L_Espresso - 11 Agosto_Parte2
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gli attivi e fallire. Così aveva sottratto patrimoni a imprenditori di Ravenna, Pisa, Padova, Brescia, Sassari e Bologna per milioni di euro. Uno dei membri dell’associazione imputati (gli era stato chiesto di reclutare persone cui attribuire cariche da prestanome) era Salvatore Onda, figlio di Arturo Onda, fratello di Umberto, pluriomicida, considerato fino al suo arresto reggente del clan camorristico Gionta. Giuseppe Catapano girava volentieri in auto blu, presenziava ai convegni del Forum nazionale Anti Usura e promuoveva la sua Fondazione Ope impresa Onlus. Ora sale su altri palchi, con altre associazioni, dichiara guerra alle banche e a Equitalia. Il 22 luglio, al suo fianco, indossava la toga dell’Accademia di studi Francesco Petrino, che si presenta come professore, siede nel consiglio direttivo dell’Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti e ha fondato un sindacato specializzato nel problema: Snarp, Sindacato nazionale anti-usura mobilitazione protestati. È VERO ANTIRACKET? «Viviamo in un mondo di pecore, imprenditori che mi chiedono aiuto ma poi si tirano indietro». Maria Lorena PERSINO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI SI PRESENTA COME RELATORE UN PREGIUDICATO PER TRUFFA E BANCAROTTA Banca, ti denuncio Crescita in un anno dei contratti bancari (mediazioni obbligatorie) 46.500 45.000 46.094 44.992 43.500 42.000 2014 2015 Fonte: Direzione generale statistica/ministero della Giustizia 2016 e Banca d’Italia Sacchi era combattiva, il 21 maggio 2015, a un incontro organizzato da Assimpredil, l’ente istituzionale delle imprese edili lombarde, uffici a 300 metri da piazza Affari. Parlava dal palco in qualità di presidente della Associazione Nazionale Antiracket Antiusura Lotta contro tutte le mafie Onlus. «Io purtroppo l’ho provato sulla mia stessa pelle», diceva, per mettere in guardia da «professionisti che non sono all’altezza». Quattro mesi prima il Consiglio di Stato aveva respinto un ricorso presentato da lei per fermare le procedure esecutive avviate su un imprenditore. Il ministero dell’Interno, mostra la sentenza, rilevava che la sua associazione non aveva la «legittimazione a ricorrere», «non essendo iscritta nell’elenco provinciale delle associazioni e delle fondazioni antiracket e antiusura». Cosa ben diversa sono le fondazioni antiusura, riconosciute e iscritte in un apposito elenco del Viminale, che svolgono in favore di soggetti in difficoltà economiche un’importante opera di solidarietà, di aiuto nel promuovere le denunce, di assistenza e di prestazione di garanzie presso le banche, per un più facile accesso al credito. Titolare oggi di due società - la Salute tutela risarcimento e il Centro tutela famiglia e impresa dal sovrainde7 agosto 2016 41 Inchiesta bitamento - Maria Lorena Sacchi nel 2007 era stata condannata in primo grado a Brescia a un anno e sei mesi di reclusione per esercizio abusivo della professione e truffa. Il processo era partito dalla Dental Group, fallita nel 2009: dove oltre che titolare, lei avrebbe lavorato da igienista dentale senza averne la specializzazione e soprattutto avrebbe convinto almeno una paziente a far causa ai dentisti precedenti, per ottenere un indennizzo e sostenere nuove operazioni. Il reato è stato cancellato per prescrizione, ma dal lato civile l’associazione nazionale dei dentisti aspetta ancora una sentenza per il rimborso del danno. IENE E CAVALIERI data nel 2014, ha un punto di forza: è partner ufficiale di Dirittialdiritto un’associazione il cui presidente onorario è Luigi Pelazza, l’inviato della trasmissione tv delle Iene. Per l’ente, Pelazza è il volto ufficiale, presente in tutte le comunicazioni. Due anni fa, in una serie di servizi per Mediaset, Pelazza aveva trattato il tema dell’usura bancaria, riscuotendo successo, per il coraggio delle denunce, e l’importanza del tema. In video, interveniva più volte Gabriele Magno, un avvocato Francesco Petrino, proprio di Dirittialdiritto. L’afondatore del zienda partner che offre poi i sindacato anti-usura. necessari Specialisti nell’AnaliA destra: un caveau si e Recupero del tuo Credito bancario, la Sarc srl, è stata amministrata fino ad aprile da Federica Monica Arlandi. Che è a sua volta socia, al 60 per cento, di una srl di cui Pelazza ha il resto delle quote: la Nea Entertainment. DOPPIAMENTE GABBATO In Rete sono centinaia i siti web che si definiscono “centri”, “movimenti”, “onlus” e offrono consulenze per ottenere i rimborsi dagli istituti di credito. A Roma e Milano piccoli e grandi studi legali si stanno buttando nel campo «perché in fondo si raccoglie parecchio, come vittorie e risarcimenti, nelle cause alle banche», spiega Roberto Marcelli, titolare di un noto studio di commercialisti di Roma e presidente dell’Associazione nazionale dei consulenti per i tribunali: «Quantomeno vendono Dalla provincia di Brescia, a Erbusco, è partita anche la cavalcata di Jd Group, che si presenta come la «prima e più importante azienda italiana per la verifica dei rapporti bancari». Fatturato da quasi due milioni di euro, oltre a uno studio legale in proprio, la Jd Group vanta l’apertura in franchising di sportelli a Padova (aprile 2016), Modena, Campobasso, Monza, Cremona, Verona. Il vento favorevole sembra avere origine nell’ordine. Un Ordine, in partiLei concilia? No grazie colare: la Confederazione dei cavalieri crociati. Il rappresentante Esiti delle mediazioni obbligatorie nei contratti bancari (in percentuale) della società, Daniele Scandella, si presenta infatti sul sito anche Accordo raggiunto 7 come Cavaliere templare e Gran Priore d’Italia, nonché Cavaliere Accordo non raggiunto di Malta. Fra le società specializzate nel Fonte: direzione generale statistica / ministero della Giustizia – 2016 e Banca d’Italia settore, c’è anche la Sarc Srl. Fon42 7 agosto 2016 93 Foto: A. Crowley - Gallery Stock spesso illusioni, però, questi soggetti, perché raramente raggiungono quanto promettono. Quando non offrono proprio dei pessimi servizi». «I ricorsi che arrivano a noi sono di frequente infondati», aggiunge Andrea Tina, professore alla Cattolica e consigliere dell’Arbitro della Banca d’Italia, a cui nel 2014 sono arrivate 11mila richieste di mediazione, di cui oltre 800 per usura (raddoppiate rispetto all’anno precedente): «Ci sono somme improprie, errori, perizie che si vedono esser state spinte, e scritte, da professionisti non “professionali”». Per fermare l’ondata di cause senza basi alcuni giudici hanno iniziato a contro-denunciare per lite temeraria chi avanza pretese fantasiose. Il rischio è che a soffrirne, e a dover quindi risarcire di tasca propria, sia anche l’usurato. Doppiamente gabbato, così. La questione è così importante e opaca da essere stata sottolineata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario da Maria Chiara Malacarne, presidente vicario del tribunale di Milano: «Anatocismo, interessi ultralegali, commissioni, valute fittizie: il succedersi delle riforme normative, spesso fram- QUESTI SUPPOSTI “PROFESSIONISTI” DEPOSITANO RICORSI ZEPPI DI ERRORI. E I GIUDICI LI ACCUSANO DI LITE TEMERARIA mentarie e di non chiara comprensione quanto a contenuto e regime transitorio, in questo ambito, alimenta nuovo contenzioso, incidendo su giudizi in corso e rallentando il formarsi di orientamenti giurisprudenziali consolidati», ha detto. Vecchia e nuova confusione si accumula fra i giudici. E fuori, sul mercato. A rimetterci, gli stessi: le vittime d’usura bancaria. n 7 agosto 2016 43 News Economia Il caso Quanto costano le unioni civili 23 milioni tra dieci anni ROMA Ora che le unioni civili sono realtà, anche il fisco si adegua. Le nuove famiglie italiane, grazie alla legge Cirinnà, potranno infatti beneficiare delle regole finora riservate agli sposati. A rompere gli indugi è stato il viceministro dell’Economia, Enrico Zanetti, che rispondendo a un’interrogazione ha chiarito come il bonus per l’acquisto dei mobili rivolto alle giovani coppie si applicherà anche agli uniti civilmente nel 2016, purché ne abbiano i requisiti. Si potrà anche accedere alle detrazioni del 50 per cento per i lavori di recupero edilizio. Secondo le stime del ministero, gli oneri a carico della fiscalità derivanti dall’applicazione del nuovo istituto vanno dai 3,7 milioni del 2016 ai 23 stimati nel 2025. Le minori entrate sono legate soprattutto al minor gettito Irpef per le detrazioni fiscali, che nel periodo analizzato salirà da 3,2 a 16 milioni. A questa cifra vanno aggiunti assegni familiari e pensioni di reversibilità, che tra 10 anni - con 30 mila coppie unite - dovrebbero pesare per circa 6 milioni. Sara Dellabella Sorpresa, i robot creano lavoro I robot ci portano via il lavoro? I timori sulle ricadute occupazionali delle innovazioni hi tech sono eccessivi. Lo dice uno studio del think tank tedesco Zew, secondo il quale dal 1990 al 2010 l’automazione industriale ha cancellato in Europa 9,6 milioni di posti di lavoro, creandone però 21 milioni. Il problema non è l’automazione ma come le aziende investono i profitti che ne derivano. MANNHEIM MEDIASET Dopo la lite con Vivendi, chi rifinanzia Premium? MILANO C’è un dettaglio interessante nella lite tra Mediaset e Vivendi. Lo rivela il bilancio del primo trimestre 2016 dell’azienda di Silvio Berlusconi: dice che la pay tv Premium in vista del passaggio 44 7 agosto 2016 ai francesi era valutata 756 milioni inclusa «una posizione finanziaria netta positiva al closing di 120 milioni». Quel cash oggi Premium non ce l’ha: a fine 2015 in cassa aveva 33 milioni e nel primo semestre 2016 ha continuato a perdere. Per favorire la vendita, Mediaset era pronta a ricapitalizzare Premium. Ora Vivendi non vuole più tutta la pay tv ma solo il 20 per cento. Ma Premium ha lo stesso bisogno di risorse. Lu.P. Un robot in una fabbrica inglese. A destra: i giovani soci della Leaf Space di Torino Idee giovani CONTI PUBBLICI Foto: Gallery Stock Derivati Tesoro, ancora perdite -10 mld La startup che cattura i dati dei satelliti ROMA Il dato è passato inosservato. Alla fine di marzo il valore delle future perdite sui derivati dello Stato (il cosiddetto “mark to market”), stimabili agli attuali prezzi di mercato, è tornato a salire, arrivando a quota 37 miliardi. Lo ha reso noto la Banca d’Italia nell’ultimo Bollettino economico. Si tratta del livello più elevato toccato negli ultimi dodici mesi: dopo aver raggiunto i 42 miliardi nel dicembre 2014, infatti, il mark to market dei derivati aveva iniziato a scendere, assestandosi alla fine del 2015 a quota 30,7 miliardi. Il fenomeno appare particolarmente preoccupante se si incrocia questo dato con altri numeri, messi in evidenza nell’ultimo Giudizio sul rendiconto dello Stato, diffuso a giugno dalla Corte dei Conti. All’epoca gli ultimi dati sulle future perdite dei derivati dello Stato erano ancora fermi ai 30,7 miliardi del dicembre 2014. Ma il procuratore generale della Corte, Martino Colella, aveva voluto mettere in guardia rispetto al significato di numeri solo in apparenza positivi, sottolineando che alla diminuzione aveva contribuito un fatto semplice: nel corso del 2015 alcuni derivati erano infatti giunti a scadenza e il Tesoro aveva dovuto saldare il conto con le banche controparti. Le perdite da prospettiche si erano banalmente materializzate. Con un conto salato: 6,75 miliardi solo nel 2015, uno in più del 2014. Ma se la situazione era preoccupante allora, che cosa bisognerebbe dire adesso, che anche il valore delle perdite future è tornato a salire, nonostante i soldi spesi nel frattempo? Luca Piana TORINO Come una foglia che ENERGIA Nel 2015 giù il costo della bolletta petrolifera Lo scorso