I CENTROCAMPISTI (II parte)

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I CENTROCAMPISTI (II parte)
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I CENTROCAMPISTI (II parte)
Inviato da Alberto Rossetto
sabato 12 agosto 2006
Riprendiamo a scorrere l'elenco dei centrocampisti bianconeri dal periodo in cui ci eravamo lasciati, cioè la prima metà
degli anni Sessanta; in quel periodo la Juve acquista molto sul mercato sudamericano ed in particolare dal Brasile si
assiste ad un tourbillon di arrivi e partenze di calciatori che tutto sommato non lasciano il segno fino all'arrivo di
Cinesinho.
Ricordiamo tra gli altri Dino Da Costa, un oriundo con licenza del gol che si ferma in bianconero dal 1963 al 1966, Bruno
Siciliano dalla gran legnata ma dagli altrettanto grandi limiti tecnici e Nenè, primo giocatore di colore alla corte di
Madama, il cui arrivo a Torino è preceduto da un colossale equivoco.
Infatti la Juve era alla disperata ricerca di un centravanti, visti i deludenti inserimenti di Miranda e Nicolè, ed i dirigenti
rimasero colpiti dal giovane Olinto de Carvalho (il vero nome di Nenè che significa bambino) durante una tournée
italiana del S.Paolo nel 1963. Presero i primi contatti e scoprirono che nel Santos Nenè era la riserva nientemeno di
O'Rey Pelè e pensarono pertanto che fosse altrettanto prolifico sotto rete. Vinsero la ritrosia del giovane brasiliano a
lasciare il suo paese natale e riuscirono ad acquistarlo. L'inserimento torinese di Nenè fu alquanto laborioso; venne
locato in un albergo, non conosceva una parola d'italiano, fu soprannominato "cachumba" dal vocabolo che pronunciava
spesso (significava che aveva mal di denti!), finché Mattrel si offrì di dividere l'appartamento in cui viveva e come lieto
fine a Torino conobbe la donna che sarebbe poi diventata sua moglie.
In campo Nenè era agilissimo e come tutti i brasiliani era molto dotato tecnicamente, e pur realizzando 12 reti era tutto
tranne il tanto agognato centravanti cercato; ammetterlo sarebbe stato riconoscere il gigantesco errore in cui si era
incappati, pertanto si preferì cederlo al Cagliari e questo fu il primo tassello di quella squadra che alcuni anni dopo riuscì a
vincere lo scudetto. Terminata la parentesi agonistica Nenè fu comunque richiamato nei ranghi societari e gli fu affidato
un settore giovanile.
E arriviamo quindi al 1965 quando dal catania venne ingaggiato Sidney Cunha detto Cinesinho per via dei suoi tratti
somatici orientaleggianti. Seppur tramortito dagli allenamenti di Heriberto Herrera (nel Modena e nel Catania poteva
permettersi di trotterellare portandosi appresso i chili di troppo), in campo sciorinava tutta la sapienza tattica di cui
disponeva ed i suoi millimetrici lanci ponevano dei palloni d'oro sui piedi delle punte Zigoni e De Paoli. In una Juve tutta
votata al "movimento", Cinesinho rappresentava l'unica nota di classe, tutto in lui era così piccolo ed aggraziato da
risultare grande; nel 1968 si trasferisce a Vicenza e con i biancorossi veneti terminerà la carriera ultraquarantenne.
Come il brasiliano che lo precedette, anche Helmut Haller quando arrivò alla Juventus presentava parecchi chili di troppo
che comunque Herrera provvide subito a fargli smaltire. Haller è stato come Sivori quel "qualcosa in più" che una
squadra di calcio potesse concedersi, sempre che il tedesco avesse avuto la voglia e l'ispirazione necessaria. Seppur
vessato da una moglie che gli fungeva anche da amministratore personale, il biondo tedesco infatti metteva al primo
posto dei suoi pensieri il divertimento, era un eterno fanciullo sempre a caccia della buona cucina, del buon bere e della
risata sopraffina, eppure quando decideva di giocare... in campo volava, univa la forza tedesca alla classe brasiliana,
accarezzava il pallone sprigionando perfezione ad ogni tocco, dribblava da dio e se gli andava concludeva a rete, sennò
forniva l'assist vincente al compagno meglio piazzato. Nel frattempo il bonario Vycpalek sovente chiudeva tutti e due gli
occhi sulla vita non propriamente da professionista del tedesco che lo ripagava alla domenica.
