F - ACLI - Funzione progettazione e innovazione sociale

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F - ACLI - Funzione progettazione e innovazione sociale
Spazio e tempo
per l’inclusione sociale
Sperimentazione di percorsi integrati
di inserimento sociale
e di crescita professionale
per donne immigrate
SPERIMENTAZIONE E INNOVAZIONE SOCIALE
N. 5
F U N Z I O N E P R O G E TTA Z I O N E E I N N O VA Z I O N E S O C I A L E
Questo volume è stato realizzato con il finanziamento del Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali con il Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati – Anno 2007
INDICE
Prefazione
5
di Andrea Olivero
Introduzione
9
di Lidia Borzì
PARTE PRIMA
Immigrazione e lavoro di cura
Il punto di vista delle Acli
Collaboratrici domestiche e assistenti familiari in Italia:
riflessioni e proposte per un Welfare della cura oltre il “fai da te”
15
di Raffaella Maioni
Lavoro di cura e immigrazione
19
di Antonio Russo
Il lavoro di cura tra welfare invisibile e welfare a misura di famiglia
25
di Vittoria Boni
Il punto di vista degli esperti
Dietro il welfare invisibile: donne migranti, lavoro di cura,
famiglie transnazionali
29
di Maurizio Ambrosini
Lavoro di cura e ricongiungimenti familiari:
il tempo e lo spazio per una nuova integrazione familiare
33
di Cristina Mazzacurati
PARTE SECONDA
Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale”
41
di Marco Turri
PARTE TERZA
Il monitoraggio e la valutazione del progetto
Da una casa all’altra: le storie di vita delle assistenti familiari
49
di Gianfranco Zucca
3
Spazio e tempo
Prefazione
di Andrea Olivero*
In seguito alla recente COP di Milano sul tema “Sentinelle del territorio, costruttori di solidarietà”, sembra a me che uno dei compiti prioritari delle Acli sia
quello di tradurre la governance di sistema da principio organizzativo a concreta
sperimentazione operativa.
Da molti anni stiamo lavorando per la realizzazione di un articolato sistema in
grado di tenere insieme servizi, associazioni e imprese nell’orizzonte della nostra
unica mission unitaria. Grazie alla Funzione Sviluppo Associativo possiamo affermare che importanti passi avanti in tale direzione sono stati compiuti, soprattutto
in materia di coordinamento e di co-progettazione. È in questo modo che la governance può diventare sempre meno un ideale astratto e sempre più un modo
nuovo di governare, certamente più partecipato e condiviso. Così facendo, la democrazia associativa su cui le Acli hanno insistito a lungo negli ultimi anni, viene
ora completata attraverso le forme partecipative che sono proprie della democrazia deliberativa.
Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale” che le Acli presentano
in questo volume, esprime in modo esemplare in un’ottica progettuale tale modello
operativo in un’associazione complessa come le Acli sul tema impegnativo “Immigrazione e lavoro di cura” attraverso il diretto coinvolgimento di alcune essenziali articolazioni del sistema aclista, ciascuna con un suo specifico contributo:
- Funzione progettazione e innovazione sociali e politiche per la famiglia
- Acli Colf
- Area immigrazione
- Coordinamento donne
- Dipartimento welfare
- Iref
Alla luce di ciò che si propone tale progetto delle Acli sull’inclusione sociale,
vorrei tuttavia sottolineare, al di là della metodologia integrata, riaffermare con forza le ragioni di merito del nostro impegno per l’accoglienza, la cura e l’individuazione di una via italiana per l’integrazione degli immigrati nel nostro Paese.
È l’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI che può rappresentare anche in questo campo la “bussola” del nostro impegno che è anzitutto di natura culturale.
* Presidente Nazionale Acli.
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PREFAZIONE
Nell’enciclica si mostra un coraggio insolito e si chiamano le cose per nome,
introducendo categorie di pensiero non abituali nel linguaggio politico. La parola
fraternità, ad esempio, ricorre per ben 39 volte nel testo e viene proposta come
un principio di civilizzazione della politica e dell’economia.
La presenza di tanti immigrati anche in Italia viene a sollecitare il nostro concreto contributo di soggetto civile a fronte del fatto che «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli» (n.19). Per questo è proprio la fraternità il criterio decisivo per dare un fondamento solido al modello di integrazione e di inclusione sociale che le Acli vogliono realizzare.
Siamo consapevoli che una via italiana per l’integrazione degli immigrati non si
improvvisa ed esige tempi lunghi. Deve essere infatti il risultato di un processo di condivisione e di sereno confronto tra i molteplici attori interessati partendo dalla convinzione che le politiche per l’immigrazione si collocano su un terreno nuovo anzitutto per la novità e la consistenza del fenomeno migratorio. Chi non comprende tale
novità della sfida migratoria è condannato a riproporre vecchi schemi del passato.
Ma una nuova politica dell’integrazione e del riconoscimento oltre la logica emergenziale e all’interno di un nuovo paradigma di cittadinanza non può partire dal sentimento della paura del “diverso”, né dalla questione della sicurezza che ci induce
soltanto a rafforzare le misure di difesa e di controllo, senza favorire la conoscenza
dell’altro, la cultura del dialogo, del rispetto e dell’accoglienza nella legalità.
In più occasioni le Acli hanno sollecitato le forze sociali e politiche a prendere
le distanze da un uso strumentale, populistico ed elettoralistico quando si affronta il problema migratorio. Al contrario, da italiani siamo tenuti a ricordare il nostro passato di popolo emigrante - che ha conosciuto sulla propria pelle le ferite e
le sofferenze che comporta il migrare - ma soprattutto siamo chiamati a sottolineare come oggi gli immigrati siano una risorsa preziosa per il nostro Paese: vuoi
a livello demografico (se è vero che grazie agli immigrati siamo oggi 60 milioni)
vuoi a livello economico (se è vero che sono loro che contribuiscono per il 10% al
nostro Pil, e sono loro che pagano le nostre pensioni).
Ho fatto questa lunga premessa anche perché sono convinto che un modello
di integrazione e una efficace e intelligente politica di inclusione sociale debbano
interessare non solo le istituzioni ma anche e soprattutto gli stessi movimenti della società civile. L’integrazione infatti deve essere accompagnata da una pedagogia sociale diffusa, ossia da un lavoro capillare che aiuti a comprendere l’alfabeto dell’inclusione e dunque i nuovi significati che dovrebbero assumere alcune parole-chiave come: cultura, etnia, identità, cittadinanza, laicità, etica pubblica. A ciò si aggiunga anche la prospettiva di una riforma della governance territoriale, poiché le politiche migratorie si affrontano non con diktat dall’alto ma con
la pluralità degli attori sociali e istituzionali che operano in un Comune o in una
Regione, nonché a livello nazionale ed europeo.
Quando nel nostro Paese si verificano episodi come quelli avvenuti a Rosarno
o a Milano in via Padova, oppure quando si offende il Cardinale di Milano Dionigi
Tettamanzi, definendolo un Imam del Nord, soltanto perché si è pronunciato a favore dei musulmani e sulla necessità che vedano rispettato il diritto di avere un luo-
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Spazio e tempo
go di culto, allora ci si rende conto che forse in Italia non esistono ancora idonee
condizioni culturali per scegliere l’integrazione come opportunità e avanzamento verso il bene comune.
Per questo è convinzione delle Acli che nel campo delle politiche migratorie l’Italia abbia urgente bisogno di una inversione di tendenza e di una sorta di alleanza per l’integrazione, spingendo in modo particolare su due pedali:
- accelerare il processo per l’ottenimento della cittadinanza;
- riconoscere il diritto di voto agli immigrati nelle elezioni amministrative.
Come appare del tutto evidente, una maggiore inclusione sociale così come
una politica di integrazione non riguarda l’ordine pubblico, ma è anzitutto questione di democrazia e di civiltà giuridica.
Ecco allora perché ritengo importante riconoscere un nuovo statuto di cittadinanza alle seconde generazioni che già vivono nel nostro Paese. Bisogna superare la trasmissione della cittadinanza dai genitori ai figli (jus sanguinis), e riconoscere la cittadinanza a coloro che sono nati sul territorio nazionale (jus soli) o che
da almeno cinque anni sono regolarmente residenti in Italia (jus domicilii).
Nella nostra società caratterizzata dal pluralismo etnico e dalla mobilità umana
é infatti evidente che né il sangue di un popolo né il territorio di uno Stato possono costituire il pilastro fondativo di una cittadinanza plurale e inclusiva.
Come movimento di cristiani impegnati negli avamposti delle criticità sociali, le
Acli non possono aderire al modello inaccettabile del multiculturalismo separatista
e ideologico, sostanzialmente figlio di un paralizzante relativismo culturale che non
riconosce le differenze ma le assolutezza in una deriva comunitaristica.
La vera scommessa da vincere è quella dell’integrazione interculturale, come da tempo propongono con chiarezza i documenti ufficiali della Chiesa. Questa
visione che sta al di là dell’assimilazionismo e del multiculturalismo (sia di stampo
separatista che comunitarista), dovrebbe oggi aprirsi anche al riconoscimento del
diritto ai simboli culturali e religiosi nella polis globale, come elemento strutturale della nuova cittadinanza che deve essere non solo legale, sociale e politica
ma, appunto, anche simbolica. Bisognerebbe inoltre riprendere il cammino che in
Italia era stato intrapreso sia da Giuseppe Pisanu che da Giuliano Amato quando
erano Ministri degli Interni. Occorre cioè, ripartire dalla “Carta dei valori” e andare oltre, avanzando una proposta politica non di piccolo cabotaggio ma all’altezza
dei tempi nuovi.
Di grande importanza è anche il ruolo che potrebbe assumere la scuola e l’educazione in questo processo di trasformazione che abbraccia sia il modo di pensare
sia il modo di agire e di comportarsi. A mio avviso una via italiana all’integrazione deve poter contare non solo sulla volontà delle forze politiche ma anche sul contributo
educativo e culturale che potrà venire dall’associazionismo e dal Terzo settore.
Mi pare che anche questo progetto, nella sua inevitabile parzialità, si ponga con
decisione lungo questa via costituendone insieme un’occasione di riflessione e di
buone pratiche, esemplarmente assunte come modello virtuoso di socialità e cittadinanza responsabilmente agita nell’ottica del bene comune.
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Spazio e tempo
Introduzione
di Lidia Borzì*
Il tempo e lo spazio dell’accoglienza
Spazio e tempo, concetti fondamentali nella vita dell’uomo, sono entità con la
cui definizione e misurazione esso si è sempre confrontato dall’antichità ad oggi;
ed infatti, pur nella loro odierna relatività, le implicazioni connesse al dove e al quando rappresentano coordinate imprescindibili per la creazione dell’identità, tanto
personale quanto collettiva.
La vita, del resto, si sviluppa in un movimento continuo attraverso lo spazio ed
il tempo e, brevi o lunghi che siano gli spostamenti, è insito nella natura dell’uomo
l’essere migrante, fisicamente e mentalmente. La vita metaforicamente è un viaggio all’interno del quale l’incontro con “l’altro” ci arricchisce, amplia la nostra coscienza ed i nostri orizzonti: l’altro uomo, l’altro luogo, l’altro pensiero, l’altra cultura. Accogliere la diversità ci rende migliori, come singoli e come Paese, poiché,
come ci ricorda lo storico inglese Arnold Joseph Toynbeen «La civiltà è un movimento, non una condizione; un viaggio, e non un porto».
Tuttavia, troppo spesso oramai, le nostre civiltà si sentono ormeggiate in porti sicuri e sembrano dimenticare la cultura dello scambio e dell’accoglienza reciproca.
L’Italia, ad esempio, è stata terra in primo luogo d’emigranti: ondate di popolazione si sono spostate da sud a nord o verso l’estero in cerca di fortuna, ed ancora oggi i nostri giovani lasciano la Patria per inseguire i loro sogni e costruire un
solido futuro fuggendo da disoccupazione e precariato. Allo stesso tempo però il
Bel Paese è divenuto terra d’immigrazione, porta d’ingresso in Europa per i popoli
del mediterraneo, “America” di chi scappa da povertà e guerre nel tentativo di rifarsi una vita.
Crocevia di flussi migratori, dunque, l’Italia è un paese che ha trovato nella popolazione straniera una ricchezza culturale, demografica ma, soprattutto, lavorativa; gran parte di essa, infatti, svolge nel nostro Paese i lavori più umili, lavori che
però, in contrasto con le buone pratiche dell’accoglienza, sono spesso sottopagati, non regolari e poco sicuri. Ci si dimentica infatti, che accogliere nel senso intimo della parola non significa tollerare, non è una sopportazione o una concessione pietosa. Accogliere vuol dire dare significato alla presenza dell’altro, esaltare il suo valore senza limitarne la libertà e rispettandone identità, dignità e diritti.
L’inclusione sociale dei migranti passa perciò dell’accoglienza vera che mette
al centro l’uomo e lo aiuta ad essere artefice del proprio destino, superando le lo-
* Responsabile Funzione Progettazione e Innovazione Sociale, politiche della famiglia.
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INTRODUZIONE
giche d’interventi meramente assistenziali o di provvedimenti spot che mirano solo ad ottenere facili consensi facendo leva sulla xenofobia della massa.
Un progetto per e con le assistenti familiari migranti
Per questo motivo, dunque, le Acli sono da tempo impegnate, anche attraverso progetti innovativi, a sviluppare una nuova cultura dell’accoglienza e favorire l’inclusione sociale degli stranieri che si trasferiscono nel nostro Paese, impegnandosi a sviluppare un modello d’intervento incentrato sulla reciprocità che privilegia il lavorare con i migranti rendendoli soggetti attivi di questo percorso, piuttosto che il lavorare per i migranti, in un modello assistenziale che li vede solo spettatori passivi.
Le Acli hanno oramai abbracciato la metodologia del lavoro per progetti idonea alla realizzazione d’interventi in grado di far fronte in chiave innovativa ai bisogni sempre nuovi che si evolvono di pari passo con la società, intendendo la progettazione come atteggiamento del pensiero, come strategia del mettere in relazione idea politica e opere, capace appunto di trasformare il progetto da mero fatto tecnico a fatto politico volto alla costruzione del bene comune.
Il progetto Spazio e tempo per l’inclusione sociale, rivolto alle assistenti familiari straniere che lavorano in Italia, è un ulteriore passo in direzione di questo bene, un modo di guardare al fenomeno dell’immigrazione che va al di là della logica dell’emergenza.
Grazie ad un progetto,quindi, è stato possibile ritagliare “spazio e tempo” per
aiutare le donne immigrate che lavorano nelle famiglie italiane a sviluppare, in autonomia e libertà, i propri progetti lavorativi e di vita, riconoscendo così che l’immigrazione è una componente stabile della società italiana e come tale va considerata, e che gli immigrati non sono solo soggetti esclusivamente bisognosi d’assistenza: nonostante le condizioni di vita difficili spesso, le donne e gli uomini stranieri sono soggetti dinamici e attivi, portatori di una sorprendente carica di nuova energia.
Le ragioni che ci hanno spinto a realizzare un progetto esplicitamente dedicato alle assistenti familiari nascono da un’attenta analisi del contesto entro cui esse
si trovano a vivere e a lavorare.
Nel nostro Paese infatti migliaia di anziani, di diversamente abili e di bambini
vengono accuditi ogni giorno da persone non appartenenti alla cerchia familiare. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di donne straniere, comunitarie e non,
che si sono spostate in Italia per lavorare come assistenti familiari. La collaborazione domestica è un servizio che viene svolto quotidianamente nel silenzio delle mura domestiche da donne che hanno lasciato la propria famiglia per assisterne un’altra. È un servizio, ma è anche un lavoro, spesso non riconosciuto come tale, che interessa e coinvolge la sfera affettiva e che arriva a volte a cancellare il confine che separa il rapporto lavorativo dalla sfera relazionale, creando situazioni difficili da gestire soprattutto per la donna lavoratrice. Nascono qui, dunque, le due principali debolezze del cosiddetto “welfare fatto in casa”: la famiglia
che deve far fronte ai bisogni di cura dei congiunti più fragili e la collaboratrice
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Spazio e tempo
domestica che, soprattutto se priva di permesso di soggiorno, si trova in posizione subordinata.
Inoltre, particolarmente complessa risulta la situazione delle assistenti familiari
che co-abitano con la persona assistita, poiché si tratta di una categoria di donne
ancor più vulnerabili che la co-abitazione espone a diversi rischi: dalla discriminazione contrattuale, nelle condizioni di lavoro e nelle opportunità di miglioramento.
Nuovi orizzonti e nuovi spunti di riflessione
Il progetto Spazio e Tempo quindi si è dovuto confrontare con un campo sociale caratterizzato da una problematicità particolarmente articolata e complessa;
e difatti nel corso del suo svolgimento oltre ai risultati raggiunti, che c’incoraggino
a proseguire con convinzione su questa strada accrescendo il nostro impegno, l’iniziativa ha fatto emergere ulteriori nodi problematici sui quali ci ripromettiamo di
sviluppare proposte e strategie, innovative e sperimentali, che possano delineare
una coerente e completa agenda d’intervento, la quale si sviluppi a partire da tre
principali riflessioni.
In primo luogo bisogna attenzionare i cambiamenti che intervengono quando
si lavora tenendo conto di una prospettiva di genere. Pensando ai fabbisogni di
cura delle famiglie non si può tralasciare infatti lo specifico femminile: sono le donne che si fanno carico, in prima persona o attraverso una collaboratrice esterna,
del lavoro di cura. È da loro dunque che bisogna partire per restituire dignità ad
un’occupazione troppo spesso svalutata. Partire dalle donne significa evidenziare
il carico di impegno e responsabilità che implica il lavoro di cura e fare attenzione
a che quest’ultimo non metta in secondo piano i legittimi bisogni di socialità e autorealizzazione delle caregiver.
Il secondo spunto di riflessione proviene invece dalle famiglie e dalla possibilità
che possano rappresentare, come spesso già accade, un laboratorio di integrazione culturale e sociale. Nel lavoro di cura si può sviluppare una vera accoglienza reciproca: se per un verso l’assistente familiare lascia la sua famiglia per dedicarsi alla cura di un’altro nucleo, per contro anche la famiglia assistita si apre, accogliendo una nuova persona.
In ultimo, bisogna riflettere sulla convinzione, fortemente affermata all’interno
di questo progetto, che una piena inclusione sociale dei migranti ed in particolare
delle assistenti familiari immigrate nasca da una forte alleanza tra gli stessi, la famiglia, la società civile e le Istituzioni .
In conclusione quindi, Spazio e Tempo è stata un’ulteriore occasione per ribadire che è solo dall’azione comune di tutti gli attori sociali e dal riconoscimento delle reciprocità dei servizi svolti che può realmente concretizzarsi il futuro pluri-culturale della società italiana, un futuro che deve passare dal miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nonché dal riconoscimento dei diritti degli immigrati.
Solo così la nostra civiltà, per usare una metafora, sarà una nave che viaggia
e si arricchisce solcando mari sicuri diretta verso l’orizzonte del domani, poiché al
contrario la troppa sicurezza di aver raggiunto il porto potrebbe trasportarci invece in mare aperto, in balia della bufera.
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PARTE PRIMA
Immigrazione e lavoro di cura
Spazio e tempo
Collaboratrici domestiche e assistenti familiari
in Italia: riflessioni e proposte per un Welfare
della cura oltre il “fai da te”
di Raffaella Maioni*
Il lavoro di cura non è un gioco. Tema complesso, al centro del dibattito politico e sociale, rimanda a cambiamenti profondi che investono la società nel suo
insieme.
La concomitanza di fattori di diversa natura - quali da un lato l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei tassi di attività femminile, il nuovo scenario delle migrazioni internazionali e dall’altro l’insufficienza di servizi pubblici - ha creato
l’humus per lo sviluppo di una risposta privata ai bisogni di cura delle famiglie, e
costituito, dunque, il presupposto di quella che possiamo definire la “via italiana”
ai bisogni di cura.
Ma se questo ricorso ai servizi privati ha dato risposte a problemi contingenti
delle famiglie italiane, d’altro lato però si è tradotto in un disincentivo ad investire
nel pubblico, con implicita svalutazione e peggioramento dei servizi socio-sanitari
legati alla cura.
