Giannichedda: «Senza i piedi di Veron, corro da una vita» (lastampa

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Giannichedda: «Senza i piedi di Veron, corro da una vita» (lastampa
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Giannichedda: «Senza i piedi di Veron, corro da una vita» (lastampa.it)
lunedì 09 ottobre 2006
UNA VITA DA MEDIANO: «CHIARO CHE MI È DISPIACIUTO FINIRE IN SERIE B. MA ORA È COME UN’ALTRA
SFIDA: NON SAI MAI DOVE PUOI ARRIVARE SE NON TI METTI IN GIOCO»
Giannichedda: «Senza i piedi di Veron, corro da una vita»
«Il mio lavoro in mezzo al campo è oscuro. L’anno scorso ho fatto un bel assist per un gol di Trezeguet, David
iniziò a chiamarmi Riquelme. Per Camoranesi sono "Er Tibia"»
9/10/2006
di Massimiliano Nerozzi
Devi sempre rileggere il suo contachilometri prima di raccontare Giuliano Giannichedda. Non è un giocatore da
almanacco Panini, che stampa altri numeri e mette in vetrina altre facce. È uno di quelli che attraversano le partite e
giocano i campionati. «Il mio lavoro è oscuro, in mezzo al campo. Cerco sempre di aiutare i compagni, di coprire chi va
avanti. Anche perché, non è che abbia i piedi alla Veron». Stando nel mezzo ha già corso undici campionati di serie A, sei
con l’Udinese, quattro con la Lazio e l’anno scorso a Torino, preso dalla Juve. Ed è una macina lunga col
mestiere di mediano, perché ti tocca tritare ogni partita, addentare ogni minuto: non puoi campare afferrando
l’attimo, come il bomber o il portiere. Devi masticarti ogni metro di campo. «Quando ho iniziato a giocare racconta - mi piaceva stare in mezzo, perché passavano tutti i palloni e ti divertivi. Magari, detto col senno di poi,
sarebbe stato meglio imparare a fare gol. Forse anche colpa mia, avrei potuto allenarmi di più in questo. Ma va bene
così». All’inizio stare nel mezzo può essere un privilegio, poi può diventare dannazione. Almeno di fatica.
Giannichedda e il gol, in effetti, si scrutano da lontano, ma si incontrano raramente. Finora tre volte, in A. La prima,
l’8 febbraio 1998, Udinese-Lecce 6-0: «Stavamo vincendo 5-0 - sorride - e ormai correvo solo io. Era la partita
giusta per fare gol. Quando ho segnato, al novantesimo, mi hanno abbracciato tutti i compagni. Sembrava l’1-0».
Pensava di aver visto un film anche Olivier Bierhoff, all’epoca suo compagno: «Quando ha segnato - scherzò a
fine gara il tedesco - nessuno ci voleva credere, neanche l’arbitro, che ha subito fischiato la fine». Però gli
allenatori lo vogliono, da Alberto Zaccheroni a Fabio Capello: difficile siano tutti matti. «Giuliano è l’orologio che
spacca il secondo - disse una volta Zac ai tempi di Udine - perché il suo più grande pregio è quello di riuscire a giocare
trentaquattro partite allo stesso livello, mai un calo. Una qualità veramente rara». Fu lui a farne un giocatore di serie A:
«Zaccheroni ha creduto in me - ricorda Giannichedda - e mi ha fatto esordire in serie A. All’Udinese ero arrivato
nel 1995, preso dal Sora, in C1. Per me era un sogno anche se, quando ho iniziato a giocare, non è che avessi il chiodo
fisso di fare il calciatore». Si può scalare la montagna, anche senza i piedi di Veron: «Ho iniziato nel Pontecorvo
(Frosinone), dove sono nato, fra i dilettanti». Poi nel Sora, lì vicino, due anni di C2 e la C1. Mai aveva messo i piedi in B e
gli è capitato alla Juve, arrivato in cima: «Chiaro che mi è dispiaciuto, come a tutti. Perché ci pensi, è ovvio. Ma ora il
fatto di giocare in B è come un’altra sfida: non sai mai dove puoi arrivare se non ti metti in gioco. E diciasette
punti di penalizzazione sono tanti: allora, meglio non pensare all’arbitrato e guardare la classifica solo più avanti».
D’accordo le nuove sfide, ma se in gioco ti ributtano le colpe di altri, un po’ ti arrabbi: «Certo che mi dà
fastidio, quando vado in giro con mio fratello sentire qualcuno che bisbiglia: "Sapete solo rubare". Così come mi ha fatto
pensare lo scudetto all’Inter: non c’era nulla sull’ultimo campionato e noi, quel tricolore, ce lo siamo
guadagnato allenandoci e sudando tutti i giorni. E in campo nessuno ci ha regalato niente». Pensare che, lasciando la
Lazio, avrebbe pure potuto finire in nerazzurro. Almeno secondo le intercettazioni di Calciopoli, che registrarono sul
telefono di Moggi, la sua trattativa: «La verità - dice Giannichedda - è che ero a parametro zero, e c’erano molte
squadre che mi volevano. Poi, come succede sempre, ognuno cerca di tirare acqua al suo mulino». Capello, in ogni
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caso, lo volle: «Luciano, leggo che su Giannichedda ci stanno altre squadre», disse il tecnico. E Moggi: «Fabio, vai
tranquillo. Ha già firmato per noi». Un altro che l’ha apprezzato è stato Francesco Guidolin: «Giannichedda è uno
dei giocatori più umili che abbia mai conosciuto». Nella scala di valori dell’allenatore di Castelfranco Veneto,
tarata, da ciclofilo, sulla sofferenza delle cronoscalate, è quasi un pallone d’oro. Sembra così pure fuori dal prato:
«Ci vuole molta fortuna per arrivare fino alla serie A. Gran parte del merito è dei miei genitori, perché sono cresciuto in
una famiglia eccezionale. Conta molto come ti crescono. Per dire, mio fratello, che non fa il calciatore, è diventato un
ottimo avvocato». A farci quattro chiacchiere, non rinuncia nemmeno all’autoironia, così rara nei protagonisti del
pallone. «L’anno scorso, a Livorno, feci un bel passaggio, un assist, a Trezeguet, che segnò. Roba che non mi
capita spesso. E David cominciò a chiamarmi Riquelme». Un altro nomignolo, gliel’ha appiccicato Camoranesi: «Er
tibia». Intuibili motivi e conseguenze.
Ovunque, però, gli hanno voluto bene. «Con Giuliano in campo - spiegava Jorgensen a Udine - ci sentiamo più sicuri.
Possiamo attaccare, perché c’è lui che ci copre le spalle». Da buon mediano Giannichedda, nel dubbio,
c’è sempre. Per lucrare un pallone dal piede nemico, per tappare un buco dietro. Gol e applausi se li prendano
pure altri. «Giuliano sa sempre dove mettersi in campo. Poi si defila sempre quando deve farsi pubblicità», raccontò Calori,
suo compagno all’Udinese. «Il giocatore da ammirare è sempre stato Rijkaard. Un centrocampista fisicamente
potente, ma capace anche di fare gol. Sia chiaro - sorride - simile a me nemmeno lontanamente». Però 273 gare in serie
A, da protagonista, sono tante. E, a 32 anni, la voglia di correre c’è ancora: «Se quando finisce la partita, arrivo
negli spogliatoi e devo sdraiarmi sul lettino, sfinito, per i massaggi, vuol dire che ho giocato bene. E sono contento». Il
contachilometri, insomma, lo guarda anche lui.
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