Approfittava delle numerose trasferte per sottrarsi al rigido controllo della consorte Waltraud; in una di queste, a
Wolwerampton, alla vigilia di una partita di coppa i dirigenti lo trascinarono fuori da un pub a notte fonda completamente
ubriaco. Per punizione fu messo in panchina con il risultato che la Juventus venne eliminata da una squadra inglese di
second'ordine.
Lascia nel 1973 dopo aver contribuito al successo in due campionati, 116 presenze e 21 reti.
Dopo Haller è la volta di Fabio Capello prendere in mano le redini del centrocampo juventino. Ed in effetti il friulano,
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uomo dal baricentro basso, è la testa pensante di una squadra giovane destinata ad un radioso avvenire. Cresciuto in
quella fucina di talenti che era la Spal del presidente Mazza, comincia ad affermarsi a Roma nella fila giallorosse dalle
quali nel 1970 Boniperti lo preleva insieme alla meteora Fausto Landini II.
Capello divenne in fretta il classico allenatore i campo, favorito in questo anche da una spiccata personalità, non ci stava
mai a perdere e per questo non lesinava mai il tackle; non volle mai abbassare la testa neppure nell'ambiente
bianconero e questo atteggiamento un po' altezzoso gli costò un divorzio forzato nell'estate del 1976 allorché si trasferì al
Milan in cambio di Benetti.
Nei sei anni di militanza juventina risultò essere comunque un gran giocatore di rendimento con la licenza di tirare, ha
messo insieme 239 presenze condite da 41 reti. Quella più famosa, per la quale è passato alla storia, l'ha realizzata però
con l'Italia il 14 novembre 1973 quando permise agli Azzurri di espugnare per la prima volta la mitica Wembley Arena.
Diventa poi allenatore vero ed in questo ruolo ottiene successi a iosa anche all'estero.
"Cuccureddu, chi?" Questa fu la frase che ogni tifoso bianconero pronunciò istintivamente quando nel novembre del 1974
venne dato l'annuncio del trasferimento alla Juventus dal Brescia del sardo Antonello Cuccureddu. Quello che doveva
essere un folkloristico acquisto divenne invece un preziosissimo ed insostituibile jolly per dodici lunghe stagioni ricche di
successi che lo portarono anche alla ribalta della Nazionale.
Cuccureddu si mise in evidenza nel settembre 1969 durante una partita di Coppa Italia al Comunale quando in pratica
annullò con la maglia del Brescia nientemeno che Del Sol. Nel prosieguo della stagione la Juve era malmessa in classifica
(venne allontanato Carniglia e la squadra fu affidata al saggio Rabitti) e per porvi rimedio Boniperti si ricordò del
centrocampista bresciano. Cuccu esordì subito nella sua terra, a Cagliari, con la Juve sotto di una rete e con il pubblico
che gridava "serie B, serie B" realizzò a pochi minuti dal termine il pareggio. Quella rete diede un'enorme iniezione di
fiducia alla squadra che terminò dignitosamente il campionato.
Naturalmente la rete che lo consegnerà definitivamente alla storia bianconera fu quella realizzata all'Olimpico all'ultima
giornata del campionato 1973 e che assegnò alla Juve un insperato scudetto ai danni del Milan sconfitto nella fatal
Verona.