Come ha dimostrato una recente ricerca realizzata da Raffaella Sarti ed Elena
De Marchi per conto delle Acli Colf e presentata durante l’ultimo congresso nazionale1, le politiche del Welfare della cura si limitano ad assicurare prestazioni predeterminate e standardizzate attinenti più strettamente alla vita biologica delle persone assistite, condizionate fortemente dal budget del momento e comunque delimitate a spazi temporali ben definiti. È su questo aspetto che si fonda il successo delle assistenti familiari: esse garantiscono una cura complessiva non soltanto
della persona assistita, ma dell’ ambiente familiare nel suo complesso. Così si è
andato configurando uno scenario che registra una forte tendenza al “welfare fatto in casa”, un sistema cioè deregolamentato, che non è garanzia di tutela per nessuno, né per le famiglie in difficoltà, né per i/le lavoratori/lavoratrici.
Ma quante sono le colf e le assistenti familiari?
Secondo i dati ufficiali, le lavoratrici/tori domestiche/i regolarmente iscritte/i all’INPS nell’anno 2009 ammontano a circa 745mila unità. Risulta difficile però avere un numero esatto, in quanto le statistiche ufficiali escludono dal computo tutte
le situazioni di lavoro nero, sommerso e di lavoratori non registrati. Le stime delle/dei lavoratrici/tori impegnati in questo settore oscillano dal milione (Caritas 2010)
a più di a più 1 milione e mezzo (Censis 2010).
* Responsabile Nazionale Acli Colf.
1 Sarti R & De Marchi E., “Assistenza pubblica e privata - XVII Assemblea Nazionale Acli Colf - Roma,
22-24 maggio 2009.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
Chi sono?
Sono soprattutto donne, nella maggior parte dei casi straniere (il 70% circa).
Durante gli anni Settanta le donne straniere impiegate nel settore domestico e/o
di cura provenivano soprattutto dalle Filippine, dall’Eritrea, da Capo Verde, dall’Ecuador. La caduta del regime sovietico cambia la composizione dei flussi migratori segnando l’arrivo in Italia di donne provenienti dall’Europa dell’Est (romene,
ucraine, moldave, polacche, bulgare, russe ecc. ) che trovano uno spazio di impiego di nuova creazione2 presso famiglie appartenenti alla media e piccola borghesia3. Si tratta in questo caso di donne con titoli di studio elevati, ma che non
hanno una formazione specifica nel settore dell’assistenza.
La percentuale delle italiane non è comunque trascurabile. In questo caso si
tratta per lo più di donne non più giovanissime, che svolgono prevalentemente lavori domestici con contratti ad ore, per le quali il lavoro domestico rappresenta
un’occasione per integrare il bilancio familiare e per conciliare l’occupazione extradomestica con le proprie esigenze di vita.
Le condizioni di lavoro
Le condizioni di lavoro variano a seconda del tipo di impiego. Diversa è infatti
la posizione di chi co-abita con il proprio datore di lavoro rispetto a quella di chi ha
un contratto ad ore.
La posizione delle collaboratrici familiari che lavorano ad ore è caratterizzata
da un certo grado di autonomia, dal rispetto più o meno flessibile degli orari di lavoro, e l’evasione contributiva, agevolata dal sistema poco incentivante vigente, è
spesso concordata (una sorta di convenienza al ribasso). Condizioni di lavoro più
pesanti e limitative della libertà personale caratterizzano, invece, i rapporti di lavoro che prevedono la co-abitazione della lavoratrice con la famiglia. In questi casi,
è frequente che tra le parti non ci siano obblighi contrattuali precisi ed il tipo di lavoro cui le lavoratrici sono tenute varia considerevolmente in ragione delle esigenze della persona anziana assistita e del suo stato di salute.
Quello della assistente familiare è infatti un lavoro complesso, che richiede un
impegno notevole, e la disponibilità a ricoprire diversi ruoli nello stesso tempo e
nello stesso spazio. I significati del ‘badaré - scrive Vietti - paiono essere infiniti”4.
E - aggiungiamo noi - ambigui. La logica dei rapporti talvolta è strumentale, talvolta al contrario prevale la dimensione affettiva in un gioco continuo delle parti in cui
al rispetto delle norme contrattuali si sostituisce spesso una gestione “familistica”
della relazione.
2 Zanfrini L. Articolo in merito ad un’inchiesta condotta sulle ripercussioni della crisi economica sui
cittadini immigrati. Redattore Sociale, 20 maggio 2010.
3 L’arrivo di donne straniere, sulle cui ragioni non possiamo soffermarci, ha provocato una perdita della cura nelle donne che emigrano e nelle loro famiglie, e nel contempo la loro partenza/assenza si trasforma in una pressione sui sistema di welfare dei paesi di origine.
4 Vietti F., “Il paese delle badanti”, Meltemi, Roma, 2010.
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Spazio e tempo
La normativa che disciplina il rapporto di lavoro domestico e le proposte
delle Acli Colf
Il lavoro domestico e/o di cura è considerato dal punto di vista normativo un
rapporto di lavoro speciale, “altro” rispetto agli ordinari rapporti di lavoro, per certi versi non un vero e proprio rapporto di lavoro. Questa considerazione “speciale”
giustifica spesso deroghe rispetto alla disciplina degli altri contratti di lavoro e consente meccanismi distorti. Ad esempio, l’ancoraggio della contribuzione alle fasce
di retribuzione convenzionale, sistema che non trova riscontro in nessun altra categoria lavorativa. Da qui una contribuzione ridotta, che riduce anche la maturazione di diritti previdenziali. O ancora il mancato riconoscimento dell’indennità di
malattia a carico dell’INPS, e inoltre la tutela soltanto parziale della maternità. A
fronte di questa sottrazione di diritti, è importante intervenire a livello normativo per
un riconoscimento pieno dei diritti. In particolare le Acli Colf propongono l’abolizione delle retribuzioni convenzionali oggi vigenti in Italia e l’introduzione di una aliquota legata alla retribuzione effettiva, come per la generalità dei lavoratori dipendenti, in modo che siano garantiti diritti pieni compreso il riconoscimento dell’indennità di malattia e la completa tutela della maternità.
Le Acli Colf inoltre sottolineano la necessità di distinguere tra lavoro domestico di sostegno al governo della casa e lavoro di cura a favore di persone non autosufficienti ponendo a fondamento di quest’ultimo la tutela del diritto costituzionale alla salute. In tal modo il lavoro di cura diventerebbe un punto in un sistema
integrato di servizi sociali ed assistenziali alla famiglia. Affiancare le lavoratrici e i lavoratori in percorsi di cittadinanza: questo il compito al quale le Acli Colf - come il
sistema Acli nel suo complesso - lavorano con impegno.
Dare nuova dignità al lavoro di cura, come “bene relazionale”. Promuovere e
tutelare chi cura e chi è curato, facendosi carico di entrambe le fragilità di questa
relazione. Lavorare insieme alla costruzione di un Welfare comunitario: questa la
nostra proposta.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
BIBLIOGRAFIA
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Ehrenreich B., Hochschild R. A., “Donne globali. Tate, colf e badanti”, Feltrinelli, Milano, 2004.
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Piperno F., “L’altra faccia del nostro welfare: il drenaggio di cura nei paesi di origine. Il caso della Romania”, in Studi Emigrazione/Migration Studies, 168, 2007
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Sarti, R.,“Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura. Servizio domestico migrazioni e identità
di genere in Italia: uno sguardo di lungo periodo” in Polis vol. 18, no. 1, 2004; pp. 17-46.
Sarti R & De Marchi E., “Assistenza pubblica e privata - XVII Assemblea Nazionale Acli Colf - Roma, 2224 maggio 2009.
Turrini O., “Le casalinghe di riserva”, Coines Edizioni, Roma 1977.
Vietti F., “Il paese delle badanti”, Meltemi, Roma, 2010.
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Spazio e tempo
Lavoro di cura e immigrazione
di Antonio Russo*
Occuparsi di questo tema significa toccare diversi nervi scoperti della nostra attuale situazione socio economica: da un lato significa riproporre all’attenzione il fenomeno mai adeguatamente affrontato dell’immigrazione nel suo complesso, dall’altro ci costringe a fare i conti con l’evoluzione demografica del nostro paese e del
mondo occidentale in genere e con le conseguenze che essa comporta; da un altro punto di vista ancora richiama alla superficie la questione non nuova ma attuale della divisione di genere del lavoro; ed infine ripropone la rivendicazione della dimensione relazionale nella produzione di beni e servizi.
Questo è lo sfondo dove ci parrebbe opportuno situare il tema del rapporto tra
lavoro di cura e fenomeno migratorio nel nostro Paese. D’altra parte siamo consapevoli che le dimensioni assegnate a questo intervento non possono adeguatamente indagare tutte queste dimensioni: quindi ci accontentiamo di porre in premessa l’avvertenza a tenerne conto in qualche modo e ci avviamo a fornire alla discussione solo alcune nostre osservazioni.
Il lavoro di cura
Il primo aspetto sul quale vorremmo soffermarci è quello della attività di cura come vero e proprio “lavoro”. Crediamo infatti che sia questo un punto di partenza irrinunciabile per una corretta impostazione del tema che qui ci interessa.
L’ espressione “lavoro di cura”, soprattutto quando viene accostata al termine
“immigrazione”, induce la nostra fantasia, impoverita da riflessi culturalmente un po’
scontati, a farci venire alla mente immagini, divenute negli ultimi anni consuete, come la donna filippina che sorregge una anziana signora italiana in un breve passeggio per le vie delle nostre città, o la donna ucraina parcheggiata notte e giorno
in casa a vigilare una anziana allettata. In verità per “lavoro di cura” si intendono tutti quei lavori, retribuiti e no, che hanno come destinatarie, dirette o indirette, le persone e il loro benessere materiale e immateriale. Si tratta dunque di un ampia gamma di prestazioni qualificate che impropriamente e - diremmo - a rimorchio delle forze cieche del mercato, riduciamo a una sola dimensione, quella custodiale. E, si
preciserà più avanti, proprio l’incapacità di tutti i soggetti coinvolti nel fenomeno a
reagire a questa tendenza riduttiva è da considerarsi una delle cause delle criticità
che invece ora è tempo di affrontare.
Vorremmo cioè conferire a questa attività la dignità e lo statuto giuridico di lavoro vero e proprio. A differenza di altre esperienze umane questa prestazione deve pa* Responsabile Area Immigrazione Presidenza nazionale Acli.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
gare un pedaggio particolare per poter superare quella soglia al di sotto della quale
non viene considerato “lavoro”. Le mansioni concrete richieste a chi si dedica alla
“cura” di altri sono infatti assai simili a quelle prestazioni che spontaneamente - soprattutto fino a un recente passato - abbiamo visto svolgere da una madre o una
moglie all’interno della propria casa e a beneficio dei propri famigliari. Cosa è dunque necessario al lavoro di cura per essere un vero e proprio “lavoro”?
Qui ci soccorre il ricordo di un interessante articolo di Paola Toniolo Piva «Quando la cura degli altri diventa un vero e proprio lavoro» in Terzo settore n. 2/2/03 (illavorodicuraeunverolavoro). L’articolo fa notare come il lavoro di cura - per tipo di mansioni che richiede - è molto simile a ciò che in casa la donna, la mamma o altro membro della famiglia è solito fare per i propri cari e che, entro certi limiti, non si sognerebbe mai di considerare un lavoro e tanto meno quantizzabile in termini di salario. È
ben vero che recentemente sono sorti movimenti che hanno cercato di far emergere questo tipo di prestazioni a livello di attività di lavoro al pari di tutte le altre. Ma sinora con scarso o nessun successo. D’altro lato, c’è una soglia, varcata la quale,
l’occuparsi dell’altro, anche se si tratta di un proprio caro, può cominciare a venire
percepita non più solo una manifestazione d’affetto ma come un vero e proprio lavoro che «va oltre l’economia dei sentimenti e assume un valore per l’economia pubblica» Secondo l’esperto: «è questo il passaggio che trasforma il curante in un lavoratore: quando il suo fare, oltre al significato privato per il singolo ricevente, assume
un valore aggiuntivo, per l’economia e l’interesse generale».
E così conclude:
«Molti sono i fattori che oggi contano nel definire un lavoro: necessità, retribuzione, contratto, cultura professionale, auto-percezione, riconoscimento da parte dei
soggetti che fanno parte della stessa categoria lavorativa. Il lavoro su cui è stata fondata la Repubblica italiana dai padri costituenti fa riferimento al paradigma industriale descritto all’inizio: lavoro retribuito mezzo di sostentamento materiale, ma anche
fonte di identità personale e principio di cittadinanza. Questo è stato iscritto nel Contratto repubblicano. Nel tempo presente, lo status lavorativo tende a configurarsi un
po’ meno in base alla retribuzione, mentre si regge di più sulla condivisione di pratiche e culture professionali e sull’utilità del servizio reso alla collettività. Il lavoro di cura è un settore che ha bisogno proprio di questi elementi, per crescere in stima e visibilità. Per arrivare alle tutele è di qui che bisogna passare».
La donna immigrata e il lavoro di cura
Mentre la “cura” dei non autosufficienti in famiglia si andava collocando nel nostro Paese in questa terra di mezzo tra volontariato famigliare e lavoro domestico, e
proprio nel momento in cui la metamorfosi socio-economica della nostra società andava evidenziando le prime crepe nel sistema di assistenza tutto appoggiato sulle
spalle delle nostre donne (madri, mogli, figlie), è intervenuto il salutare flusso dell’immigrazione femminile. Si potrebbe quasi dire: mors tua, vita mea. O, meno cinicamente: il bisogno economico sociale della donna straniera si è incontrato con quello della famiglia italiana e ha preso avvio un sottosistema lavorativo specifico. La questione sta però nel non accontentarsi anche in questo caso della “mano invisibile”
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Spazio e tempo
del mercato e verificare se queste dinamiche coincidenti si siano incontrate correttamente e il poligono di forze che queste tendenze hanno costituito ci spinga verso
un di più di giustizia sociale per tutti.
Di solito ci accontentiamo di considerare questo ingresso come una fortunata
coincidenza che permette di colmare in qualche modo una lacuna che l’evoluzione
socio economica aveva aperto, quella dell’assistenza agli anziani, che per la famiglia
italiana stava diventando un problema di difficile soluzione. Se da un lato è vero che
l’immigrazione femminile è venuta in soccorso a una difficoltà del nostro sistema sociale, dall’altro non possiamo nasconderci la serie di nuove problematiche a cui tutto questo ha dato la stura.
Come si sa, non è facile ricostruire le dimensioni esatte della presenza delle donne immigrate in questo settore. Si tratta infatti di un campo privilegiato per il sommerso sia in termini di irregolarità del titolo di soggiorno sia di totale o parziale mancata formalizzazione del rapporto di lavoro. I dati ci dicono che più della metà degli
immigrati in Italia è di genere femminile. Gran parte di queste donne sono arrivate in
Italia per dare compimento ad un progetto di ricongiungimento familiare, per dare
cioè stabilità a un progetto condiviso di mettere radici in un Paese lontano dal proprio. Ma non ci sono solo queste donne. Ve ne sono altre, di età media di solito un
po’ maggiore, che intraprendono questo viaggio da sole, magari dopo un’esperienza famigliare più o meno felice in patria, con figli da mantenere che affidano a parenti,
e che vengono ad inserirsi in una realtà tanto diversa in un modo così penetrante come comporta vivere nella stessa casa del datore di lavoro. E tutto questo sacrificio
di sé e dei propri affetti in vista di un ritorno per potersi un giorno ricostruire una vita
nuova in patria. In genere questa è la condizione delle donne straniere che vengono
a inserirsi nel lavoro di cura nel nostro Paese.
I dati CENSIS sul lavoro domestico ci dicono che 2 milioni 412 mila famiglie italiane ricorrono ai servizi di collaboratori domestici (una su dieci), che nel 2009 hanno
raggiunto come detto la cifra di 1 milione 538 mila (+42% rispetto al 2001). Le cosiddette badanti e colf sono per l’82,6% donne, in maggioranza straniere (71,6%),
provenienti dall’Europa dell’Est: Romania (19,4%), Ucraina (10,4%), Polonia (7,7%)
e Moldavia (6,2%). Il 51,4% ha meno di 40 anni e il livello di istruzione è più alto delle colleghe italiane: il 37,6% possiede un diploma di scuola superiore e il 6,8% una
laurea, contro rispettivamente il 23,2% e il 2,5% dei collaboratori domestici italiani.
Il 55,4% di queste lavoratrici presta servizio in una sola famiglia, mentre il 44,6%
è “pluricommittente”: il 15,4% lavora per due famiglie, il 13,6% per tre, il 9,8%per
quattro e il 5,7% per più di quattro. Il 26,5% alloggia presso la famiglia per cui lavora. In media, l’anzianità di servizio è attorno a 7 anni, con il 33,1% dei collaboratori
domestici impiegati da meno di 4 anni, il 26,1% da 4-6 anni e il 17,3% da oltre 10
anni. La paga mensile media è di 900 euro netti. La maggioranza guadagna meno
di 1.000 euro netti al mese: il 22,9% meno di 600 euro, il 20,2% da 600 a 800 euro,
il 24,5% tra 800 e 1.000 euro.Ma per una fetta consistente dei collaboratori domestici (il 32,4%) la retribuzione netta mensile supera la soglia dei 1.000 euro (il 14,6%
guadagna più di 1.200 euro). Il 62% lavora in nero o in situazione di evasione contributiva parziale. A lavorare completamente in nero sono il 53,9% dei collaboratori do-
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
mestici italiani e il 34,7% degli stranieri, interessati ad avere un contratto per ottenere il permesso di soggiorno. Al Sud il livello di irregolarità sale al 72,7%, con il 58,8%
dei collaboratori domestici che dichiarano di essere totalmente irregolari e il 13,9%
parzialmente irregolari. In termini di evasione contributiva, su 100 ore lavorate sono
soltanto 42,4 quelle per cui vengono effettivamente versati i contributi. Quasi 6 ore
di lavoro su 10 risultano quindi prive di qualsiasi forma di copertura previdenziale, al
di fuori del quadro di regole, tutele e garanzie previste dalla legge.Il 44% ha avuto un
incidente nell’ultimo anno ma senza che poi questo venga denunciato.
Le donne immigrate condividono le difficoltà della congiuntura economica di chi
parte dal fondo della scala sociale, si confrontano con le peripezie dell’ accesso ai
servizi, con il grosso limite di non avere un ombrello parentale presso cui chiedere
eventuale sostegno e protezione. Come sappiamo, sono proprio le donne immigrate quelle che maggiormente in Italia usufruiscono della interruzione volontaria di gravidanza perché nella loro condizione sarebbe veramente impossibile sostenere le esigenze della maternità.
Secondo un’ indagine dell’Iref svolta all’interno del progetto UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni razziali) sulla discriminazioni subite dalla donne straniere
impegnate nel lavoro di cura, ha rivelato che sono principalmente tre le sofferenze
che vengono lamentate: l’essere sfruttate economicamente proprio in quanto spesso irregolari sul territorio, l’essere trattate con sufficienza e maleducazione pretendendo da loro mansioni e tempi di lavoro irrispettosi della dignità umana che anche
a loro andrebbe riconosciuta, e spesso anche l’essere vittima di molestie sessuali. Si
tratta di risultati che in gran parte ci si poteva attendere. Ciò che magari sorprende
un po’ e lascia l’amaro in bocca è che queste sofferenze siano considerate dalle immigrate stesse come un prezzo in un certo senso da pagare soprattutto nei primi anni di permanenza nel nostro Paese. E quando è stato chiesto loro cosa hanno fatto
per contrastare queste situazioni, la risposta è che “o sopporti o te ne vai”, ma aggiungono anche che spesso questa scelta è puramente teorica e quindi le angherie
si protraggono per molto tempo.
Qualche indicazione per un intervento
In primo luogo, l’urgente non deve far dimenticare l’importante. Ciò significa che
accanto a utilissimi interventi di sostegno personale a queste donne - azione egregiamente svolta da associazioni del privato sociale - il problema va affrontato alle radici e
connesso al quadro più generale dell’assetto socio-economico del nostro Paese.
