Fuga da Rangoon di R. Bultrini - da il Venerdì di Repubblica del 2

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Fuga da Rangoon di R. Bultrini - da il Venerdì di Repubblica del 2
Fuga da Rangoon
di R. Bultrini - da il Venerdì di Repubblica
del 2 novembre 2007
Così i ricercati dal regime birmano diventano
clandestini in Thainlandia. Sono scappati dopo le
manifestazioni. E con i mezzi di fortuna o pagando
pedaggi esorbitanti hanno passato il confine. Molti
esuli hanno un solo obiettivo: tornare in patria e
lottare per la libertà.
MAE STO (confine thaibirmano). Ye Htun Kyaw
dimostra meno dei suoi 33 anni. Ma le mani gli
tremano come quelle di un vecchio. Sette anni di isolamento e torture nelle prigioni birmane hanno
reso la sua mente agitata e parla con concitazione.
Ha lasciato il Paese dopo essersi nascosto per
parecchi giorni nel negozio di biciclette del suo amico
Nay Win Hlaing a Rangoon, prima di decidersi a
partire con lui. Chiuse le frontiere, spenti forzatamente i riflettori dei media internazionali e imposto
il coprifuoco, i militari hanno stretto le reti della
repressione e cercato i dissidenti casa per casa.
Così è iniziata la grande fuga, a piedi, in autobus,
dormendo nella giungla, prima di attraversare il piccolo
e fangoso fiume Moei che divide la Birmania dalla
Thailandia.
La polizia segreta della giunta sapeva che Ye Htun e
Nay Win avevano lavorato per organizzare le clamorose
proteste contro l'aumento dei prezzi, ben prima che
anche i monaci scendessero in piazza. Ma i due ex
studenti non sono i soli ad essere approdati in questa
piccola città frontaliera di duecentomila abitanti per
metà birmani e per metà thai. Nella stanza della
periferia di Mae Sot convivono clandestinamente
un'altra decina di esuli politici appena giunti in esilio,
tutti con una storia analoga.
Una storia di coraggio e disperazione per sfuggire ai
soldati della giunta militare e ai controlli della polizia
thailandese, che spesso è pronta a rimandarli indietro.
Per questo a nessuno, nemmeno ai giornalisti,
’Nld-La (la Lega nazionale per la democrazia in
esilio) e alle altre organizzazioni politiche e umanitarie
che assistono l'ultima ondata di esuli, è permesso
l'accesso al loro rifugio, né a quello degli altri fuggitivi.
Che in numero imprecisato, ma consistente in questi
ultimi giorni, si sono sommati ai due milioni di esuli
già residenti a Mae Sot e nel resto della Thailandia.
Ye Htun era uno studente di zoologia dell'Università
di Rangoon fino al 1998, quando fu arrestato e
condannato a 21 anni di carcere, sette dei quali
scontati. Mostra il foglio da rifugiato che gli è stato
rilasciato dalla sezione di Mae Sot dell'Organizzazione
per i diritti umani delle Nazioni Unite, dove un
funzionario ci ha confermato l'arrivo recente di
un'altra ventina di dissidenti e monaci scappati tra
la fine di settembre e oggi. Ma altri dettagli su ciò
che sta succedendo in Birmania si apprendono nei
colloqui con i frontalieri e i commercianti occasionali,
come la guida turistica (oggi disoccupato) Maung
Win, che incontriamo nella cittadina birmana di
Myawady mentre cerca di trasportare a Mae Sot un
vecchio orologio a pendolo. Gli è stato consegnato
dall'abate di un monastero buddista ridotto a vendere
i mobili per sfamare i monaci che non se la sentono
di girare a raccogliere le offerte, impauriti dal clima
di caccia ai religiosi.
Poi c'è la gran massa di birmani che non passa per
la dogana, ma attraversa il fiume Moel in barca o
con i piedi nell'acqua per lasciarsi alle spalle la fame
o i pericoli delle guerre etniche come quelle combattute
dai Karen, nascosti a pochi chilometri da qui, nella
giungla malarica teatro di sparatorie e soprusi dei
soldati di Rangoon. Intere popolazioni sono costrette
a nascondersi, o ad abbandonare i loro villaggi anche
quando il raccolto è maturo, rischiando nella fuga di
saltare sulle mine, di incontrare una pattuglia, o di
ammalarsi per dissenteria.
Molti di loro non hanno status né assistenza sanitaria.
Parte vive nei campi profughi lungo il confine, in
condizioni igieniche precarie, assistiti da qualche
angelo caritatevole come la dottoressa Cinthya,
ribattezzata la Madre Teresa di Mae Sot, per i miracoli
compiuti con la sua clinica finanziata dalle donazioni
internazionali.
Altri, la maggioranza, pagano cifre esorbitanti per
un passaggio sicuro, con bustarelle da 8000 baht,
tre stipendi da operaio di una fabbrica tessile dove
si lavora 12 ore al giorno, attraverso i check point
piazzati lungo le strade che portano a Bangkok o
Chiang Mai, le principali città thailandesi dove c'è la
speranza di un impiego da sguatteri, camerieri,
braccianti.
storie di sparizioni: lui è riuscito a scappare dalla
porta nel retro della sua casa quando la polizia ha
bussato di notte per prelevarlo. Min Maw fu arrestato
e torturato per tre mesi nel '92, e dopo il suo
rilascio ha perso il lavoro da insegnante per diventare
impiegato di un'impresa che vendeva legna delle
foreste a Singapore e alla Cina. Racconta che nella
sua città, un tempo celebre per le sete, l'economia è
crollata dopo che la giunta ha impedito alle aziende
di trasportare i prodotti, salvo passare per i canali
ufficiali di distribuzione dei militari che trattengono
gran parte dei proventi.