Il suo eclettismo nei ruoli lo sottolineò durante la stagione 1975-76 quando indossò ben sette maglie con numeri differenti
prima di spostarsi definitivamente in difesa. Fornito di un tiro al fulmicotone, durante le sue 434 presenze ha realizzato
39 reti, ha vinto 6 scudetti, 1 Coppa Italia ed una Uefa ed ha impreziosita la sua lunga carriera (terminata nel Novara via
Firenze) collezionando sedici presenze in Nazionale.
L'uomo dall'urlo mondiale, fisico apparentemente fragile ma in realtà sorretto da una enorme carica nervosa (non riusciva
a dormire prima degli incontri importanti), aggressivo, trascinatore, pronto al tiro: stiamo cercando di descrivere Marco
Tardelli.
Un campione che nessun tifoso juventino potrà mai dimenticare, fu soprannonimato Schizzo dal compagno Damiani per
quel suo modo unico di recuperare palloni e ripartire fulmineamente.
Tardelli è l'ennesimo giocatore "soffiato" ai nerazzurri milanesi, era già in procinto di passare all'Inter con la cui maglia era
già stato fotografato accanto al presidente Fraizzoli, quando la settimana successiva la Juve si aggiudica il giocatore
versando in contanti nelle casse del Como ben 950 milioni. Così Boniperti mise a segno uno dei più clamorosi colpi di
calcio-mercato degli anni Settanta.
In bianconero debutta come terzino fluidificante (così come in Nazionale contro il Portogallo a Torino), ma quasi subito
Trapattoni ha l'intuito di schierarlo centrocampista cursore, a fianco del metodico Benetti e del roccioso Furino: insieme, i
tre, costituiranno una delle linee mediane più forti della storia del calcio.
Originario di Capanne di Careggine, Tardelli si mette in mostra nel Pisa da dove il general manager Beltrami lo porta con
sé a Como. In riva al lago nel giro di un anno diventa uno dei calciatori più contesi dai grandi clubs e nel 1975 avviene il
trasferimento alla Juve nel modo e nei tempi sopra descritti. Il primo dei dieci anni di milizia juventina coincide con la
delusione dello scudetto granata dopo che i bianconeri sperperarono un patrimonio di cinque punti, poi ebbe inizio una
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straordinaria stagione di successi in cui Tardelli vinse tutto il possibile, in campo e fuori, dove era un noto tombeur de
femmes.
Il suo eccezionale palmares vanta cinque campionati, due Coppe Italia ed una di tutti i tipi di Coppa europea,
Supercoppa compresa, oltre allo storico Mondiale di Spagna caratterizzato dalla sua rete che segna il momentaneo 2-0
sulla Germania.
Dopo dieci anni, 375 presenze e 51 reti, al termine della stagione 1985 passa all'Inter dove avrà modo di ritornarvi come
allenatore, ma soprattutto dove avrà modo di realizzare una rete all'"odiato" Real Madrid.
Raccoglierà gli ultimi spiccioli di gloria in Svizzera col S.Gallo, quindi intraprenderà la carriera di allenatore e dalla panchina
porterà gli azzurrini dell'Under 21 ad un successo europeo per essere poi sostituito da un suo ex compagno juventino,
Claudio Gentile.
Detto degli impalpabili passaggi di Gianluigi Savoldi II e Bob Vieri (il padre di Bobo), due veri fuoriclasse, ma totalmente
privi di senno, torniamo al sostituto di Capello, quel Romeo Benetti che nel 1976 fa il suo ritorno in bianconero dopo una
fugace apparizione nella stagione 1968-69.
"Picchia Romeo" è lo slogan che conia per lui la curva Filadelfia ed in effetti il biondo veronese in campo non lesina le
entrate robuste. Quando torna alla Juve i critici storcono il naso, in troppi lo danno già per finito o perlomeno già troppo in là
con gli anni, invece a Furino e Tardelli forma una diga di centrocampo insuperabile ed in quella formazione trapattoniana
vive la sua seconda giovinezza.