L’esigenza di garantire una serie di servizi interni alla famiglia c’è sempre stata ma
già da qualche decennio la sensibilità culturale e i dati oggettivi hanno richiesto un ripensamento di questo nevralgico settore della società al quale non si è dato un seguito adeguato. Spesso si sono spese molte parole, forze politiche hanno dichiarato di sostenere i bisogni della famiglia, ma in concreto la condizione - e specie quella femminile - sconta ancora gravi ritardi. Le donne “multiruolo” - come le chiama l’ISTAT - cioè quelle che sommano ad un’occupazione esterna l’attività dentro casa raggiungono facilmente le 60 ore di lavoro complessivo per settimana e il 38% raggiunge anche le 70 ore. A questo si aggiunga il fatto che anche lo stesso lavoro do-
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Spazio e tempo
mestico ha subito una evoluzione sia perché - a causa del prolungamento della vita
o del tempo di permanenza in famiglia dei figli - sono aumentati i soggetti di cui ci si
deve occupare (genitori anziani e figli anche ultra trentenni) sia perché i singoli soggetti presentano esigenze più complesse da affrontare (si pensi per esempio alle necessità che hanno i figli di essere seguiti negli studi o accompagnati in diverse attività pomeridiane extrascolastiche). In altre parole si tratta di un lavoro che potremmo
definire “multiplo”: dalla cura materiale della casa al consumo, dal lavoro di mediazione dei conflitti interni e esterni alla famiglia alla manutenzione della apparato tecnologico della casa e così via. Si tratta di un corpo di funzioni che ricoprono un forte valore sociale, che cioè, oltre a ricadere all’interno della vita privata della famiglia,
hanno un forte impatto sulla collettività. Il movimento delle donne e poi le forze sociali più sensibili da tempo lo avevano segnalato e avevano posto alla politica il compito di un riconoscimento ma questo ancora non è avvenuto. Solo in parte lo stato
sociale si è fatto carico di alcune azioni di sostegno ma ancora in modo disorganico
e insufficiente così che la famiglia funge ancora da rete di sicurezza sociale per i soggetti più deboli della società.
È all’interno di questo quadro che si debbono collocare i progetti di intervento
per il lavoro domestico prestato dalle donne immigrate. In altre parole, le problematiche che abbiamo riportato sopra non possono essere considerate esclusivamente
come difficoltà di determinati soggetti privati e come tali affrontate. Debbono essere
riguardate invece come l’apice di questioni sociali più profonde che affondano le loro radici nelle problematiche non risolte del welfare e in particolare delle politiche della famiglia.
Fatte queste premesse, e ribadita la necessità che la società nel suo complesso
(istituzioni, corpi sociali e individui) consideri il bisogno di cura come una esigenza collettiva, possiamo qui ricordare alcune proposte che le Acli vanno facendo da tempo.
Innanzi tutto vi sono quelle che riguardano il fenomeno migratorio nel suo complesso.
Si è detto infatti che le donne straniere impegnate nel lavoro di cura lamentano soprattutto lo sfruttamento economico e che sono consapevoli che questo è favorito
dalla loro condizione di irregolarità sul territorio. Questa criticità si combatte a partire
dalla revisione del Testo Unico sull’immigrazione che ha reso troppo angusto l’ingresso regolare nel nostro Paese e molto facile il passaggio dalla regolarità alla irregolarità.
Poi vanno menzionate le misure a favore della famiglia e di tutti i soggetti coinvolti nel sottosistema economico del lavoro di cura. A livello nazionale bisognerebbe
por mano a una riduzione degli oneri contributivi a carico del datore di lavoro e la cui
insostenibilità per le famiglie meno abbienti (ma non sono solo loro) induce a una forte evasione. Una loro riduzione per le famiglie favorirebbe una maggiore emersione
dei rapporti di lavoro. A livello regionale occorre dare seguito, operativamente, a figure professionali formate in esperienze consolidate e accreditate presso l’ente regionale. A livello locale, andrebbero organizzate esperienze formative meglio calibrate sulle esigenze e le possibilità delle famiglie e delle collaboratrici. L’incontro domanda
- offerta dovrebbe sempre meglio prendere in considerazione non solo le esigenze
materiali ma anche quelle relazionali e di significato per la identità di ciascuno. I so-
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
stegni pubblici alle spese delle famiglie per far fronte all’assistenza dei propri cari dovrebbero essere strutturati in modo tale da non finanziare il sommerso ma tali da incentivare il ricorso a rapporti di lavoro alla luce del sole. Vanno ripensate strutture locali di sostegno ai soggetti interessati che siano capaci di creare dei “ponti” tra i diversi soggetti coinvolti, capitalizzando le professionalità esistenti.
Ma ci sono ancora altre linee di azione sulla cui fattibilità merita riflettere assieme.
Dal sondaggio dell’IREF sulla discriminazione subita dalla donne immigrate impegnate nel lavoro di cura sembrerebbe emergere che le vittime sono rimaste sole a
contrastare lo sfruttamento dei primi anni. Inoltre dai loro racconti - quando è stato
loro chiesto “come è andata a finire?” - ci accorgiamo che o si sono rassegnate o se
ne sono andate. Questo comportamento ci può stimolare a prevedere qualcosa di
diverso per il futuro. Forse la dimensione associativa o solidale, dimensione che fa
parte del patrimonio costitutivo delle Acli, può essere loro proposta con frutto. Si possono prevedere dei percorsi per formare colleghe e amiche a prendersi cura di chi,
appena arrivata, si trova in queste difficoltà.
Le ricerche sul lavoro di cura delle donne straniere ci segnalano una correlazione
tra la scarsa propensione alla formazione (il lavoro di cura tende a essere considerato - sia dal datore di lavoro sia dalla operatrice sia dalla società in genere - un mestiere che non ha bisogno di particolari conoscenze) e la tendenza alla irregolarità. Questa connessione pericolosa deve essere scardinata e superata. La formazione deve
essere proposta con modalità che permettano di fruirne con relativa comodità, coinvolgendo anche le famiglie e il datore di lavoro, in un’ottica di crescita comune, non
solo per un miglior servizio ma anche per una migliore qualità di vita per tutti.
Le ricerche riportano anche una correlazione tra età e titolo di studio e regolarità
del rapporto di lavoro: più le operatrici sono giovani e con scarsi titoli di studio, più
sarebbero a rischio sfruttamento. Inoltre segnalano che questo lavoro viene scelto
un po’ come una sorta di ripiego e, una volta inserite in questo settore, le operatrici
non sarebbero in grado di cercare e trovare un altro tipo di lavoro. Si può forse agire sul progetto migratorio aiutando le donne straniere a diventare più consapevoli e
a dare maggior peso ai loro progetti e sogni. Può essere utile che questi progetti siano condivisi e comunicati, non solo tra donne della stessa provenienza ma anche
con le famiglie italiane che le ospitano.
Come si vede sono molte e variegate le strade che attendono di essere percorse per giungere a una società più accogliente e più giusta. C’è chi, nel mondo del
associazionismo e del Terzo settore (come le Acli per esempio) ha già iniziato da tempo a percorrerle ma - non sostenuto adeguatamente dalla politica e dalle istituzioni
- ha raggiunto solo in parte gli obiettivi. Si tratta dunque di rilanciare una sorta di sinergia progettale: da un lato l’associazionismo che può intervenire per favorire l’incontro della donna straniera con la famiglia italiana in un luogo senza dubbio privilegiato per l’incontro tra persone e culture diverse, per il confronto tra le differenze e
l’accoglienza delle rispettive debolezze e risorse; dall’altro le istituzioni nazionali e locali che debbono farsi carico del lavoro di cura come bisogno non solo del singolo
individuo o della singola famiglia ma della collettività intera, per farne occasione di
crescita sociale e democratica per tutti.
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Spazio e tempo
Il lavoro di cura tra welfare invisibile
e welfare a misura di famiglia
di Vittoria Boni*
Il Libro Bianco “La vita buona nella società attiva” sulla riforma del welfare, proposta dall’attuale Ministro del lavoro e delle politiche sociali, evidenzia che “il welfare delle opportunità è fondato sulla presa in carico della persona attraverso un’ampia rete di servizi e di operatori…che offrono…non solo semplici servizi sociali e
prestazioni assistenziali, ma anche la promessa di un miglioramento della vita quotidiana…non esistono malati incurabili, cioè persone a cui non si possa fornire cura, aiuto e sollievo” (pag. 24 Libro Bianco). Nel concordare con questa visione le
Acli da tempo sottolineano l’importanza strategica del lavoro di cura nella vita quotidiana di soggetti e famiglie. Proprio per questo è fondamentale che tale attività
sia inserita in una visione promozionale di welfare che metta al centro la persona,
unitamente alla corresponsabilità tra istituzioni pubbliche, a partire dagli Enti Locali
e realtà del privato sociale che operano nell’ambito dei servizi di cura.
Se la domiciliarità è un obiettivo delle politiche sociali e sanitarie è opportuno
mettere in relazione questo progetto, anche se gestito attraverso scelte private delle famiglie, con tutte le altre risorse e opportunità facendolo diventare un investimento significativo nella rete del welfare locale.
Sono le famiglie popolari, pure definite sandwich, che vivono una normalità problematica alle prese con la difficile conciliazione tra tempi lavorativi, accudimento
dei genitori anziani e dei figli piccoli che si rivolgono alle Acli Colf nella richiesta di
aiuto; ma sono anche le coppie composte da anziani o dove uno dei due coniugi
è rimasto solo.
Tutti complessivamente chiedono un aiuto che va oltre il mero prestazionismo
e domanda una prossimità esigente, volta a sostenere le fragilità delle persone,
specie se anziane, dove la vecchiaia pare consegnata ad un tempo dopo la vita e
non della vita. Accudire e curare la vita significa dare corpo al legame di solidarietà
e mutualità che deve unire le generazioni, le famiglie e le persone nella consapevolezza che, se manca questo legame, non può esserci benessere sociale e neppure società comunitaria.
Donne italiane in aumento numerico e donne migranti sono coloro che si
fanno carico di questo welfare fatto in casa: si tratta - secondo la ricerca IRS
del novembre 2008 - di un esercito di 774 mila assistenti familiari, di cui 700 mila
straniere e 74 mila italiane. Comportano alle nostre famiglie un esborso di 9 miliardi
e 352 milioni di euro all’anno. Una colf su quattro non ha il permesso di soggiorno. Più della metà delle collaboratrici straniere (il 57%) svolge il proprio lavoro in
* Responsabile Dipartimento Welfare Acli Nazionali.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
nero. Non solo. Considerando i soli collaboratori regolari, oltre la metà (55%) denuncia delle irregolarità nei versamenti previdenziali: nel 24% dei casi non viene
versato alcun contributo; mentre nel 31% vengono versati solo parzialmente. Al lavoro nero si aggiunge dunque un lavoro “grigio” cioè la tendenza a denunciare meno ore di quelle lavorate con l’aggiunta che questa opzione è il frutto di una scelta concordata dalle due parti in causa, datori di lavoro e collaboratrici familiari: due
fragilità che si incontrano.
Questi pochi dati ci offrono il quadro di un pilastro sommerso del nostro Stato
sociale e mettono in evidenza quanto le donne migranti, impiegate prevalentemente
nel settore del lavoro domestico, sostengano le carenze dei sistemi di welfare di
destinazione e garantiscano attraverso le rimesse la riproduzione sociale delle società di origine. Ma il tutto ci dice anche di quanto la mancata redistribuzione del
lavoro di cura tra uomini e donne e gli scarsi servizi sociali offerti dallo Stato che
tende a privilegiare i trasferimenti monetari, abbiano spinto un numero crescente
di nuclei familiari a ricorrere al welfare privato, reso accessibile dall’offerta di manodopera straniera a basso salario. Il lavoro domestico e di cura delle immigrate è
rimasto per troppo tempo invisibile, relegato all’interno della sfera privata e spesso poco considerato anche dalle Amministrazioni pubbliche, alleggerite dalla assistenza e dalla cura delle persone anziane.
A prescindere dallo schieramento politico, la tendenza delle politiche pubbliche a livello nazionale e locale, è di assecondare tale sistema che permette la sopravvivenza del welfare low cost all’italiana. In tal senso sono orientate le leggi approvate in questi anni da alcune regioni italiane che si propongono di qualificare e
sostenere l’attività di assistenza familiare sia mediante la promozione dell’incontro
tra domanda - offerta di lavoro di cura e la pianificazione di interventi di formazione certificata, sia attraverso forme di regolarizzazione dei rapporti di lavoro e la previsione di sostegno economico dei datori di lavoro.
Queste iniziative, tuttavia, si trovano a fare i conti con una realtà molto più articolata e complessa che deve saper entrare in connessione con le aspettative, le
motivazioni e le condizioni delle donne migranti per le quali tale impegno è spesso considerato come una fase transitoria della loro vita, da cui prima o poi tendono a smarcarsi.
Le nuove assistenti arrivate da più di cinque anni nel nostro Paese, come emerge dall’indagine IREF “Usciamo dal silenzio” pubblicata nel secondo numero della
collana “Sperimentazione e innovazione sociale” a differenza delle lavoratrici che
sono qui da poco, accanto alla maggiore consapevolezza circa il lavoro di cura che
le attende tendono a scegliere forme organizzative che escludono la co-abitazione e privilegiano il lavoro a ore.
Sanno bene infatti, anche sulla scorta dell’esperienza di chi le ha precedute,
quanto siano faticose le forme di co-residenzialità con i datori di lavoro, scandite
spesso dai ritmi dell’assistito e svolte essenzialmente all’interno delle mura domestiche tranne i rari momenti d’aria, comunque legati ai compiti di cura. L’esigenza
di una maggiore libertà delle collaboratrici familiari unitamente alla retribuzione superiore rispetto a quella percepita in regime di co-residenza costituiscono i fattori
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Spazio e tempo
che tendono a rivedere le modalità organizzative di tale impegno e rischiano di entrare in rotta di collisione con le necessità degli stessi datori di lavoro; questi ultimi
infatti cercano dalle assistenti familiari una copertura temporale massima, disponibilità per tutte le esigenze che si presentano, affidabilità amorevolezza, affetto.
Le famiglie italiane che si avvalgono delle collaboratrici familiari appartengono a tutti i ceti sociali ed è forse la prima volta nella storia che famiglie operaie
diventano datrici di lavoro con una serie di problemi non preventivati; esse devono da sole gestire operazioni e procedure complesse intrecciando passaparola e uffici che si muovono secondo logiche settoriali. Tendono a negoziare il
contratto a volte in modo discutibile sia per le difficoltà in cui si trovano, sia a
causa di una fatica economica legata a situazioni che si prolungano in presenza, soprattutto oggi, di lavoratrici sempre più consapevoli dei loro diritti e della
loro strategica utilità.
Una situazione alquanto complessa dunque che chiede un deciso impegno alle istituzioni declinato su tre livelli:
La creazione di nuovi servizi innovativi domiciliari che si integrino con quelli esistenti potenziando la rete territoriale del nostro welfare;
L’impegno delle istituzioni, a partire dagli EE.LL. perché individuino procedure
e criteri di accreditamento per le realtà del privato e del privato sociale che operano nei diversi ambiti della cura delle persone e delle famiglie;
La responsabilità pubblica nel controllare il rispetto alla legalità. Ciò permetterebbe di entrare nel merito della piaga del lavoro nero, di offrire garanzie alle lavoratrici e alle famiglie che chiedono aiuto.
Nuove risposte alla domanda crescente di servizi
Sulle famiglie italiane grava, per vari motivi tra cui l’invecchiamento della popolazione, l’aumento del carico assistenziale attorno al quale è molto cresciuta la
domanda di servizi e con essa ha preso corpo un vero e proprio mercato privato
del lavoro di cura. E’ una realtà di cui prender atto e con la quale occorre misurarsi per ricondurre l’offerta di modelli di servizi ad una logica di sistema e di continuità nell’assistenza degli anziani.
Il Rapporto sulla non autosufficienza presentato il 21 luglio dal Ministero del lavoro ha fatto emergere chiaramente l’emergenza welfare nel nostro Paese.
I numeri sono impressionanti se la percentuale di popolazione over 65, che è
oggi al 20%, nel 2050 sarà addirittura del 34%. Saranno sempre meno invece, e
sempre più insufficienti in rapporto alla popolazione anziana, coloro che dovranno prendersi cura di questo terzo d’Italia con i capelli bianchi, di chi sarà anziano
domani.
Sino ad oggi la famiglia ha fatto da ammortizzatore all’incapacità/impossibilità
dello Stato di far fronte alla crescente domanda di servizi in risposta a bisogni complessi, domani tutto questo non sarà più possibile. Pensare che la soluzione stia
nell’espansione all’infinito delle assistenti familiari è mera illusione anche perché i
flussi migratori, in particolare dai Paesi dell’est, rallenteranno e la sostenibilità economica garantita dal massiccio ricorso al lavoro irregolare, già oggi è precaria.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
Dinnanzi a una situazione come questa grande è il rischio che si vada verso
un welfare sempre più selettivo facendo sì che chi ha capacità economica possa
garantirsi una vecchiaia dignitosa e per tutti gli altri si precipiti in una drammatica
marginalizzazione e povertà. Se la risposta al problema sta solo nella finanziarizzazione del welfare, nei prodotti assicurativi, il probabile esito è il “de profundis”
del nostro modello di welfare universalistico ed inclusivo.
Perché ciò non avvenga l’unica via di uscita sta in una nuova progettualità del
welfare di domani che nel chiamare in corresponsabilità la pubblica amministrazione, l’economia civile, il profit e il non profit, sia capace di proporre politiche sociali innovative, in grado di rispondere a domande sempre più inevase, garantendo equità, pari opportunità, giustizia e pari trattamento per tutti.
In questa logica diventa indispensabile giungere anche alla separazione tra il
lavoro domestico di servizio alla famiglia e del governo della casa e il lavoro di cura svolto per le persone non autosufficienti, inserendolo nel diritto costituzionale
alla salute. Lavoro di cura che deve diventare parte della rete dei servizi sociali di
sostegno alla famiglia, riconoscendogli una nuova veste normativa e contrattuale. Risulta inoltre fondamentale la revisione integrale del sistema di contribuzione
delle assistenti familiari e va introdotta un’ aliquota legata alla retribuzione effettiva, come per la generalità dei lavoratori dipendenti, in modo che siano garantiti
diritti pieni compreso il riconoscimento dell’indennità di malattia e la completa tutela della maternità.
Sempre in questo orizzonte e per non lasciare sole le famiglie che sono alle prese con compiti di assistenza e cura dei loro congiunti diventa cruciale consentire loro di detrarre dalle tasse l’intero importo della spesa per l’assistenza familiare.
Sono tutti elementi che dicono della necessità di pervenire ad un ampio riadeguamento degli strumenti previsti dalla legislazione vigente e dell’opportunità di
promuovere politiche integrate a favore delle famiglie che consentano, tra l’altro di
definire i nuovi livelli delle prestazioni sociali.
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Spazio e tempo
Dietro il welfare invisibile: donne migranti,
lavoro di cura, famiglie transnazionali
Maurizio Ambrosini*
Nel rapporto tra immigrazione e assetti familiari, si è presentato da alcuni anni un fatto nuovo, in cui il nostro paese è profondamente coinvolto. A partire per
primi non sono più soltanto gli uomini, o le donne sole, bensì madri che lasciano
i figli in patria.
Molti studi sono stati dedicati a questo allontanamento e ai suoi effetti, sollecitati anche da una crescente stigmatizzazione delle madri migranti nel discorso pubblico dei paesi d’origine. Il care drain diventa l’emblema di una nuova forma di stratificazione sociale che attraversa i confini: la stratificazione dell’accudimento (Ambrosini, 2008), tale per cui molte famiglie dei paesi ricchi possono
meglio fronteggiare le molteplici incombenze loro richieste grazie all’aiuto di risorse aggiuntive, rappresentate dalla manodopera, in larga maggioranza femminile, importata da paesi meno fortunati. Sull’altro versante, le famiglie che vedono partire la moglie-madre, devono invece riorganizzare la propria vita quotidiana per riuscire a rimediare alla perdita del pilastro centrale dell’organizzazione familiare (Ehrenreich e Hochschild, 2004).
Il fenomeno travalica dunque i confini del nostro paese. Si inscrive in un processo internazionale di globalizzazione dei compiti di cura, e rispecchia una tendenza “all’importazione di accudimento e amore dai paesi poveri verso quelli ricchi” (ibid.). La tradizionale divisione di ruoli tra uomini e donne tende a trasferirsi su
scala globale: i paesi ricchi del Primo Mondo assumono la posizione di privilegio
che spettava un tempo agli uomini, accuditi e serviti dalle donne nella sfera domestica, essendo impegnati nel lavoro retribuito nel mercato occupazionale esterno all’abitazione; gli immigrati/e dai paesi poveri assumono invece le funzioni femminili, sostituendo le donne dei paesi sviluppati nel prodigare servizi domestici, accudimento e cure pazienti alle persone.