anno la spesa dell’Italia per le forniture di energia dall’estero è scesa a 34,4 miliardi di euro, dai 44,6 del 2014. Lo dice l’Unione petrolifera nella relazione annuale. Il calo è dovuto alla discesa dei prezzi del petrolio. Nel 2008 la “bolletta” energetica dell’Italia era stata di 60 miliardi, nel 2000 di 29 miliardi. galleggia nella spazio, lieve ma allo stesso tempo concreta. La parola “leaf” in inglese vuol dire appunto “foglia” ed è riconoscibile anche da chi di business spaziale è del tutto a digiuno. Quando i fondatori di Leaf Space - Matteo Baiocchi, Jonata Puglia e Michele Messina - hanno dato vita alla loro startup avevano in mente proprio questa idea: nessuna competizione con i grandi gruppi industriali della missilistica e dei satelliti, come Avio, Finmeccanica, Thales. Bisognava andare dove nessuno orbitava: un servizio di telecomunicazioni, “Leaf Line”, per raccogliere i dati che arrivano sulla Terra dalla moltitudine di satelliti presenti in orbita e restituirli in tempo reale su una piattaforma digitale, realizzata con un software creato da loro. I tre ragazzi, conosciutisi al Politecnico di Milano, hanno scommesso su uno dei possibili business del futuro. Nel 2016 nel mondo sono stati lanciati 150 micro satelliti (dieci volte meno costosi dei satelliti tradizionali), in grado di trasmettere una quantità enorme di dati. Così i tre fondatori hanno comprato un’antenna da ricezione satellitare a Vimercate, in Brianza, grazie alla quale convogliare i dati e lavorarli nella sede scelta per la loro start up, a Torino. Per farci cosa? Adeguare le mappe di Google che a oggi sono aggiornate ogni tre settimane, lavorare nel campo biomedicale, effettuare servizi di tracciamento per la sicurezza urbana e in mare, per la logistica o la ricerca scientifica. Dal 2014 l’azienda ha portato a bordo un finanziamento da un milione di euro concesso dalla Red Seed Ventures, per acquistare nuove antenne e coprire una porzione più ampia di territorio. Come prima realtà del settore attiva in Italia, Leaf Space ha stretto partnership con altre startup, come la sudamericana Satellogic, produttrice di nano satelliti, o la svizzero-israeliana SpacePharma, lanciata nella sperimentazione medicale in micro gravità. Ai fondatori nel 2015 si sono poi aggiunti Caterina Siclari e Giovanni Pandolfi e, grazie anche al loro lavoro, l’azienda ha ottenuto il sostegno dell’Agenzia Spaziale Italiana e un altro milione di euro di finanziamenti, nell’ambito del piano europeo Horizon 2020. I cinque imprenditori contano di iniziare a brillare nel 2018, quando il fatturato dovrebbe salire a 5 milioni, mentre già ora progettano di assumere sette persone. Chiara Organtini 7 agosto 2016 45 Jobs Act Disoccupato conviene C di Stefano Vergine Tasso di disoccupazione in percentuale Germania Italia Francia Spagna OSA DEVE FARE UN CITTADINO TEDESCO 4,2 11,6 9,9 19,9 Spesa per le politiche del lavoro in percentuale sul Pil Germania Italia Francia Spagna per ricevere il sussidio di disoccupazione? Innanzitutto iscriversi alla Bundesagentur für Arbeit, l’agenzia federale per il lavoro. Poi presentarsi ai colloqui, frequentare i corsi che gli vengono proposti e accettare eventuali offerte di lavoro. Se per qualche motivo non fa una di queste cose, il sussidio gli viene ridotto e infine cancellato. Come funziona in Italia? Semplice: il disoccupato deve solo iscriversi a quella che un tempo si chiamava lista di collocamento. Per intascare il sussidio, che oggi vale anche per i lavoratori precari grazie alla riforma dell’ex ministro Elsa Fornero, non è necessario presentarsi agli incontri, frequentare corsi, mandare in giro il curriculum né accettare eventuali offerte di impiego. La Germania è uno dei Paesi europei più simili all’Italia in termini economici. Forte industria manifatturiera, esportazioni predominanti, differenze regionali marcate. Il confronto, però, potrebbe essere allargato a quasi tutte le nazioni del Vecchio Continente, perché l’Italia è una delle pochissime a non vincolare di fatto la concessione del sussidio all’attivismo del disoccupato. Di fatto, dicevamo, visto che in teoria il vincolo c’è. Lo prevedeva la Legge Fornero e lo stabilisce a condizioni attenuate anche il Jobs Act. Solo che, nella pratica, quasi tutti se ne infischiano. Il risultato è che in Germania il disoccupato non può usare due trucchi molto amati nel Belpaese. Uno è quello di prendere il sussidio e andare a lavorare all’estero, con il vantaggio di incassare una paga doppia. L’altro prevede di intascarsi l’asse- Spesa totale Incentivi all’occupazione Sussidi di disoccupazione e cassa integrazione 1,6 1,9 2,5 * 3,3 0,7 0,3 1,0 0,5 0,9 1,6 1,5 2,8 *I dati disponibili della Spagna si riferiscono al 2013 Fonte: per la disoccupazione Eurostat giugno 2016; per la spesa attiva e passiva, elaborazione su dati Eurostat 2014, gli ultimi disponibili 46 7 agosto 2016 Dopo mesi di ritardo, il governo vuol far decollare la riforma dei sussidi. Che saranno tolti a chi non accetta un posto. Ma non sarà facile. Perché il sistema attuale fa la fortuna dei più furbi Foto: Ansa Storia di Antonella, l’unica dirigente che applica le sanzioni L’esperienza di Trento: “Possibile grazie a scelte condivise” «Io mi limito ad applicare la legge dello Stato». Antonella Chiusole è la donna che ha fatto di Trento l’unica provincia italiana in cui vale la cosiddetta condizionalità. Vuol dire che se il disoccupato non si attiva per cercare un nuovo impiego, il sussidio gli viene prima ridotto e poi, eventualmente, cancellato. Laureata in Legge, 54 anni, Chiusole dirige l’Agenzia del lavoro e i dodici centri per l’impiego sparsi per la provincia. Una delle più ricche d’Italia, anche grazie all’autonomia amministrativa di cui gode. «Ma con una situazione economica», tiene a precisare la Chiusole, «analoga a quella delle altre regioni del Nordest, visto che il tasso di disoccupazione l’anno scorso era del 6,8 per cento e quello di occupazione al 66,1». Come dire: il modello Trentino non è frutto della fortuna. Alessandro Olivi, vicepresidente e assessore al lavoro della Provincia, riassume così la sua filosofia politica: «Da un lato abbiamo rafforzato le tutele per i disoccupati con il reddito di attivazione, che si aggiunge al sussidio statale, dall’altro abbiamo vincolato l’aiuto a un impegno attivo degli utenti». Nella pratica, quando il disoccupato fa domanda per ricevere l’indennità (Naspi), deve subito prendere appuntamento con il centro per l’impiego, dove aderirà al “patto di servizio personalizzato”, un contratto in cui s’impegna a svolgere una serie di attività. Tra queste: la compilazione costante del “diario di attivazione”, libretto azzurro in cui il disoccupato segna tutto ciò che fa per trovare un nuovo impiego. «Sembra banale», sottolinea la Chiusole, «ma se svolta con puntualità questa compilazione indica il cambio d’atteggiamento della persona, che invece di subire passivamente gli interventi pubblici si attiva per tornare sul mercato». A Trento l’esperimento è iniziato nel 2013, quando la legge Fornero introdusse la condizionalità: bastava non rispettare il patto di servizio per una volta e il sussidio veniva cancellato. Ora con il Jobs Act la revoca arriva gradualmente: alla prima violazione si perde un quarto dell’assegno mensile, alla seconda l’intera mensilità, alla terza viene cancellato del tutto l’aiuto. Quante volte è successo? «Difficile dirlo perché non tutti gli iscritti percepiscono il sussidio, ma le persone cancellate per mancato rispetto del patto di servizio nel 2015 sono state 1.243 sulle 13.312 iscritte in totale», dice la dirigente. Che risponde così, quando le si chiede perché è stata l’unica a far rispettare la legge: «Attuare la condizionalità è molto oneroso: significa dover gestire tutti i disoccupati, non solo quelli che si attivano spontaneamente, e offrire a ciascuno dei servizi. Per questo molte Regioni non lo fanno. Io comunque mi limito ad applicare la legge e a far sì che i centri per l’impiego segnalino chi non rispetta il patto. Certo, c’è una particolarità da noi: nel consiglio di amministrazione dell’Agenzia del lavoro siedono anche i sindacati, quindi la procedura è condivisa da tutti e nessuno sostiene o giustifica i lavoratori che non si attivano. C’è una condivisione sociale della regola». Sulla possibilità che, attraverso la riforma costituzionale, le politiche attive diventino materia esclusiva dello Stato, Chiusole non è d’accordo: «C’è il rischio che le cose buone delle Regioni virtuose, che sono molte, non si possano più fare e che il livello medio, invece di alzarsi, si abbassi». Anche sul principio della remunerazione a risultato la dirigente è scettica: «Premiare solo le agenzie che hanno rimesso sul mercato un disoccupato è pericoloso: se la logica è questa, potrebbe diventare conveniente prendersi davvero cura di quelli facilmente piazzabili, che probabilmente avrebbero trovato lavoro anche da soli, mentre gli altri, i più deboli, rischiano di essere lasciati indietro». 7 agosto 2016 47 Jobs Act Tasso di occupazione in percentuale Germania Italia Francia Spagna 74,0 56,3 64,2 57,8 Fonte: Eurostat. I dati, relativi al 2015, rappresentano il numero di occupati sul totale dei residenti tra i 15 e i 64 anni LA NORMA ERA STATA INTRODOTTA GIÀ DA ELSA FORNERO. MA NON HA MAI FUNZIONATO. CON IL RISULTATO CHE NUMEROSI LAVORI RESTANO SCOPERTI gno e faticare in nero, anche qui raddoppiando l’incasso. I tecnici traducono così l’abisso: Roma finora ha puntato sulle politiche passive, Berlino e tante altre nazioni hanno invece investito sulle quelle attive. Premessa. Se l’economia arranca, nessuno stratagemma può risollevare in modo determinante l’occupazione. Nonostante la recessione, tuttavia, qualcosa per migliorare la situazione si può fare. Lo dimostrano i casi dei nostri vicini. E lo impongono alcuni numeri. Il tasso di disoccupazione generale in Italia è all’11,6 per cento: si tratta di circa 3 milioni di cittadini, di cui oltre la metà senza impiego da oltre un anno. La percentuale dei disoccupati non comprende però tutte le persone senza lavoro. Non sono conteggiati, per esempio, coloro che per motivi vari non si iscrivono alle liste di collocamento. Il numerino da guardare è dunque quello degli occupati. E di questo non possiamo proprio andare fieri: è il 56,3 per cento della popolazione in età da lavoro, uno dei livelli più bassi d’Europa. Creare occupazione è sempre stato il cruccio principale di Matteo Renzi. Non a caso una delle prime norme approvate è stata quella del Jobs Act, che ha reso meno vincolanti le nuove assunzioni (licenziamento senza giusta causa per i primi tre anni) concedendo incentivi economici alle imprese 48 7 agosto 2016 che aumentano il numero di dipendenti. La riforma, però, doveva essere molto più estesa rispetto a quella che conosciamo oggi. Dei vari punti elencati da Renzi sul suo sito personale l’8 gennaio del 2014, due mesi prima di diventare premier, al momento ne mancano soprattutto due. Uno riguarda l’elezione dei rappresentanti sindacali nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese. L’altro è in corso d’opera. Si tratta dell’Anpal, acronimo di Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro: l’equivalente nostrano della tedesca Bundesagentur für Arbeit. Insomma, la struttura con cui il governo vorrebbe dare un taglio netto all’assistenzialismo di Stato. Alcuni credono infatti che buona parte della disoccupazione italiana, oltre che dalla crisi, dipenda proprio dall’aver scelto di puntare sui sussidi a pioggia, senza chiedere nulla in cambio ai beneficiari. Lo sostengono ad esempio Romano Benini e Maurizio Sorcioni, due esperti della materia, nel libro appena pubblicato “Il fattore umano - Perché è il lavoro che fa l’economia e non il contrario” (Donzelli Editore). E lo suggerisce il grafico a pagina 50, che mette in relazione posti di lavoro vacanti e tasso di disoccupazione. A rigor di logica, se aumentano i disoccupati diminuiscono in modo inversamente proporzionale i posti di lavoro disponibili. Invece negli ultimi dieci anni in Italia non è andata sempre così. Motivo? Evidentemente non riusciamo a formare persone che abbiano le competenze richieste dal mercato. Eppure, di soldi per aiutare i disoccupati finora ne sono stati spesi parecchi. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, l’Italia investe nelle politiche del lavoro l’1,7 per cento del prodotto interno lordo. Più della Germania, che ha un mercato del lavoro in piena salute. Ma la stragrande maggioranza dei fondi ci serve per pagare sussidi di inattività, che sono ovviamente schizzati verso l’alto durante la crisi, mentre solo una minima fetta viene usata per reinserire i disoccupati nel mercato. Traduzione numerica: nel 2014, ultimo anno per cui sono disponibili i confronti internazionali, abbiamo speso 5,5 miliardi in politiche attive e 24 miliardi tra sussidi e aiuti per i prepensionamenti. ESEMPIO TEDESCO Va detto, per essere precisi, che non tutti i senza lavoro sono uguali. Ci sono ad esempio gli stagionali del turismo, dell’agricoltura o gli insegnanti precari: qualche milione di persone che ogni anno resta a casa per un periodo predefinito, una manciata di mesi al massimo, riscuotendo l’assegno dall’Inps. Per loro, che una professione ce l’hanno anche se magari non riconosciuta come vorrebbero, la riqualificazione non avrebbe senso, visto che tornano puntualmente a sgobbare sui banchi di scuola o sulle spiagge. Casi specifici a parte, però, il problema è che gli investimenti italiani nelle politiche attive sono bassissimi rispetto ai nostri vicini europei. E sono addirittura diminuiti durante la crisi: dal 2007 al 2011 la spesa per aiutare i disoccupati a ritrovare Foto: P. Paolini - TerraProject / Contrasto Persone al lavoro durante Fablab Torino, un workshop promosso dalle Officine Arduino sulla fabbrica digitale un lavoro è calata del 15,2 per cento, mentre Paesi come Francia, Germania e Regno Unito la incrementavano. Ora il governo Renzi dice di essere intenzionato a invertire la rotta. Il sistema delle politiche attive, per quello che prevede la parte del Jobs Act rimasta finora inattuata, si basa su due principi che potrebbero presto diventare realtà. Il primo è la condizionalità. Significa che il disoccupato deve presentarsi ai colloqui con gli impiegati del centro per l’impiego, frequentare corsi di formazione e accettare lavori coerenti con il proprio profilo professionale. Altrimenti, il sussidio gli viene ridotto gradualmente fino alla cancellazione. Il secondo principio è quello della remunerazione a risultato: riguarda le strutture che già oggi offrono, o dovrebbero offrire, un aiuto ai disoccupati. Si tratta dei centri per l’impiego (pubblici) e delle agenzie per il lavoro (private). L’Anpal prevede di metterle in competizione fra loro, premiando con i fondi pubblici europei solo quelle che riusciranno davvero a rimettere sul mercato i disoccupati. Insomma, concorrenza e meritocrazia. Già oggi, in realtà, in Italia c’è chi segue questi principi. Solo che nessuno li mette in pratica entrambi contemporaneamente. La Provincia autonoma di Trento è l’unica a vincolare l’erogazione del sussidio all’attivismo del disoccu- pato, la cosiddetta condizionalità (vedi articolo a pagina 47). Alcune Regioni hanno invece creato dei sistemi basati sul principio della remunerazione a risultato, in cui circa l’80 per cento dei fondi comunitari viene incassato solo quando il disoccupato trova lavoro. «Lo ha fatto per prima la Lombardia e da qualche tempo anche il Lazio», spiega Stefano Zanaboni, titolare di We, una piccola società privata del settore. Zanaboni opera solo nel Lazio e dice che delle 160 persone prese in carico dalla sua agenzia da inizio anno è riuscito a rimetterne al lavoro 39, di cui la maggioranza con contratti a tempo indeterminato. Uno di loro è Paolo Nappi, 58 anni, romano, che fino al 2014 aggiustava fotocopiatrici per una filiale della Canon. «Appena ho perso il lavoro», racconta, «ho iniziato a cercarne un altro: stavo ogni giorno 5-6 ore a inviare domande ma per un anno e mezzo niente da fare. Poi, a gennaio del 2016, ho iniziato il percorso con l’agenzia We. Mi hanno aiutato a migliorare il curriculum, dato consigli per fare bella figura ai colloqui, hanno chiamato le aziende a cui mi proponevo spiegando quali agevolazioni fiscali avrebbero avuto prendendomi». A inizio estate Nappi è stato assunto a tempo indeterminato, sempre con la mansione di tecnico delle fotocopiatrici. «Con l’agenzia non ho speso un euro 7 agosto 2016 49 Jobs Act Se Crotone non parla con Lamezia Diplomazia. Speriamo ne abbia molta Maurizio Del Conte, presidente della neonata Anpal, Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, che dovrà uniformare un sistema di centri per l’impiego frammentato, dove uno sportello non è in grado di comunicare con quello della provincia confinante. Il professore di Diritto del Lavoro dell’Università Bocconi di Milano, è stato scelto dal governo Renzi per mettere ordine, dove oggi vige il caos assoluto. Il primo consiglio di amministrazione dell’Anpal (ne fanno parte, oltre a Del Conte, Bruno Busacca, capo segreteria tecnica del ministero del Lavoro, e Giovanna Pentenero, assessore al Lavoro del Piemonte) sì è tenuto lo scorso 13 luglio, ma la macchina vera e propria partirà nel 2017, dopo che saranno reclutati i 207 dipendenti, prelevati dal ministero del Lavoro e dall’istituto Isfol. Quale sarà il ruolo dell’agenzia? «Innanzitutto farà da coordinamento fra tutti i soggetti - pubblici e privati - della rete delle politiche attive, unificando le procedure di assistenza alle persone in cerca di un’occupazione. Oggi le competenze legislative sono un po’ in capo alle Regioni e un po’ allo Stato. Le prime si sono costruite, in autonomia, colloquio con Maurizio Del Conte di Gloria Riva le infrastrutture per gestire la domanda e l’offerta di lavoro, mentre lo Stato ha il potere di dettare le linee guida relative ai livelli essenziali dei servizi che devono comunque essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Quello che manca, e che deve essere realizzato il più presto possibile, è un sistema informatico che metta in rete tutti i soggetti coinvolti, da quelli pubblici alle agenzie interinali private». Significa che oggi, per esempio, un dipendente dell’ufficio del collocamento di Perugia non sa se c’è un posto di lavoro a Mantova? «Proprio così. Solo lentamente qualcosa comincia a muoversi. In un territorio difficile come la Calabria, per esempio, sono riusciti a far dialogare gli uffici di Gioia Tauro con quelli di Lamezia Terme e Reggio Calabria. Significa che adesso se un disoccupato, che cerca un lavoro da magazziniere, si rivolge al centro di Lamezia, può sapere se nelle tre province c’è un’opportunità di lavoro adatta a lui. Ma resta ancora da integrare il sistema di Crotone. Sono problemi locali, pratici, di compenetrazione fra un database e l’altro, ma se riuscissimo a risolverli saremmo già a buon punto». Poi ci sono le Regioni che non hanno Ricerca di lavoro e disoccupazione in 15 anni (dati in %) Tasso di disoccupazione Posti vacanti sul totale dei 15,5 1,25 posti di lavoro 1,15 13,5 1,05 11,5 0,95 0,85 9,5 0,75 7,5 0,65 0,55 5,5 0,45 0,35 3,5 04* 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15 *confronto dati 1° e 3° trimestre. Fonte: elaborazione su dati Istat In teoria se aumentano i disoccupati diminuiscono i posti vacanti. Invece, come si vede dal grafico tratto dal libro “Il fattore umano” (Donzelli), in Italia non va sempre così, perché mancano persone con le competenze richieste. 50 7 agosto 2016 alcuna intenzione di perdere potere decisionale in questo campo. Soluzioni? «Sarà anche un’opera di diplomazia, verso un obiettivo comune. Le Regioni non saranno espropriate dei poteri, ma invitate a cooperare con l’Agenzia Nazionale e con il ministero del Lavoro, che ha messo a disposizione importanti risorse economiche. Le Regioni dovranno condividere le proprie informazioni (sempre su offerta e domanda di lavoro) con l’Agenzia nazionale, che le organizzerà in un unico database che metterà a disposizione di tutti i soggetti della rete per le politiche attive». Basterà? «No, alle sedi territoriali sarà fornita un’infrastruttura in grado di accedere alla banca dati dell’Inps, per sapere se una persona percepisce un sussidio di disoccupazione, da quanto tempo e tutto il suo curriculum professionale». A che serve l’accesso alle informazioni Inps? «Il tema delle nuove politiche attive si lega a quello degli ammortizzatori sociali, cioè delle politiche passive. Infatti, una norma del Jobs Act dice che il sostegno economico alla disoccupazione è vincolato alla attivazione nella ricerca di un lavoro. Significa che il lavoratore, se vuole ricevere e ho ricevuto un importante aiuto per tornare sul mercato», assicura. Un successo anche per la We, che si è garantita il contributo pubblico. Cifra variabile a seconda del tipo di candidato, ma che in genere va da un minimo di 800 euro per i casi più facili a un massimo di 4.000 euro per i più complicati. «Il problema è che ogni Regione decide se, come e quando dare questi soldi. Per questo in tante zone non operiamo, mentre ci siamo concentrati soprattutto nelle aree dove le cose funzionano meglio», dice Fabio Costantini, responsabile delle politiche attive per Ranstad, la multinazionale olandese nota soprattutto per le agenzie interinali. IL PRESIDENTE C’È, GLI ADDETTI NO Il fatto che ogni Regione faccia di testa sua ha un motivo preciso. Il titolo V della Costituzione attualmente prevede infatti che la legislazione sulle politiche attive sia di competenza, oltre che dello Stato, anche delle Regioni. E così ci sono quelle che applicano il principio della remunerazione a risultato e quelle che si rifiutano. Colpisce poi il fatto che nessuno, a parte la provincia di Trento, vincoli il pagamento del sussidio all’attivazione del disoccupato. Già, perché in teoria dovrebbe essere così dappertutto: se il dipendente Maurizio Del Conte, bocconiano, scelto da Matteo Renzi per guidare l’Anpal Foto: S. Minelli - Imagoeconomica un contributo economico (pagato e gestito dall’Inps), è obbligato a seguire attivamente un percorso di ricollocazione, sotto la guida - a sua scelta - del centro per l’impiego o della agenzia per il lavoro privata». In realtà il principio di condizionalità del contributo è già in vigore, ma non viene applicato, se non in rari casi. Perché? «Oggi gli addetti del centro per l’impiego non hanno accesso diretto alla banca dati dell’Inps e quindi non possono sapere con certezza se la persona che stanno assistendo percepisce o meno il sussidio. Con la creazione di Anpal, sarà possibile avere accesso a quelle informazioni, monitorare la situazione e spronare le persone a fare formazione o accettare offerte di lavoro. Pena la riduzione dell’assegno di disoccupazione». E se il lavoro offerto non dovesse essere congruo rispetto alle competenze del disoccupato? «L’Anpal si occuperà anche di definire del centro per l’impiego si accorge che il disoccupato non si dà da fare, dovrebbe revocargli il sussidio. Invece non succede. Il motivo lo spiega ancora Benini, che dirige il master in Management delle politiche per il lavoro alla Link University di Roma e lavora come consulente per diverse Regioni: «L’impiegato del centro per l’impiego non si prende la responsabilità di togliere il sussidio a un suo concittadino, magari a uno che conosce da una vita. Anche perché, non esistendo ancora un sistema informatico che gli consenta di avere sott’occhio tutte le offerte di lavoro disponibili, lo stesso impiegato non è in grado di far bene il suo mestiere, cioè di trovare una nuova occupazione all’utente. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia abbiamo un operatore ogni 220 disoccupati, mentre in Europa la media è di 1 su 90, ci rendiamo facilmente conto del perché le politiche attive finora non sono decollate». Riuscirà dunque l’Anpal a risolvere tutti questi problemi? L’Agenzia guidata da Maurizio Del Conte (intervista qui sopra) ufficialmente è attiva dallo scorso 22 giugno. Ufficialmente, visto che in realtà è ancora tutto fermo. Il primo consiglio d’amministrazione si è riunito a metà luglio, ma i dipendenti che dovranno lavorarci devono ancora essere degli standard per valutare che le offerte siano all’altezza. Inoltre predisporrà un assegno di ricollocazione, una somma assegnata al lavoratore disoccupato che dovrà spendere all’ufficio di collocamento o all’agenzia per il lavoro. Gli enti potranno incassarlo se troveranno un’occupazione alla persona. È un modello molto simile alla Dote Lavoro della Regione Lombardia». Come giudica l’esperienza di Garanzia Giovani, il servizio nazionale avviato nel 2015 per trovare lavoro agli under 29 che non studiano e non lavorano, e che è stato gestito dai centri per l’impiego? «Sono piovute critiche da ogni dove ma non è stato l’insuccesso che si pensava. Ad oggi, circa un milione di ragazzi si sono iscritti al programma. Di questi, in base al rapporto dell’Isfol, 188 mila hanno trovato un lavoro, mentre sono state prese in carico oltre 500 mila persone. Al netto di quelli che si sono collocati da soli, i giovani che hanno trovato lavoro grazie a Garanzia Giovani sono circa il 10 per cento. Una percentuale analoga a quella della Germania. Se pensiamo che quel milione di giovani italiani è la platea più difficile da collocare, perché sono ragazzi senza esperienza e spesso con percorsi personali difficili, direi che il risultato è tutt’altro che negativo». IL COLLOCAMENTO FINORA È STATO IN MANO ALLE REGIONI. ORA IL GOVERNO VUOL GESTIRLO IN MODO PIÙ DIRETTO. MA C’È IL RISCHIO REFERENDUM individuati. «Speriamo che, dopo quasi un anno di attesa, l’Anpal parta davvero», è l’auspicio di Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis, uno dei gruppi privati che punta ad aumentare il proprio ruolo nel business dei disoccupati. In attesa che si sbrogli la matassa burocratica, resta però un punto interrogativo. Come può esistere un unico modello delle politiche attive del lavoro se ogni Regione può fare a modo suo? La riforma costituzionale porterebbe sotto il controllo unico dello Stato le politiche attive. Ma c’è l’incognita del referendum. Anche per questo la rivoluzione promessa dal Jobs Act rischia di rimanere incompiuta. Staccando ancor di più l’Italia dal resto d’Europa. n 7 agosto 2016 51 Bruno Manfellotto Questa settimana www.lespresso.it - @bmanfellotto Nella guerra Milano-Torino per il Salone del libro c’è molto provincialismo e nessun progetto. E in Italia si continua a leggere troppo poco Nel Bel Paese dove il book suona Foto: Massimo Sestini E COSÌ MILANO avrà una nuova fiera del libro e si chiamerà MiBook. Andrà ad aggiungersi a Book City, quinta edizione, e a Book Pride, rassegna riservata agli editori indipendenti. Fattore comune, il book: evidentemente la parola “libro” non è più di moda. Fa male la moltiplicazione dei saloni e delle mostre-mercato? Figuriamoci, però quando per lanciare un prodotto ci si rifugia nell’inglese, crescono dubbi e timori: se nemmeno per vendere libri in italiano si riesce a trovare uno slogan casalingo e convincente, è legittimo immaginare complessi di inferiorità, provincialismo, e pure sospettare che dietro l’idea non ci sia sufficiente retroterra, identità, progettualità. Esagerazioni? Forse. Ma i nomi sono spia di una vicenda estiva che ha terremotato l’impero dei libri, di cui quel poco che s’è capito è desolante, e che è tipica di un certo approccio italico a ogni questione che meriterebbe programmazione, ideazione, sorpresa, e che immancabilmente si svolge invece all’insegna delle camarille, dei localismi, della vendettucole. IN BREVE. Da quasi trent’anni, per la precisione dal 1988, una Fondazione cui partecipano Regione e Comune dà vita al Salone del libro di Torino affidato da otto anni alle cure editoriali di Ernesto Ferrero, un anziano intellettuale e manager di formazione Einaudi. A un bel punto l’Aie, la Confindustria degli editori, si ribella, non ci sta più, lancia un appello agli iscritti a disertare la kermesse torinese sostenendo che soffre di un impianto troppo vecchio (vero), che è troppo co- stosa (vero), ingabbiata dagli enti locali (improvvisamente?) e aggravata da un brutto scandalo - quattro arresti, turbativa d’asta e pure qualcosa di più sgradevole - di cui s’è occupata la magistratura (vero). E così propone di trasferire baracca e burattini a Milano. Niente più Torino. Come se i produttori proponessero di cancellare il Festival di Venezia in favore della Mostra del cinema di Roma. LA PROPOSTA COVA PER MESI, ma ogni decisione viene rinviata per via della campagna elettorale, non so se mi spiego. Alla fine gli editori si convocano in assemblea e votano: i grandi (in diciassette) scelgono la “newco” - of course - di Milano, capitale morale, dell’editoria e dell’Expo; in otto si astengono, Einaudi per buona creanza; Laterza si dissocia criticando il metodo; altri sette (tra i quali Feltrinelli, Marcos y Marcos, Gallucci) scelgono di farsi il loro salone. A Torino. Fronte degli editori spaccato e due manifestazioni dimezzate, antitetiche, concorrenziali. Con Alessandro Baricco che annuncia lo “sciopero degli scrittori” contro Milano. E di tutte e due non si sa che cosa saranno e faranno. Perché? Certamente ha pesato una questione di potere: a Torino Einaudi gioca in casa, e invece l’Aie vuole contare di più. Azionisti di riferimento dell’Aie sono Gems (Mauri-Spagnol), Mondadori e Rizzoli, tutti nati e radicati a Milano, gli ultimi due oggi fusi in un colosso. E poi Milano, storica antagonista di Torino, è in grande spolvero, vive una stagione di successi, “è di moda”. E vabbè, è andata così, ma a che scopo? Gli editori faticano per migliorare i bilanci: i grandi inseguono economie di scala diventando sempre più grandi; i piccoli arrancano cercando di conservare nicchie di mercato; le librerie chiudono; le scuole hanno altro a cui pensare. Nel Bel Paese tracimano feste e festival: Milano, Torino, Roma, Mantova, Pordenone, e presentazioni di libri in ogni cittadina, frazione, contrada, per non dire delle variazioni sul tema di Modena (filosofia), Sarzana (mente), Genova (scienza) e via sfogliando. Ma nonostante ciò, in Italia si legge sempre troppo poco: ultimi in classifica in Europa; e di portare i libri nelle case e nelle scuole - dei giornali parliamo un’altra volta... - si ciancia senza costrutto e senza pesare. Tanto per capirci: i ministri Franceschini (Beni culturali) e Giannini (Istruzione) s’erano spesi per Torino. Ignorati. SI DIRÀ: ma Milano e book stanno a indicare sguardo all’estero, respiro internazionale. Speriamo, ma sembra arduo scalzare Francoforte, la più importante “buchmesse” (che a nessuno verrebbe in mente di chiamare “book fair” e traslocare a Berlino). E allora tutto questo can-can a che serve? Capita che sindaci e assessori cerchino di ovviare alle loro manchevolezze organizzando grandi manifestazioni, concerti, ricchi premi e cotillon. Non si vorrebbe che anche certi editori di libri seguano il cattivo esempio dimenticando che per promuovere cultura e lettura non basta un evento né fare sfoggio di inglese. 7 agosto 2016 53 Olimpiadi Dei per un minuto Medaglie d’oro. E poi miseria, malattie, oblio. Dalla Germania al Kenya, dagli Stati Uniti all’Italia, storie di atleti dalla gloria durata molto poco di Gianfrancesco Turano 54 7 agosto 2016 Muhammad Ali colpisce Leon Spinks nel match del 1978. Entrambi erano stati oro olimpico, nel 1960 e nel 1976 S E LO RICORDANO in pochi. Nel 2012 a Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio non si è qualificato ma una medaglia se la merita lo stesso. Si chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e prenderà 16 milioni di euro l’anno! Ergo nella vita meglio essere un pirla». Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era anche riferito all’errore dal dischetto agli ultimi Europei e al famoso gesto dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe come se io andassi dal mio avversario prima di un match e gli dicessi: ti faccio un culo così. E poi perdessi l’incontro». Molfetta, salentino come Pellè, è un campione di taekwondo, arte marziale coreana introdotta nel programma olimpico a Seul nel 1988 come sport dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo al jackpot dell’oro, quotato dal Coni 150 mila euro (lordi, a differenza dello stipendio di Pellè). Quattro anni di sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro i più forti del mondo. L’unico movente è la passione sportiva. In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è “amateur”, nella lingua del barone de Coubertin. La passione può abbinarsi alla gloria ma niente dura meno della gloria senza un giro d’affari adeguato. Lo sprinter giamaicano Usain Bolt o la stella della Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business quanto Matt Damon o Jennifer Lawrence. La portabandiera Federica Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e quegli azzurri che, a Rio come in ogni altra Olimpiade, contribuiranno in quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta, sono destinati all’oblio in tempi brevis- simi secondo il teorema dell’arciere Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012) e un argento (2008). «Il brutto è che ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni». E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka. Non c’è da meravigliarsi se l’epopea olimpica moderna è ricca di campioni sedotti e abbandonati dalla fama ai piedi del podio. IL DOPING AL TEMPO DELLA STASI I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga sotto patrocinio statale (Russia e Cina) o sotto il segno dell’impresa privata (tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino) e del 2012 (Londra). Ma in Germania non si sono ancora spente le polemiche per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo squadrone tedesco-orientale capace, con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi al secondo posto nel medagliere a Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione boicottata di Mosca 1980. I giochi coreani sono stati l’ultimo momento di una gloria truffaldina certificata dalle analisi antidoping che da Messico 1968 a Seul 1988 non hanno mai trovato positivo un solo atleta della Germania est, caso unico fra i paesi del socialismo reale. La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda imponeva agli sportivi della Ddr l’uso di sostanze dopanti a partire da un’età di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli araldi del compagno segretario Erich Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita dalla Schering. Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da altri. Fra coloro che hanno chiesto 7 agosto 2016 55 Olimpiadi VITA DA PANTERA NERA Max Schultz (in rosso). Sotto: Carlo Molfetta, oro a Londra. A destra: Tommie “Jet” Smith e John Carlos alzano il pugno a Mexico ’68, con loro Peter Norman un risarcimento all’ex Jenapharm ci sono la nuotatrice Rica Reinisch, la sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche agli esperti. L’elenco delle nuotatrici tedesche che sono state private a posteriori del titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto, Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro ori in un’Olimpiade e prima nuotatrice dell’est a ottenere le copertine del gossip occidentale grazie al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la polizia di Stato di Honecker. Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella sua carriera ha assunto un totale di 2,6 chilogrammi di Turinabol (1 chilo in più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha sposato un’altra sportiva del tempo, la nuotatrice Ute Krause. Sul fronte negazionista si trovano il pesista Ulf Timmermann, mentre il 56 7 agosto 2016 collega Udo Beyer ha confessato l’uso di steroidi. Non ha mai ammesso il doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400 piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che tuttora ha il miglior tempo di sempre sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È il record più longevo dell’atletica all’aperto. Negli 800 a Rio correrà un’altra atleta molto discussa, la sudafricana Caster Semenya. Altrettanto negazionista è stata la casa farmaceutica Schering che a lungo ha addossato agli ex atleti in maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel 2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo. È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993. Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo sui 200 metri a Città del Messico nel 1968. Di sicuro, i due statunitensi hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto che li ritrae durante la cerimonia di premiazione con la testa bassa e il pugno guantato di nero teso verso il cielo in sostegno alle lotte dei neri americani. Erano passati sei mesi dall’assassinio di Martin Luther King e quattro mesi dall’omicidio di Robert Kennedy. Come replica, il vincitore dell’oro dei pesi massimi nella boxe all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring avvolto dalla bandiera a stelle e strisce dicendo che la protesta di Smith e Carlos era roba da “universitari”, pur essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per le loro capacità atletiche. Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e accolti in patria come due pericolosi estremisti vicini al movimento delle Foto: pagine 54-55 N. Leifer - Sports Illustrated / Getty Images. Pagine 56-57 G. Tiedemann - Sports Illustrated / Getty Images, A. Thuillier - AFP / GettyImage, Ap / Ansa Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in guerra in Vietnam certi atteggiamenti non erano tollerati. Nel 1967 era finita in castigo la medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il futuro Mohammed Ali aveva rifiutato il servizio militare con la frase “I ain’t got no quarrel with those Vietcong” (“non ho motivi di lite con i Vietcong”). Era stato privato del titolo mondiale e condannato in primo grado a cinque anni, rimanendo fuori dal ring per tre anni e mezzo. Ai due sprinter andò peggio. Per un lungo periodo Carlos fece il facchino al porto della sua città, New York, e Smith lavò auto a casa sua, nel Texas della segregazione. “The Jet” Smith oggi ha 72 anni e ha allenato al Santa Monica College. Lo scorso maggio ha partecipato a una manifestazione al Mémorial Acte, il museo L’AUSTRALIANO PETER NORMAN FU SOLIDALE CON LA PROTESTA DI SMITH E CARLOS. NON VENNE MAI PIÙ CONVOCATO dedicato alla tratta degli schiavi alla Guadalupa. Carlos ha lavorato senza grande costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs. Il più dimenticato dei tre è il terzo della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In segno di solidarietà si presentò sul podio con uno stemma dell’Olympic project for Human rights ricevuto da un altro atleta Usa. Norman non fu mai più convocato in squadra, pur essendo il più veloce del suo paese, e rimase a lungo disoccupato. Alla morte di Norman nel 2006, Smith e Carlos presero l’aereo fino a Melbourne per portare il feretro. MISTERIOSO INCIDENTE IN KENYA Nel 2008 un atleta keniano ha stabilito il record olimpico della maratona correndo in 2 ore 6 minuti e 32 secondi, circa due minuti in più del mondiale di Hailé Gebreselassie, nonostante le condizioni ambientali rese proibitive dallo smog di Pechino. Solo i patiti di atletica leggera ricordano il suo nome. Samuel Wanjiru, keniano cresciuto in Giappone, aveva 21 anni ed era alla sua terza maratona. Un predestinato che da Pechino in poi ha continuato a vincere. Fino al 15 maggio 2011. Quella notte il fondista è stato trovato morto dopo un volo dal balcone della sua casa, una villetta a un piano nella sua città natale di Nyahururu. L’altezza dalla quale l’atleta è precipitato è di poco superiore al tettuccio del Suv di Wanjiru. Appena dopo la morte sono state riportate voci di una lite fra il campione, sua moglie e una donna che non avrebbe dovuto trovarsi nel letto coniugale della signora Wanjiru. Il corridore aveva avuto già problemi di ordine pubblico pochi mesi prima. La polizia keniana lo aveva denunciato perché aveva minacciato di morte la moglie e teneva a casa un Ak47, più noto come kalashnikov. L’atleta aveva ribattuto che era una montatura e aveva alluso a tentativi di estorsione nei suoi confronti da quando aveva iniziato a guadagnare i ricchi montepremi delle maratone di Londra e Chicago. Il processo è tuttora in corso. Finora i magistrati hanno escluso una delle tre ipotesi, il suicidio. Anche l’incidente è considerato improbabile. Ma nessuno finora è imputato di omicidio. Mentre a Rio si corre, in Kenya continuano le udienze. La tomba di Wanjiru è in stato di abbandono. 7 agosto 2016 57 Olimpiadi Kenya dove vivrà in un campo di rifugiati. Da lì raggiungerà la Germania e Vincere un oro olimpico è un momenriuscirà a mantenersi con il sostegno to di celebrità che può durare un mofinanziario della Puma, al tempo la mento o in eterno. Ma vincere una maggiore concorrente dell’Adidas. gara ai Giochi e subito dopo ricevere Akii-Bua tenterà il miracolo sportiuna villa in regalo oltre a un viale e uno vo ma sarà eliminato in semifinale a stadio intitolati a proprio nome semMosca 1980, i giochi boicottati dagli bra impossibile. A meno che il capo Stati Uniti per l’invasione sovietica dello Stato si chiami Idi Amin Dada, dell’Afganistan. Akii-Bua è morto in tiranno dell’Uganda dal 1971 al 1979 Uganda nel 1997 a 47 anni. passato alla storia per le sue stragi tribali e alla leggenda (forse) per i suoi gusti antropofagi. LA CADUTA DI POLLICINO Villa, viale e stadio sono toccati in Il lottatore di greco-romana faentino sorte a John Akii-Bua, primo vincitore Vincenzo Maenza era chiamato Polliolimpico per lo Stato centrafricano cino perché combatteva nella categoalle Olimpiadi Monaco del 1972 nella ria dei 48 chili. Memorabili le sue gara dei 400 ostacoli. diete per non superare il peso: saune La vittoria e il primo giro di pista con massacranti, digiuni, allenamenti in la bandiera nazionale al collo della vista di una gara che poteva essere storia delle Olimpiadi sono i fatti per i compromessa da un sorso d’acqua di quali Akii-Bua è ricordato. I problemi troppo. I risultati? Oro a Los Angeles iniziano poco dopo la vittoria ai giochi (1984), oro a Seul (1988), argento a africani l’anno successivo, il 1973. Barcellona (1992), più i titoli mondiaAmin si rende conto che il corridore è li e le medaglie europee. troppo popolare nel paese e rischia di Fino al 2008 Maenza, diventato fargli ombra. Applica all’atleta una allenatore, è stato una garanzia in serie crescente di restrizioni e finisce chiave olimpica. A Pechino, il suo per vietargli di gareggiare all’estero. allievo Andrea Minguzzi è primo. Il gruppo tribale di Akii-Bua, l’etnia IL DITTATORE UGANDESE AMIN Lango, subisce l’ira del dittatore. Gli DADA ERA GELOSO DELLA squadroni della morte di Amin uccidono POPOLARITÀ DI AKII-BUA. E FECE tre fratelli dell’atleta. Solo nel 1978 il tiranUCCIDERE TRE FRATELLI DELL’ATLETA no che si era proclamato re di Scozia sospenderà il divieto di uscire dal paese per Akii-Bua. Ma mentre l’atleta è all’estero, sua moglie e i suoi figli verranno tenuti in ostaggio a Kampala. Nel 1979, al momento dell’invasione delle truppe tanzaniane che farà cadere Amin, Akii-Bua scapperà con la sua famiglia nella parte occidentale del L’EROE E IL CANNIBALE 58 7 agosto 2016 IL BIDELLO D’ORO I pugili Leon Spinks e il fratello Michael hanno vinto prima l’oro olimpico e poi il titolo mondiale da professionisti, un risultato che poche famiglie dello sport possono vantare. Ma Leon, due anni dopo il trionfo a Montreal 1976, ha battuto per la corona dei massimi the Goat (the greatest of all times), l’acronimo usato da Muhammad Ali per definire se stesso con una notevole dose di esattezza. Per il maggiore dei fratelli Spinks, 63 anni, vincitore di borse per 5,5 milioni di dollari del tempo, tutti sperperati, il declino dopo la boxe è arrivato fino alla povertà estrema. Un po’ come è Foto: Schirner - Ullstein Bild via Getty Images, M. Dadswell - Getty Images, Ap / Ansa Nel gennaio 2013, la catastrofe. Maenza è inquisito per molestie ad atleti al tempo minorenni. La prova sarebbe in un video girato da una telecamera nascosta in una palestra di Faenza nel 2000, oltre dodici anni prima. L’eventuale reato sarà dichiarato prescritto a settembre dello stesso anno. Nel frattempo, Maenza viene escluso dal suo incarico di allenatore federale. Oggi Maenza gira per l’Italia facendo stage nelle palestre che lo invitano. A Rio ci sarà un altro suo allievo, Daigoro Timoncini, già in gara a Pechino e a Londra. Il maratoneta keniano Samuel Wanjiru. Sotto: Vincenzo Maenza. A sinistra: John Akii-Bua accaduto con i calciatori George Best o Paul Gascoigne, le cronache si occupano di lui solo in occasione di interventi chirurgici e di resoconti su una salute e una condizione economica sempre più precarie. Il campione del Missouri oggi vive in Nebraska dove si guadagna da vivere facendo il bidello in un Ymca di Columbus. SCHULTZ “L’ACCHIAPPAVOLPI” Il cinema si è occupato spesso di sportivi realmente esistiti e dimenticati o malati o in lotta con una popolarità Una scelta fuori tempo Con i muscoli ben torniti e la sete di medaglie gli atleti convincono noi tutti che è lo sport il protagonista delle Olimpiadi. Ma in quella grande arena competitiva che è diventato il nostro Globo il fine ultimo dei mega eventi sportivi è la glorificazione della nazione che li ospita. Con diversi gradi di consapevolezza, quelle gambe, quelle braccia e quei visi tesi sono invariabilmente al evanescente. Per restare in ambito olimpico ci sono l’inglese “Momenti di Gloria”(Giochi del 1924),“Unbroken” prodotto da Angelina Jolie (Giochi del 1936) sul mezzofondista italo-americano Louis Zamperini o ancora “Atletu”, dedicato ad Abebe Bikila, il maratoneta scalzo vincitore a Roma 1960. Il più recente, e forse il più esemplare, è “Foxcatcher” che ha ottenuto cinque nomination agli Oscar del 2015. È la storia dello statunitense Max Schultz, oro della lotta a Los Angeles 1984, e del fratello Dave, anch’egli lottatore ucciso nel 1996 dal miliardario John du Pont, erede della dinastia farmaceutica du Pont de Nemours. Il film di Bennett Miller ha dato a Max Schultz, 55 anni oggi, una popolarità che lo sportivo non aveva conosciuto né ai tempi dei Giochi né dopo l’uccisione del fratello. E Max Schultz, naturalmente, ha detto che il Max Schultz del film non gli assomiglia per niente, che lui non è uno sfigato, non è mai stato timido, men che meno cripto-gay e, se incontra il regista, lo gonfia. Dimenticare, a volte, è giusto. n di Federica Bianchi servizio della politica e dei suoi obiettivi nazionali e internazionali; i Paesi