L_Espresso - 11 Agosto_Parte2

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L_Espresso - 11 Agosto_Parte2
gli attivi e fallire. Così
aveva sottratto patrimoni a imprenditori di Ravenna, Pisa, Padova, Brescia, Sassari e Bologna
per milioni di euro. Uno
dei membri dell’associazione imputati (gli era
stato chiesto di reclutare
persone cui attribuire cariche da prestanome) era
Salvatore Onda, figlio di
Arturo Onda, fratello di
Umberto, pluriomicida,
considerato fino al suo
arresto reggente del clan
camorristico Gionta.
Giuseppe Catapano girava volentieri in auto blu,
presenziava ai convegni
del Forum nazionale Anti
Usura e promuoveva la
sua Fondazione Ope impresa Onlus. Ora sale su
altri palchi, con altre associazioni, dichiara guerra alle banche e a Equitalia. Il 22 luglio, al suo fianco, indossava la toga dell’Accademia di studi Francesco Petrino, che si presenta come
professore, siede nel consiglio direttivo dell’Istituto Etico
per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti e ha fondato un sindacato specializzato nel problema: Snarp, Sindacato nazionale anti-usura mobilitazione protestati.
È VERO ANTIRACKET?
«Viviamo in un mondo di pecore, imprenditori che mi
chiedono aiuto ma poi si tirano indietro». Maria Lorena
PERSINO ALLA CAMERA
DEI DEPUTATI
SI PRESENTA COME
RELATORE UN
PREGIUDICATO PER
TRUFFA E BANCAROTTA
Banca, ti denuncio
Crescita in un anno
dei contratti bancari
(mediazioni obbligatorie)
46.500
45.000
46.094
44.992
43.500
42.000
2014
2015
Fonte: Direzione generale
statistica/ministero della Giustizia
2016 e Banca d’Italia
Sacchi era combattiva, il 21 maggio 2015, a un incontro
organizzato da Assimpredil, l’ente istituzionale delle imprese edili lombarde, uffici a 300 metri da piazza Affari.
Parlava dal palco in qualità di presidente della Associazione Nazionale Antiracket Antiusura Lotta contro tutte le
mafie Onlus. «Io purtroppo l’ho provato sulla mia stessa
pelle», diceva, per mettere in guardia da «professionisti che
non sono all’altezza». Quattro mesi prima il Consiglio di
Stato aveva respinto un ricorso presentato da lei per fermare le procedure esecutive avviate su un imprenditore. Il
ministero dell’Interno, mostra la sentenza, rilevava che la
sua associazione non aveva la «legittimazione a ricorrere»,
«non essendo iscritta nell’elenco provinciale delle associazioni e delle fondazioni antiracket e antiusura». Cosa ben
diversa sono le fondazioni antiusura, riconosciute e iscritte in un apposito elenco del Viminale, che svolgono in favore di soggetti in difficoltà economiche un’importante
opera di solidarietà, di aiuto nel promuovere le denunce,
di assistenza e di prestazione di garanzie presso le banche,
per un più facile accesso al credito.
Titolare oggi di due società - la Salute tutela risarcimento e il Centro tutela famiglia e impresa dal sovrainde7 agosto 2016
41
Inchiesta
bitamento - Maria Lorena Sacchi nel 2007 era stata
condannata in primo grado a Brescia a un anno e sei
mesi di reclusione per esercizio abusivo della professione
e truffa. Il processo era partito dalla Dental Group, fallita nel 2009: dove oltre che titolare, lei avrebbe lavorato
da igienista dentale senza averne la specializzazione e
soprattutto avrebbe convinto almeno una paziente a far
causa ai dentisti precedenti, per ottenere un indennizzo e
sostenere nuove operazioni. Il reato è stato cancellato per
prescrizione, ma dal lato civile l’associazione nazionale
dei dentisti aspetta ancora una sentenza per il rimborso
del danno.
IENE E CAVALIERI
data nel 2014, ha un punto di
forza: è partner ufficiale di Dirittialdiritto un’associazione il
cui presidente onorario è Luigi
Pelazza, l’inviato della trasmissione tv delle Iene. Per l’ente,
Pelazza è il volto ufficiale, presente in tutte le comunicazioni.
Due anni fa, in una serie di servizi per Mediaset, Pelazza aveva trattato il tema dell’usura
bancaria, riscuotendo successo, per il coraggio delle denunce, e l’importanza del tema. In
video, interveniva più volte
Gabriele Magno, un avvocato
Francesco Petrino,
proprio di Dirittialdiritto. L’afondatore del
zienda partner che offre poi i
sindacato anti-usura.
necessari Specialisti nell’AnaliA destra: un caveau
si e Recupero del tuo Credito
bancario, la Sarc srl, è stata
amministrata fino ad aprile da
Federica Monica Arlandi. Che è a sua volta socia, al 60
per cento, di una srl di cui Pelazza ha il resto delle quote:
la Nea Entertainment.
DOPPIAMENTE GABBATO
In Rete sono centinaia i siti web che si definiscono “centri”, “movimenti”, “onlus” e offrono consulenze per ottenere i rimborsi dagli istituti di credito. A Roma e Milano piccoli e grandi studi legali si stanno buttando nel
campo «perché in fondo si raccoglie parecchio, come
vittorie e risarcimenti, nelle cause alle banche», spiega
Roberto Marcelli, titolare di un noto studio di commercialisti di Roma e presidente dell’Associazione nazionale
dei consulenti per i tribunali: «Quantomeno vendono
Dalla provincia di Brescia, a Erbusco, è partita anche la
cavalcata di Jd Group, che si presenta come la «prima e
più importante azienda italiana per la verifica dei rapporti bancari». Fatturato da quasi due milioni di euro, oltre
a uno studio legale in proprio, la Jd Group vanta l’apertura in franchising di sportelli a Padova (aprile 2016),
Modena, Campobasso, Monza,
Cremona, Verona. Il vento favorevole sembra avere origine
nell’ordine. Un Ordine, in partiLei concilia? No grazie
colare: la Confederazione dei cavalieri crociati. Il rappresentante
Esiti delle mediazioni obbligatorie nei contratti bancari (in percentuale)
della società, Daniele Scandella,
si presenta infatti sul sito anche
Accordo raggiunto
7
come Cavaliere templare e Gran
Priore d’Italia, nonché Cavaliere
Accordo non raggiunto
di Malta.