Questa importazione di manodopera femminile ha assunto in Italia un profilo
non solo domestico, ma anche assistenziale, non riservato alle élite sociali ma diffuso in varie forme fino alle classi medie e in una certa misura, quando si riferisce
ad anziani bisognosi di assistenza, pure in famiglie più modeste. L’immigrazione
femminile ha dunque a che fare con il funzionamento di quello che viene definito
“welfare nascosto” (Gori, 2002).
Di fronte alla crescita di questo tipo di domanda, legata alle trasformazioni (difficilmente reversibili) degli assetti demografici, familiari e occupazionali, la risposta
* Docente di Sociologia dei processi migratori e Sociologia urbana presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
del welfare pubblico, da sempre orientato all’erogazione di trasferimenti monetari
e alla delega implicita dei compiti assistenziali alle famiglie, assai più che alla produzione di servizi, è stata generalmente ridotta e insufficiente.
All’interno di un modello di assistenza ancora imperniato sulle risorse familiari
e la dedizione femminile, l’impiego di donne immigrate come collaboratrici familiari e aiutanti domiciliari può essere visto allora come una risorsa per puntellare le difficoltà sempre più evidenti delle famiglie (e delle donne sposate italiane) nel reggere carichi domestici e assistenziali crescenti, anche per l’ancora scarsa condivisione dei compiti domestici tra i generi e le generazioni.
Sul versante dell’assistenza agli anziani i limiti di questo modello di welfare sono particolarmente seri, giacché assistenza domiciliare pubblica e assegni di cura
non bastano a fronteggiare i fabbisogni, e il ricovero in strutture protette comporta costi economici e sensi di colpa. Castegnaro (2002) ha parlato in proposito di
una “cultura della domiciliarità”. Non è soltanto la carenza di strutture residenziali
per gli anziani bisognosi di assistenza, o il loro costo, a indurre le famiglie a ricorrere alla soluzione privatistica dell’assunzione (regolare o meno) di un’aiutante domiciliare. Interviene anche il rifiuto di soluzioni istituzionalizzanti, il desiderio di mantenere l’anziano nel proprio ambiente di vita, di non sconvolgere i suoi ritmi e le abitudini invalse, di poterlo visitare liberamente, quando lo richiede o quando c’è un
momento libero. L’adesione ad una cultura “liberante” nei confronti dell’anziano
comporta paradossalmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro costrittivo con
la donne assunta per assisterlo (Castegnaro, come altri, non esita a parlare di una
“condizione di tipo servile”).
Si configura così un welfare “leggero”, familiare e informale (Tognetti Bordogna,
2004), povero di professionalità ma percepito e vissuto come più “amichevole”,
deburocratizzato, flessibile, e naturalmente più governabile da parte degli utilizzatori-datori di lavoro. Le famiglie scambiano di fatto la rinuncia ad avvalersi di servizi istituzionali (che peraltro non riuscirebbero a rispondere ai loro bisogni), e anche
ad un’assistenza professionalmente qualificata e razionalmente organizzata, con
la libertà di gestire le cure per gli anziani entro lo spazio domestico, intaccando il
meno possibile abitudini e ritmi di vita del congiunto.
Il tamponamento dei problemi di cura delle famiglie italiane si scarica però sulle famiglie delle donne straniere, che si trovano spesso a fronteggiare i problemi
della “maternità a distanza” e a tentare di mantenere vivo un legame con i figli, malgrado la separazione fisica da essi.
Si formano così le cosiddette famiglie transnazionali, oggetto di una crescente letteratura: famiglie separate dai confini, in cui le madri si sforzano di esercitare
comunque il proprio ruolo genitoriale, comunicando sollecitudine e attaccamento,
con tutti i mezzi a loro disposizione (Boccagni, 2008). Rimesse in denaro, telefonate, lettere tradizionali, messaggi di posta elettronica, doni personalizzati, visite,
diventano le forme in cui si esprime il legame con i figli e, laddove è ancora parte
del nucleo, con il marito. L’affetto per i figli assume la forma estrema della separazione da loro, per poter meglio provvedere alle loro esigenze, nutrirli, curarli, alloggiarli meglio, finanziare i loro studi.
30
Spazio e tempo
Sempre più spesso, avviene poi un passaggio successivo: anche le donne primomigranti, specialmente se madri, attivano processi di ricongiungimento familiare (Bonizzoni, 2007).
Questi processi ricalcano solo in parte i modelli più consolidati, presentando
diversi aspetti peculiari. Anzitutto, emerge un problema di maggiore fragilità e precarietà economica quando si tratta di famiglie monogenitoriali, nei casi piuttosto
numerosi in cui il legame coniugale sia logorato o spezzato. Altre volte, le madri
primomigranti attivano invece ricongiungimenti a ruoli rovesciati, in cui il partner attivo è la moglie, mentre il marito assume lo status di coniuge ricongiunto. I mariti
sperimentano però in questi casi situazioni di dipendenza, perdita di status, difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro (specialmente quello regolare), che si
riflettono sul clima familiare.
I ricongiungimenti seguono poi traiettorie diverse a motivo di altre variabili: oltre allo status legale, la cittadinanza, che vede oggi una demarcazione sempre più
netta tra i migranti interni all’Unione europea e quelli che continuano ad essere definiti “extracomunitari”; le distanze geografiche, che rendono più agevoli per chi
proviene da aree più prossime le visite alla famiglia e viceversa, favorendo il mantenimento dei legami e attenuando la spinta al ricongiungimento; l’età dei figli, che
entra nelle complesse valutazioni su chi e quando ricongiungere.
In conclusione, potremmo affermare, parafrasando il noto aforisma di Max Frisch: “Volevamo braccia, sono arrivate delle famiglie”. Ogni qualvolta ricorriamo al
lavoro di donne immigrate per risolvere i nostri problemi di gestione familiare, dovremmo riflettere sulle conseguenze delle nostre scelte per le loro famiglie e sulla
necessità di farcene carico.
31
PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
BIBLIOGRAFIA
Ambrosini M., 2008 Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, il Mulino.
Boccagni P., 2008 Practising motherhood at distance: What is retained, what is lost. An ethnography on
Ecuadorian transnational families, relazione al convegno “Transnational Parenthood and Children
Left-Behind”, Oslo, 20-21 Novembre 2008.
Bonizzoni, P. 2007 Famiglie transnazionali e ricongiunte: per un approfondimento nello studio delle famiglie migranti, in “Mondi migranti”, n. 2, pp. 91-108.
Castegnaro A., La rivoluzione occulta nell’assistenza agli anziani: le aiutanti domiciliari, in “Studi Zancan-Politiche e servizi alle persone”, n. 2, marzo-aprile, 2002 pp. 11-34.
Ehrenreich B. e Hochschild A.R., (a cura di) 2004 Donne globali. Tate, colf e badanti, trad. it. Milano,
Feltrinelli.
Gori C., (a cura di) Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Roma, Carocci, 2002.
Tognetti Bordogna M., Fasi e flussi migratori: le donne come protagoniste, in “la Rivista delle Politiche
Sociali”, n. 3, luglio-settembre, 2004, pp. 195-216.
32
Spazio e tempo
Lavoro di cura e ricongiungimenti familiari:
il tempo e lo spazio per una nuova
integrazione familiare
Cristina Mazzacurati*
Come noto, il lavoro di cura agli anziani svolto in Italia prevalentemente da
donne straniere ha raggiunto dimensioni sempre più importanti in questi anni.
Solo per citare l’ultima stima a disposizione per il 2009, elaborata dal Censis sulla base dei dati Istat1, si parla di oltre un milione e mezzo di lavoratrici e lavoratori impiegati come domestici, colf e badanti. La rilevanza di questo fenomeno
ne ha fatto un punto di osservazione privilegiato sia per lo studio dei processi migratori, sia per l’analisi delle trasformazioni in atto nei sistemi di welfare locali,
che, più in generale, nella società italiana2. Minore diffusione hanno finora avuto
analisi tese a indagare l’aspetto diacronico di un processo che nel corso del tempo ha inevitabilmente subito una certa evoluzione, nonostante l’aura di novità
che in particolare nel caso delle badanti continua a circolare nella percezione di
senso comune3. Tra le trasformazioni più interessanti cui abbiamo assistito negli
ultimi anni può essere annoverata quella subita dai progetti migratori femminili:
da progetti a breve termine, o a tempo determinato, a imprese stanziali che hanno comportato in molti casi il ricongiungimento delle famiglie a partire dalla primomigrazione di una donna, madre e moglie, impiegata nel lavoro domestico e
nel badantato.
In questo intervento illustrerò alcuni momenti che hanno caratterizzato la trasformazione dei progetti migratori da individuali a familiari, basandomi sul caso di
studio della collettività moldava residente in Italia4, uno dei gruppi nazionali più presenti sul mercato delle collaborazioni domestiche, all’interno del quale, per diver* Docente Master in Studi Interculturali, Università di Padova.
1 Cfr. la sintesi della ricerca “Dare casa alla sicurezza. Rischi e prevenzione per i lavoratori domestici”,
Censis 2010, p. 5. Disponibile al link: http://www.censis.it, consultato in ultima data il 20/07/2010.
2 La letteratura sul tema del lavoro di cura svolto dalle donne migranti in Italia è ormai molto ampia.
Per una bibliografia di riferimento cfr. quella a margine del recente volume collettaneo a cura di Raimondo Catanzaro e Asher Colombo, Badanti & Co. Il lavoro domestico straniero in Italia, Bologna, Il
Mulino, 2009.
3 Cfr. a questo proposito il dossier di ricerca “Badanti: la nuova generazione”, a cura di Sergio Pasquinelli e Giselda Rumini [2008], disponibile al link:
“www.qualificare.info/upload/DOSSIER_Badanti_la_nuova_generazione.pdf, consultato in ultima data il 20/07/2010.
4 Riporto in questo intervento alcuni dei risultati della mia tesi di dottorato in Storia delle donne e dell’identità di genere in epoca moderna e contemporanea, intitolata “Migrazioni e relazioni di genere: il
caso della collettività moldava in Italia”, discussa presso l’Università di Napoli l’Orientale nell’aprile
2010. La ricerca durata più di tre anni si è basata sull’incrocio di diverse fonti: interviste biografiche,
colloqui informali, osservazione partecipante, dati seriali anagrafici, materiale di archivio.
33
PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
se ragioni a cui avrò modo di accennare, il passaggio da collettività di sole donne
o di donne sole a una più equilibrata distribuzione della componente di genere si
è manifestato con particolare evidenza5.
Il primo punto su cui vorrei focalizzare l’attenzione ruota attorno a una coppia
di opposti: stanzialità vs transitorietà. Si tratta di un’opposizione densa di significati, dato che come noto per lunghi anni il fenomeno migratorio in Italia è stato percepito, presentato e governato come fatto contingente e provvisorio, fino ad arrivare alla constatazione, peraltro del tutto recente, di come, volenti o nolenti, i migranti rappresentino ormai una componente strutturale della società italiana, non
solo per l’incidenza numerica, per il contributo al sistema economico, sociale e demografico del paese, ma anche per un radicamento rivelato dalla presenza di seconde, se non, nel caso delle collettività di più antico insediamento, di terze generazioni. La medesima percezione di provvisorietà spesso segna i progetti individuali
di molti migranti che, in particolare all’inizio del loro percorso, immaginano la dislocazione come una parentesi nella biografia individuale, che si concluderà con il
ritorno, a breve termine, al paese di origine.
Le biografie delle donne moldave giunte in Italia per lavorare come badanti rappresentano un esempio paradigmatico di quanto detto: secondo le testimonianze, l’intenzione delle prime arrivate a cavallo del 2000 era, infatti, quella di emigrare per un anno, al massimo due, talvolta addirittura sei mesi. Un lasso di tempo ritenuto sufficiente e necessario a portare a termine un progetto circoscritto, legato
ad esempio alla costruzione di un’abitazione, oppure al finanziamento degli studi
superiori dei figli. Il costo, allora, molto contenuto di un passaggio verso l’Italia, l’enorme sproporzione, sempre allora, tra salari medi percepiti dai cittadini della giovane repubblica post-sovietica e possibilità di guadagno in Italia rendevano verosimile la realizzabilità di programmi a così breve termine6. Un distacco provvisorio
che risultava inoltre molto più accettabile a livello emotivo tanto per le donne, quanto per i loro figli e mariti.
Come spesso accade nella realtà l’apparente razionalità dei progetti si sgretola di fronte a deviazioni e ostacoli, soggettivi e oggettivi, che finiscono per determinarne un significativo prolungamento. Nel caso moldavo è la vera e propria
dipendenza collettiva di interi aggregati domestici, in particolare rurali, dai denari guadagnati all’estero a impedire alle donne di rientrare nei tempi inizialmente
previsti. In un contesto in cui arrivano a costituire il 38,3% dell’intero Pil nazio5 Nel 2004 le donne rappresentavano il 74% dei moldavi residenti in Italia, mentre gli ultimi dati a disposizione, aggiornati al 31/12/2007, registrano il 65% di presenze femminili. Fonte: banca dati dell’Istat sui cittadini stranieri residenti in Italia nel 2004 e nel 2007, disponibili ai links:
http://demo.istat.it/str2004/index.html e http://demo.istat.it/str2007/index.html consultati in ultima
data il 26/07/2010.
6 Secondo le testimonianze il costo di un “pacchetto” viaggo più visto verso l’Italia poteva essere di circa 400/500 USD negli anni precedenti il 2000, mentre il salario medio di un’infermiera o di un’insegnante in Moldavia nel 1999 poteva aggirarsi attorno ai 70/80 USD mensili. Sempre negli stessi anni
la retribuzione di una badante co-residente nel nord Italia arrivava a superare il milione di lire al mese,
rendendo, allora, realistici i progetti di migrazione temporanea immaginati dalle primo-migranti.
34
Spazio e tempo
nale7, le rimesse piuttosto che un volano per l’economia locale, si rivelano un fattore regressivo atto a innescare un generale aumento dei prezzi, a generare nuovi consumi e modelli di vita in un contesto di intensi scambi simbolici e reali tra
il paese di provenienza e quello di emigrazione, mentre in molti vedono fallire il
progetto di portare i propri cari all’autonomia. A qualche anno dal loro arrivo in
Italia le strade aperte dinnanzi alle donne migranti impiegate come colf e badanti
appaiono così essenzialmente due: rimanere in emigrazione da sole e a tempo
indeterminato, perpetuando il proprio sacrificio in nome delle esigenze della famiglia di origine, ma anche talvolta rifacendosi una vita, oppure prendere in considerazione la possibilità di richiamare figli e mariti al seguito, prima che la distanza temporale e spaziale conduca allo sfascio della famiglia.
L’analisi dei dati statistici ufficiali sui ricongiungimenti rivela quanto segue: negli anni 2005, 2006, 2007, gli ultimi per cui disponiamo di rilevazioni accurate, tra
i dodici paesi con il maggior numero di pratiche avviate si collocano nazioni classicamente impiegate nel settore del lavoro domestico e dell’assistenza. Si tratta
nell’ordine, di Ucraina, Moldavia, Ecuador, Filippine, Perù, collettività ad alto tasso
di femminilizzazione in cui non a caso, la maggioranza delle pratiche di ricongiungimento è stata avviata da donne8. Ciononostante i processi di ricomposizione dei
nuclei familiari in Italia iniziati da donne primo-migranti sono passati quasi inosservati all’attenzione generale, forse perché nell’immaginario collettivo, ma talvolta anche in quello specialistico, le colf e le badanti rimangono essenzialmente donne
sole, che per l’impegno emotivo e temporale a loro richiesto si trovano in una posizione lavorativa di per se inconciliabile con il ricongiungimento.
Di nuovo, l’incrocio tra storie di vita e dati statistici ufficiali ha rivelato un’immagine sostanzialmente diversa: molte delle donne moldave da me ascoltate avevano, infatti, ottenuto i requisiti di reddito e alloggiativi indispensabili a richiamare i
propri congiunti in Italia grazie all’appoggio diretto della famiglia datrice di lavoro,
mentre la diffusione di questo tipo di pratiche oltre il ristretto campione della ricerca qualitativa, veniva confermata dell’analisi dei dati statistici del Ministero dell’Interno sui ricongiungimenti avviati tra il 2005 e il 2007, secondo i quali le nazionalità più coinvolte nel settore del lavoro domestico e della cura agli anziani propendevano in maniera significativamente maggiore delle altre a inoltrare istanze di ri7 Il dato si riferisce all’anno 2007 quando secondo le analisi della Banca Mondiale la Moldavia raggiunse il secondo posto, dopo un’altra nazione post-sovietica, il Tažikistan, nella classifica mondiale dei
paesi in cui le rimesse incidono maggiormente sul prodotto interno lordo. Cfr. Dilip Ratha, Mohapatra Sanket e Zhimei Xu, Migration and Development Brief: Outlook for Remittance Flows 2008 2010,
Migration and Remittances Team Development Prospects Group, The World Bank, 11 November
2008. Rapporto di ricerca reperibile al link:
http://siteresources.worldbank.org/INTPROSPECTS/Resources/3349341110315015165/MD_Brief8.pdf, consultato in ultma data il 18/07/2010.
8 Cfr. Francesca Decimo, “I ricongiungimenti familiari”, p. 306, in: 1° Rapporto sugli immigrati in Italia, Roma, Ministero degli Interni, 2007. Disponibile al link:
http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/15/0673_Rapporto_immigrazione_
BARBAGLI.pdf, consultato in ultima data il 21/07/2010.
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PARTE PRIMA - Immigrazione e lavoro di cura
congiungimento poggiate su contratti di comodato, sulla disponibilità di abitazioni
concesse a titolo di uso gratuito e su dichiarazioni di ospitalità dei datori di lavoro,
anziché su esosi contratti di locazione e certificati di proprietà9.
Dunque, a determinate condizioni, l’impiego come colf e badante può essere
considerato una condizione di vantaggio piuttosto che di ostacolo per avviare un
ricongiungimento familiare10, mentre il passaggio dal lavoro domestico in co-residenza al lavoro a ore, o ad altri settori occupazionali, è possibile e probabile, ma
solo dopo un certo periodo di stabilizzazione dei nuclei familiari in Italia. Secondo
quanto emerge dalle testimonianze un periodo di convivenza delle famiglie ricongiunte sotto lo stesso tetto del datore di lavoro è, infatti, un’eventualità che può
avere esiti migliori di quelli che gli stessi attori in gioco potevano prevedere, in un’ottica di scambio di favori tra lavoratrice e famiglie datrici di lavoro che prescinde, o
compensa, uno scambio talvolta ineguale tra forza lavoro e salario.
Per tornare alle cifre citate all’inizio di questo intervento l’impiego di forza lavoro migrante all’interno delle mura domestiche è diventato in Italia un fenomeno di
massa, che coinvolge famiglie a basso reddito, persone che hanno a disposizione mezzi economici spesso molto limitati, ma che nella formalizzazione di un contratto di lavoro con una badante possono mettere in campo altre risorse, tra le quali
la disponibilità a fornire l’appoggio necessario a inoltrare pratiche burocratiche complesse (contratti di soggiorno e ricongiungimenti), oppure a ospitare amici e parenti
della lavoratrice presso la propria abitazione.
Il lavoro domestico e di cura sotto lo stesso tetto del datore di lavoro, oltre a
garantire un’entrata fissa, il vitto e l’alloggio, inserisce le donne straniere nel cuore
delle famiglie italiane, dando accesso a reti di relazioni, informazioni e risorse difficilmente raggiungibili in tempi altrettanto brevi da altre categorie di lavoratori immigrati. Il fitto intreccio, più volte sottolineato dalla letteratura specialistica, tra denaro e affetto, mansioni lavorative e relazioni umane fa sì che i beni materiali e immateriali trasferiti vadano molto oltre un normale scambio salario/lavoro. Il caso dei
ricongiungimenti familiari avviati dalle colf e dalle badanti rappresenta un esempio
particolarmente pregnante dei molteplici strati, simbolici, economici, relazionali che
possono manifestarsi in un singolo scambio: è, infatti, del tutto evidente quanto sia
più conveniente, in termini di risorse monetarie e temporali, ottenere un contratto
9 Secondo i dati del Ministero dell’Interno i titoli d’uso di abitazione “atipici”, in una parola diversi dalla locazione e dalla proprietà, presentati nelle istanze di ricongiungimento inoltrate tra il 2005 e il 2007
hanno costituito in proporzione: il 49% delle pratiche dei cittadini di nazionalità ucraina, il 48,2% dei filippini, il 44,9% dei cingalesi, il 35,7% dei moldavi, il 34,3% dei peruviani. Per confronto i titoli d’uso
di abitazione “atipici” sono stati appena il 6,4% tra i ganesi, il 10,7% tra i tunisini, il 11,2% tra i senegalesi e 11,6% tra i nigeriani. Cfr. Decimo cit., p. 321.
