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ISSN 2035-0724
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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm.
Anno 2 - numero 7 - Aprile 2009
Mensile
Anno 2, Numero 7
€5
Direttore politico
Massimo Fini
Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
America Latina:
HASTA SIEMPRE, CHÁVEZ
Fini:
I TALEBANI E LA DISINFORMATIA
Fmi e Banca mondiale:
GLI USURAI DI BRETTON WOODS
Facebook:
VUOI ESSERE MIO AMICO? NO!
Crisi economica:
È INIZIATO IL CONTO ALLA ROVESCIA
Anno 2, numero 7, Aprile 2009
Direttore Politico
Massimo Fini
Direttore Responsabile
Valerio Lo Monaco
([email protected])
Redazione:
Ferdinando Menconi, Federico Zamboni
([email protected])
Art director:
Alessio Di Mauro
Hanno collaborato a questo numero:
Alessio Mannino, Giuseppe Carlotti, Bianca
Berardicurti, Roberto Alfatti Appetiti, Alessia
Lai, Giuseppe Pennisi
Segreteria:
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([email protected])
340/1731602
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Agenzia Inedita
tel. 06/98.26.24.96
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Impaginazione:
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La Voce del Ribelle è un mensile
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Roma, n°316 del 18 Settembre 2008
Prezzo di una copia: 5 euro
Abbonamento annuale (11 numeri):
50 euro comprese spese postali
Modalità di pagamento:
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precedente accordo, non vengono restituiti.
Chiuso in redazione il 31/03/2009
Occidente e Afghanistan:
tra viagra e disinformatia
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La rivoluzione del centimetro quadrato
6
Conto alla rovescia
9
Qui ti aiuto e qui ti inchiodo
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Global Commons
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Fini & interessi
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Chávez, El Pueblo Unido
29
Nunca Mas. Mai più desaparecidos
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di Massimo Fini
di Federico Zamboni
di Valerio Lo Monaco
di Federico Zamboni
di Giuseppe Pennisi
di Alessio Mannino
di Alessia Lai
di Bianca Berardicurti
Social Network:
il paese dei balocchi (altrui)
41
Usciti ieri: Il Castello
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Borderline: Cobain, l’urlo nel tunnel
49
di Giuseppe Carlotti
di Valerio Lo Monaco
di Federico Zamboni
Musica: X factor, la fabbrichetta
delle star(s)
di Roberto Alfatti Appetiti
Il film: NON una scelta d’amore
di Ferdinando Menconi
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58
di Alessio Di Mauro
Leggo al minimo.
Il Tempo divora gli occhi e il resto.
Ma
“La Voce del Ribelle”
merita di vivere.
Qualcuno... chissà...
Guido Ceronetti
1° marzo 09
FINI
MASSIMO
Occidente
e Afghanistan:
tra Viagra
e disinformatia
U
di Massimo Fini
na volta c'era la "disinformatia" sovietica. Era così
palese e grossolana da diventare ridicola e infatti in
Europa e negli Stati Uniti era materia di un'infinità di
barzellette. Oggi la "disinformatia" è passata
all'Occidente, e, quanto a ridicolo, non ha nulla da
invidiare a quella sovietica, anzi riesce ad essere perfino peggiore.
Alla vigilia dell'8 marzo, festa della donna, la CNN e le televisioni americane, seguite pedissequamente da quelle europee e, naturalmente, italiane, hanno dato notizia che in Afghanistan i Talebani avevano iniziato
una campagna di stupri sistematici. Non è solo una notizia inverosimile,
è inventata di sana pianta. Se i Talebani si sono affermati in Afghanistan,
trovando l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, è
proprio perché misero fine alle prepotenze, ai taglieggiamenti, alle estorsioni, alle ruberie, agli assassinii e anche agli stupri perpetrati dai cosiddetti "signori della guerra" e dai loro seguaci. La carriera di Leader del
Mullah Omar comincia proprio così. Dopo aver combattuto, giovanissimo
(aveva 19 anni) contro i sovietici, Omar era tornato a vivere nel suo povero villaggio vicino a Kandahar. Una di queste bande aveva rapito due
ragazze del posto e se le era portate in un luogo sicuro per stuprarle in
tutta comodità. Omar a capo di altri "enfants de pays" aveva inseguito e
raggiunto i banditi, li aveva sconfitti liberando le ragazze e, per buona
misura ed esempio, aveva fatto impiccare il capo della banda all'albero
della piazza del suo paese. E si era comportato nello stesso modo quan-
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MASSIMO FINI
do, poco dopo, erano state sequestrate altre due ragazze in un villaggio
vicino. Questa era la sua maniera di difendere la dignità della donna (in
Occidente ci riempiamo la bocca con la "dignità della donna", ma
quando una ragazza viene stuprata in pieno giorno nel centro di una
città, gli strenui difensori di questa dignità si girano dall'altra parte).
Quando nel 2001 gli americani attaccarono l'Afghanistan appoggiandosi, sul terreno, ai Tagiki di Massud, una giornalista inglese penetrò in
territorio afgano travestita da uomo. I Talebani la scoprirono e la arrestarono. Avrebbero potuto farne quel che volevano, usarla a fini di ricatto
come abbiamo visto fare tante volte in Iraq con i civili, stuprarla o sottoporla a sevizie e umiliazioni anche peggiori, tipo Abu Ghraib dove la "cultura superiore" ha dato il meglio di sé, o semplicemente dimenticarsela
in prigione perché avevano altro cui pensare perché erano in una situazione impossibile avendo di fronte, sul terreno, uomini di pari valentia
guerriera mentre dal cielo gli irraggiungibili B52 americani bombardavano a tappeto le loro linee. Invece la trattarono con il rispetto che sempre
si deve a un prigioniero, uomo o donna che sia, la interrogarono e, appurato che non era una spia come avevano ragione di sospettare, la riportarono al confine e la liberarono. E lei si convertì all'Islam.
Nell'Afghanistan talebano esisteva un "Corpo per la promozione della
Virtù e la punizione del Vizio" il cui compito era quello di vigilare sulla
morale, in particolare quella sessuale. I Talebani sono degli integralisti
religiosi, dei puritani, dei sessuofobi se si vuole. Possono essere feroci e
crudeli ma lo stupro non solo è estraneo alla loro mentalità, lo considerano un delitto gravissimo, più dell'omicidio, perché offende la morale e
la donna di cui hanno un'alta concezione anche se in modo diverso dal
nostro.
Continuamente le cronache e i reportage occidentali si occupano, lacrimando, delle disastrose condizioni in cui versa "questo martoriato
Paese" (come se si fosse "martoriato" da solo e non fossimo stati noi a
ridurlo nelle condizioni in cui è): il tasso di disoccupazione viaggia fra il
40 e il 50%, la corruzione, nel governo, nell'amministrazione pubblica,
nella polizia, è endemica, i "signori della guerra" hanno ripreso a spadroneggiare e a taglieggiare (un camionista che attraversi l'Afghanistan
deve passare fra i 20 e i 30 posti di blocco, pagando ogni volta il "pizzo"),
la sicurezza non esiste, il mercato della droga impera, oggi l'Afghanistan
produce il 93% dell'oppio mondiale.
Nessun cronista e nessun inviato però si chiede mai com'era, da questi
punti di vista, la situazione dell'Afghanistan sotto i Talebani. Perché il confronto sarebbe devastante. La disoccupazione non c'era. Per il semplice
fatto che, come in tutte le realtà tradizionali, ogni famiglia, contadina o
artigiana che fosse, viveva sul suo e del suo. L'ingresso dell'economia di
tipo occidentale l'ha disgregata. Facciamo un esempio, piccolo ma
significativo. Le donne afgane continuano a portare il burqua. I burqua
erano confezionati da famiglie di artigiani afgani; adesso li fanno i cinesi. Perché i cinesi, con le loro macchine, fanno in poche ore decine di
burqua là dove una famiglia afgana per confezionarne uno ci metteva
una giornata. Ergo, migliaia di persone hanno perso il loro lavoro.
MASSIMO FINI
La corruzione non c'era. Perché i Talebani facevano impiccare i corrotti
allo stadio, cosa che tanto faceva inorridire gli occidentali. C'era una
giustizia spiccia, ma c'era.
Le estorsioni, i taglieggiamenti, i "pizzi" dei "signori della guerra" non
c'erano per la semplice ragione che i Talebani, dopo averli sconfitti, li
avevano cacciati dal Paese.
L'Afghanistan era un Paese sicuro. Bastava rispettare la dura legge imposta dai Talebani. Gino Strada, che in quell'Afghanistan ci ha vissuto, mi
ha raccontato che vi si poteva girare, in tutta tranquillità, anche di notte.
Nel 2001 il Mullah Omar impose e ottenne che i contadini non coltivassero più il papavero da cui si ricava l'oppio. Un risultato straordinario,
quasi miracoloso se si pensa ad altre situazioni come, per esempio, la
Colombia. Ma documentato e inoppugnabile: se si guardano i diagrammi si vede che nel 2002 (anno in cui rileva il provvedimento del Mullah
preso nel 2001) la produzione di oppio in Afghanistan crolla quasi a zero.
Con la nostra invasione e occupazione abbiamo distrutto un Paese che,
dopo dieci anni di conflitto con l'Unione Sovietica e sei di guerra civile,
aveva trovato un suo equilibrio e un suo ordine, sia pure un duro ordine.
Se le cose stanno così perché allora continuiamo ad occupare
l'Afghanistan? Dice: perché lì combattiamo
il terrorismo. Quale terrorismo? Bin Laden è
Notizie inventate
scomparso dalla scena da cinque anni. E
del resto il califfo saudita i Talebani se lo
di sana pianta.
sono trovati in casa e costituiva un probleRealtà coperte
ma anche per loro. Tanto è vero che quando nel 1998 Bill Clinton propose ai Talebani
(come il crollo
farlo fuori questi si dichiararono disponidella produzione di di
bili. Il Mullah Omar inviò a Washington il suo
papavero del 2001) "numero due", il ministro degli Esteri Watkij,
e la guerra vile con in possesso di un ottimo inglese, il quale
disse al Presidente USA che il governo talei Dardo e i Predator. bano era d'accordo a fare questa operazione, sia direttamente sia dando agli ameriDove l’Occidente
cani le coordinate esatte di dove si trovava
non riesce con la
Bin Laden, purché le responsabilità dell'attentato se le assumessero gli Stati Uniti. Ma
forza, prova
all'ultimo momento Clinton, che pure era
a corrompere
l'autore della proposta, si tirò indietro.
con il Viagra. I veri
Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantostupratori siamo noi. meno kamikaze, non è nella loro natura e
nella loro cultura, sono dei guerrieri che è
cosa diversa. Non c'era un solo afgano nei
commandos che abbatterono le Torri Gemelle e non è stato trovato un
solo afgano nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo
l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, yemeniti, giordani, marocchini, algerini, tunisini, egiziani, ma non afgani.
Nei dieci anni di durissima guerra di guerriglia contro il potentissimo
esercito sovietico non si registrò nemmeno un attentato terroristico, né
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LA VOCE DEL RIBELLE
Massimo Fini
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WWW.ILRIBELLE.COM
MASSIMO FINI
dentro né fuori l'Afghanistan (e un Aereoflot poco protetta non sarebbe
stata difficile da colpire). E anche oggi che si trovano di fronte a un nemico che, a differenza dei sovietici, non ha nemmeno la decenza e la dignità di stare sul campo, ma bombarda con aerei senza pilota, i Dardo e i
Predator, gli atti terroristici dei Talebani all'interno di una sperequatissima
guerra in cui, diversamente da quanto succedeva nel conflitto con i
russi, non hanno l'appoggio di nessuno, nemmeno dell'Iran che li vede
come dei pericolosi concorrenti ideologici, più "duri e puri" e più coerenti, sono molto pochi se paragonati a quanto successo in Iraq, e sempre
mirati a obiettivi militari o politici e mai contro i civili (anche se hanno
pure essi degli "effetti collaterali", comunque infinitamente inferiori a
quelli provocati dagli americani con i loro bombardamenti a casaccio
sui villaggi). E in ogni caso non si può gabellare una guerriglia che dura
da otto anni, con l'evidente e indispensabile appoggio di buona parte
della popolazione, come terrorismo anche se, di quando in quando, ne
fa uso. Negli stessi documenti interni del Pentagono e della Cia i combattimenti afgani, talebani e non, sono definiti "insurgents", insorti. Si tratta di
una guerra di liberazione contro l'occupazione dello straniero che non si
vede da quale punto di vista si possa considerare illegittima.
C'è da aggiungere, infine, che se anche i Talebani riprendessero il potere, da cui sono stati spodestati con la violenza, nel loro Paese,
l'Afghanistan non costituirebbe un pericolo per nessuno. Non è dotato, a
differenza del Pakistan, dell'atomica, non ha mai posseduto, a differenza
dell'Iraq, "armi di distruzione di massa", è armato in modo antidiluviano
e nella sua lunga storia non ha mai aggredito alcun Paese, né vicino né
lontano. Gli afgani si sono sempre fatti gli affari loro.
E allora perché l'Occidente continua ad occupare l'Afghanistan seminando morte, distruzione, miseria, disgregazione sociale ed è anzi considerato da mister Obama, il nero "democratico", il target principale?
Semplicemente perché non ci piacciono i Talebani, non ci piacciono (ne
abbiamo anzi paura) i loro valori, la loro dura legge, la shariah, le loro
idee (che sono una declinazione radicale del pensiero khomeinista) che
vogliamo sostituire, a tutti i costi, con le nostre leggi, le nostre istituzioni,
la nostra democrazia, i nostri valori, la nostra devastante economia. E per
ottenere questo obiettivo siamo disposti a tutto, a usare, oltre alle
bombe, ogni mezzo e mezzuccio, dalla "disinformatia" in stile sovietico
all'offerta ai capi tribù - ultima, geniale, idea della CIA - di Viagra gratis.
Quando si arriva a questo vuol dire che si è proprio rischiato il fondo
della botte. E quando una democrazia, per combattere le idee altrui è
costretta a ricorrere a questi mezzi, infami o ridicoli, vuol dire che non è
più tanto convinta delle proprie.
La rivoluzione
E
Zamboni
del centimetro quadrato
di Federico Zamboni
hilà, sorelle marionette. Ehilà, fratelli burattini. Con alcuni di
voi ci conosciamo di persona e, da marionette e burattini
intelligenti quali siamo, abbiamo sempre un sacco di cose
da dirci: ci scambiamo analisi dettagliate, e talvolta brillanti, sui nostri fili e su quelli degli altri; ci chiediamo come mai
così tanti pupazzi si illudano di essere liberi, anche se poi non fanno altro
che sgambettare di buon grado sulla scena; e soprattutto immaginiamo
il momento in cui gli odiatissimi burattinai arriveranno alla fine dei loro
giorni. O del loro potere, almeno.
Come forse ricorderete, la volta scorsa ho fatto un bel discorsetto che si
intitolava “Ribelli e operativi”. Qualcuno ha scritto per dire che gli era piaciuto. Qualcun altro per dire che era perplesso. Uno ha buttato lì due
domande precise. La prima: allora creiamo una massoneria di "ribelli"?
La seconda: stiamo forse ipotizzando una rivoluzione tipo quella
Francese? Non vedo molte alternative – ha concluso – ma accetto suggerimenti. Io gli ho risposto privatamente in modo sommario, tanto per
non farlo aspettare un intero mese.
Gli ho mandato una mail che diceva:
Nessuna massoneria, ci mancherebbe. E men che meno “una rivoluzione
tipo quella francese”.
L’idea è un’altra. E parte da una domanda: è possibile fare qualcosa di
più che osservare criticamente la realtà, al solo scopo di scambiarsi
“acute” osservazioni su quello che non va?
Noi crediamo di sì. Ma non in termini strettamente politici, cioè finalizzati
immediatamente a un’azione rivolta al cambiamento della società nel
suo insieme. In termini, diciamo così, personali. Benché la situazione circostante sia così degradata, è comunque possibile (e secondo noi doveroso) passare a un atteggiamento più attivo.
Come? Ne parleremo nel mio editoriale del prossimo numero.
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Se il realismo tende a degenerare in cinismo – e quindi nell’inerzia di chi
si affretta a dare per certo che non ci sia niente da fare, perché tanto “è
sempre stato così” – l’idealismo tende a diventare astrazione, e rischia a
sua volta di non misurarsi mai sul terreno della realtà. Affascinato, o soggiogato, dalle proprie visioni, l’Idealista con la I maiuscola osserva le proposte altrui e le trova invariabilmente imperfette. Oddio: non è che non
sia proprio tutto da buttare, ma bisogna pur riconoscere che l’obiettivo
è parziale, il risultato incompleto, e che perciò il cambiamento che si prospetta, quand’anche venisse realizzato, resterebbe comunque lontano,
lontanissimo, da quella palingenesi morale e politica di cui ha bisogno
l’Italia. Anzi l’Europa. Anzi l’Occidente. Anzi il mondo intero.
Cazzate. Un conto è prendere atto che dietro certi effetti negativi ci sono
dei vizi strutturali, e avere ben chiaro che, se passi la vita a occuparti
delle conseguenze, non ti resterà molto tempo per eliminare le cause.
Tutt’altra cosa è concludere, diventando maledettamente simili ai suddetti realisti-quasi-cinici, che al di fuori della Rivoluzione con la R maiuscola non c’è da fare un bel nulla.
E invece c’è. Eccome se c’è. Invece di accarezzare il momento, esso sì
meraviglioso e gratificante, in cui si plasmerà l’universo a propria immagine e somiglianza (a proposito: sicuri di esservi osservati bene nello
specchio? Sicuri, sicurissimi di poter fungere da modello per chiunque
altro, per oggi e per sempre?), ci si può rimboccare le maniche e iniziare da quello che si ha effettivamente a disposizione. In attesa della
Battaglia Finale, la fatale Armageddon in cui il Bene e il Male regoleranno una volta per tutte il loro spiacevole, e plurimillenario, contenzioso, si
può fare quello che fanno tutti gli eserciti degni di tal nome: erigere il
campo, fortificarlo come si deve, addestrarsi individualmente e in gruppo. Osservare il nemico, per sapere di che forze dispone. Controllare che
le scorte vengano ricostituite con la dovuta regolarità.Tutte le scorte: non
solo pallottole ed esplosivi e traccianti; anche, innanzitutto, l’acqua e il
cibo, i vestiti per l’estate e per l’inverno, il carburante per muoversi e quello per scaldarsi.
Qui. Ora. Noi
È ovviamente una metafora, quella militare. Ed è ovviamente una speranza quella di avere già delle schiere così nutrite da richiedere un’organizzazione collettiva. Facciamo un passo indietro, allora. Pensiamo al nostro
bravo guerriero (guerriero: non un qualsiasi facinoroso che non vede
l’ora di menare le mani) e immaginiamolo che si prepara.