ospitanti al centro della geopolitica mondiale. Peccato però che, per inevitabili motivi tecnici, la celebrazione di un Paese coincida raramente con il momento in cui ne sono evidenti le ragioni. Quando nel 2009 Rio de Janeiro si aggiudicò le Olimpiadi all’indomani di quelle di Pechino il voto fu quasi plebiscitario: il primo Paese del Sudamerica, e il più degno, ad ospitare i sommi Giochi. Chi sette anni fa non avrebbe riconosciuto lo sgambetto che l’allora presidente Lula aveva fatto alla Storia, rovesciando decenni di povertà e oligarchia ed elevando il Brasile al rango di potenza mondiale? Erano i tempi dell’apoteosi dei Brics, il famoso acronimo inventato nel 2001 dall’economista Jim O’Neil per designare i nuovi colossi dell’economia mondiale del XXI secolo: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. E infatti i grandi eventi sportivi dalla tempistica decisa all’inizio degli anni Duemila si sarebbero tenuti in quattro di quei Paesi: Olimpiadi in Cina (2008), Mondiali di calcio in Sudafrica (2010) Olimpiadi invernali in Russia (2014), addirittura Mondiali e Olimpiadi in 7 agosto 2016 59 Olimpiadi Giochi d’azzardo Recessione, crisi istituzionale e i costi dell’evento raddoppiati da 10 a 20 miliardi di dollari. Ecco perché il Brasile rischia di trovarsi ancora più povero dopo Rio 2016 di Vittorio Malagutti S E È VERO, COME DICONO i critici del gigantismo a cinque cerchi, che organizzare un’Olimpiade è la scommessa più rischiosa possibile per una moderna metropoli, allora Rio de Janeiro corre da anni sull’orlo di un azzardo senza precedenti. Non era mai successo che i Giochi si svolgessero in un Paese in preda a una grave recessione economica, la più pesante dell’ultimo secolo, con il Pil in caduta del 3,8 per cento nel 2015 e quest’anno, salvo sorprese, di un altro 3,5 per cento. Brasile (2014-2016) e Mondiali di calcio in Russia (2018). A guardare oggi gli strati di immondizia che ricoprono le acque della baia di Guanabara dove gareggeranno le barche a vela e, ancora di più, lo stato di un’economia in discesa libera e di un governo la cui presidente è vittima di quello che è stato definito un golpe bianco, è difficile immaginare l’attualità della glorificazione del Brasile. Eppure, allora, sembrava inevitabile. 60 7 agosto 2016 Gli ottimisti sostengono che la situazione del Brasile sarebbe stata ancora peggiore senza il traino delle grandi opere (autostrade, ferrovie, metropolitana, impianti sportivi, quartieri per case e uffici) messe in cantiere (e in parte ancora da completare) per la kermesse sportiva. Può darsi, ma intanto gli amministratori pubblici, costretti a raschiare il fondo del barile per chiudere i lavori in tempo per la cerimonia d’apertura, hanno dovuto tagliare su altre voci di bilancio. E così, nelle settimane scorse, alcune categorie di dipendenti statali, dai poliziotti agli Ma giusto il tempo di costruire piscine e stadi che il mondo è cambiato, a dispetto di ogni previsione. In soli sette anni la Grande Crisi e la guerriglia continua dell’Is hanno mutato le posizioni e costretto a cambiare le scommesse sul Risiko internazionale. Così il Comitato olimpico rimpiange oggi le vecchie scelte, mormora di volere escludere Roma dai candidati del 2024 perché “inaffidabile” e la Francia, Giovanna d’Arco di questi giorni di terrorismo ospedalieri, si sono visti recapitare con grave ritardo gli stipendi. Tutto questo nel pieno di una crisi istituzionale, con la presidente Dilma Roussef sotto inchiesta penale e sospesa dall’incarico. Le cronache recenti si sono già occupate di ritardi e contrattempi nell’organizzazione olimpica, ma una volta passate alla storia, si spera senza gravi problemi, le tre settimane di gare, Rio e il Brasile dovranno affrontare la questione più importante di tutte. E cioè come gestire un’eredità fatta di debiti miliardari e di impianti, sportivi e non, che dopo la chiusura del grande islamico, reclama a se il Grande Evento, con il senno di oggi programmando gli eventi di un lontano domani dalle dinamiche sfuggenti. Intanto, immersi nell’oggi, ci accorgiamo che i luoghi dei prossimi eventi sportivi riflettono nuovamente la geopolitica di ieri. Già vecchia. I Mondiali di calcio del 2018 si terranno in Russia, luogo scelto nel 2010, quando fu ratificato uno storico accordo sulle armi nucleari tra Usa e Russia che avrebbe dovuto spianare la strada a una nuova era distensiva. I Mondiali del 2020 si terranno in Qatar, protagonista della cacciata di Gheddafi in Libia, simbolo dell’ascesa della regione del Golfo ma anche finanziatore di tanti islamisti. Infine, le Olimpiadi del 2024 saranno a Tokyo. Che avrebbe dovuto essere la protagonista di una politica Usa più attiva in Oriente. Non lo è stata. Chissà se, per una volta, lo sarà giusto in tempo a celebrare la Grande Festa. Foto: Y. Chiba - AFP / Getty Images, Visual China Group - GettyImages evento rischiano di restare inutilizzati. Nel Paese sudamericano sono ancora alle prese con lo scandalo degli stadi fantasma, strutture faraoniche inaugurate per i mondiali di calcio del 2014 e da allora abbandonate a se stesse. Per esempio a Nadal o nella capitale Brasilia, dove le squadre locali contano su poche migliaia di spettatori a partita. Due anni fa, il conto finale per la festa del pallone fu di 11 miliardi di euro a carico delle casse pubbliche brasiliane e almeno 2 miliardi servirono a costruire da zero quattro modernissimi impianti per il “futebol” ora fatiscenti. Il budget di spesa per le Olimpiadi si è gonfiato di anno in anno finendo per superare, e di gran lunga, i costi del mondiale calcistico. Si parte da un preventivo di 11,6 miliardi dollari, pari a quasi 10,5 miliardi di euro, e si arriva ai 20 miliardi di dollari (18 miliardi di euro) segnalati in questi giorni da molti analisti. Dati alla mano, un fatto è certo: i Giochi di Rio non saranno comunque i più costosi della storia. Due anni fa a Sochi, il governo di Vladimir Putin bruciò qualcosa come 50 miliardi di dollari per finanziare le Olimpiadi invernali. Una montagna di soldi pubblici che secondo le accuse dei partiti di opposizione e di molte Ong internazionali andarono a gonfiare i bilanci delle imprese controllate dagli oligarchi amici del Cremlino. Anche in Cina nel 2008, per i Giochi che consacrarono la trasformazione capitalistica del Paese ex comunista, il regime di Pechino non badò a spese. Il bilancio finale superò i 40 miliardi di dollari. Rio invece viaggia appaiata con Londra. Anche le Olimpiadi organizzate nel 2012 nella capitale britannica costarono circa 20 miliardi di dollari. Ben diverse però sono le economie dei due Paesi. Nonostante i progressi dell’ultimo decennio, il reddito procapite brasiliano è ancora la metà di quello del Regno Unito. Senza contare l’enorme divario tra i due Paesi in termini di servizi pubblici essenziali: dalla sanità ai trasporti. Nel 2009 quando Rio vinse la corsa ai Giochi battendo rivali come Madrid, Tokyo e Chicago, il Brasile era convinto di aver conquistato il biglietto d’ingresso nel club dei grandi del mondo. A sette anni di distanza, con una recessione nel mezzo, il presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale), il tedesco Thomas Bach, è costretto a difendere una scelta che, col senno di poi, ora sembra difficile da giustificare. Questione di spiccioli, a volte. In questi giorni, il Cio ha dovuto finanziare il comitato organizzatore, in difficoltà per saldare le fatture di alcuni fornitori Il presidente per un valore di alcudel Cio ne migliaia di euro. Thomas In sostanza, i soldi Bach. In alto: sono già finiti. E il fuil cantiere turo prossimo, per i del centro cittadini brasiliani, è olimpico lastricato di debiti. Bmx a Rio Quelli che serviranno a pagare il conto della bolletta a cinque cerchi. I Giochi di Rio, presentati come il trampolino di lancio verso un futuro più stabile e prospero, rischiano invece di portare altra legna al gran falò della crisi. Secondo un report della banca d’affari Euler Hermes, del gruppo tedesco Allianz, tra il 2015 e il 2017 il debito pubblico brasiliano passerà dal 74 al 98 per cento del Pil. Colpa dell’Olimpiade? Solo in minima parte, rispondono gli analisti. Lo Stato di Rio, però, che ha sopportato una quota importante della spesa per i Giochi, si è già dichiarato in “emergenza finanziaria” e le casse federali hanno dovuto intervenire con un prestito urgente di 2,9 miliardi di real, circa 800 milioni di euro, per gli impegni più urgenti. Anche sul fronte del lavoro i benefici del grande evento sportivo saranno modesti. Si stima che verranno creati 120 mila nuovi posti, per l’80 per cento destinati a scomparire una volta chiusi i Giochi. Intanto, però, il tasso di disoccupazione continuerà a crescere per effetto della crisi economica. Secondo il report di Euler nel 2017 la percentuale dei senza lavoro arriverà a sfiorare il 13 per cento, mentre nel 2015 non superava l’8 per cento. Nel libro dei sogni infranti un capitolo importante potrebbe infine riguardare anche il turismo. Nelle speranze degli organizzatori, la ribalta mediatica mondiale garantita dalle Olimpiadi avrebbe dovuto moltiplicare il numero dei visitatori a Rio negli anni a venire. Al momento però le immagini di inefficienza che hanno preceduto la cerimonia di apertura non sembrano un gran biglietto da visita. E molti si chiedono se una frequentatissima meta turistica come Rio avesse proprio bisogno del traino olimpico per farsi conoscere. I precedenti, peraltro, non sono incoraggianti. Negli ultimi trent’anni, tra le città sedi dei Giochi, solo Barcellona e Sydney hanno visto aumentare in modo consistente i flussi turistici dopo le Olimpiadi. Per le altre, a cominciare da Pechino e Londra, è cambiato poco o nulla. n 7 agosto 2016 61 Riccardo Bocca Gli Antennati www.gliantennati.it Doveva essere l’ora del cambiamento. Invece, come in una fiction di mostri, tornano gli zombie. Con retribuzioni record. Per palinsesti scontati Rai Rischiatutto Mass Media ALTO Cultura. Amore. Maestria. Conoscenza del profondo e dello sprofondo umano. Da qui ogni volta partono Francesco Conversano e Nene Grignaffini per i loro filmdocumentari. Tutto il mondo da anni li premia e applaude. Da noi, il 3 agosto, hanno trovato spazio su Raitre nel buio delle 23.40 con la storia della scrittrice moldava Lilia Bicec. Evviva. GLI ESSERI UMANI sono ridotti a quel- lo che mai avrebbero pensato di diventare, cioè una micro collettività che in un anfratto di provincia americana lotta per non estinguersi. Il quadro storico-fantascientifico è quello del 4032, e l’evento cardine è la mutazione genetica che ha creato la genìa degli Abbie: mostri devastatori del pianeta intero, ora all’assalto della cittadina-fortezza di “Wayward Pines” (da cui il titolo della serie in onda in questi giorni su Fox con la prima stagione, e dal 29 agosto ogni lunedì alle 21 con la seconda). DOPODICHÉ IL DISCORSO frena per assumere doppia forma e sostanza, visto il parallelismo tra quanto accade nel video-dramma scritto da M. Night Shyamalan e le vicende horror che quest’estate ingombrano i corridoi di viale Mazzini. In Rai, di fatto, la situazione è emergenziale almeno quanto nell’urbe immaginaria dell’Idaho dove i resti della nostra civiltà oppongono resistenza ad antagonisti feroci. Soltanto che qui, nella sede romana della tv di Stato, all’ombra del celebre cavallo ormai esausto, si assiste a un day after senza che ci sia stato il day before. Foto: P. Tre - A3, A. Casasoli - A3 DOVEVA ESSERE LA STAGIONE del cambiamento, questa, l’apoteosi della meritocrazia e della conversione alle ragioni del Mondo Nuovo (devoto alla multimedialità e al ripensamento del verbo generalista nel rispetto di un pubblico sempre più anziano), ma a fronte