10 L’analisi dettagliata di 129 pratiche di ricongiungimento, inoltrate negli anni 2006-2007 presso un patronato di asistenza legale ai migranti operante a Padova, ha permesso di verificare come il tempo medio
che intercorre tra l’ottenimento del permesso di soggiorno e l’avvio della pratica di ricongiungimento sia
minore di svariati mesi per le donne impegnate nel settore del lavoro domestico e della cura rispetto a quello necessario ad altre lavoratrici dipendenti. Si tratta rispettivamente di 3 anni e sei mesi (badanti), 3 anni e otto mesi (colf), 4 anni e tre mesi (operaie, commesse, adette alla ristorazione).
36
Spazio e tempo
di comodato oppure una dichiarazione di ospitalità, piuttosto che affittare o comperare casa, mentre per i datori di lavoro è proprio il coinvolgimento nella vicenda
personale della loro dipendente, oltre alla volontà di riconoscere in altro modo il
suo impegno lavorativo, l’elemento spesso determinante nella decisione di appoggiare il desiderio di avere accanto a se la famiglia. La lavoratrice a sua volta investirà il meglio di se in termini di disponibilità lavorativa e emotiva prima dell’arrivo della famiglia, inclinazione che per gratitudine spesso si estende anche al periodo successivo.
In conclusione vorrei accennare brevemente ad altri esempi di scambi e circuiti
di reciprocità che il regime di co-residenza e la mutua dipendenza sono in grado
di innescare: secondo una recente ricerca l’accesso ai servizi sanitari da parte delle lavoratrici domestiche avviene principalmente attraverso reti e informazioni fornite dalla famiglia datrice di lavoro11; da non sottovalutare è poi la rilevanza materiale e simbolica dei doni reciprocamente scambiati nei rapporti di collaborazione
domestica; e infine il fatto che molte coppie miste sono costituite da badanti straniere e da uomini italiani (assistiti, loro congiunti, amici, conoscenti), spesso incontrati sul luogo di lavoro. L’intreccio tra relazione affettiva e lavorativa, convenienza e investimento relazionale produce ambiguità, aspettative reciproche il più
delle volte non dette. Attese che, come ben sa chi si occupa di mediazione in questo ambito, rendono questi rapporti molto difficili da regolare con i comuni strumenti di contrattazione del lavoro dipendente. Allo stesso modo è alquanto complesso, se non forse impossibile, tentare di districare la fitta matassa di intrecci tra
reciproche convenienze e conflittualità, affetto e interesse, altruismo e egoismo.
Sarebbe piuttosto più proficuo arrivare almeno a riconoscere l’ambivalenza intrinseca a questi rapporti di lavoro, il fatto che tra le pieghe delle ambiguità e delle fragilità si nascondano altrettanto numerose potenzialità a disposizione di coloro che
si vogliano impegnare nel lavoro di progettazione di interventi tesi a migliorare la
qualità dei rapporti di collaborazione domestica e assistenza, alla ricerca di tempi
e di spazi utili all’inclusione sociale.
11 Cfr. Mara Tognetti Bordogna, “Lavoro di cura e sistema di welfare”, in Catanzaro e Colombo, cit.,
pp. 279-298.
37
PARTE SECONDA
Il progetto
“Spazio e tempo per l’inclusione sociale”
Spazio e tempo
Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale”
di Marco Turri*
In Italia migliaia di anziani vengono accuditi da persone non appartenenti al ristretto nucleo familiare. Si tratta nella maggior parte dei casi di donne straniere,
comunitarie e non, che lavorano come assistenti familiari. È un servizio alla famiglia che viene svolto quotidianamente nel silenzio delle mura domestiche da donne che hanno lasciato la propria famiglia per assisterne un’altra. È un servizio, ma
è anche un lavoro, spesso non riconosciuto come tale, che interessa e coinvolge
la sfera affettiva e che arriva a volte a cancellare il confine che separa il rapporto
lavorativo dal rapporto affettivo, creando situazioni dannose in particolare per la
donna lavoratrice.
In particolare, le assistenti familiari che co-abitano con la persona assistita sono una categoria particolarmente vulnerabile, la co-abitazione le espone infatti a diversi rischi: dalla discriminazione contrattuale, alla discriminazione nelle condizioni
di lavoro e nelle opportunità di miglioramento. Alla mancanza di possibilità concrete si aggiungono le condizioni della co-abitazione che portano, in molti casi, ad una
vera e propria chiusura verso l’esterno determinando processi di marginalizzazione
dai quali non è facile liberarsi ed uscire. Inoltre, l’informalità delle condizioni che regolano i rapporti lavorativi, unita allo scarso potere contrattuale, determina un’asimmetria tra i datori di lavoro/utenti e le assistenti familiari che sono spesso portate ad accettare condizioni lavorative molto penalizzanti, specie se immigrate.
Da dove partire per costruire un rapporto di lavoro e di collaborazione “sano”
capace cioè di proteggere e rispettare la dimensione lavorativa del rapporto famiglia / assistente familiare?
Nel lavoro di cura si crea una accoglienza doppia, la famiglia diventa accogliente
e si apre ad una nuova persona che ne entra a far parte, l’assistente familiare lascia la sua famiglia e diventa a sua volta accogliente nei confronti dei figli e dei parenti degli altri. È a partire dalla qualità di questa accoglienza che si può costruire,
su basi solide, un rapporto di lavoro e di affetto. Sia la famiglia che l’assistente familiare sono soggetti deboli che hanno bisogno di sostegno, su questa premessa
si è sviluppato il progetto Spazio e tempo per l’inclusione sociale, cercando di intervenire a sostegno delle debolezze di entrambi.
Nel lavoro di cura la famiglia si trova ad essere il datore di lavoro e spesso non
conosce le regole che disciplinano il lavoro domestico, così come la donna immigrata non conosce bene i propri diritti, le regole e le opportunità offerte dal territorio utili a migliorare la sua condizione e le sue capacità professionali.
* Progettista della Funzione progettazione e innovazione sociale.
41
PARTE SECONDA - Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale”
Per intervenire a sostegno sia delle famiglie che delle donne immigrate le Acli,
attraverso il progetto Spazio e tempo per l’inclusione sociale, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, hanno realizzato percorsi di formazione e
di informazione con lo scopo di contribuire a costruire un rapporto di lavoro e di
collaborazione “sano” capace cioè di proteggere e rispettare la dimensione lavorativa del rapporto famiglia / assistente familiare.
Il progetto ha permesso di avviare la sperimentazione, nelle province di Napoli, Roma e Udine, di un percorso di promozione ed inclusione sociale delle donne
immigrate impegnate come assistenti familiari, coinvolgendo attivamente tutti i soggetti che a vario titolo possono svolgere un ruolo importante per migliorare la loro
condizione e valorizzarne il ruolo nella famiglia e nella comunità.
In questa direzione Spazio e tempo per l’inclusione sociale ha previsto attività specifiche riservate alle assistenti familiari, alle famiglie, agli anziani ed alla
comunità.
La prima iniziativa proposta ai destinatari del progetto è stata quella di aprire
nelle tre province uno “spazio di socializzazione” alternativo al contesto familiare.
Agli anziani sono state offerte occasioni di socializzazione in modo da lasciare alle assistenti familiari il tempo per svolgere un percorso di formazione, aggiornamento e socializzazione che ha contribuito alla loro crescita professionale, stimolando e favorendo il processo di inclusione sociale.
Le sedi Acli coinvolte nel progetto hanno attivato un servizio di accoglienza delle donne immigrate presso le strutture territoriali messe a disposizione per la realizzazione dell’iniziativa. L’accoglienza è stata organizzata in modo da rappresentare un vero e proprio servizio di orientamento e di accompagnamento alle donne
immigrate ai servizi offerti dalla rete Acli e dalle altre organizzazioni presenti sul territorio, attivo per tutta la durata del progetto. A seguito dell’accoglienza, coerentemente con gli obiettivi indicati nel progetto le assistenti familiari sono state coinvolte nella realizzazione di attività finalizzate ad accrescerne la professionalità.
Il primo gruppo di attività ha avuto un carattere prettamente formativo. Nelle
tre province coinvolte è stato proposto un corso di lingua italiana per fornire alle
assistenti familiari un percorso didattico utile ad incrementare le proprie capacità
di espressione in lingua italiana. Accanto allo studio della lingua è stato proposto
un corso di alfabetizzazione informatica finalizzato a stimolare l’utilizzo di uno strumento ormai fondamentale nella nostra società, anche a partire dai servizi VoIP (es.
Skype e Messenger) utili ad incrementare e migliorare la comunicazione con i propri familiari nei paesi di provenienza.
Il secondo gruppo di attività ha riguardato iniziative di orientamento. Una serie di seminari tenuti da esperti ha toccato i temi della gestione del rapporto lavorativo con particolare attenzione ai diritti doveri legati alla stipula di un contratto di
lavoro, l’analisi e la presentazione dei servizi presenti sul territorio con lo scopo di
semplificare il rapporto con la pubblica amministrazione e dell’accesso ai servizi
bancari e gestione dei risparmi.
42
Spazio e tempo
Il terzo gruppo di attività è stato finalizzato ad accrescere la professionalità
delle assistenti familiari. Sono stati realizzati tre corsi su Nozioni parainfermieristiche e primo soccorso, Prevenzione di infortuni domestici e Nozioni sull’alimentazione, che hanno fornito alle assistenti familiari gli strumenti e le metodologie utili a
migliorare il servizio offerto alle persone assistite.
A queste attività si è aggiunto un corso su possibili Sbocchi professionali offerti dall’esperienza di assistente familiare e nelle province di Roma e di Napoli un
Laboratorio di auto-imprenditorialità. Il laboratorio ha permesso di far emergere la
“propensione imprenditoriale” delle partecipanti al progetto stimolando e incentivando percorsi di auto-impiego capaci di stimolare la ricerca di condizioni di lavoro meno penalizzanti o ad impieghi più rispondenti alle aspettative.
Infine l’attivazione di un Servizio di counseling per la costruzione di un bilancio
delle competenze ha coinvolto le partecipanti in un percorso di valutazione della
loro situazione attuale e potenziale di lavoratrice, portando all’elaborazione di un
progetto capace di consentire lo sviluppo professionale della persona.
Una particolare attenzione è stata posta anche a sperimentare nuove iniziative
in grado di favorire e stimolare l’uscita delle donne coinvolte nel progetto dalle condizioni di isolamento determinate dai vincoli lavorativi. Si è pensato quindi di affiancare gli interventi finalizzati alla formazione, all’orientamento e alla professionalizzazione, con azioni volte alla creazione di momenti di socializzazione attraverso
i quali creare delle reti di relazioni tra le assistenti familiari, allargarne la sfera relazionale e accrescere la conoscenza e favorire l’inserimento nel contesto locale
In primo luogo, all’interno dello spazio di socializzazione, creato in ciascuna
delle realtà territoriali coinvolte nel progetto, è stata attivata una postazione multimediale (dotata di computer, collegamento ad internet, telecamera digitale, etc.)
con lo scopo di facilitare la comunicazione con i propri familiari ed amici rimasti nei
paesi d’origine. Lo spazio ricavato nelle sedi Acli è divenuto col tempo un luogo di
ritrovo e scambio autogestito dalle assistenti familiari al quale hanno avuto accesso anche donne immigrate non coinvolte direttamente nel progetto.
Sono state poi realizzate delle visite guidate alle città ed ai dintorni di Roma,
Napoli e Udine sia per le assistenti familiari che per gli anziani. Le gite sono state
occasione per conoscere meglio la storia, la cultura e le tradizione del luogo all’interno del quale si svolge il processo di inclusione sociale e creare e rafforzare legami di amicizia.
Nella convinzione che un reale processo di inclusione sociale può portare effetti positivi solo se tutti i soggetti che, a vario titolo, ne sono coinvolti svolgono un
ruolo concreto, il progetto ha previsto attività specifiche riservate alle famiglie che
accolgono una assistente familiare. Un ciclo di seminari su L’immigrazione femminile, La discriminazione e la sicurezza sul lavoro e Solidarietà intergenerazionale,
ha permesso avviare un dialogo ed un confronto utile ad intervenire su un modello culturale che fatica a riconoscere al lavoro di cura una dignità ed un rispetto pari ad altri lavori.
Ai momenti di informazione e confronto è stata affiancata una campagna di
informazione su scala nazionale che ha utilizzato lo slogan “Colf. Non è un gioco”
43
PARTE SECONDA - Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale”
per richiamare l’attenzione sulla figura della assistente familiare e sul rispetto dei
diritti di lavoratrice. La campagna è stata diffusa su quotidiani, settimanali e radio
nazionali e locali ed ha permesso di rilanciare anche al di fuori del progetto il messaggio di attenzione e rispetto al lavoro dell’assistente familiare.
Tirando le somme di questa esperienza il progetto Spazio e tempo per l’inclusione sociale ha permesso di sperimentare con successo una metodologia di inclusione sociale particolarmente efficace, tanto da permettere la realizzazione di
un percorso di promozione e formazione delle donne immigrate che ha potuto toccare sia l’aspetto professionale che l’aspetto relazionale, fornendo loro le conoscenze e gli strumenti per migliorare la propria condizione sia dal punto di vista lavorativo che sociale.
Il carattere innovativo principale del progetto è stato quello di coinvolgere direttamente nella realizzazione del percorso di inclusione sociale delle donne immigrate tutti i soggetti preposti a creare le condizioni affinché tale percorso potesse
portare risultati concreti. Sono state coinvolte così le famiglie e le organizzazioni
del territorio (pubbliche o private) impegnate in iniziative di inclusione sociale.
Il progetto “Spazio e tempo per l’inclusione sociale” ha permesso, inoltre, la
sperimentazione di un modello innovativo di formazione, informazione e promozione delle donne immigrate. Il modello, comprendente attività corsuali, di informazione, accoglienza e aggregazione, non è stato finalizzato soltanto alla crescita professionale delle partecipanti, ma anche e soprattutto al miglioramento della
qualità della vita, a partire dalle situazioni quotidiane ricorrenti. Il progetto, non trascurando l’aspetto della socializzazione, ha poi permesso la formazione di un nucleo di persone interessate a proseguire l’esperienza associativa con le Acli, non
solo come destinatarie delle iniziative ma con un ruolo attivo.
Il ruolo dei docenti e dei tutor è stato declinato in modo tale da creare relazioni con e tra le partecipanti, in un clima di professionalità e al tempo stesso di familiarità. Numerosi momenti aggregativi organizzati dalle sedi territoriali hanno intervallato le attività di formazione, permettendo la conoscenza reciproca e ampliando il tempo per la creazione di legami di amicizia e confidenza.
Infine il percorso di inclusione sociale delle donne immigrate coinvolte nel progetto ha avuto il merito di aggregare e coordinare iniziative diverse già messe in
campo sia dalle Acli che da altre organizzazioni delle province coinvolte. Corsi di
italiano e informatica, servizi di informazione, seminari, occasioni di socializzazione, spesso organizzati per singola etnia, hanno trovato nel progetto Spazio e tempo il luogo dove comporsi in un processo unico e coordinato che ha portato a sperimentare un modello che possiamo definire innovativo, del quale hanno beneficiato sia le donne immigrate coinvolte che le famiglie, gli operatori e la comunità.
Il filo che ha unito tutte le attività del progetto è stato l’attenzione alla relazione,
cercando cioè di migliorare i rapporti delle assistenti familiari all’interno della famiglia e della comunità. Questa attenzione alla qualità della relazione è il risultato che
famiglie e assistenti familiari possono portare all’interno della famiglia. Qualità e professionalità nel servizio offerto dall’assistente familiare, consapevolezza del ruolo e
44
Spazio e tempo
informazione per le famiglie, sono gli elementi principali che alimentano la qualità
della relazione all’interno di una famiglia. La qualità della relazione è la base della
collaborazione.
Il progetto Spazio e tempo ha sostenuto la relazione ed il dialogo tra i diversi
soggetti per costruire un rapporto di lavoro e di familiarità (che possiamo chiamare collaborazione) che fosse per il più possibile “sano” e rispettoso delle persone
coinvolte e capace di far convivere le differenze che naturalmente esistono tra persone che provengono da culture e storie diverse.
45
PARTE TERZA
Il monitoraggio
e la valutazione del progetto
Spazio e tempo
Da una casa all’altra:
le storie di vita delle assistenti familiari
Gianfranco Zucca*
Un concetto multidimensionale di inclusione sociale
Di norma si fa riferimento all’inclusione degli immigrati nella società d’arrivo
come ad un percorso segnato da una progressiva acquisizione di diritti e doveri;
l’integrazione, poi, viene fatta coincidere con il raggiungimento di una serie di obiettivi: un lavoro, una casa, la ricostituzione della famiglia. Meno di sovente si fa riferimento all’integrazione sociale in termini di socialità, di spazi e tempi nei quali
vivere in modo relativamente pieno relazioni e affetti: troppo spesso difatti si tende a ragionare come se gli immigrati, tutti tesi a realizzare il proprio progetto di
miglioramento, non sentissero il bisogno di avere dei momenti per sé, per riannodare i fili della propria esperienza di vita. Questa idea parziale dell’integrazione
sociale manifesta tutta la propria inadeguatezza se applicata ad un caso specifico come quello delle donne straniere occupate nel lavoro domestico e assistenziale. Come è noto, soprattutto nei casi di convivenza con la famiglia assistita,
questo genere di lavoro può implicare una limitazione della libertà e del tempo libero. Al di là dei vincoli contrattuali, spesso i bisogni di cura sono tali e tanti da richiedere una presenza continuata dell’assistente. Sebbene queste situazioni non
implichino necessariamente grossi carichi di lavoro, è evidente che anche una
semplice attività di vigilanza se protratta lungo tutta la giornata risulti pesante e
psicologicamente stressante.
Il progetto Spazio e Tempo (SeT) ha cercato di intervenire all’interno di questo
campo problematico, realizzando attività volte a sostenere il percorso di integrazione sociale dei partecipanti: attraverso l’alternanza di attività formative e occasioni di socializzazione si è cercato di offrire alle donne straniere la possibilità di recuperare degli spazi privati, separati dal lavoro, nei quali dedicarsi alla formazione
e recuperare il proprio tempo libero.
Nelle prossime pagine si presenteranno le storie di vita delle donne coinvolte
nel progetto. I racconti delle collaboratrici familiari sono stati raccolti al fine di rafforzare l’approccio integrato usato nel corso SeT: volendo adottare una definizione
multidimensionale di integrazione, è parso necessario considerare le collaboratrici
domestiche non solo come lavoratrici, ma anche come donne e migranti, comprenderne le motivazioni e i progetti, entrare nel loro mondo vitale così da rispettarne le esperienze.
*IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative).
49
PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
L’idea metodologica
Nella maggior parte dei progetti di intervento sociale, finanziati con fondi pubblici, per documentare l’esperienza realizzata si usano, per lo più, strumenti standard come questionari e schede. Per il progetto SeT si è deciso di adottare un approccio completamente differente. L’uso del racconto di vita (récit de vie [Bertaux
1999]) è molto diffuso in ambito sociologico, soprattutto nello studio dei fenomeni migratori, per cui è sembrato pertinente usare questi strumenti anche nell’ambito di un progetto come SeT. In generale, la scelta di adottare un approccio attento alle esperienze dei beneficiari rientra nella più ampia corrente della valutazione rispondente (responsive evaluation). Tale prospettiva teorico-metodologica - introdotta da Robert Stake [2007] - si basa sull’uso di un approccio naturale (contrapposto ad un approccio formalizzato o sperimentale): attraverso un ampio coinvolgimento dei soggetti che sono stati protagonisti dell’intervento, si sacrifica la
precisione delle misurazioni in cambio di una maggiore utilità dei risultati per le persone all’interno del progetto o in qualche modo legate ad esso1.
