima volta mi sono commossa e ho pensato immediatamente ad una interpretazione di evidenza emotiva del soggetto nei confronti della melodia suonata da Mauro; ma in un secondo momento ho anche riflettuto sul fatto che Luigia passa molto tempo con gli occhi spalancati e ciò potrebbe essere indice fisiologico di secchezza degli occhi. Tra il silenzio e l’inizio delle canzoni o della melodia proposta da Mauro, Luigia cambia sguardo, strabuzza gli occhi come se volesse riconoscere la canzone che sta iniziando; sebbene anche questa sia una personale interpretazione, la cosa abbastanza evidente è che Luigia comprenda il passaggio dal silenzio al suono/musica: si tratta dunque di una informazione che riesce ad organizzare ed elaborare mentalmente. Altri segni di risposta (o quantomeno presenza) sono dati dal movimento della gamba – a volte Luigia risponde al tamburo facendo saltellare la gamba, ma non si tratta quasi mai di una risposta sul ritmo proposto, non è qualcosa di costante – a volte suona in risposta, a volte contemporaneamente; però si tratta sempre di un segno che avviene in presenza del suono del tamburo e mai in altri contesti. Con lei, a differenza di Silvia, la seduta si attiva spesso; si utilizzano suoni più complessi – l’ocean drum utilizzato nelle prime sedute, viene presto abbandonato per lasciare spazio al djembè, al glockenspiel e alla chitarra con l’utilizzo della voce. Ciò non toglie che vi siano stati giorni in cui anche lei, come altri pazienti, è arrivata in seduta molto affaticata e per lo più agitata per colpa del catarro; pertanto si è lavorato sul rilassamento. 117 Enza è un altro caso molto vicino a Silvia, sebbene la presenza di Enza sia molto più evidente o, se vogliamo, di più facile comprensione per noi: Enza, infatti, risponde allo stimolo sonoro (specialmente alla pulsazione ritmica) sbattendo le palpebre. Con lei abbiamo potuto notare questa caratteristica, pressochè estendibile agli stati vegetativi in generale, di non avere tempo di reazione; si è notato, cioè, che gli scatti (o risposte) dei pazienti SV sono contemporanei al suono: quando Mauro batte sul tamburo, Enza risponde chiudendo le palpebre, ma tale risposta è contemporanea al battito sul djembè – manca, per l’appunto, il tempo di reazione che hanno gli esseri umani normodotati. Ci siamo confrontati su questo con il dott. Magnoni e lui ci ha confermato l’ipotesi, sostenendo che questi pazienti non hanno più un sistema di filtraggio dello stimolo sonoro, per cui rispondo in maniera immediata (ci ha riportato l’esempio dei racconti di OSS e infermieri del turno di notte: quando a qualche operatore cade distrattamente un mazzo di chiavi per terra, i pazienti si svegliano di scatto). Enza sente bene i suoni, anche a bassa intensità; pare che ai suoni semplici riesca a dare una risposta e riesca a seguirli di più. Mentre ciò non avviene con i suoni complessi: dopo poco la sua attenzione al suono si perde – o almeno dà la sensazione di perdersi. Quindi, con lei, si lavora con suoni semplici e ritmi. Molto spesso, in seduta, ci rivolgiamo a Enza sottovoce, e la prima parte dell’incontro si svolge ad un volume contenuto; questo perché Enza – come tanti pazienti – viene bombardata e iperstimolata dalla madre che, oltre a ciò, usa parlarle molto forte a distanza ravvicinata. Per questo motivo, e per contrasto, ci rivolgiamo a lei con volumi contenuti. Spesso, Enza giunge con l’esigenza evidente di un rilassamento; fa lunghi sospiri più volte durante la seduta e il suo viso si rilassa rispetto alla contrazione facciale con cui è entrata. Anche la tensione delle mani diminuisce. La distensione muscolare è frequente in questi pazienti durante la seduta di musicoterapia e va di pari passo con la condizione di rilassamento. Per quanto concerne l’esperienza individuale, il mio incontro con Giancarlo è stato un incontro molto importante. A differenza di quanto avveniva alla clinica di Monza, in cui i pazienti si incontravano una volta a settimana, con Giancarlo il percorso è stato più intenso e ci si è incontri tre/quattro volte a settimana. Sulla linea di quanto appreso nel tirocinio con Sarcinella, la durata delle sedute con Giancarlo non superano i trenta minuti e molto spesso durano venti minuti. La famiglia di Giancarlo 118 è una bella famiglia, molto aperta e disponibile, che crede nell’efficacia del trattamento musicoterapico. Sicuramente tutto ciò ha contribuito alla buona riuscita del mio lavoro con Giancarlo. Giancarlo viene alzato a metà mattinata e messo a letto nel primo pomeriggio. Questo ha fatto sì che i nostri incontri non avvenissero sempre con il paziente in seduta, ma talvolta abbiamo avuto modo di lavorare a letto. La discontinuità della posizione è stata tutt’altro che un elemento di disturbo: ha contribuito a fornire più possibilità di intervento. Come molti pazienti ricoverati in questo tipo di strutture – e come già si evidenziava per Enza – la sovrastimolazione sonora è all’ordine del giorno. Ogni camera possiede il suo televisore, il quale resta sempre acceso, impostato su un canale piuttosto che un altro in base alla sensibilità dell’operatore di turno. Sul comodino di Giancarlo c’è anche una radio con un lettore cd: accanto album di Zucchero e dei canti della Comunità di Nazareth di Don Machetta; dall’anamnesi sonoro-musicale scopro che Giancarlo è un uomo molto religioso, che ama i canti di chiesa. Come spesso accade, questa informazione – confermata da tutti i membri della famiglia ed evidente a quanti lo conoscono – non mi è stata particolarmente utile nell’intervento con lui. Non ci sono stati segnali significativi di attivazione in seguito ad un ascolto di un brano di Machetta, sebbene l’aver cantato la vocale A sulla melodia di una sezione del ritornello dell’Alleluja (Canto per Cristo) abbia spesso sortito una risposta considerevole a livello della frequenza cardiaca – specialmente dopo una ripetizione della sezione di qualche minuto. Alleluia - Canto per Cristo 4 G 44 Re ‹ 7 ˇ 44 ›G 7 ˘ ‹ 4 G4 4 G4 44 ›G ‹ 4 G4 44 ›G Č Č ˇ ˇ ˇ La per Cri Can - to Al - le - lu - ia, Seconda voce - - La7 glo lu - ˇ - le le - le ˇ - ˇ Č Č ˇ ˇ Re ˇ - ia, ia, - lu - ia, Ä Ä ˇ ˇ - ˇ Ä Ä ˇ ˇ Ä Ä ˇ Al Al Al - - Si- ˇ ˇ ˇ ˇ le - - le le - lu lu - le - lu ˘ 119 - ˘ ˇ ˇ lui ri - na - sce - rà, lu - ia,⌣Al - le - lu - ia, - - lu ˘ - - Re La(4) ˘ - Fa4- - ˘ le à à ˇ nel - la Al - le - con ta Al - le ˘ Re lu lu - Re ˘ Al à à ˇ ˇ ˇ à à ˇ ˘ ia, La do la vi le - lu - ia, - Al - - ˇ ˇ quan - do ver - rà Al - le - lu - ia, ˘ - lu ˘ ˇ ia, Ä Ä ˇ ˇ - Sol ˘ mi - be - re - rà, lu - ia,⌣Al - le - lu - ia, quan Al ˇ - ˇ Al - < Fa4- ˇ ˇ ˇ li ˘ le ria ia, ˇ - Sol Al Al Si- ˇ sto che Al - le - ˘ - Ę lu à à ˇ ˘ Al ˇ ˇ Re < < Re ˘ La Sol < 4 - ia, ˘ 2 4 < 7 ˘ 2 4 < 7 - - ia. ia. - - ia. La voce, generalmente, ha sempre sortito una risonanza evidente in Giancarlo; similmente la chitarra (sua sorella suona la chitarra). Mi sono ritrovata spesso a entrare in stanza e passare dieci o quindici minuti in silenzio con Giancarlo prima di iniziare. In quei minuti l’essenza del silenzio assumeva tante forme diverse. Mi rendo conto sia poco professionale riportare in una dissertazione la descrizione di qualcosa che non si riesce a definire a parole, ma la sensazione di quel silenzio, che non è mai solo silenzio e che dà proprio la percezione che un flusso di energia si sia creato tra te e il paziente, è qualcosa di talmente forte che non posso esimermi dal raccontarla – sebbene non lo possa fare in maniera scientifica. Oltre al silenzio, con Giancarlo ho comunicato attraverso la voce, la chitarra, l’ocean drum e il tamburo. In un paio di occasioni ho provato a utilizzare anche la campana tibetana, ma non è stata particolarmente accolta dal paziente. Ho avuto la fortuna di poter osservare in seduta i cambiamenti dei parametri neurovegetativi di Giancarlo – frequenza cardiaca, pressione arteriosa (massima e minima), frequenza respiratoria e saturazione – in quanto era sempre collegato a dei macchinari di controllo (sia in posizione seduta che a letto). Ciò mi ha permesso di compilare, ad ogni incontro, una tabella – in cui registrare i cambiamenti di tali parametri oltre alle altre evidenze comportamentali – con i seguenti campi da compilare: respirazione, apertura e chiusura occhi, blink, lacrimazione, orientazione dello sguardo, fissazione dello sguardo, rotazione del capo, apertura e chiusura della bocca, sciallorrea/salivazione, emissione vocale, sorriso, postura, tono muscolare, riflesso psicogalvanico, diaforesi/sudorazione, motricità. Due sono state le conquiste più importanti con Giancarlo: la prima, sicuramente, quella del battito di palpebre; un giorno, durante un incontro, mentre suonavo una pulsazione binaria con il tamburo, mi rendo conto che Giancarlo sta aprendo e chiudendo gli occhi a tempo con i miei movimenti sul tamburo. In quell’evento ho riconosciuto il tentativo di Giancarlo di comunicare in maniera interattiva con me; una volta incominciato il movimento di apertura e chiusura occhi si è quasi sempre verificato – sempre in riferimento alla pulsazione ritmica sul tamburo e non in maniera casuale. La seconda conquista, connessa anch’essa al fattore ritmico, riguarda il movimento delle dita finalizzato; con Giancarlo ho optato, sin dai primi incontri, di mettere in evidenza la sensazione del contatto: gli ho sempre messo il palmo di una mano sul tamburo mentre gli propongo la pulsazione ritmica, e dopo un 120 po’ di ripetizioni, mi fermo e propongo un gioco di proposta e risposta. Suono con il mio pollice sulla pelle del tamburo e poi rispondo con il suo pollice e così faccio per tutte le dita, ripetendo questo giochino per un certo numero di volte. Un giorno, dopo avergli proposto questa dinamica, vedo con la coda dell’occhio che lui muove l’indice della mano con la stessa pulsazione che gli era stata proposta fino a quel momento. Sono passati poi dieci incontri prima che questo tipo di risposta si ripresentasse, ma una volta ripreso, si è ripresentato per le seguenti quattro volte in maniera sempre più intensa. Quando ho parlato al fisioterapista di questa cosa, mi ha sbrigativamente risposto che si tratta di movimenti involontari. Sebbene sia assolutamente frequente, in questa tipologia di pazienti, avere movimenti involontari di questo tipo, il fatto che fosse a tempo e ripetuto per i 4 incontri successivi, mi fa credere tutt’oggi che non si tratti di un totale non controllo di quel gesto. Entrambe le ‘conquiste’ dimostrano quanto la ripetizione sia un elemento fondamentale nell’intervento con gli stati vegetativi, accanto a quello della pulsazione ritmica. 