di un passato logoro sta arrivando un ulteriore passato: quello riassunto, ad esempio, da Fabio Fazio e il suo “Rischiatutto” zomIl direttore generale bie. O dalla ripropodella Rai Antonio sta del duo CuccariCampo Dall’Orto ni-Parisi come sintesi di un presente in letargo. O ancora, dal ricollocamento dell’ottantenne Pippo Baudo a “Domenica in” in sostituzione del semi coetaneo Maurizio Costanzo (l’anno scorso a capo della direzione artistica). COME GIUSTIFICARE il peso delle retri- buzioni apicali con le modeste ambizioni dei prossimi palinsesti? Evitando la noia del dibattito socio-culturale, si può passare direttamente alla constatazione che il modello “Wayward-RaiPines” lancia un allarme rosso: ovvero la fatica di costruire un’identità catodica che non sia frutto di schegge e schemi di ieri. Deriva non casuale. Se nell’accerchiata cittadina su Fox a comandare è la Prima Generazione, costituita da un gruppo di giovani oligarchi, in Rai governa una bella squadra di amici: che se da un lato - ed era ora- non ha la macchia della lottizzazione, dall’altro rischia di finire imbrigliata dalla sua matrice iper omogenea. BASSO Maratona Mentana. È il video-format con cui il direttore e anima del telegiornale de La7 affronta le emergenze della grande cronaca. Dalle elezioni all’inferno internazionale Is, un crescendo di informazioni, collegamenti, approfondimenti ed esondazioni (e)gotiche del carismatico Enrico. La conferma di quanto per tutti sia insidiosa la bulimia. DIFFICILE, A QUESTO PUNTO prevedere quale sarà il finale: sia della fiction che della Rai. Riusciranno gli uomini di “Wayward Pines” a sconfiggere i mostri sanguinari? E riuscirà Viale Mazzini a debellare una volta per tutte la mediocrità, stroncando il ciclo dei ricicli e dei format cari e sciapi? Molto dipenderà dalla capacità di visione del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto. Che, sarà certo un caso, ha lo sguardo più sfuggente d’Italia. 7 agosto 2016 63 Reportage Gallup, New Mexico, città di 20 mila abitanti fondata nel 1881. I suoi eventi principali sono il rodeo e il festival degli indiani Navajo Che fine ha fatto il sogno dell’America Qui, negli Stati Uniti profondi, è dove tutto ha avuto inizio. E dove poi qualcosa si è inceppato. Fino a evaporare trasformandosi in rancore. E a generare un fenomeno chiamato Donald Trump di Aldo Nove foto di Daria Addabbo Reportage UANTO È GRANDE IL CIELO in Ameri- ca. Cielo e terra si promettono a vicenda. La magia e l’imprevedibilità dello zodiaco, della volta celeste, sembrano riflettersi nella vastità di una terra che si concede come una promessa. C’è tanta fatalità, in America. Tutto può accadere. E per chiudere, rievocando i personaggi di “Furore” di Steinbeck, c’è la speranza di un’inesauribile rinascita, quasi fosse un mondo in cui trovare tutto. Basta cercarlo. Strade che congiungono punti di fortuna dispersi in desolati paesaggi d’attesa. Basta percorrerle. Il futuro è là, da qualche parte. Vi ci porta(va), dal 1926, la Route 66, una sorta di via della prosperità (o della sua speranza) che collegava Chicago alla spiaggia di Santa Monica e attraversando quindi Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, California. Per una lunghezza che supera quella che congiunge Trento a Palermo, e ritorno. Oggi esiste ancora, la Route 66, ma si chiama Historic Route 66: pesa, su di essa, la storia di drammatiche migrazioni interne, infelici eredi delle libertà di chi l’America l’aveva “scoperta” e conquistata. Storie di povertà e orgoglio di riscatto. Su tutte, quella magistralmente narrata da Steinbeck. La storia di “Furore” (narrata da Steinbeck e poi portata sugli schermi da John Ford, che 66 7 agosto 2016 vinse proprio grazie a quella pellicola, aiutato da uno splendido Henry Fonda nel ruolo di Tom Joad) è celeberrima. Quanto, nell’essenza, attuale. La famiglia Joad, perfetta espressione di quell’American dream dove a chiunque abbia la volontà di rimboccarsi le maniche è data la possibilità di trovare il proprio spazio vitale, trascorre la propria esistenza nella classica fattoria americana, in Oklahoma, fino a che non intervengono con violenza i prodromi apocalittici di qualcosa che si manifesterà anche in tempi recenti, prima in America e poi nel mondo intero: le banche: «Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo», dice Tom. Saranno infatti le banche, dopo aver prestato i soldi a centinaia di famiglie come quelle di Tom, a non rinnovare i crediti ai contadini, espropriando loro i terreni e spianando con i trattori le loro abitazioni. E Nel motel delle carote Dall’alto in senso orario: il treno che attraversa il deserto tra l’Arizona e la California; la Route 66 all’ingresso di Albuquerque, principale città del New Mexico; un motel a Bakersfield, centro della California dove alla fine dell’800 fu scoperto anche il petrolio. Oggi l’economia è basata sulla coltivazione delle carote per conto della Campbell 7 agosto 2016 67 Reportage Il bowling verso il Canyon Il parcheggio del bowling a Flagstaff, Arizona, 67 mila abitanti: nata alla fine del XIX secolo, oggi produce soprattutto legname e le sue campagne sono disseminate di ranch. Una parte della popolazione vive sul turismo dei visitatori in viaggio verso il Grand Canyon. Tra le sue glorie ha il telescopio che vi fu costruito nel 1896 Reportage 70 7 agosto 2016 UN’UMANITÀ CHE DIFENDE CON OGNI MEZZO LA PROPRIA FRAZIONE SEMPRE PIÙ RISICATA DI LIBERTÀ, RINCHIUSA DENTRO LE GEOMETRIE DI STERMINATE PERIFERIE così, improvvisata carovana di varia umanità, la famiglia di Tom inizia la propria odissea verso la California, ripartendo da zero. Odissea dei penultimi aggrappati alle parole attribuite alla Statua della libertà, pronta ad accogliere tutti per poi lasciarli al proprio destino, che è sottomesso più che alle effettive capacità di emergere dei più meritevoli (è tutto qui, in fondo, il “sogno americano”) a un sistema economico brutale. Cieli immensi e spazi sterminati come infinite periferie di centri di aggregazione spesso scosse da telluriche variazioni finanziarie, più potenti delle carestie o degli uragani che si scatenano su una terra in buona parte ancora selvaggia quanto spaventata dalle bizzarrie del tempo e della finanza. Paesini che spuntato come miraggi nelle piatte desolazioni desertiche che hanno accompagnato la cinematografia americana, dallo stesso John Ford all’allucinatorio David Lynch passando per le denunce esplicite di Michael Moore. Tutta un’umanità che certo non filtra nell’America che siamo soliti vedere mediata dalla macchina d’immaginario hollywoodiana. Un’umanità che difende con qualsiasi mezzo la propria frazione sempre più risicata di libertà. Libertà che diventa autosegregazione. Resta mitica la storia del pacioso contadino americano che si corica ogni notte con il suo fucile tra le braccia. Sulle tracce di Tom Joad, oggi, troviamo realtà residuali e pulsanti, in credito nei confronti di una vita che si dimostra altro da quello che si sperava fosse. Pare che tutto ritorni, dal disastro finanziario che portò all’epopea di Tom alla crisi dei mutui facili e avvelenati dai subprime, con conseguente aumento della povertà questa volta non solo in America ma, in un mondo globalizzato, in ogni estrema propaggine di un sogno americano diventato incubo (le disavventure militari in Medio Oriente, l’irresponsabile partecipazione all’incomprensibile guerra in Libia e il ritorno del fantasma della guerra fredda). Ma lì, dove il sogno ha avuto origine e dove si è come inceppato nel tempo, restano emblematiche le immagini di un paradosso esplicito. Sogni piccoli per grandi paesaggi. Grandi paesaggi per sogni piccoli. E ancora, gli ultimi La ricchezza era una ferrovia In alto: un ristorante messicano ad Amarillo, Texas, che si era sviluppata grazie alla linea ferroviaria tra Fort Worth e Denver; oggi ai discendenti degli abitanti originari si mescolano immigrati vietnamiti e birmani che lavorano nell’industria della carne. In basso: due bambini giocano nel giardino della loro casa alla periferia di Albuquerque, New Mexico sussulti di un mostro merceologico di cui rimangono quasi solo le insegne, quelle di una guerra perduta, e una forse per noi inimmaginabile legione di arrabbiati che spera di riscattarsi attraverso la velenosa furia razzista di Donald Trump. C’è un tempo dell’attesa che ha superato ogni dimensione di senso. Una raggelata provvisorietà che osserva dalle tapparelle, in penombra, il sogno di una metropoli novecentesca che evapora quasi nelle fantasie di infanzie deluse e pronte a farsi maturità infantili e aggressive, con i sacchetti della spesa pieni di sfolgoranti buste di cibo spazzatura da consumare in garage che sono tinelli, tra supereroi e Madonne, cascami di un meticciato culturale che trovi i propri templi avventizi attorno ai tavoli di “ristoranti” semideserti che hanno fatto e fanno l’iconografia di una certa America (quella che va dalla storica Twin Peaks, diciamo - dove ancora permane, per quanto sotterraneamente, mostruosamente corrotta, un’apparenza di “normalità” - al recente successo delle estreme “Breakin Bad” o “True Detective”). Sono le serie televisive a mostrarci oggi un’America che, sospesa tra il reale e la surrealtà di un quotidiano che pure si perpetua. Un’America che non a caso si mette in scena popolata da zombie. Né vivi né morti. In attesa, appunto. È forse ardito ma non improbabile accostare l’odissea di Tom Joad a quella della serie di grande successo “The walking Dead”. Territori sconosciuti da attraversare dopo avere perso tutto, verso il sogno di una città ancora integra, ancora come prima. Quel prima mitico eppure reale che in Steinbeck, nel 1938, si allontanava da presente per finire in mano alle banche, che con quel prima si divoravano anche il futuro. Rimane il presente, con tutte le sue incognite, sempre più ristretto, messo all’angolo. All’angolo di spazi infiniti. Diceva Ezra Pound che un classico è «il nuovo che resta nuovo». “Furore” è un classico perché queste immagini ci rappresentano quanto nell’essenza la realtà non sia mutata se non nei colori, nelle insegne, in dettagli che soli stanno a indicarci il cambiamento. I poveri, gli emarginati, gli spaventati, sono sempre lì, ai margini di quella “Terra promessa” un tempo sogno del mondo intero, o quasi (vi ricordate un giovanissimo Eros Ramazzotti che ancora negli anni Ottanta cantava «Siamo ragazzi di oggi / pensiamo sempre all’America»?) che non sa più pensarsi. Eppure una ragazzina la guarda, lì, da lontano, in un improbabile, pesante, opprimente presente. La guarda come si guarderebbe una televisione. Una visione da lontano, quindi. Anche per chi ci abita dentro. Ma sempre separata da quel minimo scorcio che proibisce a milioni di americani di esserlo davvero. Tra gli Americani e l’Americano ci stanno una strada, per molti impercorribile e, per tutti, un muro. Detta in sintesi, Wall Street. n 7 agosto 2016 71 Culture Colonne sonore Ho vent’anni e queste sono Niente impegno politico o atmosfere raffinate come i loro padri (o nonni). I giovani cantautori oggi preferiscono raccontare il disagio di una generazione. Con disincanto, rabbia, ma anche ironia di Giorgio Biferali e Paolo Di Paolo illustrazione di Claudio Sale per l’Espresso L A FINE DEI VENT’ANNI è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male, e trovare parcheggio», confessa Motta, cantautore toscano, classe 1986, nel suo album d’esordio (“La fine dei vent’anni”, appunto). Ci si sente stanchi al risveglio, la faccia che avevamo il giorno prima è scomparsa, non si trova più, e l’identità è un abito sgualcito poggiato sulla sedia. La giovinezza, più che a un ritiro spirituale in un hotel in Svizzera, somiglia a un campo minato, quel campo minato di cui parlava Ray Bradbury, pronto ad esplodere, a ricordarci della fine di un’età che non smette mai di finire. La fine dei vent’anni e l’inizio dei trenta, quindi, che fare? Potremmo fuggire, cambiare città, «ma abbiamo sempre qualcuno da salvare», a cominciare da noi stessi. Meglio rimanere qui, allora, con quelle poche abitudini che ci siamo inventati negli anni, che ci fanno rimanere in piedi, anche se ogni giorno bisogna ricominciare tutto da capo. Perché quel campo minato che troviamo al risveglio, in fondo, siamo noi. Assaliti dalla «paura di invecchiare, di perdere i capelli, di dovere stare bene», che possa arrivare quel giorno in cui non potremo più chiederci cosa faremo da grandi. Essere fragili, canta Motta rievocando De André, «è una colpa, è una ferita aperta, e non serve a far capire che si può fare male». Anche Niccolò Contessa, romano, coetaneo di Motta e leader de “I Cani”, percepisce il disagio e le ansie del presente, questo profondo senso di inadeguatezza, tanto da arrivare a cantare cose come: «Se Niccolò avesse l’Asperger, nessuno mai si aspetterebbe niente da lui, almeno in termini emotivi e di capacità affettive». Al mondo reale, così cinico 72 7 agosto 2016 le mie canzoni 7 agosto 2016 73 Colonne sonore “A me quella gente proprio non va giù. Taranta, Celestini e Bmw” canta Calcutta contro i radical chic. E Thegiornalisti: “Come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?” 