Immaginiamolo, ancora meglio, che si tiene pronto a battersi quando
verrà il momento, ma che non per questo si aggira bellicoso per ogni
dove. Al contrario: egli conduce la propria vita quotidiana nel modo più
equilibrato e armonioso di cui è capace, facendo ciò che serve con la
cura di un contadino che ama la sua terra, di un artigiano che sa e
vuole lavorare solo a regola d’arte, di un artista che insegue un’autentica ispirazione e non intende accontentarsi di nessun trucco e di nessuna scorciatoia. Cerca di essere d’esempio a se stesso e agli altri. Sa che
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WWW.ILRIBELLE.COM
Zamboni
Il meglio è nemico del buono
Zamboni
le parole, anche le più belle, persino le più giuste, sono soltanto chiacchiere, se non trovano riscontro nei comportamenti reali.
Questo nostro guerriero – che io mi immagino come Cincinnato, che
amava vivere in pace e coltivare i suoi campi, e che prendeva la spada
solo se era assolutamente necessario – non aspetta di avere chissà
quale grande occasione per fare del suo meglio. Lo fa costantemente. O
almeno ci prova.
A un certo punto della sua vita, o prima o dopo, in un modo o nell’altro,
ha capito una cosa fondamentale: quando non puoi scegliere il cosa,
puoi ancora scegliere il come.
Come Papillon (un burattino decisamente con le palle) può darsi che
sia prigioniero in una qualche prigione. E che non abbia modo di evadere, e neppure uno straccio di piano di fuga da elaborare. E che addirittura, per un’evasione fallita in precedenza, o per una sacrosanta insubordinazione, l’abbiano chiuso in isolamento. Per punirlo. Per spezzarlo. Ma
lui, come Papillon, conosce sia la bellezza del sogno che la forza della
disciplina.
Come Papillon si alza da questa tavola di legno che chiamano branda
e, oscurità o non oscurità, scarafaggi o non scarafaggi, si impone di
camminare. Tre passi in una direzione e tre passi nell’altra. Nulla di straordinario, in assoluto. Qualcosa di magnifico, viste le circostanze. Come
Papillon si tiene vivo. Come Papillon si tiene all’erta.
Tutto qui, care sorelle marionette e cari fratelli burattini. Ognuno di noi,
anche nelle condizioni peggiori, anche in questa nostra società corrotta
e malsana, ha l’opportunità di fare qualcosa di meglio che restare inerte a contemplare lo sfacelo circostante. Per ognuno di noi, sul posto di
lavoro, nella vita privata, nelle attività di rilievo e in quelle del tutto ordinarie, c’è continuamente l’occasione di vivere in maniera diversa da
quella che cercano di imporci.
Vogliono metterci tutti contro tutti? Rispondiamo coi fatti. Non lasciamoci imporre la grossolana, ottusa, nevrotica alternativa tra essere inermi o
essere aggressivi. Sforziamoci di essere calmi, entusiasti, generosi.
Restituiamo valore alle parole: non può essere sempre una discussione
all’ultimo sangue in cui ci tocca dimostrare che noi abbiamo ragione al
101 per cento e che gli altri hanno torto marcio. Restituiamo valore ai
gesti, alla normalità del fare le cose solo perché è giusto così: ti aiuto
perché mi va di farlo, punto. Non ti sentire in debito. Non con me, almeno. Tutt’al più, se te la senti, prova a fare lo stesso con qualcun altro, la
prossima volta.
Chiamatela “rivoluzione del centimetro quadrato”, se vi va. Cercate di
ricordarvi che c’è sempre un pezzettino di realtà che dipende solo da
noi. Continuate, continuiamo, a pensare di cambiare il nostro Paese,
l’Europa, l’Occidente e persino il mondo intero, ma nel frattempo cambiamo quel po’ di vita che ci scorre accanto.
Ehilà, sorelle ex marionette e fratelli ex burattini. Ehilà, protagonisti. Ehilà,
ribelli.
Federico Zamboni
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LA VOCE DEL RIBELLE
FOCUS
Conto
alla rovescia
L
Globalizzazione, esaurimento energetico, poche
alternative, mistificazioni, perdita della sovranità
monetaria e problemi ambientali: il mondo (e
l’Italia) è in ginocchio. Appunti per non farsi
incantare. E per non credere in false aspettative.
di Valerio Lo Monaco
a fede non è cieca. È visionaria. Soprattutto in questo
momento. E avere “fiducia” in un sistema che crolla, una
Italia fallita e nessuna possibilità di ripresa, più che un
atto di fede è ormai pratica disperata.Tolti i temi religiosi,
considerato che in questo caso vogliamo parlare di
cose tutt'altro che spirituali, è il caso pertanto di eliminare le credenze
di qualsiasi tipo e attenersi ai fatti. Con due premesse, anzi tre.
La prima: eliminare i dogmi significa fare tabula rasa di quanti sino a
ieri lodavano il mondo nel quale vivevamo e, dopo averci condotto al
disastro attuale senza abbozzare la benché minima esegesi o critica,
pretendono oggi di essere ascoltati ancora.
La seconda: ciò che ci apprestiamo a fare è la realizzazione di un
mosaico composto da alcuni punti chiave sui quali riflettere; sui quali
lasciamo a chi legge l'onere di trarre conclusioni. Con un suggerimento: razionalità.
E ora la terza e ultima premessa: cerchiamo di arrivare a capire la
situazione attuale per quella che è e soprattutto a pensare al futuro
per quello che verosimilmente potrebbe essere. Non per quello che
vorremmo o ci auguriamo che sarà.
Va da sé che la cosa implichi realismo assoluto. Ebbene, è - o dovrebbe - essere chiaro ormai a tutti che siamo arrivati al countdown finale. Qualcuno, sappiamo per certo, bollerà quanto andiamo a scrivere
come pessimismo cosmico e disfattismo. Non ci interessa. Siamo convinti di fare unicamente opera di puro - e salutare - realismo. Che è
quello che serve, a meno di non pendere dalla labbra di personaggi
come l'attuale Presidente del Consiglio, che a fronte della situazione
intima agli italiani di lavorare di più e di avere fiducia nella ripresa dell'economia. Su quali basi non è dato sapere. Per chi si sottrae alla confusione mediatica, invece, è fin troppo facile mettere a fuoco i motivi
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per i quali avere fiducia nella ripresa del nostro modello di
sviluppo ormai in crisi è non solo un atto, appunto, visionario,ma anche colpevole.Colpevole della propria sorte e di
quella degli altri, in primo luogo dei nostri figli e nipoti. Così
come è colpevole il silenzio di chi, venuto a conoscenza di
dati tanto allarmanti quanto incontrovertibili, si ostina a
non diffonderli. E dunque a mantenere la gente nell'ignoranza più totale.
Beninteso, La Voce del Ribelle è contro il nostro sistema di
sviluppo in sé. Arrivati al punto in cui siamo non ci si può
però esimere dall'entrare nel dettaglio pratico dei motivi
per il quale sta crollando.E dei motivi per il quale non risorgerà. Globalizzazione, finaziarizzazione, tessuto industriale,
perdita della sovranità monetaria, petrolio ed energie,
ecosistema. Tutti ambiti collegati strettamente al fattore
C’è l’economia, al centro del nostro
modello di sviluppo. E per capirne
il tracollo dobbiamo scrutare nei suoi
meccanismi. Come se si trattasse della
scatola nera di un aereo precipitato.
economico, come è inevitabile che sia, visto che al centro
del nostro sistema di sviluppo, ormai in fase terminale, c’è
proprio l’economia. Ed è al suo interno che si deve scrutare, come nella scatola nera di un aereo precipitato, per
cercare di capire le cause che hanno portato allo stato
attuale. Soprattutto per capire cosa non è lecito aspettarsi - ovvero in cosa è lecito non avere fiducia - al fine di
prendere davvero coscienza della situazione. Centriamo il
tutto sull'Italia, anche se tutti i temi, strettamente collegati
tra loro, fanno parte ormai di una problematica mondiale.
Un sistema auto-divorante
Cosa che ci introduce subito al primo tassello del mosaico. Ovvero la globalizzazione. Partiamo da oggi e andiamo rapidamente a ritroso: oggi dobbiamo consumare per
poter lavorare. Una volta era il contrario: si lavorava per
poter consumare, ovvero per vivere. Non solo: oggi lavoriamo anche per coprire dei debiti di varia natura. La voracità del mercato e della natura intrinseca del sistema stesso ci ha imposto di consumare sempre di più, anche oltre
le nostre possibilità. E dunque ricorrendo ai debiti, che
sono principalmente di due ordini: economici ed ecologici, o meglio, ecocompatibili.
Nella fase attuale ci troviamo nella situazione di chi ha
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LA VOCE DEL RIBELLE
speso molto più di quanto ha guadagnato e ha contratto
talmente tanti debiti da non poter spendere nulla di più e
anzi, da essere costretto a lavorare come uno schiavo solo
per fare fronte ai debiti da saldare. E il conto è salato.Tanto
salato da rendere impossibile che si arrivi ad estinguerlo.
Non solo: la natura stessa di questo meccanismo, ovvero
della ricerca del massimo profitto delle aziende, che si
sono preoccupate solo di produrre al minor costo possibile, ha innescato, dalla rivoluzione industriale in poi, una
lunghissima serie di reazioni a catena e di effetti collaterali che hanno precipitato la situazione mondiale in una
selva di errori, alcuni dei quali irreparabili. Questi non
hanno fatto altro che spingere il sistema stesso al collasso
al quale ci stiamo rapidamente avvicinando. Ne sono
testimonianza, tra le altre cose, i crescenti scontri civili in
varie parti del mondo.
Troppi nodi sono venuti al pettine. Tutti riconducibili a un
unico, madornale errore: sviluppo infinito in uno spazio finito. È irritante, quasi inconcepibile, pensare a come tutto il
nostro modello di sviluppo si fondi sulla responsabilità di
chi ha basato i propri calcoli (e la sedicente "scienza"
economica) su questo errore e ci ha portato allo stato
attuale per non aver compreso (o peggio, tenuto nascosto) un assunto da prima elementare: dato uno spazio finito quanto potrà crescere al suo interno un contenuto?
Ancora di più è incredibile come si sia potuto nascondere
a miliardi di persone una verità tanto elementare.
Naturalmente parliamo delle persone che vivono all'interno di questo modello, non già di chi lo subisce sotto forma
di guerre e sfruttamento. Soprattutto, è incredibile come
una quantità così piccola di persone abbia potuto sprofondare il mondo intero in questo stato. E come tutti si
siano fatti docilmente conquistare e ridurre in schiavitù
senza ribellarsi. Comprati - letteralmente - da promesse
fasulle su un futuro impossibile, elettrodomestici a basso
costo e mignotte da teleschermo.
Non è un caso che chi invece aveva colto l'assurdo del
nostro modello sia stato messo a tacere attraverso l’oblio
e l’ostracismo. Che si tratti di intellettuali, politici, scienziati
o saggisti, chiunque abbia tentato di far capire l'errore di
fondo è stato silenziato per non disturbare i gruppi di potere, i manovratori dei fili, nel raggiungimento del loro intento.Mediante la commistione dei poteri economico-politico
e mediatico si è riusciti a sabotare, quasi del tutto, qualsiasi pensiero non conforme. Entrare in possesso, ovvero
avere accesso a dati scientifici e prodotti intellettuali fuori
dalla logica attuale, pertanto, è stato ed è compito non
facile. Preclusi ai più, questi testi fortunatamente filtrano in
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piccola parte attraverso saggisti, intellettuali, giornalisti ed editori
indipendenti - nel senso letterale del termine - e coraggiosi. E
attraverso la "luce" che ogni tanto si accende nella mente delle
persone.Sopra a tutto,e in particolare oggi,l'esigenza di accedere a tali dati per confermare le proprie intuizioni in seguito agli
effetti che viviamo della caduta dell'industrialismo e dell'economicismo,apre nuove possibilità di conoscenza.Che devono essere perseguite.
La crisi attuale è esplosa per una congerie di motivi tra loro collegati, e tutti riconducibili all'errore primigenio. Sopra a tutti
l'esplosione (dagli effetti non ancora manifestati del tutto) dell'ultimo stadio di questo diabolico dogma, ovvero la finaziarizzazione. Il tentativo di creare ricchezza dal nulla - letterale - e di moltiplicarla esponenzialmente senza considerare gli effetti reali di
una speculazione avvenuta su binari virtuali. Ovvero falsi, inesistenti, puro esercizio grafico su fogli di carta. Dai reali, questo sì,
effetti devastanti sull'economia e la vita vissuta.
Su quest'ultimo punto non è il caso di tornare sopra. A meno di
essere totalmente incoscienti si ha oggi una percezione più che
nitida dello stato delle cose. Ciò che si fatica ancora a vedere e
a mettere in prospettiva, sono invece altri fenomeni collegati, i
quali sono poi quelli che dovrebbero indurre a capire perché il
richiamo alla fiducia nella ripresa di questo sistema dovrebbe
essere considerato come un crimine contro l'umanità. Il nostro
sistema si basa sullo sfruttamento. Di risorse umane e naturali. E
produce dei "rifiuti". Umani e naturali. I quali sono arrivati oggi a
dei punti di non ritorno.
Energia? Esaurita
È iniziato il conto alla rovescia riguardo l'energia. Il petrolio, materia prima che ha permesso l'espansione del capitalismo industriale, sta finendo. Malgrado le poche scoperte annuali di nuovi
giacimenti, e malgrado le guerre di conquista dei territori che ne
contengono in maggiore misura, la curva di produttività sta rapidamente scemando. Stiamo raggiungendo, peraltro, la curva di
rendimento. In parole molto semplici: tra poco per ogni barile di
petrolio estratto dovremo impiegarne un altro per estrarlo.
Mentre è facilmente comprensibile - o dovrebbe esserlo - capire
cosa questo comporti a livello globale, altrettanto non si può dire
di chi si ostina a credere a fonti di energia alternative. Qualcuno
ipotizza di iniziare a depredare nuovi giacimenti di carbone.
Qualcuno sostiene il nucleare. Qualcuno addirittura l'idrogeno.
Partiamo da quest'ultimo. Prima mistificazione: l'idrogeno è una
fonte di energia. Sbagliato. L'idrogeno è un vettore di energia. È
un elemento che non esiste allo stato naturale. Per procurasi
l'idrogeno si deve ricorrere ad altre fonti di energia. Vero è che
una volta bruciato (calore o conversione energetica) si produce
come scoria solo innocuo vapore acqueo, ma il problema è a
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LA VOCE DEL RIBELLE
monte: per estrarlo e lavorarlo si devono usare processi chimici
ed elettrolisi. E dunque elettricità. E siamo da capo. L'energia
necessaria per produrlo è superiore a quella che si ottiene a processo finito.
Rispetto alle energie alternative è in corso una seconda farsa:
non si tratta di alternative ma di derivative. Senza considerare il
punto cruciale ulteriore, che ci porta dritti e rapidamente a un
altro aspetto. Le scorie, i rifiuti.
È iniziato il conto alla rovescia per il nostro pianeta. E sempre per
effetto del vizio originario. Le scorie che produciamo non si eliminano, ma si accumulano. I materiali che estraiamo e i sistemi con
i quali deprediamo il pianeta non sono infiniti.Stanno finendo.Ma
mentre per il secondo punto le conseguenze non sono ancora
arrivate al punto zero, per il primo abbiamo già compromesso
molto di ciò che avevano a disposizione. Ciò che bruciamo finisce nell'atmosfera, nei nostri polmoni, nel cibo che mangiamo,
nell'acqua che beviamo, nei mari. L'era dell'automobile è finita.
Solo in un mondo folle si poteva pensare che fosse normale passare due ore al giorno nel traffico per andare al lavoro senza che
questo aspetto avesse un impatto psicologico sulla qualità della
vita e uno fisico sull'inquinamento.
La via d'uscita non è quella di trovare una nuova fonte di energia, con gli inceneritori (solo nel nostro paese, pelosamente, vengono chiamati termovalorizzatori che non valorizzano proprio
nulla,ma semplicemente inceneriscono i rifiuti per volatilizzarli nei
nostri polmoni e nel terreno che coltiviamo e sul quale alleviamo). E non è nemmeno nel nucleare, che è una tecnologia
incompleta, visto che produce scorie dannosissime per le quali
ancora oggi non è stato trovato un sistema di smaltimento sicuro e definitivo oltre al problema dell’uranio, che anch’esso, prima
o poi finirà. Stesso dicasi per altri fonti energetiche che bruciano
qualcosa (carbone, legno...) e che immettono nell’aria altri rifiuti.
L'unica prospettiva realistica pertanto è quella di consumare
meno energia. Ovvero di usare quella che non produce scorie
(sole, vento) ma a patto di tenere bene a mente che questo tipo
di energia non sarà mai sufficiente a mantenere il consumo
attuale. Il che significa averne a disposizione molta meno di quella che abbiamo utilizzato sino a ora depredando la terra, inquinando le nostre vite e modificando il nostro pianeta. Dunque, si
tratterà di cambiare sensibilmente il proprio stile di vita. E di fare i
conti con chi, pur di non modificarlo, continuerà a uccidere la
terra e il futuro dei propri figli.
“Tessuto industriale”. Per cosa?
È iniziato il conto alla rovescia, peraltro, del tessuto industriale,
soprattutto di quello invischiato nel gioco globale. E non solo per
i motivi energetici che abbiamo visto. Ma anche per altri due
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motivi: da una parte il fatto che la merce ha saturato le
umane possibilità di accumulo e acquisto; dall'altra parte
per il fatto che il nostro Paese, perdendo posti di lavoro in
seguito alla delocalizzazione delle aziende verso mercati
con un costo del lavoro più basso e nessuna regola contrattuale, non è più in grado di consumare, né di fare debiti per continuare a farlo.
L'errore delle aziende è stato proprio quello di non comprendere che la delocalizzazione ha permesso sì a loro di
ridurre i costi e massimizzare i profitti sul breve termine, ma
allo stesso tempo ha ridotto le possibilità di acquisto
(ovvero il denaro che i lavoratori erano in grado di spendere dopo averlo guadagnato) di chi poi avrebbe dovu-
Con una popolazione impoverita, fiaccata da precariato e disoccupazione,
schiacciata dai debiti già contratti e
senza possibilità di farne altri, come si
può sperare in una ripresa industriale?
to comperare. Produrre altrove e ridurre la forza lavoro in
Italia ha contribuito a bloccare il circuito, falcidiando la
capacità di acquisto proprio nello stesso luogo in cui la
merce prodotta altrove tornava per essere venduta. Senza
considerare la provenienza indiscriminata di altri prodotti
da parte di altri Paesi (vedi la Cina), a costo ancora più
basso. Con lo sfruttamento assoluto del presente si è finito
col bruciare tutto il futuro possibile.
Ora, realisticamente, con una popolazione impoverita,
fiaccata dal precariato e dalla disoccupazione, con debiti economici già contratti e dunque nessuna possibilità di
acquisto, come è possibile sperare in una ripresa del tessuto industriale? Chi comprerà cosa? E con quali soldi?
Stato italiano: economicamente fallito.
È iniziato il conto alla rovescia per lo Stato italiano nel suo
insieme. E la causa principale ha la data di un evento preciso: quello della perdita della sovranità monetaria.
Aspetto economico e politico al tempo stesso.
Molti ancora non si rendono conto di questo meccanismo. Il che non è strano, considerata la difficoltà dell'argomento. Lo approfondiremo in altra circostanza, ma ora in
un periodo o due cerchiamo di impostare il tema.