2.2. Stati di Minima Coscienza: esperienza di affiancamento a Mauro Sarcinella con Daniela, Giancarlo, Sergio; esperienza individuale con Andrea M. e Andrea B. Sergio è l’ultimo paziente nell’elenco degli SV che Mauro ha preso in carico durante il mio tirocinio in struttura; è un soggetto molto attivo e molto presente – tant’è che i risultati della Coma Near Coma Scale non lo ‘definiscono’ uno stato vegetativo ma già una minima coscienza, per questo motivo lo inserisco in questo gruppo, sebbene Mauro Sarcinella tendenzialmente lavori sulla minima coscienza attraverso una musicoterapia di gruppo e Sergio, invece, sia un intervento individuale. La peculiarità di Sergio – e uno degli elementi principali su cui si è lavorato – è una presunta sordità selettiva: per fare un esempio che accade sempre o per lo più in seduta, Sergio sente il primo colpo di tamburo battuto all’inizio della seduta e poi non sente più alcun suono; similmente, dal punto di vista della motricità, muove il braccio e la mano a fatica, ma se deve grattarsi l’orecchio, scatta con agilità e se lo gratta con quel braccio. Per indagare la sordità abbiamo lavorato molto sulle vibrazioni – sia quelle della chitarra, sia quelle della cassa vibe tribe (tentativo 121 fallimentare da me proposto). Una seconda via percorsa è stata quella della risposta imitativa, sviluppata in principio attraverso il tamburello e un battente, poi attraverso la tastiera; Sergio risponde imitando la proposta del musicoterapeuta, ma ciò non ci fa capire se percepisca o meno i suoni. Quello della risposta imitativa è un percorso iniziato un paio di incontri successivi al mio arrivo e che si è definita come pratica acquisita durante il percorso di musicoterapia. Un’altra caratteristica di Sergio è quella di incantarsi: sebbene appaia come soggetto molto attivo e presente nel contesto che sta vivendo, improvvisamente vive momenti di vuoto totale in cui ha lo sguardo fisso e nessun movimento o richiamo lo riesce a svegliare e ripotare al momento presente. Il contatto con la chitarra e con la tastiera genera, a volte, in Sergio delle risposte anche con la voce – dei suoni non ben definiti ma che non possiamo affermare siano percepiti anche dal soggetto. Come anticipavo, con i soggetti di minima coscienza Mauro lavora prevalentemente in gruppo, e ha creato un gruppo di lavoro comprendente Daniela, Anna e Giancarlo: si tratta di un gruppo molto affiatato e caratterizzato da progressi continui. La durata degli incontri aumenta, rispetto all’intervento con gli SV, a quarantacinque minuti. I pazienti vengono seduti intorno ad un tavolo a forma di U – creato appositamente per loro – sul quale sono disposti degli strumenti musicali (maracas, sonaglio, tamburelli, glockenspiel, campanelli). Sebbene sia una selezione di strumenti, vengono lasciati sul tavolo per permettere di attivare il ‘meccanismo della scelta’: ogni paziente sceglie quale strumento suonare e in quale momento. In realtà con alcuni di loro il meccanismo è stereotipato o quantomeno metodico: Giancarlo, per esempio, appena posizionato intorno al tavolo, apre il glockenspiel e suona quello fino a quando Mauro non gli dice “vai Giancarlo” (frase con cui si identificano i solo musicali di Giancarlo e i finali dei brani) e lui si mette a suonare il tamburello che ha già accuratamente posizionato a sinistra del glockenspiel; in realtà si tratta di una ‘scelta meccanica’ cui si è arrivati poco per volta: inizialmente Giancarlo era ossessivo nei confronti del glockenspiel, suonava solo quello. Così Mauro ha inserito un secondo strumento per introdurre la variazione, che è stata ormai completamente assimilata da Giancarlo. Anche Daniela è piuttosto meccanica: lei non suona alcuno strumento, canta solo – sebbene al mio primo incontro con loro si sia sforzata di suonare i campanelli (cosa che non si è mai più ripetuta). Anna è l’unica che sceglie quale strumento suonare – anche se non sembra sempre una scelta ragionata quanto 122 piuttosto dettata dalla prima cosa che le capita tra le mani – e canta insieme a Daniela; il caso di Anna verrà trattato più avanti in quanto si tratta di una minima coscienza al limite con la disabilità grave; infatti poco dopo la fine del mio tirocinio, verrà spostata nell’RSA accanto alla struttura, in quanto non più riconoscibile come minima coscienza. La struttura del gruppo ha una sua ritualità: si inizia con un giro strumentale (in Do), mentre il saluto finale è dato dal coro finale della canzone Hey Jude. Con loro i miglioramenti sono piuttosto evidenti; al di là delle evoluzioni fatte insieme a Mauro da quando si è formato il gruppo, posso citare un ‘passo in avanti’ cui ho personalmente assistito, legato alla pertinenza della risposta in maniera indipendente. Nello specifico mi riferisco alla canzone Nella vecchia fattoria. Si tratta di una canzone molto utile da questo punto di vista e che Mauro ha spesso utilizzato con loro, perché pone il paziente di fronte ad una domanda indiretta – c’è il cane/gatto/mucca – alla quale deve seguire una risposta pertinente, legata a suoni onomatopeici, di quelli interiorizzati nell’infanzia e più facilmente rintracciabili nella memoria. Inizialmente la dinamica di questo brano veniva portata avanti solo dall’intervento di una domanda diretta di Mauro che seguiva all’affermazione c’è il gatto: “come fa il gatto?”. Allora, e solo allora, Anna e Daniela rispondevano con il verso dell’animale. Ma poco per volta, la necessità della domanda diretta (“come fa il…?”) è venuta meno e le due pazienti sono state in grado di cantare la canzone in maniera lineare; ciò significa che sono diventate in grado di elaborare cognitivamente un tipo di richiesta indiretta, quindi fare un processo deduttivo: cosa tutt’altro che facile. Questo passaggio segna anche un’evoluzione personale di Anna, che se inizialmente parla e interagisce solo se spronata da Mauro, verso la fine del mio tirocinio da risposte volontarie, interviene in maniera ironica esprimendo un giudizio personale. Nel tempo s’intensifica e si personalizza anche il rapporto tra Anna e Giancarlo, che si fanno lunghi sorrisi, si tengono la mano. Daniela, invece, la vedo sempre più stanca; il suo livello cognitivo non ha avuto sviluppi evidenti: lei risponde adeguatamente alle domande, sorride e ride alle battute, piange e si lamenta (se ha male), ammicca con l’occhio; ma tutti questi gesti – presenti sin dall’inizio – sono rimasti intatti fino alla fine; non vi è stata una regressione, ma nemmeno una progressione nella sua interazione. Anzi, se qualcosa ho potuto notare, è che agli ultimi incontri Daniela arrivava sempre più affaticata: cantava con meno volume e 123 dopo una ventina di minuti smetteva di cantare – se non personalmente spronata. Le piaceva quel contesto, aveva molta voglia di cantare o anche solo ascoltare, ma fisicamente non sembrava più reggere molto quegli incontri. C’è da dire che Daniela ha un vissuto esperienziale caratterizzato da instabilità mentale, che potrebbe influire sulla mia percezione della sua tonicità o presenza fisica. I brani più cantati e suonati con il gruppo MCS sono stati: Il cielo in una stanza, Nella vecchia fattoria, La gatta, La bella lavanderina, O sole mio, O surdato ‘nnamurato, Ti amo, No woman no cry. La scelta delle canzoni si è basata in parte sull’anamnesi sonoro-musicale dei singoli pazienti e in parte sulla struttura più o meno adatta dei brani stessi: la presenza della dinamica stimolo-risposta, la ripetizione, le vocali pronunciate, il meccanismo della scelta (per esempio, ne La bella lavanderina, quando si arriva a dire “dai un bacio a chi vuoi tu”, i soggetti sceglievano a chi dare il bacio). Per quanto concerne il mio lavoro individuale con la minima coscienza, parlerò di Andrea B. e Andrea M. I ‘due Andrea’ – come vengono spesso definiti in reparto – sono pazienti simili per età (28 e 30 anni) ma molto diversi nel comportamento. Andrea B. è caratterizzato da una tetraparesi spastica e frequenti crisi distoniche, non completamente controllate dalle strategie comportamentali, e che possono essere causate anche da stimoli emozionali; tali crisi sono generalmente accompagnate da sudorazione profusa e respiro affannoso. Andrea comprende tutto quello che gli si comunica verbalmente e risponde mediante l’utilizzo dell’indice sinistro, attraverso un sistema simbolico creatosi con la madre: se stringe il dito con l’indice vuol dire sì, se lo lascia, vuol dire no. La madre ha molte aspettative da Andrea, continua a muovere richieste al figlio (“stai fermo, stai dritto, tira indietro la spalla, giù la gamba, ecc.) e vive uno stato ansioso perenne che trasmette ad Andrea comunicando con lui attraverso un volume di voce alto e un ritmo accelerato. Mi è parso opportuno, avendo Andrea un sistema di comunicazione – per quanto minimale e povero – affrancato, lavorare (come primo obiettivo) sul controllo dell’intensità delle crisi distoniche – attraverso il rilassamento – e la ricerca di vie alternative che possano essere utilizzate da parte del paziente stesso come forma di autorilassamento e autocontrollo della distonia; non ultimo, vivere le emozioni in maniera equilibrata, senza lo sviluppo delle distonie. 124 Come prima cosa, mi sono posta l’obiettivo specifico di ‘fargli conoscere’ il piacere del rilassamento, quindi i primi incontri si sono sviluppati in direzione del rilassamento: ho sondato quali suoni lo tranquillizzavano, e ho studiato come calibrare la voce in maniera da rilassarlo e controllare la crisi, piuttosto che riportare la situazione alla normalità dopo una crisi. Gli strumenti principalmente utilizzati sono stati l’ocean drum, la chitarra, la voce e la tastiera; a volte dei campanellini. Andrea ha fatto dei progressi molto evidenti e la madre riconosce un netto miglioramento del figlio proprio grazie all’intervento musicoterapico. Ho cercato di portare avanti un discorso anche con la madre, che è colei che passa la maggior parte del tempo con Andrea, affinchè tentasse di modificare la sua modalità paraverbale onde evitare di agitare ulteriormente Andrea durante le crisi distoniche, perché ho avuto modo di notare che rivolgendosi a lui con un tono di voce pacato, quasi sussurrato, e un ritmo lento, non solo evita la crisi ma è anche la via più efficace per ricondurre il suo corpo in equilibrio. Con Andrea, inoltre, in vista proprio degli obiettivi suddetti, ho fatto un lungo lavoro sulla respirazione – reso possibile dalla sua totale comprensione di ciò che gli si dice e dalla sua profonda intelligenza e memoria. Il lavoro svolto con Andrea M., invece, è stato completamente diverso, perché diversa è la situazione di Andrea: non parla, ha un aggancio oculare che non sempre mantiene (questo almeno all’inizio della presa in carico, col passare del tempo – grazie al lavoro svolto in collaborazione con la logopedista – il paziente ha imparato a mantenere l’attenzione sull’oggetto/soggetto fonte della stimolazione visiva o sonora), ha un movimento incontrollato della mano destra (come se stesse accelerando o schiacciando qualcosa tra le mani) e ha molti vuoti di presenza. Dato il grado di non continuità della responsività del paziente alla stimolazione sensoriale, gli obiettivi specifici sono stati due: la ristrutturazione dell’orientamento spaziotemporale (attraverso la rieducazione dei tempi e modi dell’attenzione) e la stimolazione del movimento finalizzato della mano dx. Per quanto concerne il primo obiettivo, il lavoro è stato incentrato sulla riproduzione ritmica di tempi binari e sulla funzionalità dei neuroni specchio per imitazione visiva – da cui si deduce, nel paziente in questione, quella uditiva. La ristrutturazione è avvenuta, in seconda sede, lavorando sulla connessione emotiva di determinate melodie rilevanti (in un primo 125 basandosi sull’anamnesi sonoro-musicale del paziente – che si è rivelata non congruente alla realtà dei fatti – e in un secondo momento sulla base dei feedback in seduta). Il paziente reagisce all’emotività sorridendo o ridendo (con produzione di suono) – a seconda del grado di intensità emotiva; si tratta di un sorriso contestualizzato. Andrea M. resta il punto interrogativo nella mia prima esperienza di intervento musicoterapico personalmente condotto. Andrea sembra assente, alcuni giorni non c’è stimolazione che lo agganci; poi ti sorprende con altri giorni, in cui segue il tempo da te proposto, e sulla tastiera suona il tasto che è stato poco prima suonato dimostrando di aver acquisito un buon processo imitativo. Andrea si emoziona e piange a volte; non si tratta di lacrimazione fisiologica, sono proprio lacrime. Ma mi sono trovata spesso a domandarmi se la musicoterapia fosse una tipologia di intervento adeguata a lui, perché nel tempo trascorso insieme, ho avuto modo di notare come la parola sia un elemento determinante nella ristrutturazione del suo rapporto con il mondo esterno: Andrea sa cogliere l’ironia nel verbale e nelle attività di ascolto musicale la sua attenzione è rivolta alle canzoni (mentre le musiche prive di testo lo lasciano sostanzialmente indifferente); tra queste, predilige il rap italiano (Fabri Fibra, Marracash) o brani del rock post-berlinese e progressive italiano. Per quelle canzoni di cui non comprende (probabilmente) il testo – inglese – non manifesta particolari reazioni. Mentre su Badabum Cha Cha (di Marracash) ha reazioni emotive di riso evidenti, le quali si presentano sempre negli stessi punti, in corrispondenza delle stesse parole261. Il secondo obiettivo, fa leva sull’utilizzo di un oggetto mediatore – il battente – con l’intendo di inibire il movimento incontrollato, trasformandolo in qualcos’altro. Mentre il pupazzetto (che talvolta gli mettono in mano) smorza semplicemente il movimento, il battente ha la potenzialità di sostituire quel movimento con un altro dotato di un significato nuovo. Con il battente il paziente suona glockenspiel e tamburello; similmente fa con i tuboing (che utilizza come fossero battenti di dimensioni maggiori); con questi utlimi ha sviluppato anche 261 Ho provato a testare questo, sottoponendo Andrea all’ascolto di quel brano per 10 sedute consecutive; gliel’ho fatto ascoltare con le cuffiette, in modo da non interferire con la sonorità percepita e mi sono segnata il minutaggio in cui comparivano le risate; la corrispondenza si è verificata in 8 casi su 10 – i due casi in cui non si è verificata una completa corrispondenza, sono stati casi in cui Andrea, una volta era arrivato stanco da una visita fuori dalla clinica, mentre la volta seguente era influenzato. Da cui, ho dedotto indirettamente che ad attirarlo fossero proprio certe parole, o quantomeno il suono di certe parole. 