La none dal Bète ei puareti

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La none dal Bète ei puareti
La none dal Bète e i puareti
dai ricordi di Addolorata Martini Barzolai vedova Gasperina Betta
La suocera e i poveri
Mia suocera si chiamava Anna Festini
Betta, ma in paese e fuori, la
chiamavano “Anùte dal Béte”.
Aveva una particolare predilizione ed
una grande sensibilità verso le persone
bisognose.
La sua casa ospitale era un punto di
riferimento e di sosta speciale per quei
poveri che avevano bisogno di riposare
una notte, in attesa di riprendere il loro
cammino a elemosinare, di porta in
porta, per poter campare.
Ecco come si svolgeva, ormai da tanti
anni, il rito dell’accoglienza, quando
verso sera arrivavano due o più
persone a chiedere la carità del
pernottamento.
“Anute, fasà la karité da lasà durmì zla
vostra stua?” (Annetta, fareste la carità
di lasciarci dormire, questa notte, nella
vostra stua?)
Lei li invitava ad entrare dicendo: “Gné
e sentav du ntantu, dopu nei parciaron
da durmì a vuietar.” (Entrate e
sedetevi, dopo noi vi prepareremo dove
dormire.)
L’accoglienza
In casa Betta, abitavano tre famiglie,
ognuna per proprio conto ma la stua,
stanza foderata di legno e riscaldata
d’inverno, era un bene comune. Nonna
Anuta ci chiamava e ci dava la notizia
dell’arrivo degli ospiti. Voleva dire che,
noi, nuore, eravamo incaricate a
preparare il tutto. I poveri arrivavano di
solito all’ora di cena e, riducendo la
razione per noi, c’era sempre da
dividere con i nuovi arrivati.
Ricordo ancora nitidamente le parole di
ringraziamento, ma soprattutto l’espressione dei loro visi pieni di
gratitudine.
Per espresso lascito del nonno di mia
suocera, in casa Betta, si recitava tutte
le sere il Rosario ed anche i nuovi ospiti
si univano a noi nella preghiera. Poi noi
uscivamo dalla stua e lo spazio era per i
poveri.
Al stramazu
Mia suocera aveva confezionato “n
stramazu di puareti” un pagliericcio o
saccone ripieno di paglia, riservata ai
poveri. Stava in soffitta e all’occasione
veniva sistemata in stua. Stesolo sul
pavimento
ed
aggiunta
qualche
coperta, i poveri potevano riposare. Se
erano in più c’erano le panche e il
“sorafornu”.
Arrivano in dodici
Ricordo che una sera si presentarono in
dodici persone: suocera, figli, figlie,
nipoti e una giovane nuora con un
figlioletto di pochi mesi nella culla. Ci
dissero che venivano da “Kumelgu d
Soti”, la sera avrebbero fatto sosta da
noi e al mattino presto sarebbero
ripartiti per la Pusteria. Erano sicuri di
poter trovare dai contadini dei masi
(bakègn) lavoro, cibo e denaro.
In quella circostanza ci trovammo noi,
suocera e nuore, in difficoltà, ma
riuscimmo a sistemarli alla meglio
perché potessero riposare.
Al mattino si alzarono presto e dopo
aver bevuto un po’ di caffè d’orzo, con
tanti ringraziamenti e benedizioni,
ripresero il cammino programmato.
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nostri figli. A qualcuna che aveva dei tic
le avevano affibbiato dei nomignoli:
- una aveva un gozzo molto grosso, la
chiamavano “Kela dli gòdi”
- un’altra, stando seduta, muoveva
continuamente gambe e piedi, la
chiamavano “Biciclete”,
- a una poverina che tremava
continuamente, “la tremarola”.
Tutto questo senza che le interessate se
ne accorgessero e ne fossero umiliate.
Se la stua aveva perso il suo calore, si
rifaceva fuoco nel forno da pan affinché
non avessero freddo durante la notte.
L’ordinanza
C’era una disposizione di polizia che
proibiva di dare ospitalità, nelle
famiglie, a persone estranee, pena una
severa multa. Questo specialmente
durante la seconda guerra mondiale. Né
mia suocera, né, dopo, noi, abbiamo
rispettato l’ordinanza della polizia e non
abbiamo mai avuto noie.
Dì a karì (andare ad elemosinare)
Tra questi poveri che facevano tappa da
noi, alcuni giravano il Comelico poi
rientravano nelle loro case quando
avevano il carico di “karité” che li
soddisfava, altri invece, come i dodici,
fatta tappa da noi, ripartivano “a dì otre
kros” al di là del Passo di Montecroce
cioè in Pusteria.
Capitava alle volte che qualche anziana
si sentisse poco bene. Allora si trattava
di vegliare la notte, cercando di
assisterla e curarla con qualche buona
tisana di erbe nostrane che erano le
valide medicine di quel tempo. Per
fortuna nulla di grave ed al mattino,
piene di forza di volontà, riprendevano
il loro peregrinare.
Molti
sarebbero
gli
episodi
da
raccontare sull’accoglienza in casa
I nostri figli
Anche i nostri figli venivano coinvolti in
queste situazioni e si prestavano a darci
una mano all’occorrenza.
E’ sempre l’esempio che insegna e
trascina.
Alcune anziane che erano considerate
un po’ di casa perché venivano più volte
all’anno, avevano tutta l’attenzione dei
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Betta, ma la serie sarebbe infinita.
Molti erano quelli, anche del nostro
paese che, per poter sopravvivere,
ricorrevano al “dì a karì”.
Erano anziani, privi di qualsiasi aiuto,
padri e madri di famiglia che avevano la
figliolanza da sfamare, giovani senza
lavoro che non c’era o senza mestiere,
ragazzi e ragazze, anch’essi una mano
preziosa per contribuire a mantenere la
famiglia, almeno per il mangiare.
Allora grande miseria, tanta fame ma
soprattutto grande umiliazione per
coloro che dovevano scegliere, anche
controvoglia, un così umiliante girovagare per sbarcare il lunario.
K la karité é fioride (la carità è
come
un
fiore
che
spande
fragranza)
Così erano soliti dire i nostri vecchi,
nella loro pratica saggezza. Questa
abitudine
o,
meglio,
sensibilità
nell’accoglienza dei poveri, non cessò
con la morte di nostra suocera, noi la
continuammo fin dopo la seconda
guerra. Gli ultimi furono due ragazzini
del Centro Cadore. Continuammo fino
ad esaurimento dei “clienti” perché il
benessere incominciò a farsi sentire ed
aveva tolto almeno in parte il bisogno di
pellegrinare per procurarsi di che
vivere.
A proposito di questo girovagare per
poter campare, voglio ricordare quanta
nostra gente del Comelico faceva tappa
presso il convento dei Frati francescani
di San Candido, dove veniva, di regola,
preparata la minestra per i poveri che si
presentavano affamati al convento.
Voglio fermamente sperare che nonna
Anùte abbia potuto incontrare in
Paradiso tutte quelle persone alle quali
ha dato ospitalità ed aiutato con
cristiana sollecitudine e che, riconoscenti, le abbiano fatto una bella festa.
Grazie, nonna e suocera per queste
lezioni di cristiana solidarietà.
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