Famiglie. Ora i Paperoni vogliono una banca

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Famiglie. Ora i Paperoni vogliono una banca
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COR RI E RECONO M I A
LUNEDÌ 13 GIUGNO 2016
Osservatorio Private banking
Abitudini Il criterio guida per scegliere è la professionalità del referente per gli investimenti (63%), la tradizione dei legami non basta più
La platea degli investitori
Clienti non serviti dal Private banking
Banca
tradizionale 87
96
Reti promotori 11
finanziari
Attualmente
possiede
investimenti
con...
24
Consulenti
indipendenti 5
Banche online 1 6
Istituzione principale
Istituzione utilizzata
Grande gruppo
italiano con struttura
Private banking
35
Banca tradizionale
Banca svizzera
con presenza in Italia
Banca italiana
specializzata
Grandi gruppi esteri
con filiali in Italia
Reti promotori
finanziari
Grandi gruppi che
servono all’estero
Consulenti
indipendenti
Banche online
Sim di consulenza
indipendente
Family Office
Professionalità
del referente
Banca di famiglia
25
5
4
Consiglio di amici
e parenti
Altri motivi
62
37
15
18
19
18
17
12
15
11
14
22
10
34
73
Quanto
sarebbe
propenso
a diventare
cliente di...
33
Clienti di strutture
Private banking
Clienti non serviti
dal Private banking
9
Clienti di strutture Private banking
63
37
Offerta di servizi
Precedente relazione
con personale banca
Buona qualità
informazioni fornite
Capillarità
su territorio
Vicina a casa/lavoro
74
32
30
27
15
8
9
6
Quali sono
i motivi
della scelta
dell’istituto
di gestione
dei suoi
investimenti?
Famiglie Ora i Paperoni vogliono
una banca sempre più su misura
Solo il 9% affida il patrimonio a istituti tradizionali senza specializzazione «private»
DI PIEREMILIO GADDA
U
na gestione professionale è
essenziale per custodire il patrimonio di famiglia e assicurare che il trasferimento della ricchezza alle nuove generazioni avvenga senza sorprese. I clienti private
lo sanno e dedicano perciò sempre più
tempo alla scelta del partner cui affidare i propri investimenti. Secondo
un’indagine dell’Aipb, solo il 9% delle
famiglie che hanno accesso a servizi di
private banking fa riferimento ad una
banca tradizionale come istituzione
principale per la gestione degli asset finanziari: il 76% si rivolge in modo prioritario alle strutture bancarie dedicate
ai grandi patrimoni (l’11% in più rispetto a cinque anni fa), il 3% a reti di
promozione finanziaria o a banche
svizzere presenti in Italia (stessa percentuale), l’1% a boutique specializzate.
mente, indebolendo il conto economico. Così, le banche cercano di recuperare la redditività perduta rivalendosi
sulla componente rappresentata dalle
commissioni: negli ultimi 18 o 24 mesi,
non a caso, molti operatori hanno creato divisioni ad hoc, facendovi confluire
i clienti con asset superiori ai 500 mila
euro. Questo giustifica almeno in parte
l’aumento significativo dei clienti che
dichiarano di essere seguiti da una
struttura dedicata, negli ultimi cinque
anni.
Tra le famiglie che non si avvalgono
di un servizio private, invece, l’87% utilizza ancora una banca tradizionale come consulente per la gestione degli investimenti. Potrebbe dipendere da una
lacuna informativa: il 35% dei potenziali clienti, infatti, non sa esattamente
Quale tipo
«Da un lato, c’è maggiore consapevolezza sulle caratteristiche di un servizio private, da parte della clientela.
Dall’altro — spiega Salvatore Pisconti,
responsabile private banking Italia di
UniCredit — per molti istituti questo
business è diventato strategico, a causa
delle mutate condizioni di mercato».
Per effetto dei tassi ai minimi, i margini
d’interesse si sono compressi enorme-
Aipb Il segretario generale
Bruno Zanaboni
in cosa consista il private banking.
D’altra parte, invece, i nuclei familiari già supportati da un servizio dedicato tendono a percepire il mercato come
più dinamico e competitivo, affollato di
operatori con caratteristiche differenti,
che meritano di essere presi in considerazione. Il 37%, per esempio, si dichiara propenso a diventare cliente di
una banca svizzera presente nella Penisola (una percentuale più che doppia
rispetto ai clienti non serviti), uno su
tre si rivolgerebbe a una banca specializzata o a un gruppo estero, il 15% ad
un consulente indipendente, il 10% a
una sim di consulenza o a un family office. Come dire: i già clienti sono più
consapevoli ma anche maggiormente
disposti a valutare possibili alternative. Presa dimestichezza con le caratteristiche del servizio, hanno imparato a
testare modelli di business differenti.
«D’altra parte — osserva Fabrizio
Greco, direttore generale del Gruppo
Ersel — molti operatori hanno perfezionato le proprie capacità di sviluppo
commerciale, si sono resi maggiormente visibili, per intercettare la domanda latente di nuovi servizi». Secondo Greco, il passaggio generazionale è il momento in cui, tipicamente, la
famiglia esamina eventuali alternative
nella scelta dell’istituzione cui affidare
la gestione del proprio patrimonio, valutando, accanto alle strutture bancarie tradizionali, l’ipotesi di rivolgersi a
realtà di altra natura. «Ci sono ancora
degli impedimenti che ostacolano la
migrazione di un cliente da un player
ad un altro. Per esempio, alcuni operatori non hanno una presenza capillare
sul territorio. Tuttavia — rileva Paolo
Vistalli, amministratore delegato di
Cassa Lombarda — la tecnologia è in
grado di abbattere, almeno in parte,
queste barriere, aprendo spazi interessanti per l’acquisizione di nuovi clienti,
a favore di banche più dinamiche».
