Quegli uccelli ormai padroni dell`isola, dove sbarcano
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Quegli uccelli ormai padroni dell`isola, dove sbarcano
Quegli uccelli ormai padroni dell'isola, dove sbarcano folli e sognatori Il guardiano del faro/10. All'inizio del '900 erano state catalogate più di 200 specie di migratori, ma un secolo dopo alcune mancavano all'appello di PAOLO RUMIZ - 2014 L'urlo dei gabbiani per la morte della luce cominciò mezz'ora prima del tramonto con una baraonda di voli concentrici attorno alla gobba orientale dell'isola. Era impossibile capire a cosa fosse dovuto quel baccano e quella agitazione: la sera scendeva serena e non c'erano ficcanaso tra i loro nidi. Una luce calda, strepitosa, illuminava le livree candide e, nel vortice di uccelli, ogni individuo era ben visibile contro il blu cobalto del mare o il verde intenso della montagna. Filmai ogni minuto di quell'apparizione, pensando che avrei potuto contrabbandarla come un documentario sull'Isola di Pasqua. Col passare dei minuti, in un crescendo di grida, gli uccelli cominciarono a spostarsi sul baricentro dell'isola, poi sempre più avanti, verso la prua rocciosa sul lato del sole calante che ormai incendiava il mare, tanto che dovetti spostarmi ben oltre il faro, fin dove il sentiero va a morire sull'altana delle rilevazioni meteo. Da lassù assistetti a uno spettacolo indimenticabile. Quando il sole toccò il mare e si tinse di bronzo, ci fu un grido generale, che proseguì fino alla sua completa scomparsa, in un crescendo pazzesco di lamenti. Poi lo stridìo si attenuò rapidamente, finché il silenzio non discese sull'intera isola del Ciclope. Perché non avevo visto quella scena nelle sere precedenti? Forse perché erano state segnate da pioggia e vento? Che rapporto esisteva fra la calma bellezza color miele della sera e l'urlo degli uccelli? E com'era possibile che quegli animali dall'occhio preistorico e crudele piangessero a quel modo? Tornai infreddolito al faro: nell'incantamento avevo dimenticato di coprirmi. Quell'addio alla luce mi aveva preso l'anima. Accesi uno dei fuochi in cucina per scaldarmi le mani e conclusi che dovevo arrendermi all'evidenza: gli animali avevano celebrato la luce, invocandone il ritorno. C'era poco da fare, dovevo fare i conti con i gabbiani. Erano i padroni dell'isola e non avevano niente a che fare con i loro fratelli inurbati e degradati a spazzini. Erano bestie fiere, di un'eleganza perfetta. Il giorno seguente, quasi per caso vidi che nell'orto in mezzo all'isola, oltre la spianata che prende il nome di Lucertola, i faristi avevano appeso un gabbiano morto per un'ala, per tenere lontani gli altri uccelli secondo un antico costume. Ebbene, sarà stato per le piume che nascondevano la putrefazione, ma l'animale esprimeva anche da morto un'eleganza invidiabile. Il collo lungo abbandonato sul petto, le zampette dritte come una ballerina di danza classica, e soprattutto l'ala aperta, capace di esprimere una portanza sublime anche da ferma. Da quella sera rividi i tramonti sull'isola con occhio nuovo. Proprio le sere più dolci, in certi momenti, mi parvero spietate come un blocco di granito nero. Ecco perché gli uccelli avevano pianto. Preferivo le notti, almeno mi mostravano la via sicura con le stelle e i sentieri misteriosi del sogno. Da allora guardai anche i gabbiani con più attenzione, i loro allarmi, la loro premura nelle covate, le geografia dei loro nidi. Non posso dimenticare come uno di essi, inferocito per una mia intrusione, mi abbia quasi centrato con una bomba maleodorante dopo una giravolta allo zenit. Il problema era entrare in sintonia con le creature volanti. Ce n'erano di ogni tipo, ma l'unica che riconobbi fu un enorme airone cinerino che, disturbato, uscì e prese quota - Dio solo sa come - ad ali ferme a pochi metri da me, in un silenzio perfetto, quasi soprannaturale. Più volte vidi un grosso rapace, color marrone chiaro, il cui volo era continuamente disturbato dai gabbiani, per nulla intimiditi dal suo passaggio. Passavano anche le rondini, a più riprese: usavano quel roccione in mezzo al mare come tappa per i loro voli intercontinentali. L'isola era la loro portaerei. Una mattina, mentre lavavo piatti in cucina, vidi passare sopra la stazione meteo un uccello simile a un albatros, ma dalle ali preistoriche, tipo pterodattilo, una via di mezzo tra cormorano e pipistrello. Passò in volo planato, e non lo rividi mai più. L'isola era una stazione di passaggio importante. All'inizio del '900, poco dopo la costruzione del faro, erano state catalogate almeno 200 specie di migratori, alcune delle quali, un secolo dopo, mancavano all'appello. L'uomo aveva fatto il suo lavoro, anche lì, in quell'isola in capo al mondo, dove sbarcavano solo folli e sognatori. E la procellaria dov'era? Come avrei potuto vedere una creatura che già dal nome denunciava la sua distanza dalla terraferma? E che cos'erano quei grossi passeracei affusolati che si muovevano insieme come nubi di insetti? Storni? Piovanelli? E che nome avevano quella specie di merli dalla livrea bianca e marrone, che mi tagliarono la strada così all'improvviso da farmi inciampare? E i calabroni, mi chiedevo, come erano arrivati fino a lì coprendo cinquanta miglia di mare aperto? E dov'erano le Diomedee, i compagni di Diomede che Zeus aveva trasformato in uccelli per sorvegliare la tomba di lui? Le avevo sempre viste in spazi estremi: le Bocche di Bonifacio in Corsica, durante una traversata egea fra Kea e Mykonos e nella lontanissima isola di Gavdos, il punto più meridionale d'Europa. Avevo buone possibilità di trovarle anche lì, attorno ai faraglioni del mio faro. Soprattutto desideravo sentire il loro famoso lamento notturno. "Tutte le volte che le incontro - mi aveva detto lo skipper riminese Fabio Fiori - ne rimango rapito, come e forse di più di quanto non mi accada con i delfini". Venne una notte quieta e nera di plenilunio. Scesi fino alla spiaggia, e mi feci compagnia con Catullo. Tre versi appena, mandati a memoria. "Iam ver egelidos refert tepores / iam caeli furor aequinoctialis / iucundis Zephyri silescit auris". Ormai la primavera riporta i miti tepori, ormai si placa il furore del cielo equinoziale con le brezze soavi di Zefiro. Che balsamo per l'anima intirizzita. Anche quella notte c'era nell'aria qualcosa di nuovo. (10 - continua)