La scelta di documentare in modo dettagliato le esperienze di vita degli utenti
si giustifica anche tenendo conto del contesto amministrativo nel quale è stato realizzato il progetto. L’amministrazione che ha erogato il finanziamento aveva previsto un dispositivo di monitoraggio procedurale e materiale molto articolato comprendente, oltre alle classiche schede in uso nei corsi di formazione, anche questionari di valutazione della soddisfazione, schede di avanzamento procedurale e
finanziario. Dal momento che gran parte delle esigenze informative erano già coperte dagli strumenti messi a punto dall’amministrazione di riferimento e che tutti
gli strumenti di valutazione previsti erano di tipo standardizzato è apparso legittimo sviluppare un complemento di ricerca che facesse esclusivo affidamento su
strumenti di tipo qualitativo e responsivo così da aggiungere alle informazioni (che
si sarebbe comunque dovuto raccogliere) anche il punto di vista degli utenti.
Alcune aree d’attenzione
Come è stato ampiamente documentato nel capitolo precedente, gli obiettivi
del progetto sono tre: (i) il rafforzamento della figura professionale delle assistenti
familiari così da sottrarre le donne a fenomeni di sfruttamento e favorirne l’inclusione sociale; (ii) l’accesso delle donne immigrate ai servizi pubblici (socio-sanitari, educativi, di sostegno all’occupazione, ecc.); (iii) l’attivazione di luoghi di formazione e socializzazione per assistenti familiari ed anziani.
Già si è detto delle soluzioni adottate nella realizzazione del progetto, in questa sede è opportuno invece sottolineare quelli che saranno i punti di osservazione privilegiati nell’analisi dei racconti di vita delle collaboratrici familiari.
1 In altre parole: la responsive evaluation è una “valutazione centrata sul’utente” perché sono le differenti prospettive di valore espresse dagli utenti a far emergere le istanze di valutazione, a condurre il processo di valutazione e a definire gli elementi da considerare come punti di forza o punti di debolezza del
programma. Il termine “responsive” sta appunto per “rispondente alle istanze dei soggetti coinvolti” [Trinchero 2007: 111].
50
Spazio e tempo
Nel settore dell’assistenza domestica la domanda di lavoro è composta da
soggetti che non sempre hanno delle precedenti esperienze. In questo settore
occupazionale il più delle volte si incontrano una domanda socialmente debole,
come quella delle collaboratrici straniere, e un’offerta altrettanto vulnerabile, rappresentata dalla famiglie italiane che sempre più spesso non riescono a far fronte ai propri fabbisogni di cura. Il risultato di questo incontro è una sorta di compromesso al ribasso, nell’ambito del quale le collaboratrici rinunciano a far valere
alcuni dei propri diritti (contrattualizzazione, contributi previdenziali ecc.), mentre
le famiglie sono disposte a sorvolare sulle competenze specifiche del collaboratore scelto. In questo senso, è fondamentale acquisire informazioni sulla storia
professionale delle collaboratrici domestiche così da poter evidenziare in quale
punto della carriera si colloca la formazione e poi, in seguito poter valutare l’efficacia dell’intervento in termini di consolidamento di alcune skills di base e, in seconda battuta, imprenditoriali.
In passato il lavoro domestico era una cosiddetta bridging occupation, ovvero
un’occupazione che offriva occasioni di mobilità orizzontale e, in alcuni casi, verticale. Attualmente, l’impiego nel settore domestico si caratterizza per una bassa
mobilità. In parte si tratta di una libera scelta di lavoratrici/lavoratori proiettati verso il rientro in patria; d’altro canto, occorre far attenzione che la professione domestica non si trasformi in una “gabbia”. Nell’ottica di consentire alle collaboratrici domestiche di sviluppare in modo autonomo un proprio progetto di vita ed, eventualmente, di permanenza nel nostro paese occorre sondare con attenzione le
aspettative e i progetti professionali e di vita; così da poter mettere in campo una
forma di sostegno integrata, capace di supportare le donne nella scelta dei percorsi lavorativi e formativi più adatti.
I servizi alla persona implicano una forte componente relazionale. Soprattutto quando l’assistito non è completamente autosufficiente l’assistenza diviene una
relazione molto complessa nella quale la trama di reciproche aspettative può influire, sia in negativo che in positivo, sulla qualità della prestazione assistenziale
resa. A ciò bisogna aggiungere, fattori relativi alle differenze culturali e di genere:
non è raro che le richieste dei datori di lavoro possano entrare in conflitto con le
abitudini e i tratti culturali delle collaboratrici; viceversa ci sono anche casi nei quali
sono i comportamenti della collaboratrice a stridere con le attese dei datori di lavoro. La capacità di dialogo è l’unica strada per ricomporre questo genere di contrapposizioni. Esso tuttavia passa anche attraverso la mediazione dei familiari più
vicini all’anziano.
L’indagine sul campo: strumenti e materiali raccolti
Nel corso dell’indagine sul campo sono state raccolte le storie di venti collaboratrici familiari che hanno partecipato al percorso previsto dal progetto SeT (cfr.
tab. 1). Rispetto alla sperimentazione di Udine sono stati condotti 7 colloqui di intervista, prevalentemente con donne provenienti dall’Est-Europa (Ucraina, Moldavia e Russia); a Roma sono state realizzate 4 interviste con donne rumene e
sud-americane; a Napoli infine sono state raccolte le esperienze di 9 collabora-
51
PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
trici familiari provenienti esclusivamente da Romania e Ucraina2. Mediamente, l’età
delle donne intervistate è di 42 anni, la più giovane aveva 32 anni, mentre la più
anziana 55.
Tab. 1 - Prospetto interviste
N.
Nome
11
H.
12
G.
13
M.
14
F.
15
R.
16
L.
17
M.
18
F.
19
L.
10
L.
11
N.
12
V.
13
S.
14
E.
15
A.
16
N.
17
S.
18
E.
19
L.
20
O.
Età
49
47
37
35
40
41
47
36
28
32
46
55
34
41
54
32
52
45
37
48
Nazionalità
Ucraina
Russia
Moldavia
Moldavia
Marocco
Ucraina
Ucraina
Ucraina
Romania
Ecuador
Ucraina
Romania
Romania
Romania
Romania
Ucraina
Ucraina
Ucraina
Ucraina
Ucraina
Sede di sperimentazione
Udine
Udine
Udine
Udine
Udine
Udine
Udine
Roma
Roma
Roma
Roma
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
Napoli
La storia delle donne è stata organizzata secondo quattro grandi aree
tematiche:
La migrazione: si è cercato di ricostruire le motivazioni e le scelte che hanno
preceduto la partenza, il percorso migratorio (tappe e passaggi; aiuti e persone di
sostegno); sono state anche chieste informazioni sulla fase di primo soggiorno.
La condizione di immigrato: per sviluppare questa aree sono state chieste notizie sul percorso amministrativo, sulle difficoltà e su come sono state superate; sono state anche approfondite le opinioni sulla legislazione italiana e sulla condizione di immigrato (discriminazione e criminalizzazione)
Professionalizzazione e auto-imprenditorialità: si è chiesto di ricostruire il percorso professionale, le modalità di ricerca del lavoro e il tipo di datori di lavoro; è
stata anche sondata la disponibilità ad intraprendere percorsi formativi.
2 Si precisa che nella sperimentazione di Napoli, per motivi logistici, non è stato possibile realizzare interviste individuali, per cui le storie sono state raccolte nel corso di un colloquio di gruppo.
52
Spazio e tempo
Socializzazione e empowerment: rispetto a questa area si è approfondito l’uso
del tempo di non lavoro, gli interessi e le abitudini; le amicizie e i legami; si è cercato anche di capire il rapporto con i mezzi di comunicazione soprattutto in relazione al mantenimento dei legami familiari e trans-nazionali.
Le interviste sono state condotte da ricercatori specializzati (si ringraziano David Recchia e Federica Volpi); ogni colloquio è stato audio registrato per poi essere integralmente trascritto (Alessia Caimi si è occupata di realizzare le “sbobinature”). Le trascrizioni sono state poi studiate usando tecniche di analisi tematica e
del contenuto. Di seguito si propone un percorso analitico che replica le grandi
aree tematiche affrontate nel corso dei colloqui. Nell’analisi si farà ampio uso delle trascrizioni d’intervista, così sostanziare meglio le argomentazioni sostenute.
È tempo di andare: la specificità delle migrazioni femminili
Questa è la storia di L., una donna moldava di 37 anni, incontrata a Udine nell’ottobre del 2009.
Ho trentasette anni e vengo dalla Moldavia. Quando sono partita dal mio paese tutti andavano in Italia come turisti, infatti anch’io ho fatto il viaggio con il visto
turistico. Sono arrivata qui il 29 agosto del 2002, senza nemmeno saper dire “buongiorno”, senza sapere l’italiano, senza sapere nulla di questo popolo. Era da due
anni che sentivo dire: “andiamo in Italia!” Si viene in Italia perché si guadagna di
più qui, in Moldavia il lavoro c’è ma non si guadagna abbastanza per vivere, la mia
decisione è stata quella di venire qua anche solo come turista!
Domanda: come funziona questa cosa?
Risposta: adesso pagano molto di più, poverini! Adesso non sono nemmeno assicurati. Quando è iniziato era tutto diverso perché era una cosa nuova e
dopo due anni, quando sono arrivata io, le cose erano come all’inizio, più semplici. Sono andata in un’agenzia di viaggi ed ho prenotato, non so nemmeno io
come ho fatto. Gli italiani quando vanno in un’agenzia è per prenotare un viaggio da noi, no. Ho pagato 2.800 euro e mi hanno fatto il visto turistico per 29
giorni...
D: un po’ caro come visto turistico!
R: alla frontiera se vedono che hai il visto turistico ti lasciano entrare e non ti
fanno problemi... adesso poverini, anche se pagano, spesso non hanno nemmeno il passaporto in mano.
D: cioè che cosa succede?
R: succede che te lo portano loro, che ti fanno passaporto falso tipo quello per
la Romania! Una cosa davvero pesante, conosco una signora che non appena è
entrata in Italia ha avuto un sacco di problemi.
53
PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
D: ma tu sapevi che la tua non è era una vacanza?
R: si io ero cosciente che sarei rimasta qui...
D: cosa pensavi dell’Italia?
R: non avevo idea noi siamo un popolo tranquillo nessuno pensava di venire in
Italia, tutti pensavano ad andare a Mosca, in Ucraina... […] c’era mio marito che
era andato a Mosca a lavorare ed anche mio fratello però io credo che non sarebbe stata per me Mosca. Sarei dovuta andare a Mosca a vendere al mercato
non era un lavoro per me! Avrei dovuto prendere le valigie e tornare a casa ma io
non volevo per fare poi quel mestiere, io non ero capace, a Mosca si vendeva la
verdura, la frutta... negozi, poi... Ma non era me. Io per nove anni ho avuto il mio
posto fisso in Moldavia, come impiegata! Facevo la segretaria ma il mio stipendio
era poco ecco perché sono venuta in Italia. Ho pensato ma se ci vanno le persone che non hanno un lavoro e lo riescono a trovare, perché non ci devo andare io,
che ho esperienze lavorative? Molti partivano in gruppo ma io pensato di venire da
sola. […] sono venuta da sola, ma non ero proprio da sola perché a Pordenone vicino Udine c’è una mia amica. L’ho chiamata e le ho detto che sarei arrivata dopo
due settimane e le ho chiesto se mi poteva aiutare a cercare lavoro, anche lei si
era trasferita otto mesi prima. Lei mi ha detto: “sì, vieni... tanto se devi trovare un
lavoro, lo devi trovare da qui!”
[L., Moldavia, 37 anni, Udine]
Nel racconto di N. si intrecciano diversi elementi, caratteristici di buona parte
dei percorsi migratori delle donne est-europee. Il bisogno di migliorare la condizione economica è il principale push migratorio; sebbene tale esigenza accomuni
individui provenienti da nazioni diverse occorre rimarcare che nel caso della Moldavia e di altre nazioni dell’ex Unione Sovietica la condizione di povertà non necessariamente implica l’assenza di un’occupazione. L. racconta di aver lavorato
per anni come impiegata, suo marito inoltre aveva anch’esso un lavoro. Con il crollo del sistema socialista ampie fasce di popolazione hanno subito un netto impoverimento pur mantenendo il lavoro: non è quindi un caso che anche coppie con
un doppio lavoro (in Est Europa molto più frequenti che da noi [Morokvasic 2002:
26]) si siano ritrovate in difficoltà e abbiano scelto di andare a lavorare all’estero: il
marito a Mosca; L. in Italia. Allargando il quadro rispetto a quanto raccontato da
L., occorre ricordare che la forte femminilizzazione dei flussi dall’Est-Europa ha motivazioni precisa, come osserva Torre [2008: 15]: “le donne arrivano sempre di più
come immigrate indipendenti e rappresentano la fonte principale di sostegno della loro famiglia che è rimasta nel paese d’origine.”
L’esperienza di L. inoltre evidenzia il ruolo della famiglia e delle cerchie amicali
nella scelta di migrare, nonché la funzione di orientamento che hanno le informazioni provenienti dalle catene migratorie. Come viene riferito da L. all’epoca della
sua partenze le si prospettavano diverse alternative: trasferirsi in Russia o in Ucraina (scelta fatta dal marito e da suo fratello) oppure andare in Italia, opzione che attorno al 2000 in Moldavia era abbracciata da un numero crescente di persone. Da
54
Spazio e tempo
una parte c’era quindi un’alternativa che avrebbe garantito una relativa vicinanza
con la nazione di origine (e quindi la possibilità di muoversi come lavoratore pendolare) e il sostegno dato dalla presenza di alcuni familiari; dall’altra una scelta più
rischiosa e carica di incognite: l’Italia. Anche nella penisola L. aveva dei contatti;
tuttavia è evidente come il venire in Italia abbia rappresentato una scelta ben più
azzardata, soprattutto per il fatto che al momento della partenza L. non sapeva
una sola parola d’italiano. I motivi che hanno spinto la donna moldava sono vari.
Innanzitutto, il vantaggio comparativo del trovare lavoro in Italia: un impiego da assistente familiare in Italia è sicuramente più remunerativo di un lavoro nel mercato
di Mosca; tanto più che L. dichiara esplicitamente che non le sarebbe piaciuto andare a lavorare a in Russia.
In seconda battuta, occorre far riferimento tanto ai fattori situazionali quanto alle caratteristiche personali di L. La decisione di trasferirsi all’estero prende forma
in un contesto sociale nel quale tale scelta è apertamente legittimata e incentivata
dai comportamenti altrui (era due anni che sentivo dire «andiamo in Italia»). L’ambiente sociale può dunque essere un importante incentivo alla scelta di emigrare:
le informazioni e i rientri in patria degli altri emigranti possono rappresentare una
spinta importante, come d’altronde anche i contatti a distanza con amici e parenti già trasferitisi. Non a caso L. prima di prendere una decisione contatta una sua
amica di Pordenone e da lei ottiene importanti ragguagli su cosa attendersi da un
eventuale trasferimento in Italia. Infine, un elemento che emerge con forza dalla
storia di L. è la fiducia nelle proprie capacità e in sé stessi. L. è convinta che se
parte gente che non ha mai lavorato, lei che ha una lunga esperienza professionale non avrà alcuna difficoltà. In chiave psicologica L. esprime un profondo senso di autoefficacia3: la consapevolezza delle proprie capacità è un sostegno fondamentale nella scelta di intraprendere un viaggio ben più rischioso di quello verso la Russia.
Il fatto che ad emigrare siano tendenzialmente le persone dotate di maggiori risorse relazionali ed emotive è un’acquisizione recente [Scidà 2005], sino a qualche decennio fa gli studi sulle migrazioni internazionali tendevano a enfatizzare spiegazioni basate sul calcolo costi/benefici, spesso tralasciando la dimensione familiare e psicologica. Il caso di L. evidenzia bene come nello spiegare i percorsi migratori sia fondamentale considerare differenti livelli analitici: in altre parole, ogni atto migratorio è il risultato dell’interazione di diversi fattori sia individuali sia sociali.
Precisando la natura multi-dimensionale dell’atto migratorio, si fa evidente riferimento alle capacità dei migranti di determinare in modo autonomo il proprio percorso (agency). Tuttavia dal momento che la scelta di emigrare prende forma quasi sempre all’interno del nucleo familiare, la decisione non è mai totalmente libera
e la famiglia può anche spingere, se non addirittura forzare, un suo membro ad
emigrare. È questo il caso di un’altra donna moldava, F. di 35 anni, intervistata sempre ad Udine.
3 Il senso di efficacia percepita è un processo cognitivo identificato dallo psicologo sociale Albert Bandura [2000] per l’analisi dell’agentività umana.
55
PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
Sono partita con le lacrime. Mio marito diceva che dovevo venire io in Italia,
io volevo che venisse lui, ma si sa, per gli uomini che hanno una certa età, non
c’è tanto lavoro. Per noi donne, invece sì, tanto si finisce per lavorare a casa come badanti!
D: Che cosa facevi in Moldavia?
R. Lì c’era un pezzo di terra che potevo seminare, con mais, girasoli, però per
pagare l’aratura non avevo soldi perché con trecento o seicento Leu, che non sono neanche 20 euro al mese, non ti compri neanche il pane! Per pagare quell’aratura servivano i soldi e poi anche se pagavo tutto, non avevo a chi vendere, tenevo tutto a casa! Abbiamo provato a tenere sia le mucche che i maiali, ma siccome abbiamo dei forti disturbi alimentari anche noi in famiglia, non sapevo cosa
fare con il maiale, venderlo per pochi soldi no, anche perché non lo voleva nessuno. La vacca che avevo faceva del latte buonissimo che tutti i nostri vicini venivano a comprare, ma anche questo non ci faceva arrivare a fine mese..
D. Questa situazione era solo nella tua famiglia o era generalizzata??
R. No quelli che abitavano vicino a me erano come me, noi poi dovevamo fare riparare la casa, ma non potevamo mancavano i soldi.
[F., Moldavia, 35 anni, Udine]
F. non sembra avere alternative, da una parte le condizioni economiche della
sua famiglia sono drammatiche (i dettagli sulla poverissima economia agricola moldava parlano da soli), dall’altra l’ipotesi che sia il marito a partire non è praticabile
poiché avrebbe troppe difficoltà a trovare un lavoro. Come nel caso di L., la donna sa bene che andando in Italia troverebbe sicuramente lavoro per cui l’alternativa non si pone: deve essere lei a farsi carico del sostentamento della famiglia.
La famiglia entra nelle scelte migratorie anche in un altro modo. Tra le intervistate ci sono casi nei quali la migrazione rappresenta una reazione ad un evento
biografico particolarmente traumatico: alcune donne hanno raccontato di essere
partite all’indomani della morte del marito: senza più il coniuge emigrare rappresentava l’unica possibilità per mantenere la famiglia per cui su due piedi si sono ritrovate in Italia con la pressante esigenza di trovare un lavoro e con il pensiero sempre rivolto ai figli lasciati in patria e al marito scomparso. Nel racconto di G., invece, alla disgrazia per una morte prematura, si sommano anche le difficoltà politiche del paese di residenza.
Prima di venire in Italia sono andata con mio marito a vivere in Ucraina. Abbiamo avuto molti problemi in Ucraina, prima gli sono morti i genitori, poi è morto lui:
è successo nel 1992. Dopo non ho più trovato lavoro perché non c’era nulla, era
tutto distrutto, tutte le fabbriche distrutte. […] Le fabbriche sul Mar Nero erano tante ma hanno chiuso tutte ed io e mio marito che ci lavoravano siamo rimasti senza nulla. Facevamo altri lavori, sennò non si poteva né mangiare né pagare l’affitto, ma lui dopo due infarti, è morto. Io non sapevo che fare e con tre bambini pic-
56
Spazio e tempo
coli, ho lasciato il mio appartamento alla banca perché avevo dei debiti e sono andata via, verso un mondo sconosciuto!
[G., Russia, 47 anni, Udine]
Anche N. ucraina di 46 anni intervistata a Roma racconta di come con la caduta del muro di Berlino il suo paese sia precipitato in un vortice di instabilità politica
e impoverimento (molto critico è il giudizio sulla Russia che a suo parere è oggi simile a quella degli zar). N. dopo aver passato un primo periodo in Italia circa dieci
anni fa ed essere rientrata a casa è nuovamente partita sotto la spinta del conflitto
in Georgia dell’estate 2008 che era arrivato a minacciare la stessa Ucraina4.