Logica vorrebbe che uno Stato sovrano fosse padrone
della propria moneta. Cioè che i cittadini italiani stessi fossero padroni della propria moneta. Ovvero che un istituto
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LA VOCE DEL RIBELLE
statale preposto alla cosa stampasse moneta secondo le
esigenze interne e, soprattutto, in base a un controvalore
certo. La Banca d'Italia, in teoria, dovrebbe essere questo
organismo. E molti ancora oggi credono che sia così.
Accade invece una cosa assurda: la Banca d'Italia non è
un organismo statale, ovvero degli italiani. La Banca
d'Italia è un istituto privato - ovvero posseduto da pochi privati - nella fattispecie una Spa, per giunta controllata da
altre banche anch'esse private (come IntesaSanPaolo,
Unicredit e Capitalia) le quali hanno, come in tutte le
società per azioni, il solo scopo di guadagnare (ancora:
guadagno privato). Dunque di non servire a una funzione
pubblica.
Ancora, e più importante: la moneta attualmente in circolazione nel nostro Paese non è nostra. Ma ci è stata prestata. Da chi? Dalla Banca Centrale Europea.
La cosa è evidente: se il popolo è sovrano - la nostra
Costituzione questo dice... - perché mai dovrebbe essere
costretto a chiedere in prestito la moneta? In prestito si
chiede una cosa che non è propria. Appunto. Inoltre, ed
ecco che il cerchio si chiude, come tutte le cose in prestito, anche la moneta si deve rendere. Con un interesse.
Ergo, la moneta che la Bce - attenzione: banca privata
anch'essa, ovvero posseduta da pochi privati - è stata
"autorizzata" a stampare e far circolare nella Unione uropea e della quale ha monopolio assoluto (ovvero è l'unica moneta accettata legalmente) viene prestata allo
Stato italiano. Il quale la deve rendere con un interesse.
Come avviene la cosa? Lo Stato italiano ha bisogno di
denaro; la Bce lo stampa e glielo conferisce dietro l'emissione di titoli di Stato (praticamente delle cambiali) che lo
Stato italiano si impegna a onorare, ovvero a pagare, con
la maggiorazione di un interesse. A chi? Alla Bce. Ai privati
che posseggono la Bce.
Una volta che i Titoli di Stato arrivano a scadenza, lo Stato
italiano deve onorarli, ovviamente maggiorati dell'interesse. Ebbene, attenzione: gli interessi gravano in misura decisiva sul nostro debito pubblico. Debito pubblico del quale
sentiamo parlare in ogni trasmissione televisiva senza
avere mai spiegazione in merito ai motivi reali della sua
provenienza. E senza che uno straccio di conduttore si premuri, come deontologia professionale vorrebbe, di chiedere al politico di turno di spiegare la cosa.
Riepiloghiamo: un gruppo di soggetti privati è autorizzato
a stampare denaro, lo presta a tutti noi a fronte di un interesse, decide quanto deve darcene e decide a quale
tasso darcelo.
E attenzione: i conti dell'Italia sarebbero a posto. Il bilancio
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primario del nostro Paese, ovvero la differenza tra le entrate tributarie e le spese dello Stato (stipendi dipendenti pubblici, servizi
eccetera) è ampiamente superiore allo zero. Il che significa che
è in attivo, non fosse che per quanto abbiamo detto. Come mai
allora abbiamo uno dei più alti debiti pubblici del mondo? Tirate
voi le somme.
La domanda alla quale rispondere per leggere un po' il futuro è
dunque la seguente: visto che attualmente lo Stato italiano non
riesce a pagare non solo gli interessi, ma neanche gli interessi
sugli interessi, e vista la situazione produttiva del nostro Paese, la
perdita dei posti di lavoro e la impossibile speranza di vederli
ricomparire secondo il sistema di sviluppo precedente alla crisi,
quale possibilità razionale c'è anche solo di ipotizzare il sistema
con il quale pagare tali debiti. E quando? Basteranno i nostri figli?
O i figli dei figli dei nostri figli?
Fiducia in cosa, dunque?
Sapete cosa può - temporaneamente - fare finta di salvarci?
Un'altra bolla. Un'altra speculazione. Un altro spostamento in là
dei nodi attualmente al pettine. Il mercato, i padroni del vapore
faranno di tutto per inventarsela. E i media ufficiali, che ai signori
sono collegati, faranno di tutto per non raccontare le cose come
stanno e per coprire per l'ennesima volta lo stupro sistematico
dei cittadini. Aspettare una nuova bolla - sia pure senza considerare quanto abbiamo detto in merito al petrolio, all'energia e ai
problemi ecologici dietro l'angolo - equivale però a dire che non
si tratta di un salvataggio. Ma di uno spostamento nel tempo
dello schianto. Una dilazione che non farebbe altro che peggiorare la situazione, peraltro. Caricando le generazioni - attenzione:
non quelle che sopravverranno tra qualche secolo, ma già quella attuale e quelle immediatamente successive - del conto che
nel frattempo si sarà gonfiato ancora di più a dismisura.
Cosa aspettarsi? Immaginatelo voi stessi. Con un suggerimento
di metodo, però: seguite la logica e il ragionamento. Pensate a
cosa può accadere, non a cosa vorreste che accadesse. Tanto
meno a cosa ci dicono che accadrà. Insomma, ragionate con la
vostra testa e non fatevi abbindolare dai richiami di politica e
media: esattamente quei richiami che hanno portato (per molti
inconsapevolmente, per altri colpevolmente) allo stato attuale
delle cose. La prossima volta proveremo a ipotizzare il momento
zero. Perché ci aspetta e va pertanto affrontato. Con forza, onore
e dignità. Certo, cambiando sensibilmente le proprie abitudini.
Sul prossimo numero proveremo a ipotizzare qualche azione da
intraprendere - e da subito - per non farci trovare del tutto impreparati nel momento in cui i processi che abbiamo delineato arriveranno a compimento.
Valerio Lo Monaco
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LA VOCE DEL RIBELLE
ANALISI
QuiE quiti tiaiuto.
inchiodo
S
Il Fondo Monetario Internazionale e la
Banca Mondiale sono stati ideati con
gli accordi di Bretton Woods del 1944.
In teoria dovrebbero sostenere i Paesi
in difficoltà. Di fatto, li schiavizzano
di Federico Zamboni
embra un paradosso, ma è quello che accade abitualmente: più un’assemblea è ampia e composita e
più ha bisogno, per poter agire in modo efficace, di
avere al proprio interno una fazione che sia nettamente più forte di tutte le altre. La forma è democratica. La
sostanza è oligarchica. Il dibattito può snodarsi liberamente. Le conclusioni no. Le conclusioni devono arrivare là dove il gruppo dominante desidera che arrivino.
L’esempio più noto è l’Onu. Formalmente le decisioni – e in particolare le cosiddette “risoluzioni” – vengono assunte a suffragio universale. Solo che poi, se serve, scatta il diritto di veto. Riservato, da sempre e per sempre, a cinque soli Paesi: Francia, Inghilterra, Russia,
Cina e Stati Uniti d’America. La distinzione tra membri di prima classe e associati di contorno diventa ancora più palese, però, in quegli organismi, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale, che non avendo natura immediatamente politica, ma
finanziaria, sfuggono al classico principio “una testa, un voto”, adottando invece lo stesso criterio che vige nelle società di capitali: più
quote possiedi, più voti esprimi. Nel caso dell’FMI, istituito così come
la Banca Mondiale nell’ambito degli accordi di Bretton Woods del
luglio 1944, le quote più cospicue sono detenute dai cinque membri permanenti del Consiglio Esecutivo: nell’ordine, Usa (17,09),
Giappone (6,13), Germania (5,99), Regno Unito (4,94) e Francia
(4,94). Quanto al resto, la massima parte è suddivisa fra altri sedici
Paesi, tra cui l’Italia (3,25), mentre il 30 per cento residuo è disperso
tra ben 165 Stati. Sul piano decisionale le conseguenze sono ovvie:
si fa quello che decidono gli Occidentali, Stati Uniti in primis, e gli
altri si adeguano. Come dicevamo all’inizio, più un’assemblea è
ampia e composita... eccetera eccetera.
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Ottime intenzioni, come sempre
Gli scopi dell’FMI sono elencati nell'articolo 1
dell'Accordo Istitutivo1. L’elenco completo comprende
sei punti, ma i passaggi fondamentali si riducono a
quattro: la promozione della cooperazione monetaria
internazionale, lo sviluppo del commercio internazionale, la vigilanza sulla stabilità dei rapporti di cambio,
anche per evitare le svalutazioni competitive, l’aiuto agli
Stati Membri, utilizzando le risorse del Fondo per affrontare eventuali difficoltà della bilancia dei pagamenti.
Tradotto in termini strategici, significa utilizzare il denaro
come leva politica. Da un lato con un’azione a larghissimo raggio: subordinando gli aiuti all’adesione a determinati programmi di sviluppo si diffonde, o si consolida,
il modello economico occidentale, nella consapevolezza che, una volta finiti all’interno della ragnatela commerciale e valutaria, è pressoché impossibile liberarsi.
Dall’altro, con operazioni circoscritte a un certo Paese o
a una certa area: attraverso la concessione o il diniego
dei finanziamenti si rafforzano, oppure si indeboliscono,
i relativi governi.
In questa duplice prospettiva realtà come l’Africa, e più
in generale i cosiddetti Paesi in via di sviluppo (PVS),
assumono un ruolo importantissimo. L’attuale direttore
«In Africa - ha detto il mese scorso il
direttore FMI - la minaccia non è solo
economica. Non si tratta tanto
di proteggere i redditi ma di contenere
i rischi di violenze civili. E di guerra».
del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, lo ha sottolineato il
20 marzo scorso, sia pure come riflessione en passant
all’interno del comunicato con cui ha accolto la decisione dell'Unione Europea di finanziare l’FMI con un prestito di 75 miliardi di euro. «Un grande contributo – si
legge nel documento – al mantenimento della stabilità
dei mercati finanziari e dei capitali che dimostra chiaramente un forte impegno al multilateralismo. [Una scelta
che] costituisce un passo importante verso la stabilizzazione del sistema finanziario globale durante questo
periodo di tensioni senza precedenti. L'impegno servirà
ad aumentare la fiducia che le risorse dell’FMI saranno
sufficienti a soddisfare i bisogni dei suoi Paesi membri –
in particolar modo dei membri dei Paesi emergenti – se
dovessero rivolgersi al Fondo per un sostegno.»
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LA VOCE DEL RIBELLE
Pochi giorni prima, del resto, l’organizzazione aveva promosso un vertice panafricano che si era svolto il 9 e 10
marzo, a Dar es-Salaam, in Tanzania, alla presenza dei
ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche
centrali di 53 Stati. Dopo aver ricordato che «la crescita
mondiale potrebbe essere negativa nel 2009, per la
prima volta da decenni», Strauss-Kahn aveva indicato a
chiare lettere le possibili conseguenze: «La minaccia
non è soltanto economica. C’è il rischio certo che milioni di africani sprofondino nella povertà. Non si tratta soltanto di proteggere la crescita economica o il reddito
delle famiglie, ma di contenere anche la minaccia di
violenze civili, forse anche di una guerra».
Il problema degli aiuti finanziari internazionali, e delle
Secondo una ricerca dell’Economist
Intelligence Unit, nei prossimi due
anni 95 dei 165 Paesi studiati saranno
a “rischio alto o molto alto” di caos
politico e di regimi non democratici.
loro ripercussioni sulla politica interna dei Paesi che si
decide di supportare – o che al contrario si abbandonano al proprio destino, vedi il default che nel 2002 ha travolto l’Argentina2 – è stato rilanciato recentemente, qui
in Italia, da Mario Monti. In un editoriale pubblicato lo
scorso 22 marzo sul Corriere della Sera, sotto il titolo “Gli
Stati disarmati”, l’ex Commissario Ue scrive: «Un pericolo
ancora più grave [degli eccessi della finanza] viene
dalle crescenti diseguaglianze, tra Paesi e all’interno dei
Paesi. Oltre a causare sofferenze umane e sociali, esse
rischiano di scatenare reazioni capaci di far cadere il
mondo nel protezionismo e vari Paesi nel caos politico o
in regimi non democratici. Secondo una ricerca
dell’Economist Intelligence Unit (Manning the barricades: who is at risk), 95 dei 165 Paesi studiati sarebbero a
“rischio alto o molto alto” nei prossimi due anni.»
Siamo alle solite. Il liberismo è grande e l’Occidente è il
suo profeta. L’unica difesa dalla barbarie assolutista, o
tout court dal «caos politico», è nel consueto, inscindibile kit di espansione economica e sociale predisposto
nell’Inghilterra di Adam Smith e così grandiosamente
sviluppato negli Stati Uniti d’America: libertà d’impresa
(e di speculazione, why not?) e democrazia a go-go.
Niente da fare: la teoria resta sempre quella. Solo che
ultimamente, anche se Mario Monti pare non avere nes-
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suna voglia di prenderne atto, le condizioni generali sono cambiate. Da parecchi mesi i mercati finanziari sono in preda all’infezione, o alla metastasi, dei derivati di Borsa. L’Occidente
“cash & carry” boccheggia per la mancanza di liquidità e
prega Dio, o chi per esso, che la recessione non sia troppo
grave e che non duri troppo a lungo. Il suddetto kit di espansione economica e sociale è ancora in circolazione, infiocchettato a puntino dai Ben Bernanke statunitensi e dai
Francesco Giavazzi nostrani. Però, sai com’è, si vende un po’
meno bene che in passato.
Tutti uniti. Anzi, no
«Gli Usa – scrivevano nel settembre 2000 William Bristol, Robert
Kagan, John R. Bolton e gli altri ‘neocon’ autori dell’inquietante
Project for the New American Century3 – sono l’unica super
potenza del mondo, combinando la supremazia del potere
militare, la supremazia tecnologica globale, e la più grande
economia mondiale. Inoltre, l’America è a capo di un sistema
di alleanze che include le altre principali potenze democratiche del mondo. Al momento gli Stati Uniti non hanno rivali sulla
terra.»
Sembra passato un secolo. Gli Stati Uniti di inizio 2009 traballano vistosamente. Sul versante interno sono sballottati dalla crisi
economica innescata dal guazzabuglio dei subprime, che
peraltro ha fatto da detonatore a una situazione che era già
esplosiva di suo per molti e sostanziali motivi, a cominciare dal-
Il mondo di Obama è molto diverso da
quello su cui si affacciò George W. Bush
nel 2000. La Russia è tornata una grande
potenza. La Cina lo è diventata. L’America
Latina ha preso le distanze da Washington.
l’eccessivo ricorso al credito bancario per sostenere le vendite
dei beni di consumo. Sul versante estero devono riposizionarsi
in maniera più accorta e credibile dopo gli otto, deliranti anni
del doppio mandato di George W. Bush alla Casa Bianca:
impresa che già sarebbe impegnativa di per se stessa – vista
l’arroganza dell’ex presidente e la successione di fallimenti
militari e diplomatici che ha contraddistinto le sue ricorrenti
crociate contro «l’asse del male» – ma che è resa ancora più
difficoltosa dai cambiamenti sopravvenuti sulla scena mondiale, dalla resurrezione politica della Russia al consolidamento
economico della Cina e allo slancio bolivariano dell’America
Latina.
In questa situazione di indebolimento degli Stati Uniti, e di rifles-
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LA VOCE DEL RIBELLE
so dell’Europa, gli organismi internazionali a leadership occidentale perdono di compattezza all’interno e di autorevolezza
all’esterno. Nel caso dell’FMI, inoltre, si aggiungono le conseguenze negative della crisi internazionale. Sull’arco di pochi
L'FMI avrebbe tutto l'interesse a sfruttare
la situazione per dare nuovo impulso alle
proprie strategie di asservimento, correndo
in soccorso dei Paesi più danneggiati dalla
crisi. Ma ci sono almeno tre ostacoli.
mesi le sue prospettive sono profondamente cambiate, ma
non certo in meglio. Ancora nel luglio 2008 un esperto come
Giorgio Gomel4 poteva scrivere che «oggi l’FMI è una istituzione in forte crisi di identità, e nel mezzo di una transizione resa
più difficoltosa dai problemi prodotti, paradossalmente, dalle
favorevoli condizioni che hanno caratterizzato l’economia
mondiale negli ultimi anni. La domanda di credito da parte dei
tradizionali "clienti" del Fondo è quasi scomparsa (in valore
assoluto, lo stock di prestiti dell’FMI è sceso sotto i livelli dei
primi anni ottanta). Poiché il reddito netto del Fondo monetario
dipende dai prestiti, è venuta meno la principale fonte di
copertura delle spese. D’altro lato, molti paesi emergenti
hanno teso ad accumulare ingenti riserve, anche riflettendo
l’obiettivo di svincolarsi dalla tutela finanziaria dell’FMI. Oggi
tali riserve superano di oltre dieci volte la dimensione finanziaria del Fondo; non sono mancate proposte, soprattutto da
parte dei paesi asiatici, di utilizzarne una parte per istituire
nuovi "fondi monetari regionali"».
E adesso? Adesso l’FMI, così come la Banca Mondiale, è preso
in mezzo tra ciò che vorrebbe fare e quello che può fare effettivamente. La crisi internazionale richiede che si sostengano
quanti più Paesi è possibile, per evitare che il crollo dei singoli
inneschi il temutissimo "effetto domino". Inoltre, l'FMI avrebbe
tutto l'interesse a sfruttare la situazione per dare nuovo impulso
alle proprie strategie di asservimento, correndo in soccorso dei
Paesi maggiormente danneggiati dalla crisi. Sulla sua strada,
però, ci sono almeno tre ostacoli: il primo è squisitamente
finanziario e rinvia alla carenza di liquidità che ha investito le
economie occidentali; il secondo è diciamo così ideologico, e
ruota intorno alla perdita di attrattiva, se non proprio di credibilità, subita dal modello liberista in genere e da quello della
globalizzazione in particolare. Il terzo, infine, è allo stesso tempo
politico e culturale: chi ha voglia, in questo momento di possibili (probabili) rivolgimenti geopolitici, di legarsi a filo doppio a
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un’istituzione che, fin dalla sua progettazione a Bretton Woods,
è stata pensata come un puntello degli interessi statunitensi
nel mondo?
Infatti.Al di là delle apparenze, e delle dichiarazioni di principio
L’altra faccia del credito accordato è un
debito da ripianare. Ovverosia un legame
a lungo termine. Meno si è forti e più ci si
consegna a una sorta di amministrazione
controllata. E guai a chi sgarra.
che tendono a far passare i prestiti come una sorta di manifestazione di solidarietà, la vera funzione del Fmi e della Banca
Mondiale non è affatto attenuare le disuguaglianze tra i vari
Paesi, ma incasellare un numero sempre maggiore di popoli
all’interno degli schemi economico-finanziari occidentali: l’altra faccia del credito accordato – cosa ovvia ma spesso
dimenticata – è un debito da ripianare. Ovverosia un legame.