Fra le società specializzate nel
Fonte: direzione generale statistica / ministero della Giustizia – 2016 e Banca d’Italia
settore, c’è anche la Sarc Srl. Fon42
7 agosto 2016
93
Foto: A. Crowley - Gallery Stock
spesso illusioni, però, questi soggetti, perché raramente
raggiungono quanto promettono. Quando non offrono
proprio dei pessimi servizi». «I ricorsi che arrivano a noi
sono di frequente infondati», aggiunge Andrea Tina,
professore alla Cattolica e consigliere dell’Arbitro della
Banca d’Italia, a cui nel 2014 sono arrivate 11mila richieste di mediazione, di cui oltre 800 per usura (raddoppiate rispetto all’anno precedente): «Ci sono somme improprie, errori, perizie che si vedono esser state spinte, e
scritte, da professionisti non “professionali”».
Per fermare l’ondata di cause senza basi alcuni giudici
hanno iniziato a contro-denunciare per lite temeraria chi
avanza pretese fantasiose. Il rischio è che a soffrirne, e a
dover quindi risarcire di tasca propria, sia anche l’usurato. Doppiamente gabbato, così. La questione è così importante e opaca da essere stata sottolineata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario da Maria Chiara
Malacarne, presidente vicario del tribunale di Milano:
«Anatocismo, interessi ultralegali, commissioni, valute
fittizie: il succedersi delle riforme normative, spesso fram-
QUESTI SUPPOSTI
“PROFESSIONISTI”
DEPOSITANO RICORSI
ZEPPI DI ERRORI.
E I GIUDICI LI ACCUSANO
DI LITE TEMERARIA
mentarie e di non chiara comprensione quanto a contenuto e regime transitorio, in questo ambito, alimenta
nuovo contenzioso, incidendo su giudizi in corso e rallentando il formarsi di orientamenti giurisprudenziali consolidati», ha detto.
Vecchia e nuova confusione si accumula fra i giudici. E
fuori, sul mercato. A rimetterci, gli stessi: le vittime d’usura bancaria. n
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News Economia
Il caso
Quanto costano
le unioni civili
23 milioni
tra dieci anni
ROMA Ora che le unioni civili
sono realtà, anche il fisco si adegua. Le nuove famiglie italiane,
grazie alla legge Cirinnà, potranno infatti beneficiare delle regole
finora riservate agli sposati. A
rompere gli indugi è stato il viceministro dell’Economia, Enrico
Zanetti, che rispondendo a
un’interrogazione ha chiarito
come il bonus per l’acquisto dei
mobili rivolto alle giovani coppie si applicherà anche agli uniti
civilmente nel 2016, purché ne
abbiano i requisiti. Si potrà anche accedere alle detrazioni del
50 per cento per i lavori di recupero edilizio.
Secondo le stime del ministero,
gli oneri a carico della fiscalità
derivanti dall’applicazione del
nuovo istituto vanno dai 3,7
milioni del 2016 ai 23 stimati nel
2025. Le minori entrate sono
legate soprattutto al minor gettito Irpef per le detrazioni fiscali,
che nel periodo analizzato salirà
da 3,2 a 16 milioni. A questa cifra
vanno aggiunti assegni familiari
e pensioni di reversibilità, che tra
10 anni - con 30 mila coppie
unite - dovrebbero pesare per
circa 6 milioni. Sara Dellabella
Sorpresa, i robot creano lavoro
I robot ci portano via il lavoro?
I timori sulle ricadute occupazionali delle
innovazioni hi tech sono eccessivi. Lo dice uno
studio del think tank tedesco Zew, secondo
il quale dal 1990 al 2010 l’automazione
industriale ha cancellato in Europa 9,6 milioni
di posti di lavoro, creandone però 21 milioni.
Il problema non è l’automazione ma come
le aziende investono i profitti che ne derivano.
MANNHEIM
MEDIASET
Dopo la lite con Vivendi, chi rifinanzia Premium?
MILANO C’è un dettaglio
interessante nella lite tra
Mediaset e Vivendi. Lo rivela
il bilancio del primo trimestre
2016 dell’azienda di Silvio
Berlusconi: dice che la pay tv
Premium in vista del passaggio
44
7 agosto 2016
ai francesi era valutata 756
milioni inclusa «una posizione
finanziaria netta positiva al
closing di 120 milioni». Quel
cash oggi Premium non ce l’ha:
a fine 2015 in cassa aveva 33
milioni e nel primo semestre
2016 ha continuato a perdere.
Per favorire la vendita, Mediaset
era pronta a ricapitalizzare
Premium. Ora Vivendi non
vuole più tutta la pay tv ma solo
il 20 per cento. Ma Premium ha
lo stesso bisogno di risorse. Lu.P.
Un robot in
una fabbrica
inglese.
A destra: i
giovani soci
della Leaf
Space di
Torino
Idee giovani
CONTI PUBBLICI
Foto: Gallery Stock
Derivati Tesoro,
ancora perdite
-10 mld
La startup che cattura
i dati dei satelliti
ROMA Il dato è passato inosservato. Alla fine di marzo il valore
delle future perdite sui derivati
dello Stato (il cosiddetto “mark to
market”), stimabili agli attuali
prezzi di mercato, è tornato a salire, arrivando a quota 37 miliardi.
Lo ha reso noto la Banca d’Italia
nell’ultimo Bollettino economico.