126 tentativi di fonesi per imitazione. Nel corso del tempo, Andrea ha imparato a ripetere i ritmi proposti da me in maniera non casuale; inoltre, quando gli viene chiesto di battere sul glockenspiel – mentre sta facendo scorrere il battente sulle placche in metallo - il paziente inizia battere con forza sulle placche, il che evidenzia una risposta coerente alla richiesta. Il deficit del controllo del capo diminuisce nell’ultimo mese, in cui il paziente dirige il capo insieme allo sguardo verso l’oggetto d’interesse (lo strumento). Dopo un primo periodo caratterizzato da una forte difficoltà d’attenzione e sonnolenza (per cui le sedute duravano in media 20-30 minuti), Andrea migliora il suo grado di attenzione e d’interazione con la stimolazione esterna, arrivando a sostenere sedute di 45 minuti. Quindi, sebbene considero la parola una fonte di stimolazione importante per Andrea – basta osservare la modalità di interazione che il padre ha instaurato con lui: assolutamente verbale, intrisa di ironia e doppi sensi, e fa un grande uso del paraverbale – non ho escluso la funzionalità della stimolazione sonora, e specialmente ritmica, data dall’intervento musicoterapico; i miglioramenti di Andrea si possono osservare in maniera evidente e ritengo che il merito di questo vada alla collaborazione instauratasi tra la logopedista, la neuropsicologa e la musicoterapista. 2.3. Disabilità grave; esperienza di affiancamento a Mauro Sarcinella con Edvige, Laura e Anna; esperienza individuale con Alberto. Questa ‘categoria’ di pazienti è molto peculiare; se lo stato vegetativo si trova a metà strada tra la vita e la morte, come se fosse sospeso, la disabilità grave si trova a metà strada tra la consapevolezza e la non consapevolezza, tra l’autosufficienza e la non autosufficienza, in una categoria ancor meno ben definita degli stati vegetativi, e che non possiede nemmeno strutture adeguate. Infatti, una volta stabilito che il paziente non rientra più nella categoria della minima coscienza, non può più restare in clinica, deve essere mandato a casa, con tutti i problemi del caso connessi: non sono pazienti autosufficienti, spesso sono ancora alimentati attraverso PEG, e spesso – dopo aver passato molto tempo in clinica (tendenzialmente una decina di anni) non trovano più una famiglia preparata ad accoglierli a casa. Inoltre, se la clinica di stati vegetativi è 127 convenzionata dall’ASL, la famiglia del soggetto in questione, si ritrova a dover pagare il mantenimento del paziente da un momento all’altro, senza avere inoltre la certezza di trovare un luogo adeguato che lo ospiti; infatti, l’unico luogo ad oggi disponibile per questa tipologia di disabilità gravi, è l’RSA. Così Anna, Laura, Edvige, pur non avendo l’età adatta ad un luogo del genere (specialmente Laura) si ritrovano a vivere in una residenza per anziani. Per quanto concerne l’esperienza con Sarcinella, il discorso della disabilità grave mi sembra descrivibile attraverso l’esempio di Edvige, per il cui intervento è stato creato da Mauro un “gruppo Edvige” – per supportare la paziente che pativa molto la relazione individuale con Mauro. Accanto a Edvige, sono state chiamate Maria Teresa (SLA) e Anna (di cui si è già parlato): Maria Teresa è stata inserita perché si prende cura di Edvige, la sprona e la supporta, e Anna perché, come già detto, è una minima coscienza ai limiti della classificazione. Il “gruppo Edvige” vedrà la fine poco prima del termine della mia permanenza perché Edvige non ha più voglia di parteciparvi. Edvige si limita a suonare tamburello (non canta) e più che suonarlo lo accarezza con il battente, che tiene in mano come fosse una penna; successivamente si passerà a farle suonare la tastiera. Sin dalla prima volta Edvige suona i tasti uno ad uno in progressione (da note basse a note alte): suona fin dove riesce con il movimento del braccio e una volta terminata la sequenza, riprende daccapo. Un’interessante modalità di suonare e di selezionare le note: non ripete mai la stessa consecutivamente, suona sempre in progressione e mai in modo ascendente, e la sua progressione è ossessiva – nel senso che suona la stessa cosa per ogni canzone e si ferma solo quando si rende conto che il brano è finito. Non si comprende se sia frustrata o appagata da questo strumento; in parte sembra manifestare disinteresse e quando le viene detto che è stata brava alza la spalla in segno di indifferenza e come per dire che ‘non sono stata brava’, non ho fatto alcunché; d’altro canto continua a suonare, se non le piacesse avrebbe la libertà di smettere quando vuole. Forse il fatto di essere, in realtà, una disabilità grave e non più una minima coscienza, permette a Edvige di avere una coscienza di sé maggiore e di sentirsi ‘ridicola’ di fronte alle sue prestazioni, limitate dalla sua poca motricità. Anna rappresenta il supporto canoro del gruppo: insieme a Mauro (e a me, seppure la mia voce cerchi di restare in disparte) canta le canzoni e ogni tanto si accompagna con i sonagli. Maria Teresa, 128 suona strumenti a percussione e – servendosi della tavola – decide il repertorio da suonare/cantare. I brani tipicamente eseguiti sono: Il ragazzo della via Gluck, Che sarà, O sole mio, O surdato ‘nnamurato (Anna è di origini napoletane), Il cielo in una stanza, C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. Tra le disabilità gravi vi è, inoltre, Laura, un caso che Mauro seguiva quando era ancora minima coscienza e che ora continua a seguire nonostante sia passata all’RSA; con lei si tenta di lavorare sulla produzione vocale – ogni tanto produce delle parole ma poi tende a non usare la parola e a esprimersi a gesti o utilizzando la lavagnetta. Farla cantare ha un duplice fine: quello di lavorare sulla produzione sonora – sicuramente – ma anche sulla memoria; a volte muove solo le labbra e non riesce a far uscire il suono. Non si capisce se è perché non lo fa uscire volontariamente, se non riesce o se non se ne rende conto. Mauro ipotizza che si tratti di una questione di sforzo: lei fa molta fatica a emettere suoni, quindi dopo un po’ perde proprio la forza di emissione. Avendo questo obiettivo primario, le sedute si svolgono in maniera del tutto peculiare: con lei si suona la chitarra e si cantano i brani dei suoi artisti preferiti; principalmente Vasco, e a seguire brani del repertorio inglese (è laureata in lingue) e altri autori italiani: Alba Chiara, Ti voglio bene, Ogni volta, Io vagabondo (con annesso No woman no cry), La gatta, Sunday Bloody Sunday, Il Pescatore, Gianna, La bambola, Il ragazzo della via Gluck, Generale, Come mai, per citarne alcuni. L’intervento di Mauro non si limita in realtà alla produzione vocale, anche perché Laura tende a far suonare la chitarra a Mauro e ascoltare lui che canta. Così lui ha introdotto una variante: per ogni canzone, nel finale, Laura deve prendere il battente e suonarlo sul djembè. È una cosa che fa solo su richiesta (raramente gliel’ho visto fare volontariamente) e che tende a non fare verso la fine della seduta – quando è più stanca, ma almeno introduce un elemento nuovo ed evita di ridurre le sedute di musicoterapia ad un ‘piacevole momento di ascolto’ per Laura – sebbene io creda che si tratti comunque di qualcosa di molto terapeutico per lei (che non riceve molte visite e si trova a vivere in mezzo a persone molto più anziane di lei). Il percorso di Laura non è evolutivo in maniera lineare; sono molti gli incontri in cui Laura si presenta confusa, distratta, con richieste in contrasto tra loro. Altrettanto spesso accade che le sedute durino solo una decina di minuti (che poi Mauro cerca di prolungare a venti), perché contemporaneamente 129 stanno mettendo lo smalto alle altre signore in reparto e Laura ha come primo pensiero quello di mettersi lo smalto – o, a volte, di andare dal parrucchiere. Alberto è il paziente ricoverato presso la clinica Virgo Potens che reputo essere una disabilità grave, sebbene la cartella clinica lo definisca uno stato vegetativo. Sicuramente Alberto ha una immobilità grave che non gli permette di svolgere molte attività e che lo porta a restare la maggior parte del tempo a letto. In realtà la sua permanenza a letto è data più da uno stato emotivo che da una impossibilità motoria; infatti, inizialmente, ho conosciuto Alberto in seduta, ma con lo scorrere del tempo la sua carrozzina è sparita dalla stanza e non l’ho mai più visto che a letto. Il paziente vive uno stato depressivo e apatico e la sua volontà di relazionarsi con il mondo circostante diminuisce di giorno in giorno. Per questo, ho ritenuto da sempre che l’obiettivo primario con Alberto sia quello di lavorare sulla sua emotività e sul suo umore. Per questo il primo approccio è stato quello del “bagno sonoro”: non sono state rivolte al paziente delle richieste di interazione/improvvisazione sonoromusicale (benchè Alberto ne abbia le capacità fisiche) fino al sesto incontro; questo perché il suo equilibrio emotivo è molto fragile ed è molto facile scivolare in un suo rifiuto dell’attività. Infatti, l’attività di musicoterapia è l’unica che accetta di fare con piacere, sebbene si risolva nella maggior parte dei casi in una tipologia recettiva. Alberto ascolta i suoni che gli vengono proposti, da quelli più minimali e rilassanti (come l’ocean drum, il glockenspiel e i giri armonici della chitarra) a quelli più legati alla sua anamnesi sonoro-musicale (canzoni di Battiato, Guccini, De Andrè, Ferradini). Spesso registro per lui suoni della natura – essendomi stato descritto dalla moglie come un amante degli animali e della natura – e osservo che l’ascolto di questi suoni gli provoca piacere, mi ringrazia chiudendo gli occhi e il suo sguardo è molto più attivo – rispetto allo ‘sguardo perso’ che generalmente ha. Nel momento in cui si tenta il passaggio successivo, quello dell’interazione, con la richiesta di suonare insieme gli strumenti (tamburo e chitarra), il paziente risponde alle mie richieste con pertinenza, imitando i suoni proposti e proponendo delle variazioni. Purtroppo subito dopo questo inizio di interazioni durante le sedute, Alberto viene ricoverato in ospedale e segue un’assenza in clinica di una decina di giorni; questa assenza lo vede tornare molto stanco e nuovamente apatico; gli viene legato il braccio sx al letto onde evitare che si strappi la PEG. Il contenimento impedisce il 130 lavoro d’interazione con me e si torna alla fase di bagno sonoro, che comunque Alberto richiede tutte le settimane e che non vuole saltare nemmeno quando ha la fabbre. Alberto, infatti, comprende i discorsi che gli si fanno – sebbene abbia bisogno dei suoi tempi di latenza; quando gli chiedo se vuole fare l’incontro di musicoterapia (glielo chiedo ogni volta), lui mi risponde con il pollice all’insù (mano sx). In uno degli ultimi incontri, Alberto mi ha aperto la mano, io gli ho appoggiato sopra la mia e lui l’ha stretta, sebbene con poca forza; e siamo rimasti così ad ascoltare il canto degli uccellini che avevo registrato la mattina precedente. Sebbene il lavoro di musicoterapia attiva sia ancora lontano, è sicuramente raggiungibile con il paziente in questione, in quanto possiede le capacità mentali e fisiche di svolgere tali attività. Qualsiasi tipo di intervento con Alberto richiede un lungo periodo di acquisizione di fiducia, non tanto nell’operatore, quanto in sé stesso – in questa nuova identità che è cosciente di avere. Purtroppo la coscienza di questa identità – che sono sicura possiede – ha una pessima influenza sul suo stato d’animo; credo, infatti, che i suoi continui tentativi di togliersi la PEG sia un chiaro messaggio che non vuole più vivere. Questa sensazione è condivisa con la logopedista e la neuropsicologa. Ma viviamo in un Paese in cui questo pensiero non è possibile e la nostra rimarrà una sensazione. 