Una volta ricevuti i finanziamenti non solo li si dovrà restituire,
coi relativi interessi, ma ci si dovrà attenere a precise regole di
comportamento. In maniera dapprima implicita, ma sempre
più esplicita e persino pressante nel caso in cui si deroghi a
certi standard di condotta economica, ci si consegna a una
sorta di amministrazione controllata. Che verrà esercitata non
solo dal soggetto che ha effettivamente erogato il denaro (o
meglio: accordato le aperture di credito), ma anche dalle altre
istituzioni che “vegliano” sul sistema, ivi incluse società private
come le agenzie di rating: esprimendo giudizi sull’operato dei
governi che hanno ricevuto i prestiti, si farà in modo da sconsigliare qualsiasi forma di autonomia sostanziale.
Il debito finanziario come vincolo politico.Tu chiedi, o supplichi,
e loro concedono. E poi non te ne liberi più.
Federico Zamboni
note:
1 - Il documento, in inglese, si può consultare sul sito dell’FMI, imf.org
(Statutes and Decisions).
2 - Per tutti gli anni Novanta l’Argentina aveva perseguito politiche iperliberiste, arrivando a stabilire la parità fissa tra peso e dollaro. A dicembre 2001 sprofondò nel default a causa della mancata concessione,
da parte dell’FMI, di un ennesimo prestito.
3 - L’originale è sul sito newamericancentury.org. Una traduzione in italiano è disponibile su clarissa.it
4 - Giorgio Gomel, attualmente direttore del Servizio Studi e Relazioni
Internazionali di BankItalia, ha lavorato per l’FMI dal 1982 al 1984.
22
LA VOCE DEL RIBELLE
PROSPETTIVA
Global
commons
Ammesso che al G-20 si arrivi a una visione
incondizionata e globale, e (per ora) al di là
di giudizi di merito sulla cosa, il dubbio più
profondo è un altro: chi riuscirà a far rispettare
gli accordi a livello globale? E come?
L’
di Giuseppe Pennisi
integrazione economica internazionale è fenomeno
che ci tocca tutti da vicino. Alla fine degli Anni 80
una Ford Escort montata negli impianti di Halewood
in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica
Federale Tedesca conteneva parti prodotte nel
Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca,
Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti,
Canada e Francia; alla fine degli Anni 90, un'automobile ad essa
analoga conteneva in misura crescente parti prodotte nei Paesi di
nuova industrializzazione dell'Estremo Oriente e del Bacino del
Pacifico e nei Paesi in transizione dell'Europa Centrale ed Orientale.
Già venti anni fà, inoltre, una multinazionale del settore petrolifero
come la Exxon aveva un fatturato annuo che superava il p.i.l. di Paesi
europei come la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Grecia, l'Ungheria,
l'Islanda, l'Irlanda, il Lussemburgo, la Norvegia, la Polonia, il Portogallo,
la Romania, la Turchia e la Jugoslavia, nonché di numerosissimi Paesi
dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina. Da allora sono passati
quasi quattro
lustri: nel mondo ci sono 200 milioni di lavoratori
“migranti” (in quanto nati in uno Stato differente da quello in cui lavorano) e circa 35 milioni di “profughi” (autorizzati, ufficialmente, a soggiornare e lavorare in Stati differenti di quelli di cui sono cittadini per
ragioni politiche od in seguito a catastrofi naturali).
La letteratura sul’integrazione economica internazionale è sterminata. Soprattutto adesso che la crisi finanziaria ed economica sta innescando rigurgiti di protezionismo ed un forte intervento pubblico nell’economia pure di società (come quella degli Stati Uniti) tradizionalmente molto radicata nel libero mercato.
L’integrazione economica internazionale è stata sviscerata tramite
una saggistica molto vasta: solamente nel 1990 (quando il termine
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“globalizzazione”, un brutto neologismo allora coniato da
pochi anni), cominciava a circolare pure sulla stampa
quotidiana d’informazione, oltre 10.000 acquisizioni di
nuovi libri da parte della biblioteca dell’Università di
Harvard lo avevano nel loro titolo.
Accanto all’integrazione dei mercati intesa in senso
stretto (in quanto integrazione della finanza, delle merci
e dei servizi, nonché del diritto di stabilimento delle
imprese e della circolazione delle persone), si stanno
sviluppando nuovi fenomeni che, sotto molti punti di
vista, rappresentano una sfida sia agli Stati sia alle
organizzazioni ed istituzioni finanziarie più di quanto non
lo faccia l’integrazione dei mercati. Si tratta di fenomeni
che oltrepassano sia i confini che, tradizionalmente,
determinano le competenze d’influenza degli Stati sia le
materie su cui possono incidere le organizzazioni internazionali. Sono fenomeni relativamente nuovi (a livello
internazionale), quali i “global commons”, i beni pubblici globali (sotto il profilo economico) per la difesa dell’ambiente e per la tutela da pandemie infettive. Sono
tali, insisto, “dal punto di vista economico” poiché “indivisibili” e “non-rivali” (nel lessico dei corsi d’introduzione
alla politica economica - la fruizione da parte di uno di
noi non impedisce a nessun altro di fruirne). Non sono,
però, necessariamente “beni pubblici” dal punto di vista
giuridico dei singoli Stati (che a volte tentano, raramente con successo, di regolamentarli, e di vigilare su di
essi) e non lo sono neanche da parte delle organizzazioni ed istituzioni internazionali (che, anche esse, provano, senza grandi esiti, a governarli).
In effetti, sono proprio i campi in cui sia gli Stati sia gli
organismi internazionali annoverano maggiori insuccessi. Si pensi, ad esempio, al G8 ospitato dall’Italia a
Genova nel 2001: la sua agenda riguardava essenzialmente i “global commons” (l’adesione al trattato di Kyoto
del 1997, il dilagare dell’Aids a macchia d’olio in Africa e
non solo) ma (non solamente a ragione dei disordini di
piazza) si finì a mere dichiarazioni d’intenzioni di buona
volontà ed all’impegno di stanziamenti di somme a favore di organizzazioni internazionali – quali l’Organizzazione
Mondiale per la Sanità – nell’illusione che sarebbero riuscite ad incidere.
Un paio d’anni fa hanno affrontato il tema due studiosi
italiani molto differenti: Giampaolo Crepaldi (Segretario
del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e
Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Dottrina
sociale della Chiesa) e Maria Rosaria Ferrarese (ordinario di sociologia del diritto a Cagliari). Giampaolo
24
LA VOCE DEL RIBELLE
Crepaldi esamina la globalizzazione alla luce della
Dottrina della Chiesa, in particolare dei pronunciamenti
più recenti di Papa Woytila e di Papa Ratzinger.
Sottolinea l’esigenza del rule of law (e su questo punto
converge con le tesi di Maria Rosaria Ferrarese), ma
pone l’accento come tale rule of law (ed in senso più
ampio la democrazia che dovrebbe essere frutto della
globalizzazione) sia “anche e soprattutto tutela e sviluppo della persona”. Maria Rosaria Ferrarese analizza invece la transizione da un rule of law essenzialmente statuale ad un diritto “sconfinato” di cui il diritto transazionale ed il diritto sopranazionale sono le maggiori incarnazioni: un rule of law “che diventa un’ape instancabile sempre in movimento che cerca di nutrirsi proprio di
elementi diversi e che vive di contatti numerosi e variabili anche con altri mondi”.
Preoccupate e preoccupanti le conclusioni a cui arriva
Crepaldi. Dimostrata la centralità del criterio di inclusività per le concezioni di persona e di democrazie nate in
Occidente, si domanda se “l’Occidente riuscirà ad offrire” al resto del mondo “una visione incondizionata della
persona su cui costruire una democrazia come strumento per la tutela e la promozione dell’uomo” nella convinzione che “l’Occidente senza il Cristianesimo non riesce
ad essere sé stesso e a dare il proprio contributo sostanziale – che non è né tecnico né economico- alla globalizzaione”. Meno preoccupata e meno preoccupante la
visione laica, ma non laicista, di Maria Rosaria Ferrarese:
L’ape del nuovo “diritto sconfinato” della globalizzazione
vive di pendoralismo tra grande e piccolo e tra culture
differenti per vedere la verità umana contemporanea
nelle sue sfaccettatture di contraddizioni ed illusioni.
Resta, però, un dubbio profondo. Non solamente se
l’Occidente riuscirà ad offrire “la visione incondizionata”
di cui parla Crepaldi ma se tale “visione”, unitamente al
“diritto sconfinato” proposto dalla Ferrarese potranno
governare fenomeni globali che per la loro natura intrinseca sfuggono sia agli Stati (ed ai loro confini) sia alle
organizzazioni ed istituzioni internazionali (ed alle loro
procedure e prassi basate, anche esse sulle regole degli
Stati).
Giuseppe Pennisi
Professore emerito alla Scuola superiore della pubblica
amministrazione, insegna economia internazionale e politica economica internazionale all’Università Europea di
Roma ed all’Università di Malta.
25
WWW.ILRIBELLE.COM
METAPARLAMENTO
Fini
& interessi
Dai e dai ci sono riusciti. Prima la
“svolta” di Fiuggi, adesso la dissoluzione completa con l’ingresso
nel PdL. Eppure, a sentir loro, non
c’è stato nessunissimo tradimento
C
di Alessio Mannino
on la fondazione del Popolo della Libertà non è nato
un nuovo partito. È nata una corporation. L’azionista
padre-padrone è ovviamente lui, Silvio Berlusconi,
che ha dato vita ad una grande impresa con un
grande interesse: il suo. Il Popolo sono gli elettoriconsumatori di marketing politico, unica spinta che anima l’ammucchiata Fi-An più cespuglietti cortigiani (fra cui la nipotissima
Alessandra Mussolini, tutta cognome, pummarola e poltrona). La
Libertà è quella intesa dal Cavaliere, emblema vivente di una democrazia che fa da copertura allo strapotere dell’economia e dei media
di massa: la libertà di vivere per comprarsi il Suv. E di perseguire i propri interessi a qualunque costo. È il “partito degli italiani”, ed è proprio
questo che preoccupa: gl’italiani sono sempre pronti a salire sul carro
del vincitore. E Berlusconi appare oggi come un vincente, capace di
rigenerarsi e dar di sé l’immagine di uomo del cambiamento continuo, di homo novus perenne. In barba ad un quindicennio di politica
romana, a tre governi, a due sconfitte, a contratti televisivi non rispettati, a ribaltoni e bicamerali, a riporti, barzellette e lifting per tentare di
fermare il tempo che avanza inesorabile. E che prima o poi, come succede a tutti gli umani, lo farà scomparire dalla scena.
Momento che ardentemente aspettano i comprimari di Alleanza
Nazionale per coronare il loro sogno: il potere assoluto sull’Italia che
non vota a sinistra (parlare di destra è troppo, farebbe rivoltare nella
tomba Prezzolini, Longanesi e Montanelli; perfino Galli Della Loggia ha
evidenziato la pochezza dell’ultimo brand arcoriano,ancora e sempre
26 - WWW.ILRIBELLE.COM
fermo all’anticomunismo senza più i comunisti1. Al vertice del PdL
Gianfranco Fini fa il socio di minoranza, l’eterno secondo in consiglio di
amministrazione. E, successione o no, tanto gli basta: gregario era e gregario è rimasto. I Gasparri, i La Russa, i Matteoli, gli Urso, gli Alemanno e gli altri
“colonnelli” dell’ex Msi gongolano: ora sono ai piani alti di un partitone di
maggioranza relativa, che aspira al 50% dei voti. Non male, per essere partiti come dirigenti del Fronte della Gioventù, trattati come degli appestati
nella Prima Repubblica dell’arco costituzionale e del “fascisti carogne tornate nelle fogne”.Carrieristi soddisfatti tutti quanti,gli ex gerarchi missini che
ora fanno atto di fede nei “valori” proclamati da Silvio, presidente per acclamazione in un’investitura truffaldinamente chiamata congresso.
E invece non c’è stato nessun congresso. Né valori o ideali, a parte la recitazione dei mantra di facciata (libertà, democrazia, eccetera) dietro cui
imperano venalità, arrivismo sociale, egoismo individualistico e ossessione
cieca per il mercato. E non si venga a dire che An, in fatto di regole di partito e patrimonio ideale, porta una dote migliore rispetto ai fagocitatori forzisti. Gli ideali li hanno dimenticati per il successo, i figliocci di Giorgio
Almirante.Che del resto è stato,più di Bettino Craxi - ricordato da Berlusconi,
giustamente, come suo padrino - il vero precursore di questa sottospecie
snaturata di destra vuota, né liberale né conservatrice, ma solo berluscocentrica. «Io non voglio morire da fascista.Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me.
Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che
creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa
Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro»2: questo diceva,
rigorosamente a taccuino chiuso, il capo carismatico del neofascismo italiano al giornalista Daniele Protti dell’Europeo, nel 1982. Il futuro vagheggiato da Almirante è arrivato. Con la sistematica negazione, in questi ultimi
anni, di qualunque vero confronto congressuale all’interno di An: troppa
strizza, rischiavano imbarazzanti sconfessioni dalla base, Fini e il suo stato
maggiore. Con la costruzione di un pantheon intellettuale di riferimento che
sembra una maionese impazzita, con dentro tutto e il contrario di tutto.
Croce e Gentile, Gramsci e Pareto, Pound e, perché no, anche Popper. Però
Mussolini, il faro di una vita, no: non è più statista del secolo, per il campione di ravvedimenti cronometrati sulla convenienza, l’ex fascista del 2000
Gianfranco. E con il tatticismo esasperato che di tattico non aveva nulla,
visto che non c’era e non c’è neppure adesso una strategia.
Quali sono i punti strategici di un’An incorporata nella Corporation della
Libertà? Chi lo sa. Non lo sa Fini e non lo sa nessuno del management
colonnellesco. Perché non gliene importa niente. Loro badano al sodo: il
potere per il potere. L’interesse per l’interesse. E così si intruppano felici nel
partito-azienda. Il loro motto di un tempo era “non restaurare, non rinnegare”. Hanno rinnegato tutto. E il prezzo dello sdoganamento, dice bene un
cane sciolto un tempo a destra come Franco Cardini, «è già la perdita
d’identità: il totale cedimento a una forza liberista, occidentalista, atlantista,
che ha il suo reale punto di forza nella monopolizzazione della paura di una
società civile che si sente arrivare addosso la prossima crisi mondiale e reagisce solo invocando maggior “sicurezza” e rispolverando le vuote banalità
retoriche del Dio-Patria-Famiglia»3.
27 - WWW.ILRIBELLE.COM
I Fini-boys sono stati bravi: nel manipolare a tal punto la realtà da illudere la
gente di An che quest’evoluzione pilotata e farlocca conservi una sostanziale continuità ideologica con la Fiamma. E ci sono riusciti nel più facile dei
modi: rinviando sempre la verifica delle idee. Il momento della verità non è
venuto e non ci sarà mai più. Nessuno ha potuto chiedere al glaciale
Gianfranco di motivare il salto ideologico fra quanto asseriva vent’anni fa,
allora giovane e “idealista” segretario del Movimento Sociale («Credere profondamente nell’uomo che non vale solo per quello che produce ma per ciò
che è. Sentirsi profondamente radicati nella nostra nazione e nella nostra
Europa. Sentire la necessità di una terza strada tra comunismo e capitalismo»4) e quanto sostiene oggi, per esempio quando boccia leggi perché
puzzano di “Stato etico”, cioè di Stato fascista.
Ha ragione il francese Alain De Benoist, che infatti di destra non è più da un
pezzo perché ha smesso di credere alle destre pataccare e vendute: «Quella
attuale è una destra senz’anima e senza idee, ma dominata dal denaro.
Quelle correnti della destra che in passato guardavano con sospetto il denaro, l’individualismo e il dominio dell’economia sulla politica oggi hanno pienamente accettato questa prospettiva, aderendo in toto al capitalismo e al
mercato. La destra è diventata una coalizione di interessi, che sul piano internazionale fa parte del grande club occidentale contrapposto al resto del
mondo»5.
Il berlusconismo, via italiana all’americanismo politico, ha vinto. E la “destra
nazionale” almirantiana e finiana si è fatta docilmente e interessatamente
inglobare. Grazie soprattutto all’ipocrisia del suo leader, che da Presidente
della Camera fa i predicozzi sul rispetto delle forme democratiche e poi porta
all’eutanasia il suo partito senza uno straccio di democrazia interna né una
parvenza di discussione programmatica.
«Siamo alla comica finale, noi non entreremo mai nel Popolo della
Libertà e Berlusconi non tornerà mai più a Palazzo Chigi con i voti di
Alleanza Nazionale», aveva declamato sprezzante Fini quando il principale annunciò la nascita del PdL sul predellino di una macchina, con
contorno di piazza spontaneamente telecomandata. Di comico, invece,
c’è solo lui. Tragicamente comico. Grottescamente ipocrita.
Berlusconianamente Fini.
Alessio Mannino
note:
1.«Anche un ascolto o una lettura superficiali del discorso di Silvio Berlusconi al Congresso di
fondazione del Popolo della libertà consentono di coglierne immediatamente il cuore ideologico: è l'anticomunismo. Tutto il resto appare solo accennato, sbrigato in poche parole e
comunque affatto generico», E. Galli Della Loggia, Le ombre del passato, Corriere della Sera,
29 marzo 2009.
2.D. Protti, Quando Almirante disse…, L’Europeo, marzo 2009.
3. F. Cardini, L’epilogo occidentale della destra italiana, HYPERLINK "http://www.francocardini.net" www.francocardini.net, 22 marzo 2009
4.G. Fini, L’Europeo, 1988
5.Alain De Benoist, La Repubblica, 24 marzo 2009
28
LA VOCE DEL RIBELLE
PROSPETTIVA
Chávez,
El Pueblo Unido
S
L’Occidente lo considera un megalomane.
Ma la sua “rivoluzione bolivariana” trionfa
in Venezuela. E accende l’America Latina
di Alessia Lai
ono passati dieci anni dall’arrivo di Chávez al potere. La vittoria della enmienda, il referendum con cui
il 15 febbraio scorso sono stati approvati cinque
emendamenti costituzionali che consentono la candidatura indefinita per le cariche elettive designate
con voto popolare, prima fra tutte la presidenza della
Repubblica, ha coinciso con il decennale dell’ascesa del chavismo al potere. La visione non casualmente distorta di questo processo referendario data dai mass media occidentali è stata l’ennesimo segnale di insofferenza di una parte del mondo nei confronti della Rivoluzione bolivariana di cui il presidente venezuelano si fa portatore.
In Italia come in Spagna, in Francia come negli Stati Uniti, la propaganda del grande capitale, quella maggiormente impegnata
nel tentativo di ridicolizzare o abbattere le aspirazioni sociali bolivariane e la conseguente rinascita del ruolo dello Stato contro il
predominio delle corporation economico-finanziarie, ha puntato
il dito contro un referendum fatto passare come l’imposizione di
una carica presidenziale vitalizia.
Nella falsa dialettica di un emisfero autoproclamatosi democratico il messaggio che è stato fatto passare è a senso unico: con il
voto del 15 febbraio Chávez ha legalizzato una dittatura. Eppure,
il referendum non proponeva questo, ma la possibilità di candidatura senza limite di mandati.