Si tratta del livello più elevato
toccato negli ultimi dodici mesi:
dopo aver raggiunto i 42 miliardi
nel dicembre 2014, infatti, il mark
to market dei derivati aveva iniziato a scendere, assestandosi alla fine del 2015 a quota 30,7 miliardi.
Il fenomeno appare particolarmente preoccupante se si incrocia
questo dato con altri numeri,
messi in evidenza nell’ultimo
Giudizio sul rendiconto dello Stato, diffuso a giugno dalla Corte
dei Conti. All’epoca gli ultimi
dati sulle future perdite dei derivati dello Stato erano ancora fermi ai 30,7 miliardi del dicembre
2014. Ma il procuratore generale
della Corte, Martino Colella, aveva voluto mettere in guardia rispetto al significato di numeri
solo in apparenza positivi, sottolineando che alla diminuzione
aveva contribuito un fatto semplice: nel corso del 2015 alcuni
derivati erano infatti giunti a scadenza e il Tesoro aveva dovuto
saldare il conto con le banche
controparti. Le perdite da prospettiche si erano banalmente
materializzate. Con un conto salato: 6,75 miliardi solo nel 2015,
uno in più del 2014.
Ma se la situazione era preoccupante allora, che cosa bisognerebbe dire adesso, che anche
il valore delle perdite future è
tornato a salire, nonostante i
soldi spesi nel frattempo?
Luca Piana
TORINO Come una foglia che
ENERGIA
Nel 2015 giù
il costo della
bolletta
petrolifera
Lo scorso
anno la spesa
dell’Italia per
le forniture
di energia
dall’estero è
scesa a 34,4
miliardi di
euro, dai 44,6
del 2014. Lo
dice l’Unione
petrolifera
nella relazione
annuale. Il
calo è dovuto
alla discesa
dei prezzi
del petrolio.
Nel 2008
la “bolletta”
energetica
dell’Italia era
stata di 60
miliardi, nel
2000 di 29
miliardi.
galleggia nella spazio, lieve
ma allo stesso tempo concreta.
La parola “leaf” in inglese vuol
dire appunto “foglia” ed è
riconoscibile anche da chi
di business spaziale è del tutto a
digiuno. Quando i fondatori di
Leaf Space - Matteo Baiocchi,
Jonata Puglia e Michele
Messina - hanno dato vita alla
loro startup avevano in mente
proprio questa idea: nessuna
competizione con i grandi
gruppi industriali della
missilistica e dei satelliti, come
Avio, Finmeccanica, Thales.
Bisognava andare dove
nessuno orbitava: un servizio di
telecomunicazioni, “Leaf Line”,
per raccogliere i dati che
arrivano sulla Terra dalla
moltitudine di satelliti presenti
in orbita e restituirli in tempo
reale su una piattaforma
digitale, realizzata con un
software creato da loro.
I tre ragazzi, conosciutisi al
Politecnico di Milano, hanno
scommesso su uno dei possibili
business del futuro. Nel 2016
nel mondo sono stati lanciati
150 micro satelliti (dieci volte
meno costosi dei satelliti
tradizionali), in grado di
trasmettere una quantità
enorme di dati.
Così i tre
fondatori hanno
comprato
un’antenna
da ricezione
satellitare a
Vimercate, in
Brianza, grazie
alla quale
convogliare i dati
e lavorarli nella
sede scelta per la
loro start up, a
Torino. Per farci
cosa? Adeguare le
mappe di Google
che a oggi sono aggiornate
ogni tre settimane, lavorare nel
campo biomedicale, effettuare
servizi di tracciamento per
la sicurezza urbana e in mare,
per la logistica o la ricerca
scientifica. Dal 2014 l’azienda
ha portato a bordo un
finanziamento da un milione
di euro concesso dalla Red Seed
Ventures, per acquistare nuove
antenne e coprire una porzione
più ampia di territorio.
Come prima realtà del settore
attiva in Italia, Leaf Space ha
stretto partnership con altre
startup, come la sudamericana
Satellogic, produttrice di nano
satelliti, o la svizzero-israeliana
SpacePharma, lanciata nella
sperimentazione medicale
in micro gravità. Ai fondatori
nel 2015 si sono poi aggiunti
Caterina Siclari e Giovanni
Pandolfi e, grazie anche al loro
lavoro, l’azienda ha ottenuto il
sostegno dell’Agenzia Spaziale
Italiana e un altro milione
di euro di finanziamenti,
nell’ambito del piano europeo
Horizon 2020. I cinque
imprenditori contano di iniziare
a brillare nel 2018, quando
il fatturato dovrebbe salire
a 5 milioni, mentre già ora
progettano di assumere sette
persone.
Chiara Organtini
7 agosto 2016
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Jobs Act
Disoccupato
conviene
C
di Stefano Vergine
Tasso di disoccupazione
in percentuale
Germania
Italia
Francia
Spagna
OSA DEVE FARE UN CITTADINO TEDESCO
4,2
11,6
9,9
19,9
Spesa per le politiche del lavoro
in percentuale sul Pil
Germania
Italia
Francia
Spagna
per ricevere il sussidio di disoccupazione?
Innanzitutto iscriversi alla Bundesagentur
für Arbeit, l’agenzia federale per il lavoro.
Poi presentarsi ai colloqui, frequentare i
corsi che gli vengono proposti e accettare
eventuali offerte di lavoro. Se per qualche
motivo non fa una di queste cose, il sussidio gli viene ridotto e infine cancellato. Come funziona in Italia? Semplice: il
disoccupato deve solo iscriversi a quella che un tempo si
chiamava lista di collocamento. Per intascare il sussidio, che
oggi vale anche per i lavoratori precari grazie alla riforma
dell’ex ministro Elsa Fornero, non è necessario presentarsi
agli incontri, frequentare corsi, mandare in giro il curriculum
né accettare eventuali offerte di impiego.