131 Conclusioni: Arte di armonizzare i silenzi262 Le parole si parlano, i silenzi si toccano. (Fabrizio Caramagna) Il mio avvicinamento al mondo degli stati vegetativi è avvenuto con il caso Eluana Englaro ai tempi dell’università; il professor Maurizio Mori, docente di bioetica presso l’Università degli Studi di Torino263, tenne un intero corso sulle questioni etiche relative alla battaglia legale che stava muovendo Beppino Englaro. Uscii da quel corso un po’ stordita e con una punta di disapprovazione – ad oggi, direi, una forma di rifiuto. Prima di quel momento non sapevo che cosa fosse uno stato vegetativo, sebbene avessi letto qualcosa sull’argomento. Credo che la prima motivazione che mi abbia spinta ad indagare questo campo di applicazione della musicoterapia sia stata la sfida che porta con sé questa tipologia di pazienti: sfida in termini definitori (quanto è vegetativo uno stato vegetativo?), in termini etici (ha senso una vita in stato vegetativo?), in termini comunicativi (può esservi silenzio comunicativo?) e in termini personali (quanto sono in grado di sopportare la passività del paziente?). In secondo luogo, la possibilità di vivere il confronto con la morte (e con la sospensione della vita) in maniera non problematica, scoprendo inoltre, di avere un buon rapporto con il ritmo proprio di questa dimensione esistenziale: un ritmo lento, fatto di molte pause, silenzi e sospensioni. Avevo la sensazione che sarebbe stato un ambito nel quale ci sarei stata comoda, e così è stato. Ma nonostante la grande motivazione, nutrivo idee ancora molto confuse riguardo gli stati vegetativi. Quando incontrai per la prima volta, in seduta, Silvia, ricordo una ‘sensazione di timore’; non perché mi spaventasse Silvia, il suo cranio deforme, la bocca storta e tutte le ‘etichette fisiche’ proprie dello stato vegetativo, ma perché non sapevo se potevo toccarla. Non so perché avessi questo timore, né perché mi ponessi questa domanda stupida. Eppure era proprio quello che stavo pensando in quel 262 Definizione che Benenzon dà della musicoterapia in Benenzon R., (1997). 263 Il professor Mori è inoltre vice-direttore del Master di Bioetica e di Etica Applicata dell’Università di Torino, di cui è stato direttore nella prima edizione, e membro del Comitato di Bioetica d’Ateneo, che ha contribuito a fondare. Ha fondato nel 1993 Bioetica. Rivista interdisciplinare, di cui è tuttora direttore; è stato tra i pionieri della bioetica in Italia. 132 momento: volevo accarezzarla, farle sentire la mia presenza con un contatto tattile, ma avevo timore di farlo, non sapevo “se potevo farlo”. Nel farmi avvicinare alla dimensione degli stati vegetativi Mauro Sarcinella è stato davvero un buon maestro; si è preso cura dei miei tempi, del mio stato d’animo, chiedendomi molte volte come mi sentissi dopo una seduta, come avessi vissuto la situazione. Se dovessi descrivere il percorso che ho fatto, direi che inizialmente mi sono sentita inadeguata – ai pazienti, alla situazione, alla sindrome in sé – ma, poco per volta, mi sono sentita parte di quella dimensione, dei suoi tempi e dei suoi colori. E mi piace questo ‘mondo’, credo che abbia una sua dignità e che tale dignità vada rispettata. Il rispetto avviene innanzitutto attraverso la considerazione di questi pazienti come persone, ma per davvero. Non sono parte dell’arredamento e non sono vegetali con i quali non si può interagire ed è inutile spendere del tempo prezioso. Credo che occorra comportarsi sempre considerando il paziente come un individuo in grado di sentire, comprendere, interagire con noi; perché, di fatto, lo fa: sente, comprendere e interagisce, ma in maniera differente. Questo è utile non solo ad avvicinare il paziente al concetto di persona, ma anche ad esorcizzare tutta quella serie di ansie connesse alla passività del paziente. Anche un’amante dei silenzi come me ha faticato non poco ad accogliere la passività di questa tipologia di persone. Inizialmente mi sono accorta di vivere un senso di frustrazione: a volte ho creduto di aver perso l’obiettivo (o gli obiettivi), altre volte mi sono sentita inadeguata alla situazione. Poi s’impara ad accogliere quella passività, ridefinendo il proprio concetto di passività, similmente a come avviene con l’esperienza del silenzio o con le microespressioni facciali. Una volta che ti butti nel silenzio e ci stai, senza paure, ansie o pregiudizi, scopri che il silenzio è qualcosa di molto ricco e parecchio distante dal concetto di ‘nulla’. Anche la passività può essere molto ricca; certo, occorre avere un livello di attenzione elevato e una buona dose di ‘apertura al possibile’. In quella passività si verifica uno «scambio di affetti e di stati d’animo senza dover passare attraverso il linguaggio, senza dover ricorrere a competenze linguistiche»264. Inizialmente, ogni volta che incontravo un paziente nuovo – nella mia piccola esperienza – mi è sempre premuto dirgli con chiarezza che avrei trovato un modo per capirlo, che non è colpa sua se non riusciamo a comunicare, siamo noi (io, gli altri operatori, il mondo intorno a lui) che non lo capiamo; ma il mio obiettivo 264 Benenzon R., (2002), pp. 107. 133 è quello di riuscire a capirlo. Questo discorso lo facevo indistintamente, con gli MCS e con gli SV; non importa che vi fosse una risposta riconoscibile da parte loro, non importava nemmeno sapere quale fosse il livello del loro danno cerebrale per essere certa che potessero, almeno potenzialmente, capire le mie parole. Facevo questo discorso in primis per ricordare a me stessa che questa è la posizione da assumere, il punto di vista è quello del paziente, non il mio. Forse ho avuto bisogno di ripetere a me stessa che quella è la via da percorrere, che come musicoterapista devo, innanzitutto, trovare un modo per capire chi ho di fronte, per entrare in comunicazione con lui/lei secondo le sue modalità peculiari ed evitare forzature e facili vie di fuga da questa necessaria posizione di partenza. Gustorff e Hannich (2000) sottolineano che ogni individuo vivente ha la necessità e la capacità di percepire e di comunicare in modalità interpersonale. Anche se noi non sappiamo come i pazienti con SV percepiscano il loro ambiente, è importante vederli e considerarli, da una prospettiva olistica, come individui sociali. Ritengo che in questo contesto, più che in altri, la musicoterapia sia definibile come “arte di armonizzare i silenzi” – per citare le parole di Benenzon – e sebbene faccia un po’ paura l’idea, non si è mai soli nel farlo: c’è l’altro, il paziente, che innanzitutto ci aiuta a riempire di significato il concetto di silenzio – che culturalmente abbiamo svuotato – e poi ci insegna ad ‘essere pazienti’ nel silenzio. Amo particolarmente l’etimologia delle parole, perché in essa vi è molto di più di una semplice radice originaria: vi è la storia delle parole, una storia che è portatrice di significati. L’etimologia del termine ‘paziente’ (dal latino patiens, participio presente di pati = soffrire, sopportare), fa riferimento al concetto di soffrire, ma indica anche proprio colui che è incline alla sopportazione, il meticoloso. Epicuro insegnava – nel Quadrifarmaco 265 – che se un dolore dura molto, allora è sopportabile; significa che non dobbiamo avere paura. Ed è proprio la sopportazione del sofferente a generare la concezione del paziente come colui che affronta con sopportazione ogni avversità, colui che attende e persevera con tranquillità. Mi piace pensare che il musicoterapista, di fronte al (e con il) paziente in stato vegetativo, impari a vivere questa condizione di attesa perseverante e tranquilla, comprendendo la profondità del silenzio, della passività, dei movimenti lenti, degli 265 Epicuro, (2013). 134 importanti tempi di reazione o dell’assenza degli stessi. Il musicoterapista diventa un profondo ascoltatore, innanzitutto. Diventa esso stesso passivo, nel senso di ‘pronto ad accogliere’. Il paziente, d’altra parte, ha i suoi tempi evolutivi, sebbene spesso siano molto lenti e graduali, estremamente dilatati e fortemente discontinui. Può darsi che un giorno un paziente ‘risponda’ ritmicamente con un dito, ma che poi attenda mesi prima di ripresentarsi con quella tipologia di risposta. E tutto ciò ci insegna che occorre essere ‘pazienti’ nei confronti dei nostri pazienti. La musicoterapia cerca di trovare nuovi modi di connessione e comunicazione nell’ambito della capacità del paziente e per fare ciò, il terapeuta osserva empaticamente il paziente e costantemente adatta la musica e l’intera interazione al paziente266. Questo porta ad uno scambio costante tra il paziente e il terapeuta che forma il processo terapeutico così come forme di attività cerebrale. Come sostiene Rita Meschini, non è semplice distinguere quanto di ciò che otteniamo (in termini di risposta) in una seduta di musicoterapia sia dovuto all’evoluzione spontanea del quadro clinico del paziente e quanto sia, invece, dovuto ad altri interventi terapeutici, come ad esempio quello musicoterapico; sebbene le neuroscienze stiano indagando sempre più a fondo l’ambito dei gravi traumi cerebrali in rapporto alla stimolazione sonoro-musicale, non è possibile avanzare ipotesi significative circa la validità della comunicazione della componente emotiva e il recupero della memoria di questa tipologia di pazienti.267 Considero una grande conquista, e stimolo a lavorare ancora in questa direzione, il fatto di poter riscontrare una sintonizzazione con queste persone, il poter umanamente affermare che in ogni seduta s’instaura un dialogo con il paziente, che lo stare in silenzio non è uno stare ‘vuoto’. Il semplice fatto di uscire dalla seduta fisicamente stanchi, con la sensazione, a volte, di aver perso molte energie o di averne assorbite – energie che possiamo chiamare emozioni ma possiamo anche decidere di non azzardare interpretazioni – è indice, a mio avviso, del fatto che ‘qualcosa di importante è accaduto’. Che non basti parlare di sensazioni è indubbio; che sia necessario ricercare il modo di oggettivare queste sensazioni per dare statuto scientifico alla disciplina musicoterapica è un obiettivo al quale non possiamo 266 Eisenberger et al., (2003) 267 Videsott M., Sartori E., (2008), pp.121. 