E non solo per Chávez, ma per chiunque voglia accedere ad una
carica elettiva con voto diretto. Quello che in occidente non è
stato volutamente sottolineato è che, pur potendosi ripresentare
alle consultazioni, non è detto che gli elettori decidano di scegliere per la continuità di un Chávez, così come per un qualsiasi
deputato o amministratore locale. È solo l’ultimo dei numerosi e
frequenti tentativi del cosiddetto “fronte democratico”, al di qua
e al di là dell’oceano Atlantico, di screditare un potere da dieci
29 - WWW.ILRIBELLE.COM
anni chiaramente e cristallinamente derivato dal volere popolare.
Questa ennesima vittoria alle urne, alla faccia di chi
trova “carenze democratiche” nella presidenza
Chávez, ha dato il via ad una nuova fase della rivoluzione bolivariana: quella dell’implementazione del
“socialismo del XXI secolo” e dell’integrazione, della
creazione del blocco geopolitico latinoamericano.
È infatti una rivoluzione in divenire, quella nel nome di
Simon Bolivar, di cui fa parte, dal 2005, il progetto della
realizzazione di quello che il presidente venezuelano
ha battezzato il “socialismo del XXI secolo”. Parole che
spaventano, in primis, Washington, che nel giro di
pochi anni ha visto sfuggire al suo controllo, uno dopo
l’altro, la maggior parte dei Paesi latinoamericani.
Paesi che proprio sulla spinta del Venezuela stanno
acquisendo una consapevolezza anestetizzata da
anni di “laboratorio neoliberista” applicato con una
spudoratezza tale da permettere di passare sopra a
qualunque diritto umano, politico, sociale, dei popoli
latinoamericani. Quella fase si è conclusa, o si sta
avviando verso la fine, e gran parte del merito risiede
nel vento di cambiamento arrivato da Caracas, passato per Porto Alegre, in Brasile, ed estesosi, in misura
Difficile dimenticare il modo in cui
i media dipingevano i golpe militari
in America Latina, spacciandoli per
l’unica alternativa agli spauracchi
del socialismo o del comunismo.
diversa per adesione e intensità, a tutta l’area centro
e sudamericana. L’ALBA, L’Unasur, il Petrocaribe, il
Mercosur, sono strutture che fanno parte di questa
nuova onda integrazionista latinoamericana partita
dai “barrios” della Caracas bolivariana.
Quelli della presidenza Chávez sono stati dieci anni
difficili, costellati di vittorie elettorali, e quindi democratiche nonostante in molti – anche i socialdemocratici di casa nostra, spaventati dalla divisa di Hugo
Chávez, etichettato come un nuovo caudillo sudamericano – dicessero e dicano il contrario. Anni di cambiamenti ai quali le oligarchie filo imperialiste venezuelane, orfane di una classe dirigente corrotta che
ne garantiva la sopravvivenza a fronte dell’80% della
popolazione in uno stato di miseria assoluta, hanno
30
LA VOCE DEL RIBELLE
risposto di volta in volta con atti violenti che, ormai
fuori tempo e fuori contesto, sono miseramente falliti.
Fuori tempo perché gli anni dei golpe finanziati ed eterodiretti dal dipartimento di Stato Usa erano caratterizzati dalla mancanza di una alternativa d’opposizione
all’informazione ufficiale. Difficile dimenticare come
per decenni i mass media dipingessero la presa del
potere in America Latina da parte di gerarchie militari
corrotte e violente quale unica soluzione necessaria a
tutelare i cittadini dai più o meno presunti fantasmi
socialisti, comunisti, piuttosto che social-cattolici.
Un’attitudine possibile anche grazie alla totale mancanza di consapevolezza da parte delle masse popolari, costrette nella miseria e nell’ignoranza, di poter
L’esercito era formato per il 99,9 per
cento da contadini, operai, uomini dei
ceti medio-bassi. E comprese subito
che genere di cambiamento stesse
apportando Chávez al Venezuela.
essere forza e colonna portante di una Nazione. Un
sentimento e una coscienza che Chávez ha saputo
restituire, prima ai venezuelani e poi, di riflesso, ai
popoli vicini. Sette anni fa, quando le oligarchie capitaliste di Caracas e Maracaibo cercarono di prendere
il potere esautorando con la forza il legittimo presidente, iniziava ad esistere una rete telematica che consentiva, già allora, di accedere ad informazioni altrimenti impossibili da acquisire. Ad essa si unì, in quel
giorni del golpe del 2002, la grande forza del popolo
venezuelano, che aveva assaggiato i primi anni di un
cambiamento percepito soprattutto dalle classi sociali più derelitte e disagiate.
L’esercito, formato per il 99,9% da «contadini, operai,
gente che viene dai ceti medio-bassi», come ha avuto
modo di spiegare lo stesso presidente in una intervista
concessa anni fa a Gianni Minà, percepiva che genere di cambiamento Chávez aveva cominciato a portare nel Paese. Parte di questo mondo con le stellette lo
aveva già appoggiato nell’insurrezione del 1992, nata
sull’onda del cosiddetto “Caracazo” del 1989, quando
migliaia di manifestanti scesi nelle strade per protestare contro il pacchetto di riforme iper liberiste imposto
dal governo di Carlos Andrés Pérez, vennero massa-
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WWW.ILRIBELLE.COM
crati senza pietà. Per il fallimento della rivolta armata da lui
guidata, l’attuale presidente venezuelano scontò due anni di
carcere. Ma allora quel manipolo di militari aveva una forza
limitata, la ribellione non poteva essere stata un golpe, visto
che non erano presenti “alti papaveri” tra le loro fila ma si
trattava di una rivolta armata di gente del popolo in grado,
per il lavoro che svolgeva, di ricorrere alle armi.
Dopo quel fallimento la classe militare ebbe modo di riscattarsi in occasione del golpe, quello vero, attuato contro
La rivoluzione bolivariana cammina ormai
sulle proprie gambe. È un processo lento,
graduale, che deve rigenerare un Paese
rimasto troppo a lungo nelle mani di élites
dedite soltanto al potere e al denaro.
Chávez anche da altri settori delle forze armate, quelli elitari, vicini all’ambasciata Usa di Caracas. Furono i paracadutisti venezuelani a liberare il presidente e a riportarlo a Palacio
Miraflores, appoggiati da imponenti manifestazioni popolari
in favore di Chávez. In pochi giorni il tentativo di destituire
colui che dalla stampa asservita alle oligarchie veniva definito un dittatore (ma democraticamente eletto) era giunto
alla fine, con il fallimento dei golpisti che dalla Casa Bianca
e dalla Moncloa presieduta dal leader del Partido Popular
spagnolo Aznar erano stati immediatamente riconosciuti
come un governo legittimo solo poche ore prima della
disfatta. Fallito il tentativo diretto di allontanare Chávez dal
potere, gli stessi organizzatori del golpe passarono al boicottaggio, attraverso le loro quinte colonne, dell’industria petrolifera nazionale. Volevano mettere in ginocchio il Paese,
erano disposti a mandare in rovina tutto il Venezuela pur di
riprenderne il controllo. Anche allora il progetto è fallì. Come
fallisce la quotidiana, puntuale, diffamazione che da dieci
anni a questa parte i mezzi di comunicazione privati in mano
alle opposizioni fanno del primo mandatario e delle sue iniziative. La rivoluzione bolivariana cammina ormai sulle proprie gambe. È un processo lento, graduale, perché è impossibile cambiare in un batter di ciglia un Paese per anni
ostaggio di élites dedite esclusivamente alla spartizione del
potere e del denaro da esso proveniente.
Chávez ha iniziato con l’istruzione, garantendo a tutti i bambini del Venezuela una scuola completamente gratuita mentre prima non lo era. Si può ben immaginare come, in un
Paese con un tasso di povertà altissimo, fossero molto poche
32
LA VOCE DEL RIBELLE
le famiglie che potevano permettere ai loro figli di conseguire anche la sola istruzione elementare. Questo accadeva
negli anni ’90, pochi anni fa. Oggi i bambini venezuelani frequentano la scuola, dove fanno colazione, pranzano, studiano e fanno attività sportiva. Lo stesso tipo di stravolgimento è
stato riservato al settore sanitario, prima appannaggio esclusivo di chi poteva pagarlo, oggi gratuito e diffuso anche
nelle zone più remote del Paese. Dopo queste misure di intervento “immediato”, successive alla prima elezione di
Chavez, sono arrivate la legge sulla redistribuzione dei latifondi improduttivi e quella sugli idrocarburi, secondo cui
almeno il 51 % delle azioni dell’aziende strategiche del settore, un tempo pubbliche prima delle privatizzazioni selvagge degli anni ’80 e ’90, doveva tornare nelle mani dello Stato.
La borghesia venezuelana non tollerava e non tollera che il
governo Chávez utilizzi il denaro proveniente dalla vendita
del petrolio, per mettere in atto i cambiamenti previsti dalla
rivoluzione bolivariana, cambiamenti tangibili che mirano a
migliorare la qualità della vita di una popolazione fino a
pochi anni fa destinata alla miseria più assoluta nonostante
il paese galleggi su un mare di “oro nero”.
L’indice di povertà è sceso dal 50 al 30 per
cento. Quello di indigenza dal 21,7 al 9,9.
Il 96 per cento dispone di acqua potabile.
L’analfabetismo è un ricordo. Non sono
cifre fornite da Chávez. Sono i dati ONU.
Occorrerebbero molto tempo e molto spazio per raccontare
e spiegare come la rivoluzione bolivariana di Chávez ha
cambiato il Venezuela in questi dieci anni. Non basta, certo,
ma già le sole cifre dei risultati dicono tanto: ha dimezzato la
povertà e la disoccupazione. Ha spostato, seppure in minima
parte visto il potere delle opposizioni che lo gestiscono, il
baricentro di un’informazione mediatica espressione del
“pensiero unico”, dando voce, anche nelle televisioni, a quel
Venezuela mai interpellato dalle classi dirigenti. Secondo il
CEPAL, l’istituto di studi economici delle Nazioni Unite, ha
fatto passare gli indici di povertà dal 50 al 30% e quelli di
indigenza dal 21.7 al 9.9%. È stato costruito da zero o quasi
un sistema di salute pubblica che ha permesso la più grande riduzione al mondo della mortalità infantile. Dal 2005
l’UNESCO ha dichiarato il Venezuela libero dall’analfabetismo; il 96% dei venezuelani ha oramai accesso all’acqua
potabile.
33
WWW.ILRIBELLE.COM
Mentre faceva tutto questo e implementava il “socialismo del
XXI secolo”, tutelando il potere d’acquisto dei cittadini, imponendo prezzi calmierati per i beni di prima necessità, Chávez
subiva attacchi di ogni genere da parte delle opposizioni filo
Il progetto bolivariano - spiegò Chávez
in un’intervista rilasciata a Minà, quando
la sua esperienza presidenziale era ancora
agli inizi - spezza o cerca di spezzare
il giogo del pensiero unico neoliberista.
atlantiche, dal colpo di stato al blocco del settore petrolifero
e delle infrastrutture. E nonostante tutto vinceva, sempre.
Votato e scelto dal suo popolo, che lo ha difeso e ha permesso che Chávez diventasse anche il motore di una integrazione latinoamericana che si sta concretizzando negli ultimi
anni.
La rivoluzione bolivariana, infatti, con il vento di cambiamento portato da Caracas, si fa sentire in tutto il continente. Il suo
nome non è lo stesso in Bolivia, in Ecuador, in Argentina o in
Brasile, ma con sfumature e parole diverse rappresenta un
cambiamento radicale nel continente latinoamericano.
Nell’intervista rilasciata a Gianni Minà agli inizi della sua
esperienza presidenziale, Hugo Chávez spiegò che il progetto bolivariano non poteva essere definito «ortodossamente
socialista», «però non è nemmeno un progetto capitalista.
Spezza o cerca di spezzare il giogo del pensiero unico neoliberista. Certo, siamo solo agli inizi, ma credo che questo
seme azzurro che ho in mano, la nostra Costituzione (approvata nel 1999, ndr,) stia cominciando a germogliare in molti
altri popoli, dove avrà magari colori, radici e caratteristiche
diversi». Questo è accaduto e accade nel continente latinoamericano. Il cambiamento si chiama Lula in Brasile,
Kirchner e Fernandez in Argentina, Correa in Ecuador,
Morales in Bolivia, Ortega in Nicaragua, Lugo in Paraguay, e
di recente, Mauricio Funes nel piccolo El Salvador, che dopo
20 anni di destre reazionarie e filo-Usa ha scelto il Frente
Farabundo Martì di Liberacion Nacional.
Alessia Lai
34
LA VOCE DEL RIBELLE
PROSPETTIVA
“Nunca mas”
Mai più desaparecidos
La crisi economica può spianare la strada
ai governi autoritari. Come quello che
dal 1976 al 1981insanguinò l’Argentina
di Bianca Berardicurti
[…] per questo non ti nascondo che mi hanno dato tante
di quelle scosse elettriche
Che a momenti mi massacravano i reni
Tutte queste piaghe, questi gonfiori e ferite
Che i tuoi occhi rotondi
Guardano ipnotizzati
Sono durissimi colpi
Sono stivali presi in faccia,
troppo dolore perché io te lo nasconda
supplizio troppo grande perché mi si cancelli di dosso.
Ma è anche bene che tu sappia
Che tuo padre è stato zitto
O ha imprecato come un pazzo
Che è un bel modo di stare zitti. […]
Mario Benedetti.
N
on è un caso che proprio nei giorni recenti si
cerchino paralleli nel passato per cercare di
comprendere la situazione attuale. Per avvicinarsi a qualcosa di già successo, dunque di
commensurabile, al fine di trovare risorse
almeno mentali per abbozzare un intervento. E non è un caso che
si torni con la mente alla crisi del '29. Oppure ai fatti recenti di
Islanda. Il che è comprensibile: in un momento di buio e senza
strategie plausibili per tornare a vedere la luce, per orientarsi si
può utilizzare la conoscenza del passato.
Non è dunque esercizio sterile (anzi, al contrario) tornare all'esperienza argentina, paradigma di qualcosa che è difficile sostenere
con certezza che oggi (o domani) non possa più accadere, sebbene in forme anche differenti.
35 - WWW.ILRIBELLE.COM
Nel
1984
La
Commissione
Nazionale
sui
Desaparecidos argentini consegna la propria relazione al Presidente della Repubblica. I dati che emergono da quelle pagine sono scioccanti per un paese
che esce in ginocchio dagli anni che ricorderà come i
più bui della propria storia: le persone scomparse
durante la dittatura militare dal 1976 al 1983 sono
circa trentamila; un milione gli esuli, novemila i prigionieri politici. Circa quindicimila le persone fucilate per
la strada. Un totale infame di vite violentate senza pietà
e una cicatrice indelebile che attraversa tutta
l’Argentina.
Nel 1976, il 24 marzo, Jorge Rafael Videla capeggia il
colpo di stato che apre il Processo di Riorganizzazione
Nazionale
che
governerà
sanguinosamente
l’Argentina per sette lunghissimi anni. Non fu una sorpresa: un colpo di Stato non arriva all’improvviso, e non
è all’improvviso che un paese diventa prigioniero nei
suoi confini.
Il golpe del 1976 fu il tristissimo esito di un lungo processo di assoggettamento del paese al potere militare; frutto di anni di lotta tra le forze della democrazia e
quelle della repressione; tra le forze dei diritti umani e
la loro negazione, tra la trasparenza e l’oscurantismo.
Quelli che precedono il golpe del ‘76
furono anni di “educazione” alla
repressione e alla progressiva perdita
delle libertà, sotto gli occhi di tutti.
Ma troppi fecero finta di non vedere.
Ancora una volta la storia stupisce nel rivelarsi talvolta
semplice e manichea nella sua tragicità, quando gli
eventi vengono ridotti alla loro sostanza. Il golpe non
arrivò senza preavviso, ma fu preceduto da anni di riorganizzazione e di rafforzamento interno del potere militare; anni durante i quali l’intensità di questo potere
oscillò, come oscillarono gli umori sociali dai quali fu
talvolta persino supportato. Quelli che precedono il
golpe del 1976 furono anni di “educazione” alla repressione e alla progressiva perdita delle libertà, sotto gli
occhi di tutti. Milioni di occhi spettatori di questo processo, molti dei quali drammaticamente chiusi, o puntanti dalla parte sbagliata.
Quando nel 1966 il Generale Ongania destituì il presidente Illia, in particolare, gli occhi erano puntati sulla
36
LA VOCE DEL RIBELLE
situazione di crisi che attraversava il paese, sotto molteplici punti di vista. Una sfiducia generalizzata nei confronti di una politica marcia e incapace di reagire con
spirito modernizzatore alla staticità dell’Argentina; l’effettiva debolezza del potere politico rispetto a quello
militare;un forte declino economico e sociale: tutti questi motivi comportarono l’appoggio di parte della
società civile e della maggioranza dei partiti (compresi quelli di sinistra) all’avvento del regime militare,
comunemente avvertito come l’unica speranza per un
intervento deciso ed energico. Naturalmente non tutti
accolsero con plauso il governo militare: ad iniziare da
Cordoba ed espandendosi poi a macchia d’olio per
tutto il paese si susseguirono proteste studentesche e
Quando il nemico del popolo è il
potere sovrano, il potere sovrano deve
indicare un altro nemico, ben visibile.
Il pericolo dei ribelli comunisti diventò
la scusa per le esecuzioni sommarie.
sindacali che si trasformarono con il tempo in un enorme movimento popolare di protesta contro il governo
che nel frattempo aveva intrapreso una politica disastrosa a livello economico, un’azione di fortissima
repressione contro i movimenti sindacali, e che aveva
comportato un blocco completo dello sviluppo scientifico con conseguente e continua fuga all’estero dei
migliori ricercatori. All’interno del movimento popolare
contro il governo si aggrega un’ala più radicale, estrema e armata, formata dai Montoneros, dall’Ejercito
Revolucionario del Pueblo, di stampo trozkista e
Fuerzas Armadas Revolucionarias, convinte dell’impossibilità di recuperare la vera sovranità popolare attraverso il recupero potere politico con mezzi di tipo
democratico e prescindendo dall’uso della forza. Gli
anni successivi si caratterizzeranno per un’azione
abbastanza costante di questi gruppi, di cui solo quello dei Montoneros finirà per spalleggiare il ritorno di
Peròn, e dalla lotta tra questi e il potere politico, favorendo, paradossalmente, la posizione dei militari; quando il nemico del popolo è il potere sovrano, il potere
sovrano deve indicare un altro nemico, ben visibile: la
lotta al pericolo dei ribelli comunisti fu da quel momento il lasciapassare verso l’esecuzione sommaria e irra-
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WWW.ILRIBELLE.COM
gionevole di molti studenti e rappresentanti sindacali, anche
se non coinvolti nella lotta armata, con il placet, o almeno
l’indifferenza, di gran parte della società borghese.