La Germania è uno dei Paesi europei più simili all’Italia
in termini economici. Forte industria manifatturiera, esportazioni predominanti, differenze regionali marcate. Il confronto, però, potrebbe essere allargato a quasi tutte le nazioni del Vecchio Continente, perché l’Italia è una delle
pochissime a non vincolare di fatto la concessione del sussidio all’attivismo del disoccupato. Di fatto, dicevamo, visto
che in teoria il vincolo c’è. Lo prevedeva la Legge Fornero e
lo stabilisce a condizioni attenuate anche il Jobs Act. Solo
che, nella pratica, quasi tutti se ne infischiano. Il risultato è
che in Germania il disoccupato non può usare due trucchi
molto amati nel Belpaese. Uno è quello di prendere il sussidio e andare a lavorare all’estero, con il vantaggio di incassare una paga doppia. L’altro prevede di intascarsi l’asse-
Spesa totale
Incentivi
all’occupazione
Sussidi di
disoccupazione
e cassa
integrazione
1,6
1,9
2,5
*
3,3
0,7
0,3
1,0
0,5
0,9
1,6
1,5
2,8
*I dati disponibili della Spagna si riferiscono al 2013
Fonte: per la disoccupazione Eurostat giugno 2016; per la spesa
attiva e passiva, elaborazione su dati Eurostat 2014, gli ultimi disponibili
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7 agosto 2016
Dopo mesi di ritardo, il governo vuol far decollare
la riforma dei sussidi. Che saranno tolti a chi
non accetta un posto. Ma non sarà facile. Perché
il sistema attuale fa la fortuna dei più furbi
Foto: Ansa
Storia di Antonella, l’unica dirigente che applica le sanzioni
L’esperienza di Trento: “Possibile grazie a scelte condivise”
«Io mi limito ad applicare la legge dello
Stato». Antonella Chiusole è la donna
che ha fatto di Trento l’unica provincia
italiana in cui vale la cosiddetta
condizionalità. Vuol dire che se il
disoccupato non si attiva per cercare
un nuovo impiego, il sussidio gli viene
prima ridotto e poi, eventualmente,
cancellato. Laureata in Legge, 54 anni,
Chiusole dirige l’Agenzia del lavoro
e i dodici centri per l’impiego sparsi
per la provincia. Una delle più ricche
d’Italia, anche grazie all’autonomia
amministrativa di cui gode. «Ma con
una situazione economica», tiene a
precisare la Chiusole, «analoga a
quella delle altre regioni del Nordest,
visto che il tasso di disoccupazione
l’anno scorso era del 6,8 per cento e
quello di occupazione al 66,1». Come
dire: il modello Trentino non è frutto
della fortuna. Alessandro Olivi,
vicepresidente e assessore al lavoro
della Provincia, riassume così la sua
filosofia politica: «Da un lato abbiamo
rafforzato le tutele per i disoccupati
con il reddito di attivazione, che si
aggiunge al sussidio statale, dall’altro
abbiamo vincolato l’aiuto a un
impegno attivo degli utenti». Nella
pratica, quando il disoccupato fa
domanda per ricevere l’indennità
(Naspi), deve subito prendere
appuntamento con il centro per
l’impiego, dove aderirà al “patto di
servizio personalizzato”, un contratto
in cui s’impegna a svolgere una serie
di attività. Tra queste: la compilazione
costante del “diario di attivazione”,
libretto azzurro in cui il disoccupato
segna tutto ciò che fa per trovare
un nuovo impiego. «Sembra banale»,
sottolinea la Chiusole, «ma se svolta
con puntualità questa compilazione
indica il cambio d’atteggiamento
della persona, che invece di subire
passivamente gli interventi pubblici
si attiva per tornare sul mercato».
A Trento l’esperimento è iniziato
nel 2013, quando la legge Fornero
introdusse la condizionalità: bastava
non rispettare il patto di servizio
per una volta e il sussidio veniva
cancellato. Ora con il Jobs Act la
revoca arriva gradualmente: alla prima
violazione si perde un quarto
dell’assegno mensile, alla seconda
l’intera mensilità, alla terza viene
cancellato del tutto l’aiuto. Quante
volte è successo? «Difficile dirlo
perché non tutti gli iscritti
percepiscono il sussidio, ma le
persone cancellate per mancato
rispetto del patto di servizio nel 2015
sono state 1.243 sulle 13.312 iscritte
in totale», dice la dirigente. Che
risponde così, quando le si chiede
perché è stata l’unica a far rispettare
la legge: «Attuare la condizionalità è
molto oneroso: significa dover gestire
tutti i disoccupati, non solo quelli che
si attivano spontaneamente, e offrire a
ciascuno dei servizi. Per questo molte
Regioni non lo fanno. Io comunque mi
limito ad applicare la legge e a far sì
che i centri per l’impiego segnalino chi
non rispetta il patto. Certo, c’è una
particolarità da noi: nel consiglio
di amministrazione dell’Agenzia
del lavoro siedono anche i sindacati,
quindi la procedura è condivisa da
tutti e nessuno sostiene o giustifica
i lavoratori che non si attivano. C’è
una condivisione sociale della regola».
Sulla possibilità che, attraverso la
riforma costituzionale, le politiche
attive diventino materia esclusiva
dello Stato, Chiusole non è d’accordo:
«C’è il rischio che le cose buone delle
Regioni virtuose, che sono molte, non
si possano più fare e che il livello
medio, invece di alzarsi, si abbassi».
Anche sul principio della
remunerazione a risultato la dirigente
è scettica: «Premiare solo le agenzie
che hanno rimesso sul mercato un
disoccupato è pericoloso: se la logica
è questa, potrebbe diventare
conveniente prendersi davvero cura
di quelli facilmente piazzabili, che
probabilmente avrebbero trovato
lavoro anche da soli, mentre gli altri,
i più deboli, rischiano di essere
lasciati indietro».