Anche dalle storie delle donne di origine rumena, soprattutto quelle più adulte,
emerge una certa lucidità nel collegare la situazione economica e politica del paese d’origine con la transizione post-comunista: l’incapacità dei politici, la corruzione e lo sprezzo per le esigenze dei cittadini sono, spesso, richiamate tra le concause dell’emigrazione.
Tornando alla storia di L. emerge con chiarezza che nella migrazione si debbono fare i conti anche con vincoli istituzionali e, spesso, anche con intermediari
che agiscono nell’illegalità. Non sarà difatti sfuggito il riferimento alla richiesta da
parte dell’agenzia di viaggi di 2800 euro per l’ottenimento del visto turistico, il lasciapassare per la frontiera. A riguardo il racconto di L. prosegue fornendo inquietanti dettagli sulle modalità con le quali lei, e tantissimi altri cittadini moldavi, sono
costretti ad emigrare.
D. come hai trovato i soldi per pagare l’agenzia di viaggi?
R. ho fatto i debiti! Sì, certo! 800 euro li avevo e 2000 me li sono fatta prestare dalla banca.
D: una banca?! È così che si finanzia il viaggio?
R. si, si! Ma non tutti, solo se in banca hai una conoscenza!
D: sono banche regolari?
R: si prestano a tutti i soldi, io avevo un’amica, ora ha una certa età, prima di
andare in pensione io lavoravo con lei, facevo la segretaria nella sua agenzia, per
cui lei decise di darmi una mano. Oggi quelle agenzie non ci sono più, perché la
Moldavia e l’Europa hanno capito questa cosa qua. Hanno scoperto il traffico […]
In sette anni sono cambiate tante di quelle cose che adesso non sai proprio come
4 L’Ucraina, come altri paesi dell’ex-URSS, sconta la tensione derivante dalla volontà della Russia di
mantenere la propria influenza e in certi casi la sovranità su questi popoli ed il loro desiderio di affrancarsi da Mosca ed entrare a far parte, nel caso dell’Ucraina, di Unione Europea e Nato. Le tensioni in
Moldova/Transnistria e nell’area del Caucaso (Georgia, Ossezia, Inguscezia, Abkhazia) - che da anni sono teatro di conflitti e cruente rappresaglie quando non di guerra vera e propria - non di rado riguardano anche l’Ucraina in quanto le unità militari navali della Russia sono di stanza nel porto di Sebastopoli.
57
PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
venire in Italia, forse passando per la Turchia! Quando sono venuta io eravamo in
un pullmino di diciassette persone e soltanto in otto siamo arrivati in Italia, perché
le altre nove persone si è scoperto che già erano state in Italia e non avevano il diritto di passare la frontiera. Erano delle persone con una diversa identità... capito
come funziona di là? Ecco perché io avevo paura! é come se io fermassi qualcuno
alla frontiera e gli chiedessi il passaporto, come faccio a dimostrare che questa persona non mi stia mentendo e che in realtà non è mai venuto in Italia? Questo è caduto nel 2002 figurati adesso che cosa sta succedendo per fare soldi!
D: perché uno non può andare con la propria identità?
R: certo tu ci puoi andare ma devi stare attento a che non ti fermi la polizia lì è
come se fosse la mafia, vedono che “tizio” non è mai stato in Italia prendono la sua
identità e la trasformano in un’altra identità ma se un giorno “tizio” volesse andare
in Italia lo rimanderebbero indietro perché gli direbbero che sta mentendo e che
lui in Italia c’è stato. Prima era così ma oggi sono cambiate le cose, devi pagare
4000 euro. Ho addirittura sentito di un ragazzo che è andato a Firenze ed ha pagato 8000 euro. In pratica ha pagato due volte e l’hanno lasciato alla frontiera chiedendogli di pagare ancora sennò lo avrebbero rispedito a casa, lui ha chiamato la
sorella, che sta in Italia, le ha chiesto se gli poteva dare 4000 euro altrimenti lo
avrebbero rispedito a casa.
[L., Moldavia, 37 anni, Udine]
A causa delle forti restrizioni presenti nella maggior parte dei paesi dell’Europa
occidentale alle migrazioni per lavoro, i migranti sono spesso costretti ad aggirare
le norme usando l’espediente del visto turistico. Il fenomeno degli over-stayers soprattutto in Italia è molto diffuso e, al contrario di quello che si è soliti pensare, veicola gran parte delle presenze irregolari5. Il mercato dei visti turistici è però controllato da un sistema finanziario parallelo, nel quale attori commerciali “legali” (agenzie di viaggio e istituti di credito) controllano sottobanco la vendita dei permessi. L.
è stata dunque costretta a impegnare sia risorse proprie sia a chiedere un “prestito” ad una banca, con un tasso d’interesse che con tutta probabilità non sarà stato particolarmente vantaggioso.
Questi dettagli vengono peraltro confermati da una survey realizzata in Moldavia dallo IOM (International Organization for Migrations) nella quale si documenta
che i migranti moldavi verso l’Unione europea nel 2000 pagavano in media 2.000
dollari mentre nel 2006 il costo medio era salito a 3.500 dollari [Lücke, Mahmoud,
Pinger 2007, p. 33, tab. 3.5].
I circuiti dell’economia illegale non si interessano solo del traffico dei documenti
e della gestione dei trasporti. Alla frontiera si attiva un ulteriore sbarramento illega-
5 In valori assoluti gli ingressi irregolari (i cosiddetti “clandestini”) sono una componente non preponderante dei flussi migratori che attualmente interessano l’Italia; la maggior parte degli individui privi di titolo di soggiorno sono dunque degli “irregolari di ritorno”.
58
Spazio e tempo
le, atto a estorcere ai migranti altri soldi; la pratica del sequestro del passaporto,
peraltro, è funzionale ad alimentare un circuito commerciale/criminale di vendita
delle identità. L. fa riferimento alla situazione del 2002, tuttavia a quanto le è dato
sapere la situazione attuale non può che essere peggiorata6. Dal racconto della
donna moldava si evidenzia che il trasferimento all’estero, oltre ad essere una scelta “coraggiosa” dal punto di vista familiare e individuale, presenta rischi materiali di
portata notevole come la possibilità di ritrovarsi impigliati nelle reti della criminalità
e di veder vanificato lo sforzo economico ed emotivo sostenuto per la partenza.
Inoltre, la prassi di farsi prestare dei soldi per emigrare condiziona la fase iniziale
del soggiorno all’estero poiché gran parte dei guadagni dovranno essere destinati a rifondere il debito7.
Le vicende di cui è stata protagonista L. sono paradigmatiche poiché evidenziano la complessità dell’atto migratorio, portandone in superficie implicazioni e legami. Occorre precisare che questa storia è stata scelta in virtù della sua particolarità: i racconti delle altre donne intervistate, pur presentando varie coincidenze con
quanto riferito dalla donna moldava, sono più lineari. Anche tra coloro che provengono da paesi terzi i percorsi migratori tendono ad essere diretti, con un ingresso
in Italia mediante un visto turistico. Semmai i problemi si incontrano dopo, in sede
di regolarizzazione, quando si è costretti ad uscire dall’Italia per rispettare il meccanismo della chiamata dall’estero. A riguardo, occorre citare anche il caso di coloro
che per ottenere un nuovo permesso di soggiorno temporaneo si recano in Romania (paese comunitario) dove acquistano un passaporto rumeno per poi rientrare in
Italia. Infine si registrano anche percorsi a tappe, attraverso altre nazioni.
Nel complesso, i percorsi migratori delle donne intervistate possono essere
distinti in due tipi. Da una parte le “migrazioni di scopo”: la scelta di venire a lavorare in Italia matura all’interno del contesto familiare, la donna decide di emigrare per poter assicurare alla sua famiglia un tenore di vita migliore. Tale scelta
interessa soprattutto donne adulte con figli già grandi. L’altro tipo di spostamento
può essere definito “migrazione di trasferimento”. Il progetto migratorio in questo caso è meno strutturato: le donne decidono di spostarsi in Italia per migliorare la propria situazione economica senza avere tuttavia un progetto lavorativo
preciso. Di norma questa scelta viene fatta da donne più giovani. In entrambi i
percorsi forte è il ruolo delle reti etniche che spesso sostengono le donne nel trasferimento.
6 Paradossalmente, la frontiera moldava nonostante sia una delle più interessate dai flussi in ingresso
per l’Europa, è una delle meno controllate: secondo i dati del Frontex - l’agenzia europea che si occupa del coordinamento delle attività di pattugliamento delle frontiere esterne degli Stati della UE - lungo la frontiera moldavo-ucraina-bielorussa il numero di migranti illegali è stato di 1.335 unità. L’agenzia motiva il basso numero di ispezioni con esito positivo con la forte azione di controllo interno
esercitato dagli stati confinanti [Frontex 2010, p. 21]. Situazioni molto simili a quelle vissute da L. sono documentate anche in altri studi sul tema; cfr. Sciortino 2009; Vietti 2010.
7 Nei casi più drammatici per ripagare il debito le persone sono costrette a lavorare in condizioni di
quasi-schiavitù [Morokvasic 2002, p. 22].
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
Lontano da casa: il periodo di primo di soggiorno all’estero
Continuando a seguire la storia di L. si ottengono preziosi dettagli per comprendere cosa significhi arrivare in un paese che non si conosce. Occorre premettere che il caso della donna moldava si inserisce all’interno di un sistema migratorio in via di strutturazione [Sciortino 2009, pp. 178-187]: le reti transnazionali
tra Moldavia e Italia sono meno organizzate di quelle presenti tra altre nazioni ed il
nostro paese, per cui il percorso di L. è più difficoltoso di quello incontrato da persone che una volte giunte in Italia hanno potuto contare su reti familiari e comunitarie più ampie e in grado di sostenere l’inserimento socio-economico del neo-immigrato.
[…] Loro mi hanno lasciato Padova e io da Padova dovevo andare a Pordenone senza sapere nemmeno una parola di italiano. Sentivo dire alla stazione la
parola “binario”, sapevo che era quello che mi avrebbe dovuto portare da qualche
parte, avevo paura, ma non sapevo parlare. Poi ho tirato fuori la carta geografica
ed ho visto dove si trovava Pordenone, quella era facile da leggere perché il nostro alfabeto è uguale al vostro. Ho chiamato la mia amica dicendole che avrei ritardato perché mi ero persa. Andai in biglietteria e nella mia lingua spiegai dove
dovevo andare. Mi hanno dato il biglietto, dicendomi dove era il binario, io infatti
gli chiesi cosa fosse un binario e il bigliettaio me lo indicò! Era il binario 5 e io sono salita su quello. Non sapevo cosa fare ero impaurita, però ce l’ho fatta, ho fatto tutto da sola. Così iniziato il mio viaggio! Quel giorno non me lo dimenticherò
mai. Alla stazione di Padova dove ci hanno lasciato, gli altri miei connazionali incontravano persone che conoscevano e loro familiari. Io non avevo nessuno! Avevo paura che mi facessero a fare degli sporchi lavori, perché erano i miei connazionali che mi dicevano questo. Io non ci volevo credere perché dicevo che comunque sarei dovuta stare in Italia, avevo il diritto per un mese. Le agenzie non rispondono di queste cose, c’hanno scaricato come dei pacchi, il tempo di voltarmi indietro e non c’era più nessuno. Sono rimasta sola. Ci sono delle persone che
si avvicinano per chiedere se vuoi andare col loro a prendere un caffè... io non mi
volevo mettere nei guai perché se cerco i guai li posso trovare e non volevo!
[L., Moldavia, 37 anni, Udine]
Ancora una volta l’esperienza di L. evidenzia elementi di grande interesse: innanzitutto, i rischi ai quali sono esposti i percorsi migratori atomizzati [Sciortino
2009, pp. 187-189; Vianello 2009]. La scena dell’arrivo è emblematica: la stazione ferroviaria di Padova è affollata di persone venute ad accogliere parenti e amici appena giunti dall’estero, L. invece è sola. Non parlando l’italiano è impaurita e
disorientata; è quindi un soggetto vulnerabile, bisognoso di essere rassicurato e
aiutato; in altre parole, un bersaglio perfetto per gli intermediari dei circuiti della prostituzione e del lavoro gravemente sfruttato. Lei stessa ne è perfettamente consapevole: è stata avvertita che ci sono persone che tentano di approfittarsi delle difficoltà altrui, cercando di portarti dentro brutti giri. La vicenda di L. non è un caso
isolato, Padova come altre stazioni ferroviarie italiane e un crocevia fondamentale
60
Spazio e tempo
della mobilità internazionale: nelle zone adiacenti la stazione si dipanano flussi di
persone e merci non sempre tutti leciti e trasparenti. Un’efficace descrizione di ciò
che accade in questi luoghi proviene da un’indagine sul lavoro domestico svolta
qualche anno fa a Napoli [Spanò, Zaccaria 2003, pp. 199-200]:
Per tutte l’arrivo, quasi sempre in piena notte e quasi sempre traumatico, è in
Piazza Garibaldi, la piazza della stazione ferroviaria, vera e propria casbah d’Occidente, dove attorno ai pullman si accalca ogni sorta di umanità: immigrate che portano “i pacchi” (di viveri, vestiti, abbigliamento, medicine) da spedire alle loro famiglie, parenti ed amiche che aspettano le loro connazionali, ma anche mediatori privi di scrupoli che vendono lavoro e cercano nuove acquirenti, uomini alla ricerca di
compagnia, emissari di reti di prostituzione che cercano nuove vittime, e, sullo sfondo, una moltitudine di immigrati maghrebini, ma anche slavi e dell’Est europa, che
durante la notte si radunano nella piazza.
Sebbene L. fosse molto impaurita è indubbio che sapere dove andare è già un
grande vantaggio. Non sono rari i casi di donne giunte in Italia con la “sicurezza”
del lavoro, una certezza quasi sempre a pagamento, che vengono ingannate da
mediatori disonesti (anche parenti) sino ad arrivare alla scoperta che il lavoro promesso non era di assistente familiare ma prostituta. L. ha invece una risorsa in più:
può andare a Pordenone dalla sua amica.
Più in generale, il tema dello spaesamento e del rischi collegati all’impossibilità
di programmare nei dettagli il trasferimento all’estero, ritornano in forme più drammatiche nelle esperienze di F.
Io ero in Russia, lavoravo in un mercato, tutti quelli che lavoravano nel mercato dicevano che in Italia si stava bene infatti molti dei miei concittadini e connazionali stavano qui.
D: Udine l’hai scelta per caso oppure ci sei voluta andare?
R: non sapevo dove andare, avevo solo mia cugina, avevo anche una mia vicina di casa che stava Bologna ma con il mio contratto sono potuta arrivare solamente a Foggia... quando mi hanno dato il permesso finalmente sono potuta andare via perché non volevo rimanere nei campi a raccogliere pomodori. […] Venivamo trattati come animali! Dormivamo nelle tende, c’eravamo portati tutto da casa, persino le pentole. Noi eravamo in 40! Dopo di noi li sono arrivate altre 90 persone che non avevano nulla, ricordo anche che c’era un direttore di scuola con
tanto di giacca e cravatta che, oggettivamente, non sapeva cosa fare. Nel nostro
paese ognuno era qualcuno, in Italia questo qualcuno, non era nessuno! Ricordo
che gli ho venduto la mia tenda a 20 euro perché non si poteva dormire sotto la
pioggia, a cielo aperto. Abbiamo visto come trattavano male le persone, un giorno arrivò un camion pieno di ragazzi rumeni, quella sera cominciò piovere ed un
signore con un fucile in mano diceva ai ragazzi discendere e di dormire sotto la
pioggia. Uno di loro si ribellò e l’uomo lo minacciò con un fucile dicendogli che se
non fosse sceso, sarebbe finita male. Un altro ragazzo puntò all’autista un coltello alla gola facendolo spaventare...
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
D: Erano italiani?
R: Si.
D: c’erano altre persone come quell’uomo col fucile della vostra nazionalità?
R: No. C’era una donna che conviveva con l’italiano e portava le ragazze polacche all’uomo con il fucile... sono scene che non si dimenticano! Lui aveva circa
cinquant’anni e le ragazze 18 anni, minacciava gli altri ragazzi che prendevano le
difese delle ragazze... dicendo che avrebbe fatto una carneficina qualora si fossero intromessi tra lui e le ragazze scelte... ecco perché quando avuto il permesso di
soggiorno sono scappata! […] Io sono venuta in Italia con un contratto buono ma
mi sono ritrovata una situazione terribile un giorno abbiamo fatto pure uno sciopero, abbiamo messo le tende sotto gli uliveti e lui, non il padrone che abbiamo visto solamente una volta, il padrone delle terre, ma colui a cui eravamo stati affidati, c’è venuto a chiamare chiamandoci “ragazzi”... non più “animali”... non si accertava nemmeno delle nostre condizioni fisiche... un giorno si sentì la sirena della polizia e la donna che mi aveva portato in Italia mi disse di scappare poiché nel
contratto c’era scritto che noi avremmo avuto un alloggio invece... era tutto falso.
[F., 35 anni, Moldavia, Udine]
L’esperienza di F. è a suo modo più drammatica di quella dell’altra donna moldava. Partita nelle stesse condizioni di L., si ritrova nell’inferno della raccolta del
pomodoro in provincia di Foggia, dove il caporalato di antica memoria si globalizza e trasforma in una nuova forma di schiavismo. I particolari della storia fanno rabbrividire: le condizioni di vita e di lavoro oltre ad essere indecenti, vengono mantenute con la forza e l’intimidazione; la paura è la miglior forma di soggiogazione tanto che i ragazzi che tentano di difendere le donne dagli abusi vengono pesantemente minacciati e picchiati. Questa storia non è purtroppo isolata: il racconto di
F. replica in tutto e per tutto le vicende raccontate nell’inchiesta di Alessandro Leogrande [2008] sul nuovo caporalato agricolo8.
Anche la storia di L., giovane donna rumena incontrata a Roma presenta passaggi molto duri.
Quando sono partita dalla Romania, non sono subito venuta a Roma ma sono andata prima ad Eboli a lavorare in un hotel; lì sono stata solo due mesi perché
mi trattavano male. Lavoravo dalla mattina alla sera, poi la sera quando me ne andavo nella mia stanza il padrone veniva e bussava perché voleva qualcosa di più.
[…] Lui quando prendeva una ragazza a lavorare ed era bella lui approfittava sempre. Io non ero d’accordo e sono fuggita con un’altra ragazza rumena. […] La sera sempre dopo che avevamo finito il lavoro e faceva buio lui veniva sempre e pro-
8 Su questi temi si veda anche il dossier Arance insanguinate, realizzato in seguito ai fatti di Rosarno da
due onlus meridionali che operano nella lotta alle mafie [Stopndrangheta-daSud 2010].
62
Spazio e tempo
vava a entrare in camera: allora siamo scappate senza farci nemmeno dare io soldi che ci spettavano.
D: potevi uscire la sera?
R: no, lui non ci faceva uscire e durante il giorno non avevo nemmeno un attimo libero.
D: per uscire da questa situazione hai avuto l’aiuto di qualcuno?
R: questa ragazza con la quale sono scappata aveva un marito che lavorava lì
vicino, allora lei un giorno lo ha chiamato e il marito ci è venuto a prendere con la
macchina. Da lì siamo andati alla casa dove lavorava il marito della mia amica. Era
una famiglia italiana, l’uomo era sposato con una rumena che anche lei aveva lavorato in quell’albergo e aveva subito le stesse cose, quindi ci ha detto che potevamo rimanere lì qualche giorno.
[L., 28 anni, Romania, Roma]
La segregazione e le molestie sono forme di vessazione, purtroppo, abbastanza
frequenti nel settore alberghiero: i lavoratori e le lavoratrici, quasi sempre stagionali, vengono sfruttati sino al parossismo, imponendo loro orari di lavoro lunghissimi e paghe assolutamente non commisurate. L’inserimento nel sottobosco del
lavoro gravemente sfruttato è spesso una conseguenza legata all’assenza di un titolo di soggiorno: le profonde condizioni di bisogno spingono i lavoratori a sopportare ogni genere di angherie e soprusi, sino al caso estremo di L. che, pur essendo molestata dal suo datore di lavoro, resiste due mesi prima di darsi alla fuga. Nel corso del colloquio non è apparso necessario entrare nei dettagli, colpisce
però come le due ragazze non fossero relazionalmente isolate: entrambe avevano
la possibilità di contattare la propria famiglia, cosa che effettivamente hanno fatto
solo dopo due mesi di molestie. È abbastanza intuibile come la necessità di lavorare alzi la soglia della sopportazione fisica e psicologica delle persone: solo a fronte di molestie sempre più gravi e reiterate le donne hanno scelto di fuggire; tanto
più che la moglie straniera della persona che ha dato loro aiuto conferma le abitudini del gestore dell’albergo.