Trapattoni non si lasciò condizionare né dai critici, né dai ricordi di quei tifosi che ancora avevano negli occhi lo svogliato
ed isolato Benetti prima maniera ed affidò al baffo biondo veronese il compito di chiudere il lucchetto del centrocampo.
Nella sua prima "seconda" stagione, quando la Juve era chiamata a lavare l'onta dell'anno precedente (scudetto regalato
al Torino) diventò il protagonista assoluto di alcune partite, come a Milano dove trascinò i compagni ad un'insperata rimonta
(da 0-2 a 3-2) realizzando una rete di prepotenza o come a Firenze quando segnò il gol dell'anno con un tiro al volo da
quaranta metri.
Fece ancora meglio la stagione successiva dove si meritò la chiamata di Bearzot per i mondiali di Argentina e dove fu
giudicato tra i migliori della rassegna iridata.
Al termine dell'anno successivo ci fu il secondo divorzio, ma stavolta in modo contestuale, destinazione Roma. Giocò
l'ultima partita in maglia bianconera a Napoli, il 21 giugno 1979, dove la Juve si aggiudicò la Coppa Italia ai danni del
Palermo. Il bilancio totale di Benetti nella Juventus parla di 159 presenze e 23 reti, mentre in Azzurro assomma 55
apparizioni e 2 reti.
In quegli anni dobbiamo ricordare due preziosissimi rincalzi dai piedi buoni, Claudio Prandelli e Vinicio Verza, che ebbero
la sola sfortuna di capitare in una Juventus zeppa di fuoriclasse. Pur se chiusi da tanti campioni, le 139 presenze del
primo e le 60 (11 reti) del secondo, fanno capire quanto fossero tenuti in considerazione.
Altro nome illustre è quello rappresentato da Liam Brady, irlandese di nascita ma londinese di professione, dato che si
realizza nell'Arsenal e proprio dai "Gunners" viene acquistato nel 1980 nell'ultimo giorno utile per tesserare giocatori
stranieri, per l'esattezza il 31 luglio.
Due stagioni a Torino ed altrettanti scudetti, va via, alla Sampdoria, solo perché le norme federali non consentono di
tesserare più di due stranieri e la società aveva deciso di puntare su Boniek e Platini.
Con l'arrivo di Brady ricompare il regista classico, ruolo che nella Juventus non era stato più ricoperto dai tempi di
Capello; la squadra si sta rinnovando (si stanno affermando i Fanna, i Marocchino, i Galderisi, i Cabrini ed i Brio) ed il
sinistro teleguidato dell'irlandese contribuisce a darle sicurezza.
Di Liam Brady non si può non ricordare l'ultimo incontro in maglia bianconera, a Catanzaro, il 16 maggio 1982. All'ultima
giornata la Juve è appaiata in testa alla classifica con la Fiorentina, ma mentre i viola pareggiano a Cagliari, ai bianconeri
viene assegnato il rigore decisivo per un fallo di mano sulla linea di porta da parte di un difensore calabrese, Boscolo.
Pur sapendo di dover lasciare la Juve, Brady, con un grande esempio di eccellente professionalità, da rigorista designato
qual'è, senza un tentennamento si incarica di trasformare il penalty che consentirà ai bianconeri di aggiudicarsi l'ennesimo
titolo.
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Terminata l'epopea trapattoniana ed il quinquennio di Platini, la Juve attraversa un inevitabile momento di
riorganizzazione ed i risultati sono tutt'altro che lusinghieri, complice anche una serie di campagne-acquisti di secondo
piano. Dal divino francese si passa a Marino Magrin che non può reggere al peso di simile eredità, al Lionello Manfredonia
schierato a centrocampo per motivi contingenti (nel secondo anno di Marchesi sulla panchina bianconera si traveste
anche da goleador tanto erano insipienti gli schemi), al deludente e spaesato Zavarov, all'onesto ma affidabile Aleinikov
(i due saranno comunque i primi russi a vincere una competizione europea con una squadra non del loro Paese) al
piccolo e funambolico Rui Barros che brilla una stagione soltanto per finire ad un incompreso David Platt che avrebbe
meritato sicuramente miglior sorte nelle fila juventine, come era successo precedentemente a Gabriele Pin, altro fine
tessitore di gioco che raccoglierà gloria ed onori con le maglie di Parma e Lazio.