7 agosto 2016
47
Jobs Act
Tasso di occupazione
in percentuale
Germania
Italia
Francia
Spagna
74,0
56,3
64,2
57,8
Fonte: Eurostat. I dati, relativi al 2015,
rappresentano il numero di occupati sul totale
dei residenti tra i 15 e i 64 anni
LA NORMA ERA STATA INTRODOTTA
GIÀ DA ELSA FORNERO. MA NON HA MAI
FUNZIONATO. CON IL RISULTATO CHE
NUMEROSI LAVORI RESTANO SCOPERTI
gno e faticare in nero, anche qui raddoppiando l’incasso. I
tecnici traducono così l’abisso: Roma finora ha puntato
sulle politiche passive, Berlino e tante altre nazioni hanno
invece investito sulle quelle attive.
Premessa. Se l’economia arranca, nessuno stratagemma
può risollevare in modo determinante l’occupazione. Nonostante la recessione, tuttavia, qualcosa per migliorare la situazione si può fare. Lo dimostrano i casi dei nostri vicini.
E lo impongono alcuni numeri. Il tasso di disoccupazione
generale in Italia è all’11,6 per cento: si tratta di circa 3
milioni di cittadini, di cui oltre la metà senza impiego da
oltre un anno. La percentuale dei disoccupati non comprende però tutte le persone senza lavoro. Non sono conteggiati,
per esempio, coloro che per motivi vari non si iscrivono alle
liste di collocamento. Il numerino da guardare è dunque
quello degli occupati. E di questo non possiamo proprio
andare fieri: è il 56,3 per cento della popolazione in età da
lavoro, uno dei livelli più bassi d’Europa.
Creare occupazione è sempre stato il cruccio principale di
Matteo Renzi. Non a caso una delle prime norme approvate è stata quella del Jobs Act, che ha reso meno vincolanti le
nuove assunzioni (licenziamento senza giusta causa per i
primi tre anni) concedendo incentivi economici alle imprese
48
7 agosto 2016
che aumentano il numero di dipendenti. La riforma, però,
doveva essere molto più estesa rispetto a quella che conosciamo oggi. Dei vari punti elencati da Renzi sul suo sito
personale l’8 gennaio del 2014, due mesi prima di diventare
premier, al momento ne mancano soprattutto due. Uno riguarda l’elezione dei rappresentanti sindacali nei consigli
d’amministrazione delle grandi imprese. L’altro è in corso
d’opera. Si tratta dell’Anpal, acronimo di Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro: l’equivalente nostrano
della tedesca Bundesagentur für Arbeit. Insomma, la struttura con cui il governo vorrebbe dare un taglio netto all’assistenzialismo di Stato.
Alcuni credono infatti che buona parte della disoccupazione italiana, oltre che dalla crisi, dipenda proprio dall’aver
scelto di puntare sui sussidi a pioggia, senza chiedere nulla
in cambio ai beneficiari. Lo sostengono ad esempio Romano
Benini e Maurizio Sorcioni, due esperti della materia, nel
libro appena pubblicato “Il fattore umano - Perché è il lavoro che fa l’economia e non il contrario” (Donzelli Editore).
E lo suggerisce il grafico a pagina 50, che mette in relazione
posti di lavoro vacanti e tasso di disoccupazione. A rigor di
logica, se aumentano i disoccupati diminuiscono in modo
inversamente proporzionale i posti di lavoro disponibili.
Invece negli ultimi dieci anni in Italia non è andata sempre
così. Motivo? Evidentemente non riusciamo a formare persone che abbiano le competenze richieste dal mercato.
Eppure, di soldi per aiutare i disoccupati finora ne sono
stati spesi parecchi. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, l’Italia investe nelle
politiche del lavoro l’1,7 per cento del prodotto interno
lordo. Più della Germania, che ha un mercato del lavoro in
piena salute. Ma la stragrande maggioranza dei fondi ci
serve per pagare sussidi di inattività, che sono ovviamente
schizzati verso l’alto durante la crisi, mentre solo una minima fetta viene usata per reinserire i disoccupati nel mercato.
Traduzione numerica: nel 2014, ultimo anno per cui sono
disponibili i confronti internazionali, abbiamo speso 5,5
miliardi in politiche attive e 24 miliardi tra sussidi e aiuti per
i prepensionamenti.
ESEMPIO TEDESCO
Va detto, per essere precisi, che non tutti i senza lavoro sono
uguali. Ci sono ad esempio gli stagionali del turismo, dell’agricoltura o gli insegnanti precari: qualche milione di persone che ogni anno resta a casa per un periodo predefinito,
una manciata di mesi al massimo, riscuotendo l’assegno
dall’Inps. Per loro, che una professione ce l’hanno anche se
magari non riconosciuta come vorrebbero, la riqualificazione non avrebbe senso, visto che tornano puntualmente a
sgobbare sui banchi di scuola o sulle spiagge. Casi specifici
a parte, però, il problema è che gli investimenti italiani nelle politiche attive sono bassissimi rispetto ai nostri vicini
europei. E sono addirittura diminuiti durante la crisi: dal
2007 al 2011 la spesa per aiutare i disoccupati a ritrovare
Foto: P. Paolini - TerraProject / Contrasto
Persone al lavoro durante
Fablab Torino, un workshop
promosso dalle Officine Arduino
sulla fabbrica digitale
un lavoro è calata del 15,2 per cento, mentre Paesi come
Francia, Germania e Regno Unito la incrementavano.
Ora il governo Renzi dice di essere intenzionato a invertire la rotta. Il sistema delle politiche attive, per quello che
prevede la parte del Jobs Act rimasta finora inattuata, si
basa su due principi che potrebbero presto diventare realtà.
Il primo è la condizionalità. Significa che il disoccupato
deve presentarsi ai colloqui con gli impiegati del centro per
l’impiego, frequentare corsi di formazione e accettare lavori coerenti con il proprio profilo professionale. Altrimenti,
il sussidio gli viene ridotto gradualmente fino alla cancellazione. Il secondo principio è quello della remunerazione a
risultato: riguarda le strutture che già oggi offrono, o dovrebbero offrire, un aiuto ai disoccupati. Si tratta dei centri
per l’impiego (pubblici) e delle agenzie per il lavoro (private).