135 rinunciare. E siamo ancora lontani da definizioni chiare, precise e oggettive in un ambito in cui ci mancano le parole per descrivere ciò che accade. Ciò non toglie che siamo sulla buona strada. Come suggerisce l’articolo in Appendice 2, gli studi futuri – in ambito di musicoterapia e stati vegetativi – dovrebbero prendere in considerazione: § una definizione clinica precisa e una omogeneità della coorte di pazienti rispetto alla qualità (ossia che si tratti di coma, di stato vegetativo o di minima coscienza), rispetto alla durata della sindrome (settimane, mesi, anni) e la causa (sia essa traumatica o non traumatica) § un protocollo standardizzato d’intervento, che stabilisca la qualità della stimolazione acustica (si tratta di musica preferita o musica generica – con determinate caratteristiche che il musicoterapista considera utili all’intervento musicoterapico; produzione musicale dal vivo o supporto registrato), l’intensità dell’ascolto musicale (in termini di frequenza e durata dell’intervento musicoterapico) e se si tratta di stimolazione acustica o di stimolazione multisensoriale (musica con o senza altre modalità) § l’uso dell’EEG e dei parametri vegetativi (frequenza cardiaca, respirazione, saturazione) per monitorare le risposte fisiologiche alla stimolazione condotta dall’intervento musicoterapico; qualora possibile, integrare l’uso di neuroimaging per dimostrare risposte e cambiamenti funzionali nel cervello dei pazienti sottoposti a trattamento musicoterapico. L’effetto complessivo della musicoterapia nella neuro-riabilitazione di persone SV si può riassumere in tre aspetti: lo stimolo musicale, il rapporto terapeutico e lo scambio emotivo tra paziente e terapeuta 268 . Per studiare l’effetto della musicoterapia, tutti e tre gli aspetti devono essere considerati, non solo lo stimolo musicale; fino ad oggi gli studi condotti dalle neuroscienze si sono indirizzati principalmente allo studio degli effetti della musica sulle differenti patologie e/o sindromi. Ma, ciò che dovremmo iniziare a considerare è proprio l’intervento musicoterapico nella sua complessità: esso non è solo musica, ma anche relazione e terapia. 268 Vedi Appendice 2. 136 La musica provoca emozioni e le emozioni sono una componente chiave del modo in cui noi sperimentiamo ed esploriamo l’ambiente269, e il contatto con l’ambiente circostante è uno degli obiettivi principali dell’intervento musicoterapico con pazienti in stato vegetativo. Combinando gli stimoli musicali, la relazione terapeutica e l’approccio emozionale, l’intervento musicoterapico incoraggia delle multi-risposte sensoriali, comportamentali, e fisiche; le quali, a loro volta, promuovono la riabilitazione delle persone in stato vegetativo. 269 Sharon et al., (2013). 137 Appendice 1 Scale di Valutazione La Glasgow Coma Scale (GCS)270 è una scala di valutazione neurologica, utilizzata per tenere traccia dell’evoluzione clinica dello stato del paziente in coma (o per definire lo stato vegetativo). Si conferma come strumento di riferimento a supporto della diagnosi di SV, grazie alle sue caratteristiche di semplicità nell’applicazione e di valutazione oggettiva e universalmente riconosciuta. Si basa su tre tipi di risposta agli stimoli – oculare, verbale e motoria – e si esprime con un numero che è la somma delle valutazioni di ogni singola funzione. Il massimo punteggio è 15 e il minimo 3 che indica un profondo stato di incoscienza. Per definire un paziente in stato vegetativo, il punteggio del GCS deve essere inferiore a 10. I punteggi relativi dei tre tipi di risposta agli stimoli sono, rispettivamente: § apertura occhi: il punteggio massimo non può essere più di 4 § risposta verbale: il punteggio massimon non può essere più di 2 § risposta motoria: il punteggio massimo non può essere più di 4 1 2 3 4 5 6 Apertura occhi Nessuna Allo stimolo doloroso Allo stimolo verbale Spontanea N/A N/A Risposta verbale Nessun suono emesso Suoni incomprensibili Parla e pronuncia parole ma incoerenti Confusione, frasi sconnesse Paziente orientato, conversazione appropriata N/A Risposta motoria Nessuna risposta Estensione allo stimolo doloroso Anormale flessione allo stimolo doloroso Flessione / ritrazione allo stimolo doloroso Localizzazione dello stimolo doloroso Obbedisce ai comandi 270 Le informazioni relative alle scale di valutazione fanno riferimento al documento Linee di Indirizzo per il Percorso Diagnostico della Condizione di Stato Vegetativo, approvate in Conferenza Unificata il 5 Maggio 2011; inoltre, si veda il progetto di ricerca finalizzata 2005: Ferro S., FAcchini R. (a cura di), Il Percorso Assistenziale Integrato nei Pazienti con Grave Cerebrolesione Acquisita (Traumatica e Non Traumatica) Fase Acuta e Post-Acuta, Servizio Presidi Ospedalieri - Regione Emilia-Romagna. 138 Ad ogni tipo di stimolo viene assegnato un punteggio e la somma dei tre punteggi costituisce l'indice GCS; Generalmente, le lesioni cerebrali sono classificate come: § grave, con GCS ≤ 8 § moderata, GCS 9-13 § minore, GCS ≥ 14 La Disability Rating Scale (DRS) è una scala a punti in cui 30 equivale alla morte e 0 al recupero senza deficit significativi. Sono indagati 8 livelli: apertura degli occhi, risposta verbale, risposta motoria, capacità cognitive nell’alimentazione, igiene e cura di sè, dipendenza da altri e capacità di integrazione lavorativa (“impiegabilità”); i punteggi da 22 a 29 definiscono la persona in stato vegetativo. Da 17 a 21 si classifica invece la persona con ‘disabilità estremamente severa’. Lo score è sufficientemente oggettivo, richiede un addestramento minimo ed è somministrabile in pochi minuti. I criteri di attribuzione dei punteggi sono oggettivi e facilmente verificabili. 0 1 2 3 APERTURA OCCHI Spontanea Alla parola Al dolore Nessuna 0 1 2 3 4 T D COMUNICAZIONE Orientata Confusa Inappropriata Incomprensibile Nessuna Tracheotomia Disartria, diafonia, afasia 0 1 2 3 4 5 MIGLIOR RISPOSTA MOTORIA Su ordine Localizzazione Retrazione In flessione In estensione Nessuna Punteggio parziale = NUTRIRSI 0 1 2 3 Completa Parziale Minima Nessuna 0 1 2 3 IGIENE E CONTROLLO DEGLI SFINTERI Completa Parziale Minima Nessuna Punteggio parziale = 139 RASSETTARSI 0 1 2 3 Completa Parziale Minima Nessuna LIVELLO FUNZIONALE 0 1 2 3 4 5 Completa indipendenza Indipendente con particolari necessità ambientali Dipendenza lieve Dipendenza moderata Dipendenza marcata Dipendenza totale 0 1 2 3 IMPIEGABILITÀ LAVORATIVA e SOCIALE Non ristretta Impieghi selezionati (competitivi) Lavoro protetto (non competitivo) Non impiegabile Punteggio parziale = Categoria di disabilità Nessuna disabilità Disabilità lieve Disabilità parziale Disabilità moderata Disabilità moderatamente severa Disabilità severa Disabilità estremamente severa Stato vegetativo Stato vegetativo grave Morte Punteggio complessivo 0 1 2–3 4–6 7 – 11 12 – 16 17 – 21 22 – 24 25 – 29 30 Apertura occhi: § Spontanea: gli occhi si aprono secondo il personale ritmo sonno/veglia (indice di attività dei meccanismi di vigilanza); non presuppone consapevolezza § Alla parola (o alla stimolazione sensoriale): risposta a qualsiasi tipo di approccio verbale – non necessariamente il comando di aprire gli occhi; risposta al tocco o ad una lieve pressione § Al dolore: risposta allo stimolo doloroso – lo stimolo standard è rappresentato dall’applicazione di una pressione su un’unghia con un legno o una penna; per i quadriplegici, pizzicare la punta del naso) § Nessuna: nessuna apertura degli occhi, neppure allo stimolo doloroso Comunicazione: § Orientata: implica consapevolezza di sé e dell’ambiente. Il paziente è capace di dire chi è, dov’è, perché è lì, anno, stagione, mese, giorno, ora del giorno § Confuso: il paziente risponde alle domande ma le risposte sono ritardate o indicative di vari gradi di disorientamento e confusione 140 § Inappropriato: articolazione della parola intellegibile ma il linguaggio è usato solo in modo esclamativo o casuale (grida o imprecazioni); non è possibile sostenere una comunicazione § Incomprensibile: lamenti, gemiti, suoni senza parole comprensibili § Nessuna: nessun suono né segno di comunicazione da parte del paziente Miglior risposta motoria: § Su ordine: obbedisce al comando di muovere le dita dal lato migliore; se non c’è risposta o la risposta non è appropriata, provare altri comandi (“muova le labbra” o “chiuda gli occhi”) § Localizzazione: uno stimolo doloroso in più di una sede causa il movimento di una estremità (anche lieve) nel tentativo di rimuoverlo. È un atto motorio deliberato per allontanarsi o rimuovere la sorgente dallo stimolo doloroso § Retrazione: qualsiasi movimento generalizzato di fuga da una stimolazione dolorifica § Flessione: lo stimolo dolorifico dà origine ad una flessione al gomito, ad una rapida retrazione con abduzione della spalla; se c’è confusione tra flessione e retrazione, usare come stimolo una punta di spillo, prima sulle mani e poi sul viso § Estensione: lo stimolo doloroso evoca una estensione degli arti § Nessuna: non viene evocata nessuna risposta – generalmente associata a ipotonia. Abilità cognitiva per nutrirsi, per continenza e per rassettarsi: § Completa: è stabilmente consapevole di come nutrirsi, gestire la propria continenza o rassettarsi; può fornire inequivocabili informazioni circa il fatto che sa quando si deve compiere tale attività § Parziale: non sempre mostra consapevolezza di sapere come nutrirsi, gestire la propria continenza o rassettarsi; può fornire solo occasionalmente in modo ragionevolmente chiaro informazioni in merito al fatto che egli sa quando si devono compiere tali attività § Minima: mostra discutibile o infrequente consapevolezza di sapere in modo elementare come nutrirsi, gestire la propria continenza e rassettarsi; mostra 141 raramente – solo attraverso certi segnali, suoni o attività – che è vagamente consapevole di quando si devono compiere § Nessuna: non mostra virtualmente alcuna consapevolezza in nessun momento di sapere come nutrirsi, gestire la propria continenza e rassettarsi o non può dare informazioni nemmeno attraverso segnali, suoni o attività in merito al fatto di sapere quando vanno svolte queste attività Livello funzionale: § Completa indipendenza: capacità di vivere secondo le proprie preferenze, senza limitazioni dovute a problemi fisici, mentali, emozionali, sociali § Indipendenza con particolari necessità: capacità di vivere in modo indipendente con ausili o adattamenti ambientali § Dipendenza lieve: è in grado di far fronte in modo indipendente alla maggior parte dei bisogni personali, ma necessita di assistenza limitata § Dipendenza moderata: capacità parziale nella cura di sé, ma necessità di aiuto umano costante § Dipendenza marcata: necessità di aiuto in tutte le principali attività e dell’assistenza costante di un’altra persona § Dipendenza totale: non è in grado di collaborare alla propria assistenza personale. Richiede assistenza completa nell’arco delle 24 ore Impiegabilità: § Non ristretta: può competere nel libero mercato in uno spettro relativamente ampio di lavori; può iniziare, pianificare, eseguire e assumere responsabilità associate all’attività casalinga; può capire e portare a termine la maggior parte dei compiti scolastici assegnati § Lavori selezionati, competitivi: può competere in un mercato del lavoro limitato; può iniziare, pianificare, eseguire e assumere molte ma non tutte le responsabilità associate all’attività casalinga; può portare a termine molti ma non tutti i compiti scolastici assegnati § Lavoro protetto, non competitivo: non può competere con successo nel mercato del lavoro; non iniziare, pianificare, eseguire e assumere le responsabilità associate all’attività casalinga senza un’assistenza superiore; 142 non può capire o portare a termine, senza assistenza, compiti scolastici assegnati relativamente semplici § Non impiegabile: è completamente non impiegabile a causa di limitazioni psicosociali estreme; è incapace di iniziare, pianificare, eseguire e assumere qualsiasi responsabilità associata all’attività casalinga e non può capire o portare a termine qualsiasi compito scolastico assegnato La Coma/Near Coma Scale (CNC) viene suggerita in presenza di un dubbio diagnostico nelle condizioni borderline, in quanto permette di esplorare in modo standardizzato la risposta della persona a stimoli diversi, individuando quattro categorie (quattro livelli funzionali): coma estremo, coma marcato, coma moderato, “quasi” coma (near-coma) e assenza di coma. La condizione di SV corrisponde ai livelli 2, 3 e 4, mentre i criteri diagnostici per lo stato di minima coscienza (SMC) coincidono con il livello 1 della scala CNC e con un punteggio compreso fra 0.90 e 2.00. PARAMETRO STIMOLO RIPETIZIONI RISPOSTA MISURATA PUNTEGGIO Udito Suono di una campana per 5 sec. Ripetere con 10 sec. di intervallo 3 Apertura degli occhi o orientamento verso il suono 0 = > di 3 volte 2 = 1-2 volte 4 = nessuna risposta Risposta su comando con preparazione271 Chiedere di aprire o chiudere gli occhi, la bocca, muovere le dita o le mani Risposta a comando 0 = risposta 2-3 vol. 2 = risposta inconsistente 4 = nessuna risposta Risposta visiva con preparazione Lampo di luce verso il viso. 1 sec. per 5 volte. Spostare a destra e sinistra, in alto e in 3 5 Fissazione sostenuta o evitamento 0 = fissazione sostenuta o evitamento per 3 volte 2 = fissazione parziale per 1-2 271 Sia che il paziente risulti o meno recettiva al linguaggio, in ogni caso parlargli in modo incoraggiante per almeno 30 secondi – questo per facilitarlo nella consapevolezza che un’altra persona è presente o avvisare il paziente che gli verrà richiesto di fornire una semplice risposta. 