Stabilità
In ogni caso, le famiglie private appaiono sempre più esigenti nella scelta
del proprio consulente: secondo un’indagine dell’associazione di categoria, il
criterio più importante che le guida è
la professionalità del referente per gli
investimenti (63%), in aumento del
10% rispetto a cinque anni fa. «Non deve stupire: interpretare l’andamento
dei mercati e le esigenze dei clienti è
sempre più difficile, richiede competenze sofisticate e formazione. Al tempo stesso, però, molti clienti private sono un po’ abitudinari», rileva Pisconti.
Per il 37%, secondo l’Aipb, la scelta è
indirizzata alla banca di famiglia. «La
clientela private ha bisogno di stabilità
— conclude Vistalli — una volta trovato un referente dedicato e competente,
non vogliono altro che consolidare la
relazione di fiducia».
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L’intervento
Voluntary disclosure:
come gestire la fase due
DI PAOLO LUDOVICI*
Nel valutare le implicazioni fiscali della «voluntary disclosure», la procedura di rimpatrio
dei capitali tenuti illegittimamente all’estero,
sanatoria che il governo potrebbe riaprire nei
prossime mesi, si erano individuati fin da subito tre periodi di riferimento:
1) gli anni fino al 2013 incluso, che tecnicamente erano gli unici oggetto della procedura;
2) il 2014, per il quale i termini per la presentazione della dichiarazione dei redditi non
erano scaduti;
3) gli anni successivi al 2015, la cui fiscalità
sarebbe stata quella ordinaria e nel corso dei
quali i contribuenti avrebbero dovuto affrontare temi che prima della voluntary disclosure
avevano accantonato.
La terza fase, quella post voluntary, impone
ai contribuenti di valutare dove detenere il proprio patrimonio che, nell’ottica di molti, è stato
per anni al riparo da eventi catastrofici (default
dello Stato, ritorno alla lira con obbligo di cambio sfavorevole, e così via) o comunque protetto
da pretese altrui (familiari, eredi o anche semplicemente malavitosi).
La sensibilità individuale ha un ruolo fondamentale nel prendere una decisione che non
ha più alcuna rilevanza tributaria e sempre più
interesse riscuote lo strumento del mandato fiduciario di amministrazione senza intestazione,
che consente da un lato di «delegare» la fiscalità ad un intermediario italiano, ma dall’altro
di mantenere a proprio nome le disponibilità
all’estero.
La psicologia e le paure ataviche sono il motore principale della scelta e non è un caso che
ben oltre la metà delle procedure abbiano fatto
ricorso al cosiddetto «waiver». Il waiver è il documento con il quale il contribuente autorizza
l’intermediario finanziario estero a trasmettere
le informazioni richieste dall’amministrazione
finanziaria italiana in merito alle attività oggetto di voluntary disclosure mantenute all’estero. Il rilascio del waiver è l’alternativa rispetto al rimpatrio delle attività finanziarie al
fine di ottenere alcuni effetti premiali in relazione alla procedura di emersione.
In secondo luogo, occorre valutare gli interventi di manutenzione e semplificazione delle
strutture ad esempio mediante la chiusura degli strumenti dichiarati interposti o l’accorciamento delle catene societarie.
In tale contesto, si pone spesso il tema dell’individuazione dello strumento giuridico con il
quale detenere le attività: società semplice, società di capitali residente o meno, contratto di
assicurazione sulla vita, trust, etc. Tutti gli strumenti sono passati in rassegna, colmando un
vuoto conoscitivo di cui negli anni «offshore»
sovente non si era percepita l’esistenza.
A questo punto emergono le questioni più
sostanziali: come programmare la successione
(spesso le attività estere erano surrettiziamente
escluse dalla legittima semplicemente perché
ignote ai potenziali eredi), quali regole stabilire
in ottica prospettica per la governance del proprio gruppo o semplicemente del proprio patrimonio (opere d’arte, immobili, disponibilità liquide), come ottimizzare la fiscalità futura.
La tematica più immediata è quella relativa
all’imposta sulle successioni, attualmente applicata nella misura tra il 4 e l’8 per cento, ma
certamente destinata ad innalzarsi sia pure con
tempi, modi e misure oggi non ancora prevedibili.
Alcuni contribuenti pensano al trasferimento (o al ritrasferimento) delle residenze all’estero, altri alle polizze vita o ai trust o ai tradizionali meccanismi della separazione dalla
nuda proprietà dell’usufrutto sui beni. Non esiste una ricetta precostituita e valida per tutti. La
soluzione va individuata caso per caso, ma è
essenziale adattare gli strumenti tradizionali al
mondo in evoluzione. Ad esempio, sono in pochi a cogliere che spesso la donazione della nuda proprietà su azioni permette di contenere
l’onere indiretto (donazione), ma spesso creando i presupposti per una ben maggiore fiscalità
diretta prospettica a causa della perdita del valore fiscalmente riconosciuto riferibile all’usufrutto.
*Fondatore di Ludovici & Partners
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