L’Anpal prevede di metterle in competizione fra loro, premiando con i fondi pubblici europei solo quelle che riusciranno davvero a rimettere sul mercato i disoccupati. Insomma, concorrenza e meritocrazia.
Già oggi, in realtà, in Italia c’è chi segue questi principi.
Solo che nessuno li mette in pratica entrambi contemporaneamente. La Provincia autonoma di Trento è l’unica a
vincolare l’erogazione del sussidio all’attivismo del disoccu-
pato, la cosiddetta condizionalità (vedi articolo a pagina 47).
Alcune Regioni hanno invece creato dei sistemi basati sul
principio della remunerazione a risultato, in cui circa l’80
per cento dei fondi comunitari viene incassato solo quando
il disoccupato trova lavoro. «Lo ha fatto per prima la Lombardia e da qualche tempo anche il Lazio», spiega Stefano
Zanaboni, titolare di We, una piccola società privata del
settore. Zanaboni opera solo nel Lazio e dice che delle 160
persone prese in carico dalla sua agenzia da inizio anno è
riuscito a rimetterne al lavoro 39, di cui la maggioranza con
contratti a tempo indeterminato.
Uno di loro è Paolo Nappi, 58 anni, romano, che fino al
2014 aggiustava fotocopiatrici per una filiale della Canon.
«Appena ho perso il lavoro», racconta, «ho iniziato a cercarne un altro: stavo ogni giorno 5-6 ore a inviare domande
ma per un anno e mezzo niente da fare. Poi, a gennaio del
2016, ho iniziato il percorso con l’agenzia We. Mi hanno
aiutato a migliorare il curriculum, dato consigli per fare
bella figura ai colloqui, hanno chiamato le aziende a cui mi
proponevo spiegando quali agevolazioni fiscali avrebbero
avuto prendendomi». A inizio estate Nappi è stato assunto
a tempo indeterminato, sempre con la mansione di tecnico
delle fotocopiatrici. «Con l’agenzia non ho speso un euro
7 agosto 2016
49
Jobs Act
Se Crotone non parla con Lamezia
Diplomazia. Speriamo ne abbia molta
Maurizio Del Conte, presidente della
neonata Anpal, Agenzia nazionale per
le politiche attive del lavoro, che dovrà
uniformare un sistema di centri per
l’impiego frammentato, dove uno
sportello non è in grado di comunicare
con quello della provincia confinante.
Il professore di Diritto del Lavoro
dell’Università Bocconi di Milano, è stato
scelto dal governo Renzi per mettere
ordine, dove oggi vige il caos assoluto.
Il primo consiglio di amministrazione
dell’Anpal (ne fanno parte, oltre a Del
Conte, Bruno Busacca, capo segreteria
tecnica del ministero del Lavoro, e
Giovanna Pentenero, assessore al Lavoro
del Piemonte) sì è tenuto lo scorso 13
luglio, ma la macchina vera e propria
partirà nel 2017, dopo che saranno
reclutati i 207 dipendenti, prelevati dal
ministero del Lavoro e dall’istituto Isfol.
Quale sarà il ruolo dell’agenzia?
«Innanzitutto farà da coordinamento fra
tutti i soggetti - pubblici e privati - della
rete delle politiche attive, unificando
le procedure di assistenza alle persone
in cerca di un’occupazione. Oggi le
competenze legislative sono un po’
in capo alle Regioni e un po’ allo Stato.
Le prime si sono costruite, in autonomia,
colloquio con Maurizio Del Conte di Gloria Riva
le infrastrutture per gestire la domanda
e l’offerta di lavoro, mentre lo Stato ha
il potere di dettare le linee guida relative
ai livelli essenziali dei servizi che devono
comunque essere garantiti su tutto il
territorio nazionale. Quello che manca,
e che deve essere realizzato il più presto
possibile, è un sistema informatico
che metta in rete tutti i soggetti
coinvolti, da quelli pubblici alle agenzie
interinali private».
Significa che oggi, per esempio, un
dipendente dell’ufficio del collocamento
di Perugia non sa se c’è un posto
di lavoro a Mantova?
«Proprio così. Solo lentamente qualcosa
comincia a muoversi. In un territorio
difficile come la Calabria, per esempio,
sono riusciti a far dialogare gli uffici
di Gioia Tauro con quelli di Lamezia Terme
e Reggio Calabria. Significa che adesso
se un disoccupato, che cerca un lavoro
da magazziniere, si rivolge al centro di
Lamezia, può sapere se nelle tre province
c’è un’opportunità di lavoro adatta a lui.
Ma resta ancora da integrare il sistema
di Crotone. Sono problemi locali, pratici,
di compenetrazione fra un database
e l’altro, ma se riuscissimo a risolverli
saremmo già a buon punto».
Poi ci sono le Regioni che non hanno
Ricerca di lavoro e disoccupazione in 15 anni (dati in %)
Tasso di disoccupazione
Posti vacanti
sul totale dei
15,5
1,25
posti di lavoro
1,15
13,5
1,05
11,5
0,95
0,85
9,5
0,75
7,5
0,65
0,55
5,5
0,45
0,35
3,5
04* 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 15
*confronto dati 1° e 3° trimestre. Fonte: elaborazione su dati Istat
In teoria se aumentano i disoccupati diminuiscono i posti
vacanti. Invece, come si vede dal grafico tratto dal libro
“Il fattore umano” (Donzelli), in Italia non va sempre così,
perché mancano persone con le competenze richieste.
50
7 agosto 2016
alcuna intenzione di perdere potere
decisionale in questo campo. Soluzioni?