143 basso ad ogni tentativo Dire al paziente: “Guardami negli occhi”. Muovere il viso di 20° da un lato all’altro Risposta alla minaccia Risposta olfattiva Risposta tattile Muovere rapidamente le mani verso gli occhi, fino ad una distanza di 1-3 cm Capsula o bottiglia di ammoniaca sotto il naso per 2 secondi Toccare o picchettare rapidamente la spalla per 3 volte senza parlare. Ripetere da entrambi i lati Toccare entrambi le narici con un tampone nasale (solo l’imbocco, non penetrare in profondità) Risposta al dolore Stringere con forza la punta di un dito; premere con una matita di legno l’unghia (ripetere volte 4 = nessuna risposta 5 Fissazione o inseguimento Ammiccamento 3 3 3 Allontanamento o altre risposte collegate allo stimolo 144 0 = chiude gli occhi per 3 volte 2 = chiude gli occhi per 1 o 2 volte 4 = non chiude gli occhi 0 = risponde 2-3 volte prontamente (entro 3 sec. dallo stimolo) 2 = allontanamento lento o parziale o smorfia per 1 volta 4 = nessuna smorfia Orientamento della testa o degli occhi o movimento della spalla successivo al tocco 0 = si orienta verso il punto di contatto (2-3 volte) 2 = si orienta parzialmente (1 volta) 4 = Nessuna risposta o orientamento Allentamento, ammiccamento o contrazione della bocca 0 = risposta chiara e rapida (entro 2 sec.) per 2-3 volte 2 = risposta parziale o ritardata per 1 volta 4 = nessuna risposta (attendere 10 sec. per la risposta. Se esistono lesioni spinali segnalarlo qui ………………… e andare allo stimolo successivo) 0 = retrazione per 2-3 volte 2 = agitazione generale o movimenti specifici per 1 volta 4 = nessuna risposta 3 3 0 = inseguimento sostenuto per 3 volte 2 = inseguimento sostenuto per 1-2 volte 4 = nessun inseguimento entrambi i lati) Pizzicare o tirare con forza il lobo dell’orecchio (3 volte da ogni lato) Vocalizzazione Nessuno (assegnare un punteggio alla risposta migliore) Retrazione o altre risposte collegate allo stimolo 3 Vedi criteri di punteggio ---- 0 = risponde per 2-3 volte 2 = agitazione generale o movimenti specifici per 1 volta 4 = nessuna risposta 0 = parole spontanee 2 = vocalizzi non verbali 4 = nessun suono Fasi cliniche: Una volta entrato in coma in seguito ad un danno cerebrale, il soggetto può entrare in stato vegetativo che a sua volta può diventare persistente. Dallo stato vegetativo persiste la soluzione può essere la morte o l’approdo allo stato di minima coscienza, che al più può progredire in una grave disabilità. 145 Appendice 2 HYPOTHESIS AND THEORY published: 21 August 2015 doi: 10.3389/fnins.2015.00291 A pilot study into the effects of music therapy on different areas of the brain of individuals with unresponsive wakefulness syndrome Nikolaus Steinhoff 1 , Astrid M. Heine 2 , Julia Vogl 3 , Konrad Weiss 4 , Asita Aschraf 5 , Paul Hajek 4 , Peter Schnider 5 and Gerhard Tucek 2* 1 OptimaMed Neurological Rehabilitation, Kittsee, Austria, 2 Department of Music Therapy, IMC University of Applied Sciences, Krems, Austria, 3 Department of Social and Cultural Anthropology, University of Vienna, Vienna, Austria, 4 Department of Nuclear Medicine, Regional Hospital Wiener Neustadt, Wiener Neustadt, Austria, 5 Department of Neurology, Regional Hospital Hochegg, Grimmenstein, Austria Edited by: Julian O’Kelly, Royal Hospital for Neuro-Disability, UK Reviewed by: Rita Formisano, Santa Lucia Foundation, Italy Jeanette Tamplin, University of Melbourne, Australia *Correspondence: Gerhard Tucek, Music Therapy Program, Department of Health Sciences, IMC University of Applied Sciences Krems, Piaristengasse 1, 3500 Krems, Austria [email protected] Specialty section: This article was submitted to Auditory Cognitive Neuroscience, a section of the journal Frontiers in Neuroscience Received: 11 April 2015 Accepted: 03 August 2015 Published: 21 August 2015 Citation: Steinhoff N, Heine AM, Vogl J, Weiss K, Aschraf A, Hajek P, Schnider P and Tucek G (2015) A pilot study into the effects of music therapy on different areas of the brain of individuals with unresponsive wakefulness syndrome. Front. Neurosci. 9:291. doi: 10.3389/fnins.2015.00291 The global cerebral network allows music “ to do to us what it does.” While the same music can cause different emotions, the basic emotion of happy and sad songs can, nevertheless, be understood by most people. Consequently, the individual experience of music and its common effect on the human brain is a challenging subject for research. Various activities such as hearing, processing, and performing music provide us with different pictures of cerebral centers in PET. In comparison to these simple acts of experiencing music, the interaction and the therapeutic relationship between the patient and the therapist in Music Therapy (MT) provide us with an additional element in need of investigation. In the course of a pilot study, these problems were approached and reduced to the simple observation of pattern alteration in the brains of four individuals with Unresponsive Wakefulness Syndrome (UWS) during MT. Each patient had three PET investigations: (i) during a resting state, (ii) during the first exposure to MT, and (iii) during the last exposure to MT. Two patients in the MT group received MT for 5 weeks between the 2nd and the 3rd PET (three times a week), while two other patients in the control group had no MT in between. Tracer uptake was measured in the frontal, hippocampal, and cerebellar region of the brain. With certain differences in these three observed brain areas, the tracer uptake in the MT group was higher (34%) than in the control group after 5 weeks. The preliminary results suggest that MT activates the three brain regions described above. In this article, we present our approach to the neuroscience of MT and discuss the impact of our hypothesis on music therapy practice, neurological rehabilitation of individuals in UWS and additional neuroscientific research. Keywords: positron emission tomography (PET), music therapy, human brain, brain areas, activity alteration Introduction During the 1980s and 1990s neuroscientific research predominantly used electroencephalography (EEG) to show music related activities in the brain (Pape, 2005). Today, 30 years later, more elaborate methods of investigation offer the opportunity to show cerebral processes related to music. Functional and structural changes are shown quite clearly using single or combined Frontiers in Neuroscience | www.frontiersin.org 1 146 August 2015 | Volume 9 | Article 291 Steinhoff et al. Music therapy and PET in UWS of a developing approach exploring brain activation by music therapy, but with a particular focus on an individualized and open investigation format. Our aim is to trigger new investigations as a dialogue between music therapy and neuroscience in an effort to heighten our understanding of the function of music therapy, its way of activating the brain and its implementation in neurorehabilitation. These investigations could also help improve the individual approach to each patient. measurement techniques. Magnetic and functional magnetic resonance tomography (MRT, fMRT) brain mapping, positron emission tomography (PET) as well as magnetic encephalography (MEG) and other techniques are used to explore focal brain activities. These studies developed the evidence base for understanding how listening to music is a complex process that involves multiple brain regions. Besides the auditory cortex, music increases activity in frontal, temporal, parietal and subcortical regions (Koelsch, 2009; Altenmüller and Schlaug, 2015; Brown et al., 2015). Thus, music has a wide range of effects on emotion (Blood and Zatorre, 2001; Boso et al., 2006; Koelsch, 2006, 2009, 2015; Koelsch and Jentschke, 2010; Pereira et al., 2011; Vuilleumier and Trost, 2015), cognitive functions such as attention and memory (Särkämö et al., 2008; Baird and Samson, 2015; Castro et al., 2015), motor functions (Limb, 2006; Koelsch, 2009; Levitin and Tirovolas, 2009; Schaefer and Overy, 2015) and mood (Särkämö et al., 2008; Radstaak et al., 2014; Zatorre, 2015). Due to the influence on the brain, listening to music and music therapy are often used in neurological rehabilitation of disorders of consciousness (Gustorff and Hannich, 2000; O’Kelly et al., 2013; Magee et al., 2014; Verger et al., 2014; Magee and O’Kelly, 2015). Unresponsive Wakefulness Syndrome (UWS) belongs to the disorders of consciousness and is one of the most severe neurological impairments. The damage in several brain regions leads to an inability to respond to the environment even though patients show clear signs of wakefulness (Adams et al., 2001; Gosseries et al., 2011). As a consequence, the severity of UWS manifests itself to those interacting with the patient in a sudden impossibility to communicate via the usual means. While most professionals try to support the detection and recovery of functional communication, music therapy additionally tries to find new ways of connecting and communicating within the framework of the patient’s capabilities. Music therapy has been used to support the neural and behavioral rehabilitation of individuals with UWS for more than 20 years. An increase in music therapy research in this field points to its importance (Gustorff and Hannich, 2000; O’Kelly et al., 2013; Magee et al., 2014; Magee and O’Kelly, 2015). Combined with research on the neurological impact of music, music therapy research leads to a better understanding of its benefits for patients with brain damage. Still, evidence of music therapy’s impact on the neurological rehabilitation of individuals with UWS is rare. To improve our understanding of the impact of music therapy on the neurological rehabilitation and its neural processing, we propose to take a closer look into the brain during music therapy as a complex process. Understanding music as a language that transports its own distinct neuropsychological and emotional codes (Spreckelmeyer et al., 2013), we follow the hypothesis that enhanced activity and functional augmentation in the cerebral regions for emotion, learning, motion planning, and cognition can be expected after music therapy and shown by