Potrebbe sembrare assurdo a dirsi, ma ancora, in quel
momento, l’Argentina poteva contare su un sistema non completamente marcio, e sullo sbocco in una soluzione democratica: le esecuzioni e le uccisioni erano esemplari, violente,
ingiustificabili, ma avvenivano alla luce del sole. La forza del
regime non era ancora organizzata abbastanza, né abba-
La Storia è fatta anche di questo, di uomini
sbagliati e mentalità criminali in posizioni
chiave della politica: persone che in modo
oscuro e perverso esercitano la propria
influenza sui processi decisionali.
stanza forte ed indiscussa, da perpetrare abusi, omicidi e violenze senza assumerne la responsabilità davanti ai cittadini.
Lo sbocco democratico e il ritorno di Campora, uomo di
Peron, e poi di Peron stesso con il sessantacinque per cento
dei voti, lasciarono sperare in una nuova primavera argentina. Per la prima volta nella storia del peronismo il presidente
era appoggiato da gran parte dei giovani studenti, espressione della classe degli intellettuali; i provvedimenti presi dal
governo Campora fecero pensare a un socialismo avanzato
e moderno. Ma i segnali di pericolo si manifestavano senza
destare il dovuto allarme: l’uccisione di centinaia di giovani
della sinistra peronista al ritorno del presidente, allora esule a
Madrid, all’aereoporto di Ezeiza, l’atteggiamento ambiguo e
debole del terzo mandato Peron, che si schiera talvolta persino contro i giovani della sinistra e contro i “Montoneros imberbes”, come li chiamò al suo ritorno in Argentina; le notizie di
riorganizzazione delle forze militari. E l’elezione di Lopez Rega
al ministero del “bienestar social”: perché la Storia è fatta
anche di questo, di uomini sbagliati e mentalità criminali in
posizioni chiave della politica; di persone che esercitano la
propria influenza in modo oscuro e perverso sui processi decisionali.
Lopez Rega, detto “el brujo” (lo stregone) ex poliziotto, massone, esperto di esoterismo, rappresenta l’anello di congiunzione tra la fine della dittatura di Ongania, la breve parentesi
democratica, e la definitiva rovina con il Golpe di Videla. È
Lopez Rega che governa dietro la facciata di Isabelita Peron,
succeduta al marito dopo la sua morte; lui a prendere misure economiche sbagliate e conservatrici, aumentando verti-
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LA VOCE DEL RIBELLE
ginosamente l’inflazione e svalutando la moneta. Lopez Rega
fu il creatore della “triple A” , l’alleanza anticomunista argentina, che già dal ritorno di Peron, sporadicamente e durante il
governo della debole e soggiogata Isabelita, con molta più
costanza, si macchiò di numerosi omicidi e sparizioni.
In questo contesto di confusione, insicurezza e instabilità, di
guerriglie urbane e proteste, nonché di forte disagio economico, fu facile per il potere militare, nel frattempo ricompattatosi, tornare a profilarsi all’orizzonte come figura salvifica.
E invece di salvarlo, il Paese, con il pugno di ferro e la mano
forte, il governo militare lo schiaffeggiò fino a lasciarlo esanime, devastandone l’economia con provvedimenti illiberali e
irragionevoli, portando l’inflazione a livelli mai toccati prima
in Argentina. Ma soprattutto reprimendo con inaudita violenza qualunque forma anche non minacciosa o non violenta di
dissenso contro la dittatura: «prima uccideremo tutti i sovversivi, poi uccideremo i loro collaboratori, dopo i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti ed
infine i timidi», dichiara il Generale Iberico Saint Jean, governatore di Buenos Aires.
La dittatura militare e il suo braccio esecutivo portato a spas-
Anche questa vicenda si inserisce
in una fase storica in cui il Sudamerica
era il Medio Oriente delle grandi potenze.
Un bacino di risorse umane ed economiche
manovrate e sfruttate dai soliti noti.
so sulle ormai famigerate Ford Falcon, torturarono, uccisero e
fecero scomparire migliaia di persone, con macabra fantasia, passando per le scosse elettriche, per gli stupri collettivi
di donne davanti ai loro genitori, compagni o figli, fino ad arrivare ai famosi “vuelos de la muerte” durante i quali i prigionieri venivano gettati in mare o nel Rio, i più fortunati sotto l’effetto di sostanze soporifere.
Questa fantasia, tuttavia, come più in generale la politica dittatoriale, non fu opera di un gruppo isolato di menti criminali che agivano per scopi e su piani meramente personali:
anche questa vicenda si inserisce in una fase storica in cui il
Sudamerica era il Medio Oriente delle grandi potenze, un
bacino di risorse umane ed economiche manovrate e sfruttate dai soliti noti, di cui tutt’oggi subiamo gli umori spesso
senza batter ciglio.
La vicenda dell’Argentina e lo stupro della sua democrazia
costituiscono una pagina buia e cruenta del Novecento occi-
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WWW.ILRIBELLE.COM
dentale, di cui non si parla e non si è parlato mai a sufficienza. Ma l’esercizio della memoria senza una critica è spesso
sterile, e finisce per tornare in sé; è per capire, che si deve
ricordare. Per capire che la dittatura non raggiunge mai i suoi
Le libertà non vengono sottratte tutte
insieme, ed è da quelle che sembrano
superflue che il potere comincia.
Dalle libertà quotidiane che sembrano
insignificanti. Che non destano allarme.
tristi apici senza un lungo processo di educazione di un
popolo alla sottomissione e di diseducazione alla schiena
dritta; che le libertà non vengono sottratte tutte insieme, ed è
da quelle che sembrano superflue, che il potere comincia a
lavorare. Dalle libertà quotidiane, apparentemente insignificanti, che non destano allarme.
Per capire che la ribellione deve essere vigile attenta e
costante, perché possa zampillare ogni volta che una parte
sottile dei nostri diritti ci viene negata o anche solo quando
si tenta di farlo.
Perché la ribellione deve essere uno stato mentale e sociale,
senza di che, purtroppo come spesso accade, rischia di essere drammaticamente intempestiva.
Bianca Berardicurti
“ Piangi, piangi pure figlio mio.
È una bugia quella che gli uomini non piangono.
Qui piangiamo tutti.
Gridiamo, strilliamo, ci affanniamo, protestiamo
Malediciamo.
Piangi, ma non dimenticare.”
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LA VOCE DEL RIBELLE
PROSPETTIVA
Social Network
il paese dei balocchi (altrui)
S
Entrarci è facilissimo. E la regola è mettere in
mostra tutto, o quasi, quel che ti riguarda.
Un mucchio di dati che non potrai più cancellare
di Giuseppe Carlotti*
ocial network, ovvero “Rete sociale”. Una grande promessa: chi non ha abbastanza amici nella realtà
“reale”, potrà finalmente averne a bizzeffe nella realtà
“virtuale”. Ma è tutto così semplice? Dietro il boom di
portali come Facebook, MySpace o ASmallWorld non
c’è soltanto il bisogno di ritrovare vecchi compagni di scuola che
si credevano perduti per sempre negli scompartimenti della
memoria. C’è - soprattutto - un enorme business che ruota proprio
attorno agli utenti i quali, manco a dirlo, sono gli inconsapevoli e
minutissimi ingranaggi di un gigantesco meccanismo mangiasoldi e mangiaprivacy.
Iscriversi ad un social network come Facebook o MySpace è estremamente semplice: bastano un’email e cinque minuti di pazienza.
Ecco subito il primo punto a vantaggio della macchina mangiaprivacy: i dati immessi su questa tipologia di siti internet sono solitamente veritieri ed attendibili. Infatti, se invece di registrarmi con il
mio vero nome mi registrassi su Facebook come il signor Pinco
Pallino, come farebbero i miei amatissimi ex compagni delle elementari a rintracciarmi? La griglia di iscrizione iniziale, oltre a
domandare nome e cognome, chiede anche data di nascita, città
di residenza, email, numero di telefono cellulare e moltissimi altri
dati, come ad esempio orientamento religioso e convinzioni poltiche. Tutto materiale utilissimo per catalogare, schedare eppoi
rivendere a terzi tonnellate di contatti validi e dettagliatissimi ai
quali successivamente propinare paccottiglia varia come magliette personalizzabili o creme all'aloe vera, a seconda della propensione all'acquisto del singolo utente.
Dietro siti internet come Facebook, infatti, si celano mastodontici
meccanismi che spiano ogni nostra azione sulla rete ed ogni
nostra ricerca di pagine su internet, ne valutano i possibili risvolti
commerciali ed impostano una “contromossa per poterci vendere
qualcosa”. Ecco un meraviglioso esempio che potete provare
anche voi a casa: anziché andare a cercare su Facebook la vostra
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vecchia cara fidanzatina Moira, provate a cercare marchi come Dior, McDonald’s, Coca Cola. Sono tutti registrati, e spesso offrono anche l’occasione di inviare agli
altri utenti fotografie, giochini elettronici ed altre inutili
cazzate promozionali ideate per compiere quell’azione
che in termini di marketing si chiama “branding”, ovve-
Nel regolamento dei social network
c’è un codicillo che passa inosservato:
qualsiasi cosa venga immessa dagli
utenti diventa di proprietà dei gestori.
Che possono farne quel che vogliono.
ro diffondere un marchio ed i valori ad esso connessi.
Anche gli utenti possono promuovere su Facebook un
loro prodotto oppure un loro servizio: basta pagare.
Esiste infatti un apposito link “Pubblicità”, che spiega
quali siano gli enormi vantaggi della promozione tramite social network. Nel caso si voglia invece sfruttare gratuitamente il portale per scopri meramente personali,
ad esempio promuovere un libro oppure una raccolta
di poesie oppure per diffondere fotografie artistiche,
immagini di proprie opere d’arte o anche il semplice e
banalissimo lavoretto di bricolage del genere “questo
l’ho fatto io”, il regolamento dei social network, una specie di colossale “codicillo” composto da migliaia di
parole che normalmente i singoli utenti approvano
all’atto dell’iscrizione senza nemmeno degnarsi di leggerlo, parla estremamente chiaro. Vi è scritto, tra l’altro,
che qualunque contenuto multimediale (testo, musica,
immagini e video) venga immesso dagli utenti sul portale internet diventa automaticamente una proprietà
del social network stesso a livello di diritti e di copyright.
Secondo le condizioni di iscrizione a Facebook, ad
esempio, i contenuti sono proprietà del sito, che è libero di rivenderli e trasmetterli a terzi, e di (questa è una
vera chicca) conservarli anche dopo la cancellazione
degli utenti. Cioè, se un mio amico decide di pubblicare per scherzo una foto del mio pisello scattata sotto la
doccia al termine di una partita di calcetto, ed io decido di telefonargli per obbligarlo a cancellarla immediatamente, ecco che Facebook si arroga il diritto di
“conservare” l’immagine del mio ammennicolo a futura (ed imperitura) memoria nel proprio immenso archivio digitale. Inoltre, se per ipotesi io pubblicassi on-line
e gratuitamente un mio romanzo su Facebook e successivamente decidessi di farne un libro da vendere in
42
LA VOCE DEL RIBELLE
libreria e, poniamo il caso, questo libro venisse anche
acquistato da una casa di produzione cinematografica
con l’intento di farne un film…beh! Rischierei seriamente di ritrovarmi ad avere Facebook quale socio forzato,
nonché “fraterno” condivisore di tutti i miei introiti.
Fin qui la “macchina mangiasoldi” e la “macchina mangiaprivacy”. Ma non è finita. Quanti dipendenti – pubblici o privati che siano - perdono il proprio tempo con i
social network anziché lavorare? Sono quasi 4700 gli
aderenti al gruppo "Cazzeggio al lavoro con
Facebook". 200 mila per la petizione anti Gelmini, più di
50 mila per il gruppo "Silvio, sei hai i capelli è per merito della ricerca".
Il gruppo Poste Italiane, recentemente, ha negato l'accesso a Facebook per i suoi dipendenti e al comune di
Napoli l'hanno “razionato”: un'ora al giorno, suddiviso in
razioni da 10 minuti l'una. Eppure l’ondata di iscrizioni è
inarrestabile: a settembre 2008 erano iscritti al solo
Facebook italiano ben 4,2 milioni di utenti.Tutti fannulloni che andrebbero licenziati? “Ma poi” - si legge su
Repubblica - “chiedi alla Fiat, nel posto che ti immagini
più occhiuto e severo d'Italia. E scopri che al marketing
tengono tutti i modelli su Facebook perché così li promuovono meglio.”
Il presidente dell'Autorità garante della privacy
Francesco Pizzetti ha recentemente dichiarato:
«Estendendo l'uso della rete e dei social network come
Facebook, attraverso i quali la gente mette sul web
Se oggi un diciottenne cerca foto
porno su Facebook, la ricerca viene
registrata e archiviata. E tra 40 anni,
magari, la si utilizzerà per screditare
l’ex ragazzo divenuto famoso.
informazioni sui propri comportamenti cresce sempre
più il rischio che utilizzando un semplice motore di ricerca in qualunque momento chiunque possa venire a
conoscere queste informazioni. Rischiamo di essere la
prima generazione destinata a portarsi dietro tutto il
proprio passato perché i dati che mettiamo in rete non
sono cancellabili e possono sfuggire al nostro controllo». Eh già. Perché se oggi un diciottenne in preda ad
una crisi ormonale decide di cercare su Facebook le
fotografie di una pornostar (ad esempio provate con
“Jenna Jameson”) oppure le istruzioni per compiere
una qualsiasi pratica sessuale (ad esempio provate
43
WWW.ILRIBELLE.COM
con “Pompino”, dove - tra l’altro - si legge: “La cosa più bella
al mondo per un uomo e sicuramente, a volte, molto meglio di
una sana scopata! L'erotismo sta alla pornografia come la fellatio sta al pompino!”), magari tra quarant’anni qualcuno
potrà tirare fuori quella ricerca a scopi denigratori.
Un’autentica manna per screditare gli avversari in caso di elezioni politiche, ad esempio.
Ecco perché i social network sono rischiosi: possono agire
infatti come mezzo di controllo e di ricatto delle masse, oltre
che come autentica miniera di dati. Il tutto senza contare le
truffe telematiche ed i furbetti che riescono a cavare dati da
questi portali in modo illecito ma comunque ingegnoso. Due
studenti del MIT, nel 2006, riuscirono ad esempio a scaricare
Le reti sociali sono soggette al fenomeno
della creazione di falsi profili di personaggi
famosi. Quello su Alessandro Del Piero,
per esempio, celava un gruppo neonazista.
più di 70.000 profili di Facebook utilizzando uno piccolo software automatico. Nel 2008 un programma della Bbc, "Click",
mostrò che era possibile sottrarre i dati personali di un utente
e dei suoi amici. Inoltre quasi tutti i siti di social networking prevedono che le informazioni immesse dall'utente (nome, indirizzo email, numero di telefono, ecc.), l'indirizzo IP e le informazioni relative al browser utilizzato dall’utente vengono registrate
ad ogni accesso, permettendo così - volendo - di individuare
in tempo reale il luogo da dove ci si sta connettendo.
Le reti sociali sono inoltre soggette al fenomeno di creazione
di falsi profili di personaggi famosi per scopi altamente discutibili. Ad esempio, il 5 febbraio 2009 è stato segnalato un falso
profilo di Alessandro Del Piero riconducibile ad un'associazione nazista. Chissà cosa ne pensa l’uccellino della pubblicità.
Nel frattempo, il fratello e procuratore del calciatore, Stefano,
ha dichiarato che Del Piero non possiede alcun account su
Facebook ed ha annunciato che avvierà delle pratiche legali in merito.
Personalmente, su Facebook, trovo utile esclusivamente il
gruppo di utenti nato per segnalare le buche stradali nella
città di Roma. Un salva-vita quasi certamente più efficace
degli “Alcolisti anonimi” (solo 558 iscritti), ai quali – per indole
sociale e per convinzione culturale - ho deciso di preferire il
gruppo “Non siamo alcolisti anonimi ma ubriaconi
famosi” (oltre 99.000 iscritti).
*Giuseppe Carlotti - scrittore
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LA VOCE DEL RIBELLE
USCITI IERI
Assedio
al Castello
Come rileggere il grande romanzo
di Kafka. E capire che il protagonista,
l’agrimensore K., è a suo modo un ribelle
U
di Valerio Lo Monaco
no degli errori più diffusi nell'interpretazione de Il
Castello di Franz Kafka è sempre stato quello di
cercare di offrirne significati univoci. Ma allo stesso tempo sono simili le considerazioni che vogliono nella lettura dei tre testi principali dello scrittore (America,Il Processo e Il Castello) la medesima istanza,ovvero il problema esistenziale. Ne Il Castello troviamo la rappresentazione metafisica della difficoltà all'inclusione. Ma non solo.
Cosa ancora più importante è inoltre il fatto di inserire il libro all'interno
del contesto nel quale è stato scritto, ovvero nel periodo storico di riferimento,e ancora di più correlandolo alla produzione sotto certi aspetti anticipatrice che si dipanava in Europa durante gli stessi anni.
Il Castello di Kafka viene pubblicato postumo e incompleto nel 1926
(ma la scrittura è databile intorno all'inizio del 1922) e l'atmosfera culturale di quegli anni, appena dopo la Grande Guerra, aiuta se non
altro a capire il momento storico-esistenziale. Nel 1922 esce
Siddhartha di Hermann Hesse, ovvero la leggenda indiana di evasione dalla civiltà tecnologica verso il misticismo orientale.L'anno successivo Freud pubblica il suo fondamentale L'io e l'es e Brecht compone
il dramma Nella giungla della città (rappresentato con il titolo Nella
giungla) nel quale trasferisce in una favola cupa l'istinto agonistico
che pervade la sua epoca. Fino a Thomas Mann e al suo La montagna incantata (1924), che in pratica è una sintesi di tutte le speranze
deluse e dei problemi mai risolti che la sua generazione ha subito con
l'esperienza tragica della prima guerra mondiale. Nel 1925 esce il
Mein Kampf di Hitler, e Heidegger - nel quale molti riconoscono la trasposizione esistenzialista di Kafka - lavora a Essere e tempo.
La storia de Il Castello è, in apparenza, di una semplicità disarmante. Il
protagonista, che Kafka chiama unicamente con l'iniziale K. - particolare che contribuisce a incrementare l'anomia del clima - è un agrimensore che ingaggia una lotta impari, disperata, per inserirsi in una
compagine che da un lato lo invita (almeno così sembra) e dall'altro
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tende a emarginarlo e ad escluderlo, al fine di poter praticare il proprio mestiere all'interno del feudo. Ma come
l'orizzonte che appare avvicinarsi a ogni passo ma inesorabilmente arretra all'incedere dell'uomo, così si svolge la
vicenda di K., a un passo dall'ottenere ciò che vuole dai
signori del castello e sempre, per un motivo o per un altro
- il più delle volte inspiegabilmente - rimandato ad altro
momento. L'atmosfera stessa che avvolge villaggio e
castello impregna i rapporti umani dell'estraneità e della
La natura stessa degli abitanti
del castello kafkiano è il paradigma
di quella che oggi viene chiamata
distanza tra politica e società civile.
solitudine, tranne che per minuscoli intervalli i quali non
hanno altro effetto che fortificare il punto principale del
libro.