L'uomo che rappresenta la continuità tra gli anni Ottanta ed il recente passato, alternandosi in formazioni talora da
polvere, talaltra da altare, è Giancarlo Marocchi, un "settepolmoni" dai piedi buoni che dal 1988 al 1996 sposa con serietà
e professionalità la causa bianconera, prima di far ritorno al Bologna per concludere una brillante e pregevole carriera.
Forte caratterialmente ma mai incline alla polemica, molto impegnato nel sociale, caparbio, tecnico e duttile (termina
come terzino), offre un elevato rendimento che gli vale anche 11 convocazioni azzurre, mentre nella Juve annovera 319
presenze e 24 reti, coronate da uno scudetto, due Coppa Italia, due Coppa Uefa ed una Coppa dei Campioni.
E passiamo ora a parlare di un calciatore che, malgrado la classe cristallina, sembra destinato a dividere in eterno
pubblico e critica. Ci riferiamo al "divin codino" Roberto Baggio, forse il più grande talento contemporaneo, al quale molti
tifosi bianconeri non hanno mai perdonato quel suo rifiuto a tirare il rigore contro la "sua" Fiorentina.
Eppure con la casacca bianconera ha realizzato 112 reti in 200 presenze, ha conquistato quasi da solo la Coppa Uefa
del 1993, anno in cui ha conquistato anche il Pallone d'Oro.
Fantasista per istinto è la risposta al tatticismo esasperato degli anni Novanta, ma, come detto, non sempre ottiene
unanimi consensi. Platini lo definisce un 9 e ½, per l'Avvocato è "coniglio bagnato", eppure la sua fede buddista gli
fornisce una enorme forza interiore che gli fa superare tremendi infortuni.
Entusiasmanti i suoi slalom che spesso si concludono con un tocco vellutato in rete, sapienti le punizioni liftate,
improvvise le invenzioni illuminanti. Si mette in luce nel Vicenza, passa poi alla Fiorentina dove diventa l'idolo di un'intera
città che viene messa a ferro e fuoco per fermare il suo trasferimento alla Juve. Siamo alla vigilia delle "notti magiche" del
1990 che poi tanto magiche non furono, visto che l'Italia dovette accontentarsi del terzo posto in un Mondiale disputato
da paese organizzatore.
Al primo anno di Juve deve far fronte all'incapacità di Maifredi, quindi, l'anno successivo all'ostracismo di Boniperti nel
frattempo richiamato d'urgenza insieme a Trapattoni per porre rimedio al fallimento del "calcio champagne", per ultimo il
progetto lippiano che disegna una Juve che non sia Baggio-dipendente.
Quando ormai ha metabolizzato completamente il suo rapporto con la Juventus, nel passaggio del 1995 fra vecchia e
nuova gestione viene ceduto al Milan e tutto il resto è storia recente.
Si congeda vincendo l'accoppiata campionato-Coppa Italia che si aggiunge alla citata Coppa Uefa.
Omonimo del più famoso Roberto, fu invece Dino Baggio, che nel 1992 lascia la maglia nerazzurra dell'Inter per
indossare quella juventina. Giocatore dotato di un fisico possente, si rivela non solo determinato e tenace, ma anche
abile stoccatore soprattutto nel gioco aereo.
Nei due anni in bianconero, verrà poi ceduto al Parma, contribuisce alla conquista della Coppa Uefa del 1993, colleziona
in totale 73 presenze impreziosite da 9 reti.
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Nell'estate del 1994 avviene l'ennesima rifondazione juventina; insieme al nuovo allenatore Lippi arrivano, tra gli altri, i
due nuovi perni del centrocampo: Paulo Sousa e Didier Deschamps.