PET. Furthermore, from a music therapy perspective, our hypothesis is that individual, live music therapy in a setting of a therapeutic relationship promotes the neurological rehabilitation of individuals with UWS and boosts their brain activity. Our approach may be considered as part Frontiers in Neuroscience | www.frontiersin.org Theoretical Framework What is the meaning of music therapy in its “whole complexity”? In our understanding, the complex effect of music therapy on the neuro-rehabilitation of individuals with UWS can be summarized in three aspects: the musical stimulus, the therapeutic relationship and the emotional exchange between the patient and therapist. To investigate the effect of music therapy, all three aspects need to be considered, not just the musical stimulus. For a better understanding of our hypothesis, the concept of music therapy as it is applied in Krems (Tucek, 2014; Tucek et al., 2014) needs a further explanation. Music itself, as described in the introduction, has an impact on the human body, including brain, emotion, and movement, and so lends itself as an appropriate therapeutic medium in this and other fields. Even though studies show general neurological effects of music as a stimulus, the inter- and intra-individual meaning of this stimulus is different. Various aspects of listening to or performing music, such as personal preference, experience and the current mood are responsible for the formation of the personal meaning of music. Theories of embodiment (Csordas, 2002; Storch and Tschacher, 2014), emerging from anthropological studies, describe the engagement of culture and individuals through sensual perception and experience. Therefore, the meaning of music in therapy develops within the therapeutic session as a specific tool of communication between the patient and the therapist. To paraphrase Simon Rattle (2004), “music is not just what it is, but is that what it means to the people.” To perceive and respond to the personal meaning and individual reactions of patients, the therapist empathically observes the patient and constantly adapts the music and the whole interaction to the reactions of the patient (Eisenberger et al., 2003). This leads to a constant exchange between the patient and the therapist that forms the therapeutic process as well as shapes brain activity. The foundation of this interaction is the therapeutic relationship. From early childhood, experiences of bonding and attachment enhance the growth and connectivity in the neural network (Schore, 1994), whereas social isolation increases the risk for morbidity and mortality (Cacioppo and Hawkley, 2003) and the potential for aggression (Eisenberger et al., 2003). Thus, interpersonal relationships are a basic need (Insel, 2001; Cozolino, 2006). Gustorff and Hannich (2000) emphasize that every living individual has the need and ability for perception and interpersonal communication. Although we do not know how patients with UWS perceive their environment, it is important to see them from a holistic perspective as social individuals. 2 147 August 2015 | Volume 9 | Article 291 Steinhoff et al. Music therapy and PET in UWS the fronto-temporo-parietal network also shows a decrease of activity in patients with UWS (Jennett, 2002; Laureys et al., 2004; Demertzi et al., 2010, 2013; Laureys and Schiff, 2012). However, for the first pilot study, we reduced our focus by limiting the examination to those three brain areas that are thought to be crucial to the success of music therapy and cognitive functions. Those are the frontal regions, the hippocampus and the cerebellum. Following our hypothesis, the aim of this pilot study was to examine whether differences can be detected in the brain between individuals after hypoxic brain lesions who received music therapy and individuals with no music therapy in neurological rehabilitation. The therapeutic relationship has to be initiated and maintained actively in every session. Within the therapeutic relationship, we try to connect with the patients by observing their reactions to the performed music and by considering even the smallest physiological changes. Live music therapy can address the individual needs of patients and offer adjusted stimuli for the support of rehabilitation. We therefore propose that the experience of a therapeutic relationship within music therapy also promotes the connectivity in the neural networks in these patients. Studies found that patients with UWS show emotional processing of auditory and visual information (Coleman et al., 2009; Yu et al., 2013). Music itself can evoke emotions (Koelsch, 2015). Additionally, emotional auditory stimuli, like listening to one’s name or the mother’s voice, activate anterior and posterior midline cortex in patients with UWS (Laureys et al., 2004; Demertzi et al., 2010). Emotion is a key component of how we experience our environment (Sharon et al., 2013). Emotional stimuli receive privileged access to attention and awareness, and thus are more likely to capture one’s attention (Vuilleumier, 2005; Phelps, 2006). In particular autobiographic memories lead to emotional responses and involve widespread functions of the brain (Svoboda et al., 2006; Cabeza and St Jacques, 2007; Piolino et al., 2009). Music therapy uses this knowledge by applying familiar songs, singing names of individuals and using entrained music in therapy to reach the patients more directly and to promote reactions suggestive of awareness (Magee and O’Kelly, 2015). A study on sensory stimulation revealed that, by inviting responses, we could pass from stimulation (which promotes arousal and attention) to rehabilitation (which promotes and reinforces behavioral responses) (Abbate et al., 2014). This statement supports our hypothesis that by combining musical stimuli, the therapeutic relationship and emotional approach, individual live music therapy encourages multisensory, behavioral and physical responses. These, in turn, promote the rehabilitation of individuals with UWS. Until now, research on the neural effect of music therapy was limited to the observation of musical stimuli in the brain. To strengthen our understanding of the effect of music therapy in its complexity and to pretest our hypothesis, we started the first of a series of investigations of individual live music therapy. While the original research results will be published at a later date, part of the pilot study is presented in this article to describe our approach. Even though inter-individual brain activity of the patients differs due to different levels of cerebral lesions, we expected to see functional and structural augmentation in the cerebral regions for emotion, learning, motion planning, and cognition (Schlaug et al., 2005; Hyde et al., 2009). In our pilot study, only patients with hypoxic brain injury following cardiopulmonary resuscitation (CPR) in UWS were chosen, where a more homogenous affection of the brain could be expected. While traumatic brain injury leads to heterogeneous regions of cortical damages in the brain with patterns of several foci, non-traumatic causes show an impact of thalamic and cortical functions due to hypoxic nerve cell lesions (Markl et al., 2013). Consequently, Frontiers in Neuroscience | www.frontiersin.org Material and Methods Study Organization The pilot study was conducted at the IMC University of Applied Sciences Krems, under the direction of the corresponding author. The practical work with the patients was carried out at the Intermediate Care Unit (IMCU), specialized in rehabilitation of patients with disorders of consciousness at the Provincial Hospital of Hochegg, Austria. Ethical approval was given by the official Ethics Committee of Lower Austria. The study was financially supported by the Lower Austrian Health and Social Fund (NÖGUS) and Lower Austrian Provincial Hospital Holding (Landeskrankenhaus Holding). However, the sponsors had no role in study design, data collection, analysis, and interpretation. Participants In this pilot study, we included patients with UWS after CPR who stayed at the IMCU. Patients were diagnosed before uptake at the IMCU and the UWS was confirmed after uptake following the common rules of diagnosis (Adams et al., 2001). The participants’ legal representatives gave their written consent after a personal elucidation. Patients were randomly enrolled either into the music therapy group or the control group by drawing lots. For the first evaluation of our hypothesis, we examined four participants, two in the music therapy group and two in the control group. Methods To show the activity of the brain during and after music therapy, we used PET investigations (Siemens Biograph 16 HiRez PETCT Scan). PET is still the only method to study the relation between cognitive processes and neurotransmission by showing radiation of nuclear medical tracers in active brain areas (Pape, 2005; Akanuma et al., 2015). Patients in both groups had three PET scans within 6 weeks: the first one (week 1) is a standard PET scan by the hospital in a resting state, without any stimulation. The second (week 2) and third (week 6) are with individual, live music therapy right before the PET scan and during the tracer application. The participants were transported from the hospital bed to the nuclear medical investigation at the Central Radiological Institute in Wiener Neustadt and received an intravenous 18 F-FDG tracer application (230 MBq) during music therapy or a resting state in the PET room. By measuring 18 F-FDG tracer uptake in the brain PET 3 148 August 2015 | Volume 9 | Article 291 Steinhoff et al. Music therapy and PET in UWS relationships (Koelsch, 2012). Therefore, it is hypothesized that therapeutic relationship may have an influence on the hippocampus. Its activity increases while listening to music that is associated with positive emotions (Brown et al., 2004; Koelsch, 2009; Levitin and Tirovolas, 2009). Additionally, it plays a crucial part in learning, memory, spatial orientation and the processing of sensory information (Blood and Zatorre, 2001; Brown et al., 2004; Eldar et al., 2007; Trepel, 2008; Levitin and Tirovolas, 2009; Koelsch, 2012). The cerebellum is involved in several motor functions, such as posture, tonicity, and arbitrary movement (Trepel, 2008). Due to the connection to the limbic system it is also involved in cognitive and emotional processes. In musical tasks it is responsible for the perception and production of rhythm as well as emotional reactions to music (Blood and Zatorre, 2001; Limb, 2006; Levitin and Tirovolas, 2009; Trost et al., 2012; Akanuma et al., 2015). This pilot study was based on the hypothesis that the brain is activated by individual music therapy. We assume that PET can be used to show that music therapy reliably activates the human brain and enhances neurological rehabilitation. However, our aim was not to prove our hypothesis, but observe the brain of individuals with UWS during music therapy and develop our understanding of this in the context of a neuroanthropological approach. shows the activity of brain regions. The advantage of this form of investigation is that the tracer is applied during music therapy or resting state, and we can see which brain regions are active and compare the results of different situations and times. Patients in the music therapy group received live and individual music therapy for 5 weeks between the 2nd and the 3rd PET scan, three times a week. The sessions were conducted by a trained music therapist using various instruments and the therapist’s voice. The approach to the patients in the therapy sessions coheres with the theoretical frame described above. A key element of the therapeutic work was the attunement to the patient. The therapies started with an initial touch on the arm or