Cogliere analogie con il presente, rilevando il senso di precarietà angoscioso che pervade quegli anni e la storia di
K. è esercizio persino superfluo. K. è straniero nel villaggio
dove arriva, in un ambiente indifferente e ostile simile al
decrepito impero asburgico di allora e della repubblica
cecoslovacca immediatamente dopo.
Il parallelo - o i paralleli - possibili con la realtà attuale sono
sotto certi aspetti sconcertanti. Una delle chiavi di lettura
stessa del libro, il probabile obiettivo di Kafka, trova riscontri nell'attualità con una capacità veggente. Così come i
libri di diversi autori che producevano nello stesso tempo.
Il Castello si pone oggi come una ulteriore conferma, proveniente dal passato, del fatto che molti, già agli albori di
quello che è diventato oggi il sistema in rovina nel quale
viviamo, avevano colto distintamente le caratteristiche
alienanti di una società che sotto tanti aspetti attrae mentre allo stesso tempo, metodicamente, respinge.
Gli uomini del castello, intransigenti con le donne, non
hanno in sé nessuna maestà ma sono anzi lo specchio
stesso della miseria che coinvolge tutti e tutto, anche il
castello stesso. Allo stesso modo, i rapporti che intercorrono tra i signori e gli alti funzionari, i quali amministrano la
(loro) legge in modo unilaterale, quindi gli impiegati minori (ovvero gli esecutori fedeli e ottusi) e infine la folla della
classe popolare (timorosa di compromettersi in alcun
modo) non si discostano molto dai modelli consueti (di
allora e di oggi) della società capitalistica autoritaria e
arretrata.Il tempo medesimo del racconto appare svolger-
46
LA VOCE DEL RIBELLE
si in un lungo, interminabile momento immobile e senza
senso. C'è una chiara contemporaneità di passato, presente e futuro nel corso di tutta la storia. Come se prima vi
fosse un passato senza significato, innanzi un futuro senza
alcuna speranza e in mezzo un labirinto sterile e perenne.
Non solo. La natura stessa degli abitanti del castello kafkiano è il paradigma di quella che oggi viene chiamata
distanza tra politica e società civile.
Non è un caso che oggi le sedi dei partiti siano vuote, che
l'unico sistema per accedere alle stanze segrete di potere
sia quello della cooptazione più assoluta o del dispotismo
più incestuoso. La riproduzione in serie (se vogliamo la clonazione) delle classi dirigenti attuali, la loro necessità di
chiudersi a riccio e di evitare qualsiasi contaminazione
con il mondo esterno, pena il rischio della perdita della
propria sovranità, sono esattamente le stesse che troviamo
in questo libro.
Ancora: la stessa esigenza di "far credere" all'agrimensore
K. di poter un giorno entrare a far parte del castello, di
poter essere accettato e di poter svolgere il proprio lavoro
in modo finalmente riconosciuto,è lo specchio degli attuali ammonimenti della politica nei confronti di chi vi si avvicina. Finta inclusione sino al momento del voto, mera e
strumentale auto-legittimazione elettorale, e quindi il buio.
Come non cogliere nei comizi volti all'inclusione nelle folle
e nelle arringhe plastificate dei politici nostrani la necessità di mantenere un finto legame con il territorio che gli
serve unicamente per auto-confermarsi la legislatura in
arrivo?
Il rivoluzionario nel senso più comune del termine può provare odio per K., ma non tanto per il fatto che il protagonista del libro non mette in discussione esplicitamente il burocrate o il borghese - dai quali anela per tutto il libro la legittimazione a poter operare come agrimensore - quanto perché egli rifiuta ogni burocrazia, ogni borghesia. Il Kafka de
Il Castello è dunque in questo caso non un rivoluzionario,
ma un ribelle. Apparentemente sceso a patti con il nemico, ma in realtà in tutto e per tutto diverso.
Un castello esiste per essere espugnato. Ha la sua ragione
di costruzione nel difendere qualcosa, qualcuno. E allo
stesso tempo, dall'altra parte, attrae chi è all'esterno proprio per il divieto che rappresenta. La sua cifra è la separazione tra dentro e fuori. Tra chi evita intrusioni e chi invece
vuole penetrarlo. L'assedio con vari mezzi, strategici o tattici, cruenti o meno, rimanda al concetto della lotta, di cui il
simbolo è la virtù.
Valerio Lo Monaco
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WWW.ILRIBELLE.COM
BORDELINE
Cobain,
l’urlo nel tunnel
Era il leader dei Nirvana.
Era una star a cui il successo non bastava.
E a 27 anni lo trovarono morto. Suicida?
V
di Federico Zamboni
oleva fare musica a modo suo: e c’era riuscito.
Voleva incidere dischi e suonare dal vivo ed essere
conosciuto come artista: e c’era riuscito.A vent’anni
aveva messo su i Nirvana, a 22 aveva pubblicato
l’album d’esordio, Bleach, a 24 aveva azzeccato il
pezzo che ti cambia la vita: uscito come singolo nel 1991, Smells Like
a Teen Spirit era esploso al di là di qualsiasi aspettativa.
La tiratura iniziale che sparisce rapidamente. Quelle successive altrettanto. I ragazzi che non si limitano ad acquistarlo, come un qualsiasi
hit del momento, ma che ne fanno un punto fermo. La bandiera
sghemba che non è destinata a nessun pennone. L’inno nevrotico
che non celebra un cazzo.
«Ciao, ciao, ciao, quanto depresso?/ E dimentico quello che assaggio
/ Oh sì, credo che mi faccia sorridere / L'ho trovato difficile, era difficile da trovare / Oh beh, comunque non importa / Ciao, ciao, ciao,
quanto depresso?»
Impossibile da capire, se non ci stai dentro. Non è un altro tipo di identità: è quello che resta quando l’idea stessa di identità si è dissolta.
Anzi, disintegrata. Pezzetti più o meno piccoli che si infilano dappertutto. Detriti che si depositano nei meccanismi e li inceppano. Bloccano
i freni e puoi soltanto accelerare. Bloccano l’acceleratore e vai avanti solo con quel po’ di inerzia che hai accumulato. Ciao ciao ciao,
quanto depresso? Ciao ciao ciao, quanto ti resta prima di schiantarti? O di fermarti del tutto?
Rabbia. Disorientamento. Insoddisfazione. Non è un altra idea di società. È quello che resta quando non ti fidi più nemmeno di te stesso. Le
ribellioni politiche attaccano il potere e non vedono l’ora di spiegarti
il perché: ehi, guarda che abbiamo le nostre ragioni, e una logica
ineccepibile, e programmi precisi su ciò che si deve fare per il nostro
bene e per quello di tutti. La rivoluzione come palingenesi. Come guarigione miracolosa dell’individuo e della collettività. Unisciti a noi. Lotta
con noi.Vinci con noi.
49 - WWW.ILRIBELLE.COM
Tu non lo sai, cosa bisogna fare. E quando ti sembra di
saperlo («Sarebbe bello vedere gli avidi essere perseguitati così comunemente da portarli all’opposto delle loro
abitudini o da terrorizzarli al punto di non fargli più mettere il naso fuori di casa»)1 non ti fai nessuna illusione sul
numero di persone che sono in grado di aprire gli occhi
e che sono disposte ad agire. Il massimo che puoi fare
è stilare un inventario di quello che non va: tutti quei pregiudizi, tutta quella smania di potere. Hai l’identikit dei
Accanto al cadavere hanno trovato
uno scritto, autografo, e non hanno
avuto dubbi a considerarlo il suo
biglietto d’addio. Ma c’è chi pensa
che lui, invece, sia stato ammazzato.
responsabili, ma nessuna pattuglia alla quale trasmetterlo. Continui a osservare. Riempi pagine su pagine di
annotazioni. Il puntiglioso e incazzato pronipote punk di
Philip Marlowe. Perdi i quaderni con gli appunti e ricominci. Cerchi di non lasciarti ingannare. Vedi i potenti
che schiacciano la gente. Vedi la gente che si lascia
schiacciare. Ma vedi anche te stesso che cambi all’improvviso, che un attimo prima stai benissimo e un attimo
dopo malissimo. L’energia che diminuisce. L’entusiasmo
che diventa un ricordo, una parola sempre più astratta.
Una cosa da bambini. Che non può sopravvivere al passare degli anni. Che in te, Kurt Donald Cobain, non è
sopravvissuta. Nessun rancore, in fondo: ma è andata
così.
Il peggior crimine è fingere
Le ricostruzioni ufficiali2 dicono che si è ucciso. Il 5 aprile
1994. Con un colpo di fucile. Accanto al cadavere hanno
trovato uno scritto, autografo, e viste le circostanze non
hanno avuto dubbi a considerarlo il suo biglietto d’addio.
«Vi parlo dal punto di vista di un sempliciotto un po' vissuto che preferirebbe essere uno snervante bimbo lamentoso», comincia il testo. Poi, nello stile frammentario di
Cobain (così ben rappresentato nei suoi Diari, pubblicati
nel 2002 e prontamente ripresi da Mondadori, che l’anno
successivo li ha inseriti negli Oscar Bestsellers), si addentra nel rapporto con la musica e, più ampiamente, con
l’esistenza.
La ricognizione è sconsolata, più che drammatica.
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LA VOCE DEL RIBELLE
Fotografie da angolazioni diverse ma tratte dallo stesso
scenario scabro e appiattito. Dettagli di un deserto che
con l’andare degli anni, col consumarsi del tempo, si è
ingrandito fino a occupare tutto, o quasi, lo spazio a disposizione. Peccato: un tempo lui era stato un bambino pieno
di gioia, prima che i suoi genitori si separassero. Un tempo
c’erano stati dei giardini, addirittura un grande parco lussureggiante (anche se assai poco curato), e ora solo questa distesa di nuda terra cosparsa di schegge. Schegge di
pietra. O di ossa?!
«Io non provo più emozioni nell'ascoltare musica e nemmeno nel crearla nel leggere e nello scrivere da troppi
anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole.»
Il ragazzo aveva dei sogni, e con quei sogni di futuro
riscattava il presente. O lo puntellava, se non altro. Nel
mondo invaso dalle menzogne – pensava il ragazzo
nato nel fondo della provincia dello Stato di Washington,
nella piccola dogmatica insopportabile Aberdeen –
aprirò degli squarci di assoluta sincerità. Apparirò come
sono. Dritto, storto, una via di mezzo. Luce cangiante e
instabile. Una fiamma precaria ed esposta alle intemperie. Ma non un fottuto neon, almeno.
«Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi.
Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti
né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in
mente è quello di fingere e far credere che io mi stia
divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi
timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho
provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare
questo. Ho apprezzato il fatto che io e gli altri abbiamo
colpito e intrattenuto tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo
quando non ci sono più.»
Il sogno si era realizzato. Il sogno era appassito, attorcigliandosi su se stesso. Il futuro aveva smesso di essere un
rifugio e si era trasformato in una gabbia. Doveva essere un’apoteosi di libertà. Era diventato una successione
di obblighi da rispettare, di aspettative da assecondare,
di caratteristiche da mantenere immutate. Il giovane
Kurt Cobain voleva fare dei dischi nei quali rispecchiarsi. La star KURT COBAIN doveva fare dei dischi in cui si
rispecchiassero gli altri.
Non era questo, quello che si era immaginato. Lui era
uscito dal buco in cui abitava ed era andato alla festa
solo per distrarsi un po’. Giusto perché non aveva di
meglio in programma. E adesso veniva fuori che si trattava di un set cinematografico. Di un accidente di docufilm sulla scena alternativa di Seattle. La X-Generation, il
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WWW.ILRIBELLE.COM
grunge, quella roba lì. Musica ai confini del rumore, ma visto
che funziona...
A proposito: carino, quel Kurt. Guarda come lo guardano. Come
un’icona.
Riavvolgere il nastro. Cancellare tutto
Era sembrata una buona idea, mettersi a suonare e scrivere canzoni e costituire i Nirvana e tutto il resto. Un buon punto di partenza, quanto meno. Come quando ti viene in mente un accenno di
melodia e prendi la chitarra e provi a svilupparla. Metti in conto
che ci vorrà un po’, e che non sarà esattamente come allungare la mano e spiccare ciliege dal ramo, ma non è che hai dei veri
e propri dubbi. Si sa. Lo sai. I semi danno frutto, se hai la volontà
di coltivarli e la pazienza di attendere. E non c’è niente di male, a
pregustare la soddisfazione del raccolto. Del momento in cui ne
offrirai agli altri. Del momento in cui ne offrirai a te stesso.
E invece no. Il raccolto era arrivato ma i frutti non erano quelli che
si aspettava. Dovevano essere dolci ed erano aspri. Dovevano
deliziarlo e invece lo stomacavano. Non era un’impressione. Era
un dato di fatto. Incredibile: piacevano agli altri ma non a lui. Era
andato tutto come ci si poteva augurare tranne quel piccolo
stramaledetto determinante dettaglio. Il tempo era stato buono. Il
raccolto era stato abbondante. Lui non sapeva che farsene.
«Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono
grato, ma è dall'età di sette anni che sono avverso al genere
umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed
essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio
bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto
che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo stravagante, lunatico, bambino! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.»
Troppo. Amo troppo. Mi rammarico troppo per la gente. Sono
troppo stravagante, lunatico, bambino. E non ho più nessuna
emozione. E ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi
lentamente.
Federico Zamboni
1 Diari (Mondadori, Oscar Bestsellers, 2003), pag. 134.Tutte le citazioni successive, invece, sono tratte dalla lettera che venne rinvenuta sul luogo
della morte di Cobain.
2 L’inchiesta della polizia si chiuse con una constatazione di suicidio, ma
quasi subito venne formulata l’ipotesi che si trattasse di un assassinio. Al
tema sono stati dedicati diversi libri: in inglese, tra gli altri, Love & Death.
The Murder of Kurt Cobain di Max Wallace e Ian Halperin (Atria Books,
2004) , in italiano Il caso Cobain. Indagine su un suicidio sospetto di
Episch Porzioni (Chinaski, 2008, pp. 208, € 15)
52
LA VOCE DEL RIBELLE
MUSICA
X Factor,
la fabbrichetta delle star(s)
Dilettanti che si illudono e professionisti
che se li coccolano. Ma solo finché sono
in gara. Solo finché servono allo show
P
di Roberto Alfatti Appetiti
iace ai gggiovani. Perché – ti spiegano gli analisti
dell’audience – su dieci telespettatori ben sei
hanno meno di quarantacinque anni. E la media,
dato inequivocabile, è di “soli” quarantadue.
Praticamente un pubblico di adolescenti.
Prendiamone atto una volta per tutte: in Italia il mondo giovanile
è sempre più rappresentato dai quarantenni. L’età in cui ci si sente
finalmente giovani – chiosava Pablo Picasso – ma ormai è troppo
tardi. Non abbastanza, evidentemente, da evitare di appassionarsi a uno dei programmi più modesti nella storia televisiva nazionale, X Factor.
Format comprato all’estero (versione strapaesana di American
Idol), metà reality e metà concorso musicale, il talent show di
Raidue, giunto alla fine della seconda edizione, ha radunato un
esercito di oltre tre milioni di affezionati. All’incirca un quarto del
pubblico dei laureati, esulta la produzione. A conferma, piuttosto,
di quanto il titolo di studio non sia necessariamente espressione
di “maturità” culturale .
Il gioco è sin troppo semplice: gli aspiranti cantanti – i pochi
sopravvissuti a selezioni ed esibizioni varie – vivono nella loro gabbia dorata, un loft in via Mecenate a Milano, sotto l’occhio vigile
delle telecamere. In palio un megacontratto discografico con la
Sony Bmg. Decide il pubblico sovrano. Tutti con la mano sul telefono/ino: 60.000 sms soltanto nella prima puntata. Proprio così: (l’altro)ieri – sempre loro, i gggiovani – volevano cambiare il mondo e
adesso si accontentano del televoto, espressione compiuta di
telecrazia diretta. Chiamati a decidere su questioni di assoluta
importanza: ovvero di quello che si affaccia sul piccolo schermo,
ché il resto non conta. E da un reality all’altro i grandi temi non
mancano. Vanessa sceglierà definitivamente Alberto o tornerà da
Marco? Aveva ragione Marina Ripa di Meana o Fabrizio Corona?
Meglio Daniele o Matteo? Enrico o i Bastardi?
53 - WWW.ILRIBELLE.COM
Dal massimalismo ideologico del Novecento al minimalismo da buco della serratura di quest’epoca coatta. Cercavano la rivoluzione, i più arditi. Quantomeno
l’amore, gli inguaribili romantici. Oggi sognano un
futuro da tronisti o, nella peggiore delle ipotesi, da corteggiatori delle troniste. E viceversa, intendiamoci.
Altro che vita da mediano, l’unica panchina che sono
disposti a fare è quella, comoda, dei salotti televisivi.
Certo, occorrono dei requisiti per stare in video. Non
Devi essere bello. E se non lo sei
non puoi fare a meno di essere
telegenico, o di diventarlo.
Basta affidarsi. Farsi consigliare,
vestire, truccare. Meglio: riverniciare.
parliamo del talento. Perché quello vero lo si scopre a
posteriori, non si pianifica né si costruisce a tavolino.
Devi essere bello. E se non lo sei (la natura, si sa, è crudele) non puoi fare a meno di essere telegenico o di
diventarlo. E il casting, c’è da dire, è pietoso: guarda in
faccia a tutti. Basta affidarsi. Farsi consigliare, vestire,
truccare. Meglio: riverniciare. Apprendere l’abc del
come si serve la società dello spettacolo. Rinunciare,
sin dall’inizio, a essere se stessi in cambio della possibilità – più o meno remota – di essere piazzati come
prodotti: cantanti, attori, alla peggio opinionisti senza
opinioni ma pronti ad alzare la voce e a strappare un
applauso nel palcoscenico borderline del trash televisivo. Andando incontro al pubblico che, regola fondamentale, ha sempre ragione. Loro – i deus ex machina
della tv, i demiurghi che muovono i fili – conoscono il
mercato e sanno cosa vogliono vedere i consumatori
annoiati, ne conoscono e stimolano le curiosità più
malsane. E certo non è un caso se la durata delle canzoni sia stata ridimensionata rispetto allo spazio dedicato al “personale” dei ragazzi in gara, sapientemente
dilatato. «Spettacolarizzano il disagio e la pena di
ragazzi che si sentono braccati – ha detto Renato
Zero, uno che il successo se l’è conquistato senza protettori, fieramente controcorrente – e sono aggressivi
fra loro come gladiatori al Circo Massimo. Fossi al
posto di quei ragazzi – ha concluso l’artista romano –
scapperei a gambe levate. Neanche sono nati, come
cantanti, e gli sbattono addosso le telecamere, con i
54
LA VOCE DEL RIBELLE
maestri che li nevrotizzano a forza di suggerimenti».
Perplessità che si sommano a quelle espresse da Eros
Ramazzotti: «X Factor? Il posto peggiore dove un esordiente possa capitare. Che tristezza, il mondo della
canzone ridotto a un reality show».
Parliamoci chiaro: altro che programma sulla musica.
La musica è libertà d’espressione. È rifiuto di ogni condizionamento. Non asseconda le mode, semmai ne
crea di nuove. Niente a che vedere con fabbriche di
replicanti e procreazione assistita di artisti.