«La loro condizione di clandestini li rende vulnerabili
e indifesi», racconta Moe Swe, dirigente dell'Associazione di lavoratori immigrati Yaung Chi Oo,
più volte minacciato di morte dai proprietari delle
fabbriche della zona che cercano di impedire
l'assistenza legale agli operai birmani, pagati meno
della metà del salario minimo garantito, un dollaro e
mezzo al giorno.
«Ben prima degli ultimi aumenti la gente viveva di
zuppe di riso» dice «i genitori chiedevano ai figli se
preferivano la cena o il pranzo».
La sua organizzazione e la Future Light Volunteer
assistono anche alcuni degli esuli di questi giorni.
Come l'ex studente Myint Nein, laureato in Economia
alla Tagur University e impiegato nel piccolo negozio
di ricambi d'auto del padre oggi in fallimento.
All'aumento vertiginoso del carburante e ai costi
esorbitanti di una vettura - un minimo di 15mila
dollari per macchine di vent'anni - si è aggiunto
quello del trasporto in autobus passato da 200 a
1000 kyatt al giorno (50 centesimi di euro) per
andata e ritorno in città, quando uno stipendio
medio è di 5000, 6000 kyatt al mese. «Anche la mia
famiglia è passata da tre a un pasto al giorno»
racconta. «Un chilo di riso costa 100 kyatt e una
famiglia di cinque persone ne consuma mediamente
due chili al giorno».
Myint Nein, picchiato brutalmente da uomini in abiti
civili giunti a bordo di un camion al termine di una
delle manifestazioni di settembre, è scappato quando
la polizia ha riconosciuto il suo volto tra i manifestanti in un video circolato via Internet. Ce lo
mostra su un vecchio televisore: al suo fianco cammina
l'amico Tin Uu Maung, sparito da un mese.
«La famiglia» dice Myint «lo ha cercato invano tra
prigioni e cimiteri. Niente».
Anche Min Maw Theil, un ex Insegnante quarantenne
di Shwe Taung nel distretto tessile di Pegu, racconta
Non a caso quando le strade di Shwe Taung stentavano a riempirsi di manifestanti come a Rangoon e
Mandalay, Min Maw e altri militanti della Lega per la
democrazia sono andati a distribuire volantini contro
le violenze sui monaci nei quartieri poveri della città,
raccogliendo più di duemila partecipanti
Lo stesso ha fatto a Rangoon Ye Htun, anche lui
militante della Lega nazionale per la democrazia, il
partito messo al bando dopo il clamoroso successo
elettorale di 17 anni fa. Un successo che invece di
premiare il partito lo ha distrutto, costringendo a
marcire in prigione o agli arresti domiciliari centinaia
dei suoi membri, compresa la leader e Nobel per la
Pace Aung San Suu Kyi e un altro carismatico ex
studente delle precedenti rivolte dell'88, Min Ko
Naing, riportato in carcere dopo le prime manifestazioni di agosto.
«Ognuno di noi rischia coscientemente la vita per
seguire il loro esempio» dice Ve Htun. «Il mio ex
compagno di cella That Win Aung è morto nella
prigione di Mandalay senza rivedere la famiglia dopo
uno sciopero della fame che gli è costato anche la
tortura. Anche Aung San e Min Ko Naing hanno
rischiato la vita: la nostra Lady non vede da anni i
figli e non ha potuto visitare il marito morente.
Eppure non vogliono lasciare il Paese per sempre.
Anch'io presto ritornerò, clandestinamente come
sono uscito. Min Ko Naing ci dice sempre di non
reagire con la violenza ai soprusi, ha vissuto sempre
umilmente e sopportato con serenità gli anni del
carcere e delle torture. Non come me che ho quasi
perso la ragione dopo mesi di catene ai piedi e di
pestaggi giornalieri».
Nella casa dove incontriamo Ye Htun arriva anche
uno dei fondatori del Gruppo di ex studenti dell'88 e
stretto collaboratore di Min Ko Naing. Si chiama Nay
Tin Myint, ha 41 anni di cui ben 15 passati in prigione.
È fuggito a Mae Sot subito dopo le prime manifestazioni
di agosto. La sua gamba destra è stata semiparalizzata
a lungo dopo aver camminato per due anni di fila
con le catene ai piedi unite da due pesanti sbarre
d'acciaio.
«Spesso mi trascinavo carponi e i secondini mettevano
pietre aguzze sul pavimento» racconta ormai con un
certo distacco, come se parlasse di qualcun altro.
«Per superare senza impazzire i sette anni di isolamento
forzato meditavo tre ore al giorno e mi ripetevo che
stavo soffrendo per il bene del mio Paese e della
democrazia. Non so quando potrò tornare, ma di
certo nessuno di noi ha più paura della prigione
e della morte».
Ye Htun annuisce e piange.
Fissa le mani che tornano a tremare.
Le stringe a pugno.
E dall'imbarazzo, infine, sorride.