Sulle motivazioni che sottostanno la scelta di sopportare una situazione di per
sé aberrante é pertinente evidenziare che ogni atto migratorio implica una “durata
socialmente attesa” [Roberts 1995]: ogni migrante, sin dal giorno della partenza,
ha in mente il momento nel quale potrà rivedere i propri cari; allo stesso modo egli
è da subito consapevole quale dovrà essere la durata della sua permanenza all’estero, non è raro che tra chi rimane (o chi aspetta di partire a sua volta) e chi parte si instauri un’obbligazione fiduciaria rispetto a quanto debba durare la migrazione. L’intenzione di non deludere le aspettative altrui è possibile che influisca sulle capacità di sopportazione del disagio.
Una situazione meno grave, ma ugualmente problematica è capitata anche a
L., ecuadoregna incontrata a Roma. La donna aveva programmato che nei primi
tempi del suo soggiorno a Roma avrebbe dovuto alloggiare in una pensione ge-
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
stita da connazionali, aveva pagato un congruo anticipo contestualmente all’acquisto del biglietto aereo in un’agenzia di viaggio del suo paese; i soldi chiaramente
le erano stati prestati dalla famiglia e dagli amici. All’arrivo in Italia, L. si presenta alla pensione e i gestori negano di aver ricevuto i soldi e la “sbattono” con le valige
per strada. La donna disperata, dopo aver vagato per Roma, si rivolge ad una struttura parrocchiale dove trova accoglienza per qualche giorno. È così che comincia
la sua vita in Italia.
Dai racconti delle donne si evince che i rapporti di lavoro al di fuori di qualsiasi
standard normativo, fondati sulla coercizione e sulla dipendenza, sono un rischio concreto anche per coloro che sono emigrati sicuri di trovare un impiego. La fase di primo soggiorno è come detto la più difficile: più si prolunga il periodo di inattività è più
si abbassano le richieste delle lavoratrici. Spesso a fare la differenza è un’amicizia disinteressata. Per L., la donna moldava della quale si sta seguendo passo per passo
il racconto, l’aver avuto un’amica a Pordenone e una cugina a Roma è stato un sostegno fondamentale, non tanto nella ricerca di lavoro, quanto nell’offrire un rifugio
durante il periodo nel quale è stata una soggiornante irregolare disoccupata.
D: tu sapevi quello che saresti venuta a fare in Italia?
R: si, la mia amica mi aveva informato che avrei fatto la badante, ho chiamato
anche mia cugina che sta a Roma lei mi ha detto che non mi avrebbe potuto aiutare in niente ma che mi avrebbe potuto dare il nome e l’indirizzo dell’agenzia, è una
agenzia moldava a Roma e mi ha detto se non ti dovessi trovare, vediamo cosa fare. Io comunque sono arrivata a Pordenone perché c’era la mia amica! La mia amica mi ha detto anche di andare dai parroci e dalle suore che mi avrebbero aiutato
a trovare un lavoro. Invece niente per due mesi, non ho fatto niente... io intanto aiutavo la mia amica. Il figlio della sua vicina di casa aveva un bar ed una trattoria ed
ogni giorno andavo ad aiutare in cucina: che ne so, a pelare le patate a sbucciare
le carote, il lavoro non era pagato ma a me stava bene così, così mi davo da fare,
imparavo cose nuove e soprattutto la lingua. Io capivo ma non riuscivo a parlare...
il titolare mi prendeva in giro bonariamente chiedendomi di andare a prendere forchette e coltelli, io capivo è andavo a prendere ciò che lui mi chiedeva, ma quando
mi ringraziava io non sapevo cosa rispondere anche se capivo il gesto. Il 23 novembre 2002 io chiamo un’altra mia amica a Roma chiedendole se posso andare
a Roma e se lei mi aiuta a cercare un lavoro perché io a Pordenone non riesco a
trovarlo. La mia amica acconsente. Nel frattempo, ero andata nella chiesa di Pordenone per fare la richiesta di un lavoro. Così, mi sono fatta le valigie e sono andata alla stazione. Avevo tanta paura perché i miei documenti erano scaduti dopo un
mese, i miei documenti erano scaduti ad agosto ed era già novembre, non potevo
tornare a casa, ormai stavo lì. […] Quando sono andata a Roma ero clandestina ma
poi, un giorno, mi hanno chiamato ed ho cominciato a lavorare! Sarà stata fortuna.
È stato grazie alla Caritas. Allora a quel punto sono ritornata ad Udine, era novembre, pioveva. Non sapevo ancora parlare bene, ero spaventata. Sono arrivata ad
Udine e sono andata subito all’appuntamento di lavoro.
[L., Moldavia, 37 anni, Udine]
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Spazio e tempo
La protezione offerta dall’amica di Pordenone è stata dunque risolutiva nel corso dei due mesi di non lavoro. La possibilità di avere vitto e alloggio, a fronte di un
lavoro gratuito nel ristorante, ha permesso ad L. di aspettare e imparare la lingua;
poi quando la donna si è decisa a tentare altre strade andando a Roma, il caso ha
voluto che, grazie all’intercessione della Caritas di Pordenone, si è aperta una possibilità di lavoro in Friuli, così L. è tornata sui suoi passi, il tutto sempre con l’apprensione di non avere un documento di soggiorno valido. Al di là del sostegno
morale e materiale dell’amica spicca nella storia di L. il ruolo svolto da un ente ecclesiale come la Caritas. Anche altre intervistate hanno fatto riferimento all’aiuto offerto dalle strutture Caritas presenti nelle parrocchie e nelle diocesi italiane: alcune
sono addirittura arrivate in Italia con la consapevolezza che in caso di bisogno si
sarebbero potute rivolgere alla Caritas. Soprattutto nella fase di prima accoglienza le articolazioni locali dell’ente sono in grado di mobilitare risorse e capacità che
non hanno eguali in altre realtà del sociale. L’azione di “intermediazione” svolta dalle Caritas non deve sorprendere: le parrocchie sono un luogo, per così dire, protetto dove l’incontro tra domanda e offerta di lavoro avviene sotto la garanzia di un
soggetto al di sopra delle parti che si presume abbia l’interesse di tutelare entrambe
i soggetti. Anche altre strutture che operano nel settore, come ad esempio le Acli
Colf, sono un punto di riferimento per le famiglie e i lavoratori poiché rispondono
in modo rapido e flessibile alle esigenze di entrambi.
Le traiettorie occupazionali delle collaboratrici domestiche
Stando ai racconti delle donne intervistate, la ricerca della prima occupazione
è stata una fase problematica. Fatta eccezione per coloro che sono arrivate in Italia con già un lavoro in tasca, l’approdo al lavoro domestico non è stato un percorso scontato. Soprattutto le donne più giovani hanno raccontato di come abbiano iniziato lavorando nella ristorazione o in qualche bar. Spesso purtroppo si è
trattato di lavoro nero e poco tutelato. L’inserimento in seconda fase nel settore
domestico riguarda spesso le cosiddette migrazioni di trasferimento o esplorative
[Amborsini, Cominelli, 2005; Simoni, Zucca, 2008].
Un caso emblematico è la storia di L., la ragazza rumena di 28 anni, fuggita
dall’albergo di Eboli. La giovane era giunta in Italia per vivere con la madre. La decisione era stata presa dopo che la giovane aveva perso il suo lavoro di baby-sitter in Romania9. Al suo arrivo in Italia, probabilmente tramite qualche contatto familiare, L. trova lavoro in un albergo, poi dopo la fuga, si trasferisce a Roma dalla
madre che la aiuta a trovare lavoro come collaboratrice familiare. La storia di L. peraltro permette di accennare un tema fondamentale: spiegando le motivazioni del
viaggio, la ragazza dice di essere partita anche perché era stanca di non avere la
madre vicino (“a casa senza madre, non sai con chi parlare”). Il carico emotivo dei
9 Detto per inciso il caso di L. è anche un esempio di come il cosiddetto care drain [Bettio, Simonazzi, Villa 2006; Piperno 2007] attivi delle catene transnazionali di cura, nelle quali altre donne sostituiscono le emigranti nell’accudimento delle famiglie nel paese d’origine.
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
cosiddetti children left behind è molto forte: i giovani si trovano a non aver più punti di riferimento, anche per responsabilità della figura paterna, cosicché il pensiero
dei figli lontani rappresenta per le donne emigrate un ulteriore carico emotivo da
gestire [Bonizzoni 2010].
Lo stesso percorso fatto da L. ha caratterizzato l’inserimento lavorativo di S.,
34 anni proveniente dalla Romania, arrivata a Napoli a 28 anni, che inizia a lavorare in un bar di Salerno. Questo le sue impressioni sul suo primo periodo di lavoro
in Italia.
Sembra che tu per loro sia un amica ma non si comportano come se tu fossi
un’amica... all’inizio non capisci se ti parlano perché ti vogliono aiutare oppure se
ti parlano perché vogliono qualche altra cosa da te! E poi ti impaurisci, quando vedi tutti addosso a te, dici: ma questi non hanno nulla da fare? Stanno sempre a
pensare a me? E poi quando sono venuta a Napoli a stare con la famiglia ci sono
state altre difficoltà, altri problemi...perché non riescono a capire, tu devi avere il
tuo tempo, ti mettono a lavorare, stai giorno e notte.
[S., 34 anni, Romania, Napoli]
Ritorna, anche se in termini più blandi, il tema delle attenzioni non desiderate
da parte degli uomini italiani: le intervistate a riguardo sono state concordi nell’affermare che questo problema riguarda soprattutto le donne più giovani e che bisogna essere molto attente nel decifrare i segnali che distinguono la gentilezza da
interessi di tipo sessuale. Le esperienze delle due giovani, comunque sia, permettono di introdurre un elemento importante: la collaborazione familiare per alcune
donne ha segnato un miglioramento della propria condizione lavorativa. Il segmento
basso del settore dei servizi è uno spazio occupazionale particolarmente penalizzante: orari e mansioni sono spesso pesanti, se non pericolosi; inoltre, alcune specifiche professioni hanno uno scarso prestigio sociale e vengono percepite come
dequalificanti10. Nei racconti delle donne, l’aver ottenuto un lavoro stabile con una
famiglia segna un rinnovato senso di sicurezza e permette di avviare un minimo di
progettualità. Inoltre non bisogna dimenticare che, soprattutto per quel che riguarda
le donne dell’Est-Europa, la collaborazione domestica segna una regressione di
status lavorativo. È questo un fenomeno ben noto agli studiosi: le migrazioni internazionali implicano un ampio spreco di capitale umano. Tra le intervistate difatti ci sono donne che nel paese d’origine erano impiegate per lo più in mansioni
d’ufficio se non in professioni intellettuali (insegnante e ingegnere)
Nel complesso, il percorso professionale più diffuso è quello che partendo dal
lavoro di assistente domiciliare in forma coresidenziale giunge al lavoro ad ore, possibilmente in multicommittenza. Il lavoro ad ore per molte collaboratrici rappresenta un importante vantaggio. Oltre a permettere guadagni più consistenti, da la pos-
10 Non a caso uno degli studi più citati sul lavoro domestico porta per titolo Doing the dirty work [Anderson 2000].
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Spazio e tempo
sibilità di recuperare degli spazi di autonomia, da poter magari dedicare alla famiglia, al tempo libero o al riposo. Tuttavia occorre avvertire che questa transizione è
tutt’altro che lineare: l’approdo al lavoro ad ore è il risultato di percorsi irregolari,
del tipo un passo avanti e due indietro. Difatti, il successo professionale delle collaboratrici domestiche dipende da fattori non completamente sotto il controllo del
lavoratore. Ad esempio, come è stato riferito da molte donne intervistate, è sufficiente la morte improvvisa dell’anziano assistito per rimettere in discussione la posizione acquisita. Il motivo è presto detto. L’opinione di una collaboratrice domestica che lavora a Napoli centra bene la questione:
ci sono diverse famiglie, diverse persone, non sono tutti uguali, come non siamo noi tutti uguali. Ci sono famiglie perbene che vogliono rispettare la legge e famiglie che non vogliono rispettare la legge, queste sono le persone che incontriamo. Io ho lavorato in diversi posti, con una famiglia, per cui ho lavorato tre anni e
mezzo sono in causa perché non mi hanno pagato la liquidazione e non mi hanno
mai pagato le ferie. Una volta addirittura sono andata a casa mia e mi sono ritrovata senza soldi perché, visto che partivo, non mi hanno pagato. Ci sono altri che
ti dicono che pagano tutto secondo quanto dice la legge però poi non ti pagano i
contributi, non ti pagano le ferie, quindi non sono onesti.
[O., 48 anni, Ucraina, Napoli]
Le prospettive occupazionali nel settore domestico sono sempre condizionate da un elemento imperscrutabile: come sarà il prossimo datore di lavoro? Ogni
volta è come iniziare da zero: occorre ricostruire un rapporto di fiducia, far valere i
propri diritti, qualora non siano immediatamente riconosciuti, negoziare il tipo di
impegno e di mansioni. La considerazione di O. è tutt’altro che banale: ci sono famiglie diverse, persone più o meno oneste. Se si ha la sfortuna di incappare in datori di lavoro poco corretti, gli sforzi di anni possono essere vanificati in breve tempo. In sintesi, nel lavoro domestico la mobilità all’interno della professione è condizionata da numerosi fattori esterni che rendono difficoltosi i percorsi lineari e progressivi.
Le interviste, inoltre evidenziano che le traiettorie occupazionali delle donne
straniere dipendono anche da elementi contestuali, come ad esempio, l’aver o meno ottenuto un titolo di soggiorno valido. Senza entrare nel merito di una delle principali contraddizioni della normativa sull’immigrazione, il permesso di soggiorno
molto di rado rappresenta una condizione di partenza: quasi tutte le intervistate
hanno fatto esperienza di lavoro in nero. Almeno nella fase iniziale del soggiorno
all’estero la condizione di irregolarità ha pesantemente condizionato il miglioramento delle condizioni di lavoro. Semplificando al massimo, si possono individuare due percorsi tipo: la regolarizzazione per sanatoria e la regolarizzazione come
stabilizzazione del rapporto di lavoro. Nel primo caso, quando si comincia a diffondere la voce che ci sarà una regolarizzazione di massa, si cominciano ad attivare
una serie di contatti, più o meno formali, con datori di lavoro, colleghi e operatori
dei servizi d’assistenza per sondare la possibilità di rientrare nella sanatoria. Ci so-
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
no casi di persone giunte in Italia appositamente in prossimità della sanatoria del
2002, così da sfruttare subito questa opportunità. Le regolarizzazioni di massa presentano però il problema di non essere abbastanza frequenti per cui ai lavoratori
non resta che dedicarsi alla costruzione di un rapporto di fiducia con il datore di lavoro. La messa in regola avviene spesso a fronte del consolidamento di un rapporto di lavoro: indicativo è il fatto che quasi tutte le collaboratrici che hanno attraversato un periodo di soggiorno irregolare ricordino alla perfezione la famiglia
che le ha regolarizzate. Questo evento spesso viene rievocato in termini di scambio di favori. Ad esempio, F. (36 anni, Ucraina, Roma) afferma che: “a un certo punto ho iniziato a lavorare con una signora anziana che poi mi ha subito messo in regola, adesso le rimango vicino anche se potrei fare altri lavori. È come se le stessi restituendo un favore!”. Anche L. (32 anni, Ecuador, Roma) ricorda con estrema
riconoscenza la famiglia che le ha permesso di prendere i documenti. Questa particolare connotazione evidenzia come l’informalità nel settore domestico sia molto
diffusa: il contratto di lavoro, ad esempio, viene visto in funzione della possibilità di
ottenere i documenti di soggiorno.
Il tratto che comunque sembra caratterizzare le traiettorie di integrazione socio-economica delle collaboratrici domestiche intervistate è la non linearità: sia in
ambito lavorativo sia rispetto allo status giuridico-legale nelle storie delle donne si
delineano parabole irregolari segnate da continui arresti e ripartenze, nonché da
una buona dose di caso e circostanze. Si prenda ad esempio il caso del passaggio dal lavoro in co-residenza al lavoro ad ore. In assenza di una rete di famiglie
con le quali si è instaurato un rapporto solido, l’abbandono di un lavoro stabile e
certo come quello di assistente co-residente può essere controproducente. In altri termini, il lavoro domestico evidenzia come la concezione che vede l’integrazione come un processo cumulativo e incrementale è ingenua poiché occorre prendere atto di come l’esperienza di vita delle donne immigrate sia spesso segnata
da continui cambiamenti e riassetti del proprio progetto di permanenza all’estero.
Il progetto SeT come camera di compensazione
dell’esperienza migratoria
I temi emersi nelle interviste suggeriscono la rilevanza del vissuto migratorio e
femminile per la realizzazione di interventi volti a migliorare i livelli di professionalizzazione e l’inclusione sociale delle collaboratrici domestiche. In generale, si delinea l’esigenza di adottare, sia nella fase di progettazione sia nel corso della realizzazione dell’intervento, una prospettiva centrata sul ciclo di vita delle immigrate. Il
progetto SeT ha evidenziato che le donne straniere impiegate nel lavoro domestico sono portatrici di un vissuto molto articolato, che in alcuni casi ha segnato in
modo profondo la loro storia di vita. L’attenzione per la dimensione biografica è
dunque la chiave di volta per la realizzazione di interventi realmente aderenti alle
esigenze delle lavoratrici.
Come evidenziato a più riprese, sebbene i percorsi migratori tendano ad essere pianificati il trasferimento all’estero è carico di incognite e di imprevisti. Spesso è solo grazie ad una miscela di intraprendenza, fortuna e scaltrezza che le don-
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Spazio e tempo
ne riescono a supertare gli ostacoli che trovano lungo la strada verso l’Italia. È dunque fondamentale prestare grande attenzione al vissuto delle donne migranti poiché la storia migratoria può essere costellata di piccoli e grandi traumi che possono influire sulle scelte e sui percorsi di professionalizzazione e di vita. Sotto questo
profilo, occorre ricordare che spesso le collaboratrici tendono a minimizzare quanto hanno passato, un po’ per pudore un po’ perché hanno solo voglia di guardare avanti. Rispetto a questo atteggiamento pesano anche le responsabilità familiari di cui le donne si sono, più o meno volontariamente, fatte carico con la migrazione. È questo un tratto fondamentale delle migrazioni femminili: le donne più degli uomini sono abituate e spinte a inserire le proprie scelte e azioni all’interno di un
orizzonte relazionale ampio: cultura, educazione e vissuto le portano a percepire
se stesse come centro di una rete affettiva [Ambrosini 2007, p. 17]11.
L’esperienza sviluppata all’interno del progetto SeT suggerisce che l’attenzione al vissuto delle collaboratrici domestiche è un punto di partenza imprescindibile: l’esprimere interesse per una storia di vita schiude la possibilità di costruire una relazione autentica e paritaria. Sotto questo profilo, il progetto SeT ha rappresentato per le collaboratrici straniere che vi hanno partecipato una sorta di camera di compensazione dell’esperienza migratoria. La scelta di costruire uno spazio polifunzionale nel quale le donne potessero trovare occasioni formative come
momenti di socializzazione si è rivelata particolarmente centrata. Ognuna delle
partecipanti ha così potuto trovare una risposta alle proprie esigenze intrecciando rapporti di amicizia e legami utili sia a migliorare la propria condizione lavorativa sia a sostenere le pressioni emotive del soggiorno all’estero. Allo stesso tempo nelle sperimentazioni locali del progetto SeT le collaboratrici familiari hanno potuto sviluppare delle competenze generali utili a rinsaldare il rapporto di lavoro che
avevano in atto.
11 Non mancano certo percorsi più autonomi, legati all’esigenza di evadere da una condizione familiare vissuta come costrizione, tuttavia enfatizzando l’aspetto familiare delle migrazioni femminili si intende portare all’attenzione quella che è una componente fondamentale del vissuto femminile in migrazione: la famiglia d’origine può essere sia un prezioso sostegno sia un condizionamento. Occorre in
altre parole essere in grado di valutare quando il legittimo spirito di sacrificio si trasforma in iper-responsabilizzazione, mettendo, ad esempio, a rischio la salute dell’individuo.
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PARTE TERZA - Il monitoraggio e la valutazione del progetto
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