74 7 agosto 2016 zati, in una giovinezza piena di ricordi, dove il futuro sembra non trovare spazio. Anzi, meglio affidarsi alla nostalgia e trovare un rifugio in un ritorno ideale all’infanzia, a tutto quello che è accaduto prima di affacciarsi sul mondo dei grandi. «Ho quindici anni e con le mani in tasca sto tornando a casa anch’io, e in faccia ho freddo, mentre sotto la mia giacca sudo, e ho un groppo in gola ma non so perché, adesso non ricordo più perché», cantano I Cani, «l’unica vera nostalgia che ho». «E io ripenso ai giorni del liceo, quando studiavo Kant», grida Maria Antonietta, «a quanto mi sentivo sola, a quanto lo sono ancora». «Ma io vorrei restarti accanto se fossimo bambini», canta Calcutta, «guardare il cielo da fessure come i topi nei tombini». Ritrovarsi in quel periodo in cui gli occhi erano ancora puliti, incontaminati, pieni di luce. C’è bisogno d’amore, come cantava Zucchero, anche nell’età adulta, e forse l’unico modo per averlo è attirando l’attenzione, mostrandoci innocenti, disarmati e vulnerabili, come i bambini. Come se ci sentissimo tutti un po’ come Victor Mancini, il protagonista di “Soffocare” di Chuck Palahniuk, che per colpa della madre, che non ha fatto altro che abbandonarlo per poi riprenderselo, durante l’infanzia, nei locali pubblici finge di soffocare, di strozzarsi con il cibo per farsi salvare, per sentire che qualcuno, almeno per un momento, lo tocca, lo abbraccia forte e si preoccupa per lui. Sarà per questo che per Calcutta i padri vanno rinnegati, da quelli che ascoltano De Gregori («a me quel tipo di gente non va proprio giù») ai presunti radical chic («taranta, Celestini e Bmw»)? Perché, ormai, sono tutti contaminati? Si preferisce l’intimismo di Tenco all’impegno di De André, tanto che la politica, a tratti, si riduce a titoli di quotidiani sfogliati rapidamente: «Leggo il giornale, c’è Papa Francesco e il Frosinone in Serie A», «A questa America daremo un figlio, che morirà in Jihad». Sarebbe meglio evitare, però, discorsi retorici, prediche, paternalismi vari, e magari ricorrere a un luogo comune, a una domanda da bar che gli Ex-Otago, anche loro parte di questa scena indie-pop, si fanno in una delle loro ultime canzoni: «I giovani d’oggi valgono poco, gli anziani cosa ci hanno lasciato?». FIGHETTISMO DA FUGGIRE Su un piano economico e politico, il discorso sarebbe lungo. Su un piano musicale, anche quando fingono di averlo tagliato, il filo che tiene insieme i giovani cantautori del 2016 e quelli di quarant’anni fa c’è eccome. Il leader della band romana Thegiornalisti,Tommaso Paradiso, 33 anni, richiama esplicitamente il debito con Lucio Dalla: «A me Dalla è sempre sembrato un socratico che avesse dirottato gli uomini laici ad avere fede». L’attenzione alla scrittura - da poeta e da linguista - l’ha senz’altro ereditata, e così certe ondate di malinconia. «La mia malinconia - scrive Paradiso - è tutta colpa tua e di qualche film anni Ottanta». Si aggiunge anche parecchia ansia («Vorremmo fare di più ma il tempo è contro di noi») e un piglio da critica sociologica estraneo a Dalla e invece costante fra i trentenni di oggi, che facciano cinema in pillole (The Pills, The Jackal) o che scrivano canzoni. Vasco Brondi-Le Luci della Centrale Elettri- Foto: I. Magliocchetti Lombi - Contrasto, A. Serrano’ - Agf e spietato, preferisce quello dei film di Wes Anderson, «tutto tenerezza e finali agrodolci». Ma è meglio sognare la realtà, piuttosto che viverla? Ci conviene fidarci o chiuderci, ripiegandoci su noi stessi? Uscire, esporsi, rischiando anche di farsi male, o rassegnarsi? In un discorso ai neolaureati della Syracuse University di New York, lo scrittore George Saunders ha detto che la grande malattia dei nostri tempi è l’egoismo: «Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di voi stessi». E in effetti capita a tutti, oggi, di sentirsi isolati, lontani dagli altri, profondamente soli. Allora tanto vale mettersi in gioco, correre il rischio, presentarci per come siamo davvero, nelle nostre paure, in tutta la nostra vulnerabilità: «Avrei bisogno di parlare con qualcuno di gentile», «non chiedo niente di più, lo sai, di un respiro da ascoltare» (“Il posto più freddo”). «Quindi basta cercare, la notte, su Google, il mio nome», dice Contessa, «dentro di me non c’è niente di niente» (“Calabi-Yau”), uscire da noi stessi per trovare altrove i respiri, gli sguardi, i sorrisi, i gesti, le voci, e tutte quelle cose che appartengono alla vita, che i social network non potranno mai darci. Uscire nel mondo di fuori, dove ci sono gli altri, per accorgerci che potremo trovare sempre qualcosa di buono, ricordarci che «nonostante tutto c’è la nostra improbabile felicità, la nostra niente affatto fotogenica felicità» (“Lexotan”). Ma come diceva Nanni Moretti a Laura Morante, in “Bianca”, «la felicità una cosa seria… io mi devo difendere». Ma difendersi da cosa? Dall’amore, soprattutto, dal rischio di uscire veramente da noi stessi, di esporsi, di mettersi in gioco, di cadere e farsi del male. Nelle canzoni di Letizia Cesarini, pesarese classe 1987 (in arte Maria Antonietta), e di Giuseppe Peveri, nato a Fidenza nel 1976 in arte Dente, l’amore gioca con due «cuori deboli», li agita, li confonde, li illude e poi li abbandona. Si ritorna al punto di partenza, «chiusi dall’interno», dove le finestre che prima erano aperte sul mondo, improvvisamente, diventano specchi. Da una parte i ricordi, la malinconia, i giochi di parole, le serenate dolci e miagolate da eroe romantico di Dente, che soffre per il suo amore non corrisposto: «Ogni tanto ti penso spesso, mi manchi quando sei con me», «E mi fa male un po’ la testa, ogni volta che penso a te, sarà che non rimpicciolisci, anche se ti allontani da me», «Amica mia, Ah… mica mia» (“Coniugati passeggiare”). Dall’altra parte la stanchezza cosmica, universale di Maria Antonietta, per cui l’amore, così deludente, la porta a rimanere a casa, a non sentire più nulla: «Io stasera non esco, saldamelo tu il conto con il resto del mondo» (“Saliva”), «Mi è tutto indifferente, a me non me ne frega niente» (“Questa è la mia festa”). «Allora dimmi, che cosa mi manchi a fare?», si chiede Calcutta, all’anagrafe Edoardo D’Erme, nato a Latina nel 1989, «tanto mi mancheresti lo stesso, che cosa mi manchi a fare?». Un’altra voce che racconta quelli che Xavier Dolan, l’enfant prodige del cinema canadese, in un suo film ha definito «amori immaginari», che nascono e si consumano velocemente, pronti per essere rimpianti, idealiz- Dall’alto: Vasco Brondi - Le luci della centrale elettrica, Francesco De Gregori e Calcutta ca cita i maestri con consapevolezza: il «povera patria» di Franco Battiato diventa «poverissima patria». E se Ornella Vanoni cantava «Sapessi come è strano sentirsi innamorati a Milano», Brondi corregge Milano in Milano 2. Postmoderno come si deve: anziché “C’eravamo tanto amati” si accontenta di un più realistico “C’eravamo abbastanza amati”. E - tra distopia e disincanto - prefigura una gioventù che, prossima a finire, lascerà tracce eterne su YouTube. «E cosa racconteremo ai figli di questi cazzo di anni Zero?». In realtà, proprio come i loro padri e nonni, stanno raccontando questo tempo. Lo fotografano, lo irridono, dettagliano il paesaggio con riferimenti più precisi (dunque databili) di quanti ce ne fossero nelle canzoni d’esordio di Venditti e De Gregori. L’impegno politico si traduce in lampi di ironia acida: «Come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?» (Thegiornalisti), in autoironia che sfida i cliché: «I giovani di oggi si vestono di merda, il punto di riferimento è Mario Balotelli». Ma se temono qualcosa, è proprio di apparire programmaticamente impegnati: il peggio del peggio è finire per essere radical chic. E se certi padri barricadieri lo sono diventati, peggio per loro. «Per me - ha spiegato Calcutta - essere radical chic è quel mood sempiterno di essere un po’ impegnato nel sociale ma distratto dalla realtà forte delle cose. Nel mio disco c’è una forte presa in giro di quel sistema, quel circo, quella gimcana di sensi di colpa come “Se non andavi su YouPorn non scoppiavano i campi rom”». Dissacrazione a tutti i costi, sì, e se si rischia di passare per intellettuali, meglio buttarla in parodia. Curioso: al De Gregori del ’76 veniva rimproverato il presunto disimpegno, oggi la diffidenza nasce se sei troppo engagé. Nell’aprile del 1976 (qualche mese prima era uscito “Rimmel”, un gruppo di autonomi, durante un concerto, cominciò a protestare sotto il palco: «Dissero che mi ero ridotto a scrivere canzoni borghesi come “Buonanotte Fiorellino”. Ero diventato ai loro occhi un nemico del movimento operaio. Poi aggiunsero, e non so cosa c’entrasse, che dovevano liberare i compagni in galera e manifestare solidarietà ai proletari in divisa». I fan dei Cani, al contrario, troverebbero sospetti versi alla“Eskimo” di Guccini. Meglio affidarsi all’ironia e al suo rovescio - la vena romantico-nostalgica, che apparenta in fondo tutti i cantautori under 40 sulla scena. Scherzano, ma poi piangono. E se c’è chi li rimprovera di essere meno attrezzati musicalmente, di limitarsi ad arrangiamenti ovvi, Calcutta ha la risposta pronta: «Vedo tanti musicisti che cercano di fare dischi con un suono pazzesco, riprendendo gli anni Settanta, curando eccessivamente gli arrangiamenti, lo stile. A me, invece, fare un disco così sembra una roba da “fighetti”, io volevo essere sovietico, volevo degli arrangiamenti della mutua». Il timore del “fighettismo” attanaglia Calcutta e colleghi; De Gregori e coetanei temevano di apparire «maestrini saccenti e lugubri. Dotati di poca voce, poca intonazione e reclinati sul proprio dolore». L’aura hipster mette al riparo i primi, mentre i secondi - ormai venerati maestri - sembrano divertirsi più con i rapper o le icone pop che con i loro recalcitranti discepoli. Sparigliano, e rischiano così l’accusa delle accuse - quella di sembrare mainstream. Sarà per questo che, più svelto di tutti, Calcutta mette le mani avanti e intitola “Mainstream” il suo secondo album: «Mi andava di rompere le palle a un certo tipo di giornalisti che avevano sempre tifato per me. Quando li ho sentito che dicevano che “Mainstream” era una merda, io ero contento». n 7 agosto 2016 75