Tra i due il più quotato era senz'altro il portoghese che stava vivendo l'apice della propria carriera, mentre il basco
francese era stato accolto con un certo scetticismo; alla lunga le parti si sarebbero invertite e Deschamps è risultato
essere tra i due quello più redditizio.
Paulo Sousa comunque nelle giornate buone era il re del centrocampo e la prima stagione in maglia bianconera è stata
straordinaria, poi una serie di infortuni ne ha limitato l'azione e le presenze. Quando nel 1996 passa al Borussia
Dortmund (proveniva dallo Sporting Lisbona), ha totalizzato 79 presenze e 2 reti ed vinto scudetto, Coppa Italia,
Supercoppa Italiana e Coppa dei Campioni.
Didier Deschamps ripercorre il filo rosso che unisce i grandi centrocampisti di quantità della storia bianconera. Il numero di
palloni che tocca ed i chilometri che percorre nell'arco di una partita sono impressionanti, mentre, come per il
portoghese, quando gli capita di segnare è un vero avvenimento.
La continuità è la sua caratteristica principale, diventa così un punto fermo della trionafale Juve lippiana; tuttavia nel 1998
entra in rotta di collisione con il tecnico viareggino, arrivando anche alle mani nello spogliatoio, ed è il fautore principale
del suo allontanamento. L'anno successivo sarà lui a lasciare la Juve per accasarsi al Chelsea; attualmente allena in
Francia il Monaco, dove per ironia della sorte, ha avuto quegli scontri caratteriali con i propri giocatori che lui stesso
aveva avuto nel periodo torinese.
4 reti su 178 presenze, 3 campionati, 1 Coppa Italia, 2 Supercoppe Italiane, 1 Supercoppa Europea, 1 Coppa dei
Campioni ed 1 Coppa Intercontinentale costituiscono il suo invidioso bottino.
Zinedine Zidane, al pari del "divin codino" è stato un altro numero 10 destinato a dividere i tifosi; trequartista dotato di
una tecnica fuori dal comune, nasce a Marsiglia (da famiglia di origine algerina) il 23 giugno 1972. Giunge a Torino nel
1996 proveniente dal Bordeaux poratndosi appresso il gravoso fardello di erede di Platini, solo che Michel segnava gol a
grappoli, mentre Zizou possiede affatto il senso della rete e forse l'aver iniziato la carriera come libero, nel Cannes, può
averlo condizionato in tal senso.
Gli anni in bianconero si sono rivelati tali, cioè tra luci ed ombre, anche se nel 1998 (complice la vittoria ai Mondiali di
Francia) conquista il Pallone d'Oro. Non riesce comunque a divenire un leader e probabilmente neanche gli interessa
farlo e nei momenti di difficoltà raramente lo si è visto assumersi la responsabilità di "caricarsi" la squadra sulle spalle per
ribaltare l'andamento del campo, pur avendo tutte le qualità per farlo. Anzi a volte complica ancora di più le cose ai suoi
compagni con improvvise reazioni davvero fuori luogo che gli valgono il cartellino rosso.
Fuori campo è succube della moglie che essendo di origine iberica cerca in tutti i modi di ottenere un trasferimento in
Spagna adducendo una presunta tristezza torinese dovuta all'assenza del mare. Finalmente nell'estate del 2001 la
coppia Zidane ottiene l'agognato trasferimento a Madrid (da dove peraltro il mare dista parecchi chilometri!) a fronte di
una favolosa contropartita in danaro e così viene posta la parola fine ad una "telenovela" che andava avanti già da un paio
d'anni.
Nonostante un avvio stentato, Zidane si è comunque rivelato una delle pedine essenziali dell'era Lippi come dimostra
anche il suo palmares: 210 presenze e 31 reti, 2 campionati, 1 Supercoppa italiana ed una Europea e la Coppa
Intercontinentale, mentre con la nazionale francese si aggiudica il Mondiale 1998 e l'Europeo 2000.
30 agosto 2002
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