L’X Factor, quel talento speciale che fa di un essere
umano un artista, è unico e imprevedibile per definizione. Non è sufficiente studiare la lezione a memoria, né
scalare una hit parade a colpi di televoto come nel
caso del giovane Marco Carta a Sanremo.Vittoria che,
semmai, ha consacrato definitivamente Maria De
Filippi – “preside” di Amici, la corazzata televisiva che,
schierata nel palinsesto del martedì contro X Factor,
l’ha letteralmente “stracciato” doppiandone l’audience – quale regina della tv generalista. Con lei – ha scritto tempo fa Aldo Grasso – si afferma «la tv più vecchia
che esista, quella ferocemente pedagogica. Con le
sue scuole pomeridiane, i precettori (i consigli per le
letture di Aldo Busi), i professori e le classi. Mascherata
da “scuola democratica” (gli allievi possono dire la
loro, c’è l’assemblea parenti/genitori, c’è persino il rappresentante Codacons), la De Filippi si propone di insegnare l’abietto piacere di annullarsi, da professionisti,
nella tv. Invece di formare una personalità, la dissocia
e la rimodella con l’aiuto dei “professori”, per creare
tante figlie di Maria».
Al confronto – per rimanere alle parole del critico del
Corriere della Sera – X Factor finisce per risultare «il programma involontariamente più comico dell'anno». Una
delle cause è nell’inadeguatezza dei conduttori-giudici: «Perché è condotto da un presentatore che non sa
presentare, Francesco Facchinetti. Perché c’è Simona
Ventura che vuol fare la Maria De Filippi, ma senza
darlo troppo a vedere. Perché c’è Mara Maionchi, una
simpatica manager che ricorda un po’ Iva Zanicchi e
un po’ Vanna Marchi. Però il più comico di tutti è
Morgan, alias Marco Castoldi. Con la sua puzzetta
sotto il naso, con le sue velleità artistiche e letterarie,
con il suo maledettismo, e il suo francobattiatismo, con
l’antologia di Spoon River sotto il braccio, ecco con
tutte queste ubbie Morgan è il protagonista di un reality, al pari di un qualsiasi scalcinato partecipante al
Grande Fratello».
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WWW.ILRIBELLE.COM
Battute a parte, l’accusa che muove Grasso è precisa: i tre
“capitani” di X Factor – la Ventura della categoria 16-24,
Morgan dei 25+, e la Maionchi dei Gruppi Vocali – non sono
al servizio della musica, ma usano i cantanti «per la loro personale esibizione.
La Ventura capisce poco di musica ma sa come funziona la
tv; Morgan ha la grande occasione della vita e prende di
mira la Ventura che è l’unica che può oscurarlo». Bulimica
donna di spettacolo, la non più giovanissima Simona – classe 1965 – nella stagione televisiva in corso è passata
dall’Isola dei famosi a Quelli che il calcio, fino a indossare
con professionale disinvoltura, in X Factor, i panni di esperta
musicale. Con quale competenza?
Facchinetti junior, con i suoi trent’anni e l’imbarazzante slang
giovanilistico alla Gioca Jouer (a confermare i danni irrever-
Partito per sconfiggere i Gigi D’Alessio
della musica italiana, X Factor ci ha dato
Giusy Ferreri, trasformata da sconosciuta
cassiera dell’Esselunga a vero e proprio
fenomeno pop. Valeva davvero la pena?
sibili che possono provocare “cattivi maestri” come Claudio
Cecchetto) è la mascotte dei conduttori, eppure il fatto che
riesca a parlare un italiano elementare ma comprensibile ha
entusiasmato la critica (evidentemente, non speravano
tanto). Non si fa (più) chiamare Dj, come ai tempi de La
Canzone del capitano, e al posto dei tatuaggi, miracolosamente spariti, ostenta abiti talmente rassicuranti da piacere
persino a Del Noce. Che, per la serata finale, l’ha promosso su
Raiuno. Perché conduca X Factor, però, rimane un mistero. La
spiegazione ufficiale – sul sito del programma – recita così: «È
da sempre attento alle nuove tendenze».
Poi c’è Morgan, leader dei Bluvertigo riconvertito conduttore
televisivo. Quasi suo malgrado, poiché non perde occasione
per esprimere il proprio disagio di «delegato della musica».
Ma, paradossalmente, le sue performance – i frequenti litigi
con i colleghi capitani – risultano come le più “televisive”
(almeno a giudicare dall’audience).
Stefania Berbenni su Panorama lo definisce il rappresentante
«dell’Italia radical-chic, amato ma anche con un’aura da perdente, improvvisamente assurto al ruolo di guru da terzo millennio. Piace ai concorrenti, al pubblico, alle ragazze, tutti lì a
pendere dalle sue labbra truccate e dai movimenti del pizzetto inquieto. Morgan è un anarchico amante delle regole, è
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LA VOCE DEL RIBELLE
uno snob alla quinta, un nietzscheano contemporaneo. È l’intellettuale del gruppo, quello che più assomiglia alla sinistra
che ha perso le elezioni: guarda spesso la realtà dall’alto in
basso, pecca di superbia intellettuale e a volte non capisce
cosa stia succedendo davvero. Sentenzia, vorrebbe cambiare il sistema e il sistema se lo mangia. E forse per questo risulta irresistibile a molti».
Tra coloro che, invece, spezzano una lancia in favore del programma c’è Patty Pravo: «X Factor? Non posso che pensarne
bene perché in un posto come l'Italia, dove i giovani non
hanno neanche la possibilità di utilizzare una sala prove, in
fondo è già qualcosa». Possibilista si mostra anche un acuto
osservatore come Edmondo Berselli. Anche se i motivi d’interesse richiamati sono ironici: «Il super super super reggiseno
di Simona Ventura, la testa di Morgan, con un’acconciatura
che è un’autentica opera d’arte informale.
Ma soprattutto la cattiveria di Mara Maionchi, manager
discografica che sembra avviarsi a una bella carriera di gloriosa stroncatrice».
Sì, perché un pizzico di cattiveria può rappresentare l’unico
antidoto alla formula buonista del Saranno famosi all’italiana. Partito per sconfiggere i Gigi D’Alessio della musica italiana, X-Factor ci ha dato Giusy Ferreri, trasformata da sconosciuta cassiera dell’Esselunga a vero e proprio fenomeno
pop. Valeva davvero la pena? Su questa tragica questione
apriamo il televoto.
«Oggi – ragiona Francesco Guccini – le case discografiche
non possono più investire tanti soldi sui personaggi. Per cui è
difficile sfondare se non si passa per questi canali. È l’unica
possibilità per un giovane che voglia fare musica nuova. Un
tempo questo ruolo era svolto da Sanremo».
Giusto, azzardiamo noi: X Factor, opportunamente ripensato,
potrebbe diventare il format in grado di fare del Festival di
Sanremo qualcosa di decente. Magari eliminando la componente reality e affidando il programma a persone competenti, puntando sulla qualità della musica e non sul gigionismo
sornione di conduttori lautamente pagati col plauso brunettiano.
Nel frattempo le galline dalle uova d’oro vanno sfruttate e
International Music sta già preparando il primo tour estivo di
X Factor. I concerti inizieranno a fine giugno e proseguiranno
a luglio e agosto per circa 20 tappe. L’idea – confessa con
disarmante sincerità il promoter Francesco Cattini – è quella
di «sviluppare gli artisti a 360 gradi, per sfruttare tutta la filiera
di ricavi che un artista possa produrre».
Con buona pace della musica.
Roberto Alfatti Appetiti
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CINEMA
NON
una scelta d’amore
Due ragazzi che militano nell’Ira e condividono
gli stessi valori. Ma non così le loro madri.
La meno istruita, una contadina, capisce il figlio
e appoggia la sua lotta. L’altra, un’insegnante,
difende il suo solo per affetto. E per egoismo
V
di Ferdinando Menconi
edere il lato politico e di rivolta in un film che ripercorre le vicende di Bobby Sands e degli Hunger
Strikers1 del 1981 è fin troppo evidente, troppo facile
quasi. Troppo facile partire dalle immagini di
Margaret Thatcher che cita San Francesco e poi inizia una politica di isolamento, chiudendo le strade fra Eire e Irlanda
del Nord nell’Europa della “libera circolazione”; di criminalizzazione, i
volontari dell’IRA non devono essere considerati guerriglieri e quasi
neanche terroristi, ma criminali comuni; di demoralizzazione, spezzando il morale dei detenuti nelle carceri, carceri dove i POWs2 dell’IRA si
troveranno a dover spargere le feci sui muri e a subire vessazioni più
da dittatura militare latino americana che da Paese che ci viene
sempre spacciato come padre della democrazia. Troppo facile.
Sarebbe come tenere un comportamento da Thatcher.
Tutto questo è presente nel film e si tratta del miglior film mai girato sulla vicenda di Bobby, che ripercorre in maniera storicamente
ineccepibile, senza nulla omettere ma senza neppure lasciarsi
andare a compiacimenti voyeuristici nel descrivere gli eventi.
Interessante e degno di approfondimento, invece, è l’escamotage
usato per raccontarli: attraverso l’incontro fra due madri, profondamente diverse, che si troveranno a vivere lo stesso dramma e che
ha portato la distribuzione italiana a cambiare il titolo in Una scelta d’amore. Pessima abitudine nostrana e in questo caso oltre che
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Nella versione italiana il titolo originale venne stravolto, diventando
lo smielato “Una scelta d’amore”
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ingiustificata decisamente fuorviante. Una delle
due è una contadina, Annie Higgins, interpretata
da Fionnula Flanagan, fieramente figlia della sua
terra, in costante attrito con le forze di occupazione, due figli dati alla lotta armata, di cui uno già
caduto, e una figlia che studia in una scuola cattolica dove insegna l’altra madre, Kathleen Gillen,
vera protagonista del film e interpretata magistralmente da Helen Mirren.
L’insegnante vive la sua vita piccolo borghese
completamente distaccata dalla realtà che la circonda, quella vera, non il paesaggio da cartolina
in cui è immersa la sua casa in riva al mare. Il suo
piccolo mondo è incontaminato, ha la sua tranquillità economica lontanissima dalle lotte sociali e la
disoccupazione endemica dei ghetti di Belfast e
Derry. Ancor più lontana per lei è la lotta per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. Naturalmente condanna la violenza, la sua identità irlandese è blanda, quasi di facciata o semplice abitudine, più
legata alla religione che alla nazione, contrariamente a quello che è nella realtà irlandese.
Nessuna preoccupazione, la guerra le scivola addosso lontana, è più nemica dell’Ira e dello Sinn Fein che
non dell’esercito britannico. Il quadretto idilliaco è
completato da una figlia perfettamente inquadrata e
giusto un po’ fissata, ironia della sorte e degli sceneggiatori, sulle diete, e un figlio, un tranquillo ragazzo
che non dà preoccupazioni.
La guerra farà, però, irruzione nella vita della donna
in una scena altamente simbolica che è anche una
delle più belle rappresentazioni cinematografiche di
un’azione di guerriglia.
Al ritmo incalzante della musica irlandese, con un
montaggio alternato fra una lezione di danza tradizionale tenuta dalla donna, con la cinepresa che
indugia sui piedi delle ballerine, e l’azione di due
volontari dell’Ira, i figli delle due madri fanno saltare
con un RPG un mezzo dell’esercito britannico. Lo spostamento d’aria sfonda i vetri della scuola e la guerra entrerà nella vita dell’insegnante. Per quanto uno
possa voler ripudiare la guerra, non è detto che la
guerra ripudi lui.
I due volontari saranno arrestati insieme. Per la contadina sarà rabbia mista ad orgoglio, si schiererà
subito a fianco del figlio, ne sosterrà ogni scelta, condividerà la sua lotta insieme anche al partito, lo Sinn
Fein, perché la lotta del figlio è anche la sua, è la
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LA VOCE DEL RIBELLE
lotta dell’Irlanda da generazioni e generazioni, e
nella loro generazione sono i Provisional Sinn Fein e
IRA a portarla avanti. Diverso è per il personaggio di
Helen Mirren, è un fulmine a ciel sereno, è stupita di
vedere piombare la polizia in casa, non può credere
che il figlio sia implicato in un’azione del genere, gliene chiede spiegazione, come se non fossero più che
ovvie le ragioni per un irlandese del nord.
Crede ancora nella giustizia inglese, cerca di
imporgli un avvocato mentre era prassi degli indipendentisti non riconoscere le Dilock Courts3, si
scontra con gli esponenti dello Sinn Fein che vede
solo come fomentatori della violenza che sconvolge le sei contee occupate dell’Ulster e turba la sua
tranquillità borghese.
È talmente incapace di capire, non solo la situazione, ma anche che il figlio non è più un bambino
ma un Uomo, che quando lo rimbrotta per averle
mentito, nascondendole la sua appartenenza
all’IRA, alla sua risposta «l’ho fatto per proteggerti»,
gli risponde «sono tua madre, sono io che devo
proteggere te…», ci manca solo un «al prossimo
attentato mettiti la maglia di lana».
La sua fiducia nelle istituzioni andrà a disgregarsi
progressivamente, a cominciare da quando le
verrà negato un colloquio col figlio perché lui sta
seguendo una protesta.
È la dirty protest, che i Blanket men4 iniziarono a
causa delle vessazioni che subivano quando si
recavano alle docce. La reazione delle autorità
carcerarie fu di non svuotare più i buglioli, i detenuti provarono a svuotarli fuori dalle finestre rompendone i vetri: furono schermate ma i vetri non riparati. Il freddo entrava e la merda sparsa sui muri.
Questo in un paese che ci dicono fra i democraticamente più avanzati d’occidente e sotto il governo della “mitica” Margaret Thatcher.
Il rapporto fra le due donne è inizialmente conflittuale, in particolare quando il figlio della Mirren le
trasmetterà un messaggio da consegnare allo Sinn
Fein.
Quello però è il messaggio che preannuncia il famoso sciopero della fame dell’81, cui i due figli delle
donne aderiranno. Così i rapporti fra le due donne
andranno a cambiare radicalmente, accomunate
dalla tragedia, seguendo il lento spegnersi di Bobby
Sands, fino ad una comprensione reciproca se non
complicità. Un reciproco scoprire mondi diversi.
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LA VOCE DEL RIBELLE
La Mirren comincerà anche una vita da attivista sostenendo la campagna elettorale di Bobby Sands al Parlamento
di Westminster, mettendosi anche contro le gerarchie cattoliche della scuola. Una vittoria inutile. Non solo Bobby
Sands non poté mai sedere nel Parlamento cui il popolo lo
aveva eletto, ma nemmeno poté mai parlare con la stampa. Lui, un deputato legittimamente eletto, sarà lasciato
morire di fame in carcere.
Il rifiuto di accettare le richieste degli hunger strikers, la
principale delle quali era indossare abiti civili e non divise
da criminali, fulcro della politica di criminalizzazione della
Thatcher, che credeva così anche di isolare i combattenti
dalla popolazione, porterà a un balletto di intrighi e trattative, con indebite intromissioni della Chiesa, più attenta ai
suoi interessi che a quelli dell’Irlanda, e dei servizi segreti
(deviati?) inglesi, molto più efficaci nel perseguimento
degli obiettivi, ma non degli scopi di fondo, del governo di
sua maestà.
È, però, proprio in questa fase che si nota come l’adesione
Kathleen Gillen, l’insegnante interpretata
da Helen Mirren, è l’anello debole
della catena. Autorizzerà l’alimentazione
forzata del figlio e inizierà la disgregazione
del fronte di resistenza interno al carcere.
alla lotta d’Irlanda della madre borghese sia di facciata, di
opportunità, per il figlio e basta… ma contemporaneamente
anche contro il figlio, contro quello in cui crede. Le liti fra i rappresentanti dello Sinn Fein e le altre parti interessate, col rifiuto dei detenuti a interrompere lo sciopero perché sarebbe
stato consentito loro il “privilegio”, non il “diritto”, di portare
abiti civili, non le comprende, per lei sono solo lotte di potere
che mettono a repentaglio la vita del figlio.
Non così è per la contadina, lei sa perché il figlio sta morendo, perché in tanti stanno morendo e che lo Sinn Fein sta lottando con loro.
Il governo inglese cercherà di fiaccare il morale5 degli
Hunger Strikers ricorrendo alla possibilità di dare alle famiglie, una volta entrato in coma il soggetto, la facoltà di autorizzare l’alimentazione forzata.
Già, il governo inglese della cinica Margaret Thatcher non
imponeva l’alimentazione forzata neppure a coloro che considerava terroristi della peggiore risma. Vista la loro chiara
volontà, poteva non farli sedere in Parlamento, ma quella
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LA VOCE DEL RIBELLE
volontà la rispettava. Da qui il titolo italiano “una scelta
d’amore”.
Il personaggio della Mirren è l’anello debole della catena,
autorizzerà l’alimentazione forzata del figlio e inizierà la
disgregazione del fronte interno al carcere. La scelta dell’insegnante, però, non è una scelta d’amore, è una scelta di
egoismo, calpesta ogni ideale del figlio, se ne frega della
lotta degli altri, di tutto un popolo, pensa al suo piccolo
mondo e basta.
Solo un momento di partecipazione al dolore dell’altra
madre che, invece, ha rispettato il figlio, che lo ha lasciato
morire per la loro Irlanda. E se nella versione italiana, che
rispetta il testo ma non il tono della frase, sembra quasi che
ci sia comprensione, così non è nell’originale e la Mirren,
grande attrice, esce dal carcere con una vergogna che
annega nell’incomprensione delle ragioni dell’altra, nell’incapacità di capire che ci sia un qualcosa di più grande del
proprio interesse privato, sia esso la vita di un figlio o la propria.
Ferdinando Menconi
note:
1- si ricorda sempre e solo Bobby Sands ma furono in dieci a morire
in quello sciopero della fame e tutti meritano di essere ricordati:
Volontario Bobby Sands, IRA
Vol. Francis Hughes, IRA
Vol. Patsy O'Hara, INLA
Vol. Raymond McCreesh, IRA
Vol. Joe McDonnell, IRA
Vol. Martin Hurson, IRA
Vol. Kevin Lynch, INLA
Vol. Kieran Doherty, IRA
Vol. Thomas McElwee, IRA
Vol. Michael Devine, INLA
2 - POWs: Prisoners Of War, prigionieri di guerra
3 - Tribunali speciali senza giuria, con procedure e valutazione delle
“prove” che sarebbero state illegali nel resto del territorio del Regno
Unito.
4 - Blanket, coperta: i detenuti irlandesi rifiutavano di portare le uniformi da criminali comuni e indossavano esclusivamente la coperta
in dotazione.
5 - La tattica si rivelerà efficace, a fronte del crescente numero di
famiglie che intervenivano al momento dell’entrata in coma, lo sciopero della fame verrà interrotto. Le richieste degli Hunger Strikers verranno soddisfatte al termine dello sciopero della fame. Per il puntiglio
di Margaret Thatcher morirono in dieci ma l’IRA, dopo, raggiungerà il
massimo del consenso anche a livello internazionale.
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LA VOCE DEL RIBELLE