shoulder and humming, singing, or playing in the rhythm of breath. The manner of breath allows for the interpretation of the patient’s current constitution to which the therapy is adapted. Autobiographical information, such as favorite songs or artists, were involved in the therapy as well as singing the patient’s name. The therapist carefully observed the patient the entire time, including his physical (e.g., tonicity, facial expression, eyes) and physiological (e.g., breath, heart rate, oxygen saturation) actions and reactions, and adjusted to these. For example to support relaxation the therapist played improvisations entrained to the rhythm of the patient’s respiration, or in order to help the patient to relive tension the therapist enhanced the amount of smooth tactile contact. To invite reactions and to avoid excessive demand, music and speech were provided in a basal, slow and adjusted manner and filled with pauses. The average therapy duration lasted for 27 min. All sessions were recorded on video and documented in protocols for further analysis. Patients in the control group had no music therapy during those 5 weeks. However, all participants received standard care (physical, occupational and speech therapy, neuropsychological treatment), as the pilot study took place at the IMCU Hochegg, specializing in neurological rehabilitation of individuals with UWS (Table 1). Three brain areas were analyzed in this pilot study, namely the frontal areas, the hippocampus and the cerebellum. The frontal regions are known for processing cognitive and motor functions. For example, frontal premotor areas are involved in the perception and production of rhythm (Limb, 2006; Levitin and Tirovolas, 2009), while other frontal regions are responsible for cognitive tasks, impulsion, memory, and social functions (Trepel, 2008). The hippocampus is a part of the limbic system, hence is involved in emotional processes, social bonding, and Results Quantitative data of uptake values were generated automatically using the Syngo Scenium Ver.1.2.0.13 Siemens Medical Solutions software. To avoid misinterpretation caused by metabolic variations, all results were adjusted to the uptake values of a reference region (calvaria). For further analysis the differences between the three PET scans were calculated for each patient individually (numerical value and percentage calculation) and then compared to each other. As the numerical values of the differences vary considerably due to the severity of the patients’ brain lesions, the changes in the uptake values are presented in percentages. This allows a better comparison of the results in the two groups. The results of the first evaluation show an increase in tracer uptake in PET 3 in all three areas in music therapy patients, while it decreased in the control group patients. In both groups tracer uptake was lower in PET 2 than in PET 1 (mean value: MTGroup: −1%; CG: −12%). Figure 1 shows the mean values of the changes in the course of the study. After 5 weeks of music therapy tracer uptake in PET 3 increased by 37% in frontal regions, 28% in hippocampus, and 38% in cerebellum in the music therapy group. The control group shows different results. While activity increased in PET 3 by 7% in frontal areas, 4% in hippocampus and 3% in cerebellum, tracer uptake was still lower than in PET 1. Figure 2 shows the mean value of changes from PET 2 to PET 3. The goal of the investigation was not to describe different states of consciousness or the awakening after music therapy but to show changes in brain activity before, during and after the therapy. This was documented clearly through simple PET investigation. However, we did not conduct further statistical TABLE 1 | Course of the study. Music therapy group (n = 2) Control group (n = 2) Week 1 PET 1 (Rest) PET 1 (Rest) Week 2 PET 2 (Music therapy) PET 2 (Music therapy) Week 2–6 5 weeks standard care + music therapy (3 per week) 5 weeks standard care Week 6 PET 3 (Music therapy) PET 3 (Music therapy) Frontiers in Neuroscience | www.frontiersin.org 4 149 August 2015 | Volume 9 | Article 291 Steinhoff et al. Music therapy and PET in UWS Discussion This pilot study was a primary step into the very complex field of music therapy in the neuro-rehabilitation of patients with UWS. Examining four patients was the first attempt to evaluate whether our hypothesis can be tested with the chosen methods. Further research is currently in progress and the following steps are planned. In light of the complexity of music therapy as discussed previously, the focus on three brain areas is a limiting factor. Nevertheless, it was a stepping stone for developing research methods under almost-bedside conditions in order to bridge the gap between research and practice. During rehabilitation of individuals with UWS, neurologists and music therapists have a long history of interdisciplinary cooperation. Particularly when working with patients who cannot communicate what they experience, it is important to find indications from the effect of music therapy. Studies on behavior observation are crucial for our practical work; however, they only capture what is observable from the outside of UWS patients. Neuroscience provides deeper insight into neurological processes and the neurological rehabilitation and has in recent years helped gain a better understanding of the effect of music as a stimulus in the brain. In order to achieve a better understanding of music therapy, it is important to find a more complex approach, combining video analysis, neuroanthropological methods, psycho-vegetative parameters (e.g., heart rate variability) and brain imagery. Neuroscience helps music therapy gain knowledge about the physiological effects of musical elements, which is useful for the theoretical foundation of music therapy. However, we have to be aware that research on music therapy needs a broader approach and interpretation of results than research on music. As the concept of music therapy in Krems, as described above, derives from an anthropological perspective, our approach to research is influenced by a neuroanthropological one (Vogl et al., 2015). Neuroanthropology combines neuroscientific and anthropological research by investigating the interaction between brain, environment and culture. It allows a broader perspective on music therapy by collecting quantitative data as well as qualitative information on the patient’s cultural background, environmental influences and the therapeutic relationship between the patient and the therapist. To achieve a careful interpretation of behavioral reactions and imaging results, neuroanthropology encourages a reflective process at any time of a research project and poses profound questions on the meaning of results. PET scans, for example, are important to gain insight into the physiological correlation to music therapy, but results give no answer to the question about the meaning of music therapy. What do neural changes mean for patients with UWS? Does the increase in brain activity show an effect in their behavior? What are the advantages of higher brain activity for these patients? And more generally, what does music therapy really do for them? We should not forget that adapting to the new situation after the lesion of the brain and coping with UWS can pose an emotional challenge and cause a “reorientation syndrome” (Steinhoff, 2012) for the patient as well as their relatives. To FIGURE 1 | Mean values of the changes in brain activity in the course of the study. FIGURE 2 | Mean values of the changes from PET 2 to PET 3. analyses in this pilot study due to the small number of participants. Interpretation Considering the low number of subjects, we want to handle the interpretation with care. However, there is a considerable difference between the two groups, which supports our hypothesis. The increase of tracer uptake can be interpreted as an increase in brain activity. Patients in the music therapy group show a higher brain activity than control group patients. However, we have to take into account that PET 3 is also a scan of music therapy as a stimulus. We cannot yet explain the decrease of tracer uptake in PET 2, as patients received the first music therapy during this situation and four cases provide insufficient data for interpretation. This pilot study represents a first step in a series of investigations as a dialogue between music therapy and neuroscience. It shows that these research methods may open the way to getting more definite results on the effect of music therapy on the neuro-rehabilitation of individuals with UWS. While this pilot study focused on the activity in targeted areas of the brain, further research will provide more room for interpretation of the neurological rehabilitation. Additionally, more patients and statistical analysis of the PET results may help clarify our results. Frontiers in Neuroscience | www.frontiersin.org 5 150 August 2015 | Volume 9 | Article 291 Steinhoff et al. Music therapy and PET in UWS bridge the gap between research and practice, our studies are accompanied by a neuroanthropologist, who focuses on cultural and environmental influences on the brain activity of patients with UWS. Further explanations and first examples of the neuroanthropological approach are published by Vogl et al. (2015). From an anthropological perspective, the aim of music therapy is to transform the foreign, clinical environment (Umwelt, “around-world”) of patients to their contemporaries (Mitwelt, “with-world”) (Binswanger, 1963; Prinds et al., 2013). By addressing the patient individually and opening up to individual needs and reactions, music therapy is formed not only for the patient, but with the patient. Given that the therapeutic relationship and the interaction within music therapy promotes rehabilitation, the therapist presents another unexplored element. In an interdisciplinary team, we deviate from common patterns of investigation and try to find new ways to examine the effect of music therapy on patients with UWS. As described above, music therapy is more than listening to musical stimuli. Therefore, studying its effect needs to include all its elements. An interdisciplinary approach may help find new methods to get answers. Furthermore, a dialogue is necessary between all people and professions involved in a study: physicians, care team, other therapists, anthropologists, nuclear physicians as well as participants’ relatives. Everyone can provide information which is beneficial for a good course of the study. Summing up, music therapy practice can be advanced by neuroscience opening itself up to individual real-life settings and integrating all elements of music therapy, because its benefit may lie exactly in its complexity. Music therapy is a multisensory, emotional, physical and social approach and therefore involves many neurological functions. If we want to meet the individual needs of the patients, music therapy cannot be standardized. Therefore, it is crucial to have research methods within the frame in which the investigation of individual music therapy takes place. Opening up to this complexity requires new ways of thinking which can be enhanced by an interdisciplinary dialogue. Particularly in music therapy, whose theory and methods are based on the combined knowledge of various disciplines, a dialogue with neuroscience can support the evidence for our practical work and provide insight into deeper processes in our patients. Hence, the dialogue between music therapy and neuroscience is seen as an important, fruitful advantage for both disciplines. References Cacioppo, J. T., and Hawkley, L. C. (2003). Social isolation and health, with an emphasis on underlying mechanisms. Perspect. Biol. 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