«Sarà anche un’opera di diplomazia, verso
un obiettivo comune. Le Regioni non
saranno espropriate dei poteri, ma invitate
a cooperare con l’Agenzia Nazionale
e con il ministero del Lavoro, che ha
messo a disposizione importanti risorse
economiche. Le Regioni dovranno
condividere le proprie informazioni
(sempre su offerta e domanda di lavoro)
con l’Agenzia nazionale, che le organizzerà
in un unico database che metterà
a disposizione di tutti i soggetti
della rete per le politiche attive».
Basterà?
«No, alle sedi territoriali sarà fornita
un’infrastruttura in grado di accedere
alla banca dati dell’Inps, per sapere
se una persona percepisce un sussidio
di disoccupazione, da quanto tempo
e tutto il suo curriculum professionale».
A che serve l’accesso alle informazioni
Inps?
«Il tema delle nuove politiche attive si lega a
quello degli ammortizzatori sociali, cioè
delle politiche passive. Infatti, una norma
del Jobs Act dice che il sostegno economico
alla disoccupazione è vincolato alla
attivazione nella ricerca di un lavoro.
Significa che il lavoratore, se vuole ricevere
e ho ricevuto un importante aiuto per tornare sul mercato»,
assicura. Un successo anche per la We, che si è garantita il
contributo pubblico. Cifra variabile a seconda del tipo di
candidato, ma che in genere va da un minimo di 800 euro
per i casi più facili a un massimo di 4.000 euro per i più
complicati. «Il problema è che ogni Regione decide se, come
e quando dare questi soldi. Per questo in tante zone non
operiamo, mentre ci siamo concentrati soprattutto nelle aree
dove le cose funzionano meglio», dice Fabio Costantini,
responsabile delle politiche attive per Ranstad, la multinazionale olandese nota soprattutto per le agenzie interinali.
IL PRESIDENTE C’È, GLI ADDETTI NO
Il fatto che ogni Regione faccia di testa sua ha un motivo
preciso. Il titolo V della Costituzione attualmente prevede
infatti che la legislazione sulle politiche attive sia di competenza, oltre che dello Stato, anche delle Regioni. E così ci
sono quelle che applicano il principio della remunerazione
a risultato e quelle che si rifiutano. Colpisce poi il fatto che
nessuno, a parte la provincia di Trento, vincoli il pagamento del sussidio all’attivazione del disoccupato. Già, perché
in teoria dovrebbe essere così dappertutto: se il dipendente
Maurizio Del Conte, bocconiano, scelto da Matteo Renzi per guidare l’Anpal
Foto: S. Minelli - Imagoeconomica
un contributo economico (pagato e gestito
dall’Inps), è obbligato a seguire attivamente
un percorso di ricollocazione, sotto la guida
- a sua scelta - del centro per l’impiego o
della agenzia per il lavoro privata».
In realtà il principio di condizionalità del
contributo è già in vigore, ma non viene
applicato, se non in rari casi. Perché?
«Oggi gli addetti del centro per l’impiego
non hanno accesso diretto alla banca dati
dell’Inps e quindi non possono sapere
con certezza se la persona che stanno
assistendo percepisce o meno
il sussidio. Con la creazione di Anpal,
sarà possibile avere accesso a quelle
informazioni, monitorare la situazione
e spronare le persone a fare formazione
o accettare offerte di lavoro.
Pena la riduzione dell’assegno
di disoccupazione».
E se il lavoro offerto non dovesse
essere congruo rispetto alle
competenze del disoccupato?
«L’Anpal si occuperà anche di definire
del centro per l’impiego si accorge che il disoccupato non si
dà da fare, dovrebbe revocargli il sussidio. Invece non succede. Il motivo lo spiega ancora Benini, che dirige il master
in Management delle politiche per il lavoro alla Link University di Roma e lavora come consulente per diverse Regioni: «L’impiegato del centro per l’impiego non si prende
la responsabilità di togliere il sussidio a un suo concittadino,
magari a uno che conosce da una vita. Anche perché, non
esistendo ancora un sistema informatico che gli consenta di
avere sott’occhio tutte le offerte di lavoro disponibili, lo
stesso impiegato non è in grado di far bene il suo mestiere,
cioè di trovare una nuova occupazione all’utente. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia abbiamo un operatore
ogni 220 disoccupati, mentre in Europa la media è di 1 su
90, ci rendiamo facilmente conto del perché le politiche attive finora non sono decollate».
Riuscirà dunque l’Anpal a risolvere tutti questi problemi?
L’Agenzia guidata da Maurizio Del Conte (intervista qui
sopra) ufficialmente è attiva dallo scorso 22 giugno. Ufficialmente, visto che in realtà è ancora tutto fermo. Il primo
consiglio d’amministrazione si è riunito a metà luglio, ma i
dipendenti che dovranno lavorarci devono ancora essere
degli standard per valutare che le offerte
siano all’altezza. Inoltre predisporrà un
assegno di ricollocazione, una somma
assegnata al lavoratore disoccupato
che dovrà spendere all’ufficio di
collocamento o all’agenzia per il lavoro.
Gli enti potranno incassarlo se
troveranno un’occupazione alla persona.
È un modello molto simile alla Dote
Lavoro della Regione Lombardia».
Come giudica l’esperienza di Garanzia
Giovani, il servizio nazionale avviato
nel 2015 per trovare lavoro agli under
29 che non studiano e non lavorano,
e che è stato gestito dai centri
per l’impiego?
«Sono piovute critiche da ogni dove ma
non è stato l’insuccesso che si pensava.
Ad oggi, circa un milione di ragazzi
si sono iscritti al programma. Di questi,
in base al rapporto dell’Isfol, 188 mila
hanno trovato un lavoro, mentre sono
state prese in carico oltre 500 mila
persone. Al netto di quelli che si sono
collocati da soli, i giovani che hanno
trovato lavoro grazie a Garanzia Giovani
sono circa il 10 per cento. Una
percentuale analoga a quella della
Germania. Se pensiamo che quel milione
di giovani italiani è la platea più difficile
da collocare, perché sono ragazzi senza
esperienza e spesso con percorsi
personali difficili, direi che il risultato
è tutt’altro che negativo».
IL COLLOCAMENTO FINORA È STATO IN
MANO ALLE REGIONI. ORA IL GOVERNO
VUOL GESTIRLO IN MODO PIÙ DIRETTO.
MA C’È IL RISCHIO REFERENDUM
individuati. «Speriamo che, dopo quasi un anno di attesa,
l’Anpal parta davvero», è l’auspicio di Rosario Rasizza,
amministratore delegato di Openjobmetis, uno dei gruppi
privati che punta ad aumentare il proprio ruolo nel business dei disoccupati. In attesa che si sbrogli la matassa
burocratica, resta però un punto interrogativo. Come può
esistere un unico modello delle politiche attive del lavoro
se ogni Regione può fare a modo suo? La riforma costituzionale porterebbe sotto il controllo unico dello Stato le
politiche attive. Ma c’è l’incognita del referendum. Anche
per questo la rivoluzione promessa dal Jobs Act rischia di
rimanere incompiuta. Staccando ancor di più l’Italia dal
resto d’Europa. n
7 agosto 2016
51
Bruno Manfellotto
Questa settimana www.lespresso.it - @bmanfellotto
Nella guerra Milano-Torino per il Salone del libro
c’è molto provincialismo e nessun progetto.
E in Italia si continua a leggere troppo poco
Nel Bel Paese
dove il book suona
Foto: Massimo Sestini
E COSÌ MILANO avrà una nuova fiera del
libro e si chiamerà MiBook. Andrà ad
aggiungersi a Book City, quinta edizione,
e a Book Pride, rassegna riservata agli
editori indipendenti. Fattore comune, il
book: evidentemente la parola “libro”
non è più di moda. Fa male la moltiplicazione dei saloni e delle mostre-mercato?
Figuriamoci, però quando per lanciare un
prodotto ci si rifugia nell’inglese, crescono dubbi e timori: se nemmeno per vendere libri in italiano si riesce a trovare uno
slogan casalingo e convincente, è legittimo immaginare complessi di inferiorità,
provincialismo, e pure sospettare che
dietro l’idea non ci sia sufficiente retroterra, identità, progettualità. Esagerazioni? Forse. Ma i nomi sono spia di una
vicenda estiva che ha terremotato l’impero dei libri, di cui quel poco che s’è capito
è desolante, e che è tipica di un certo approccio italico a ogni questione che meriterebbe programmazione, ideazione,
sorpresa, e che immancabilmente si svolge invece all’insegna delle camarille, dei
localismi, della vendettucole.
IN BREVE. Da quasi trent’anni, per la
precisione dal 1988, una Fondazione cui
partecipano Regione e Comune dà vita
al Salone del libro di Torino affidato da
otto anni alle cure editoriali di Ernesto
Ferrero, un anziano intellettuale e manager di formazione Einaudi. A un bel punto l’Aie, la Confindustria degli editori, si
ribella, non ci sta più, lancia un appello
agli iscritti a disertare la kermesse torinese sostenendo che soffre di un impianto
troppo vecchio (vero), che è troppo co-
stosa (vero), ingabbiata dagli enti locali
(improvvisamente?) e aggravata da un
brutto scandalo - quattro arresti, turbativa d’asta e pure qualcosa di più sgradevole - di cui s’è occupata la magistratura
(vero). E così propone di trasferire baracca e burattini a Milano. Niente più Torino. Come se i produttori proponessero di
cancellare il Festival di Venezia in favore
della Mostra del cinema di Roma.
LA PROPOSTA COVA PER MESI, ma ogni
decisione viene rinviata per via della
campagna elettorale, non so se mi spiego.
Alla fine gli editori si convocano in assemblea e votano: i grandi (in diciassette)
scelgono la “newco” - of course - di Milano, capitale morale, dell’editoria e
dell’Expo; in otto si astengono, Einaudi
per buona creanza; Laterza si dissocia
criticando il metodo; altri sette (tra i
quali Feltrinelli, Marcos y Marcos, Gallucci) scelgono di farsi il loro salone. A
Torino. Fronte degli editori spaccato e
due manifestazioni dimezzate, antitetiche, concorrenziali. Con Alessandro Baricco che annuncia lo “sciopero degli
scrittori” contro Milano. E di tutte e due
non si sa che cosa saranno e faranno.
Perché? Certamente ha pesato una questione di potere: a Torino Einaudi gioca
in casa, e invece l’Aie vuole contare di più.
Azionisti di riferimento dell’Aie sono
Gems (Mauri-Spagnol), Mondadori e
Rizzoli, tutti nati e radicati a Milano, gli
ultimi due oggi fusi in un colosso. E poi
Milano, storica antagonista di Torino, è
in grande spolvero, vive una stagione di
successi, “è di moda”.
E vabbè, è andata così, ma a che scopo?
Gli editori faticano per migliorare i bilanci: i grandi inseguono economie di scala
diventando sempre più grandi; i piccoli
arrancano cercando di conservare nicchie di mercato; le librerie chiudono; le
scuole hanno altro a cui pensare. Nel Bel
Paese tracimano feste e festival: Milano,
Torino, Roma, Mantova, Pordenone, e
presentazioni di libri in ogni cittadina,
frazione, contrada, per non dire delle
variazioni sul tema di Modena (filosofia),
Sarzana (mente), Genova (scienza) e via
sfogliando. Ma nonostante ciò, in Italia
si legge sempre troppo poco: ultimi in
classifica in Europa; e di portare i libri
nelle case e nelle scuole - dei giornali
parliamo un’altra volta... - si ciancia
senza costrutto e senza pesare. Tanto per
capirci: i ministri Franceschini (Beni culturali) e Giannini (Istruzione) s’erano
spesi per Torino. Ignorati.
SI DIRÀ: ma Milano e book stanno a indicare sguardo all’estero, respiro internazionale. Speriamo, ma sembra arduo
scalzare Francoforte, la più importante
“buchmesse” (che a nessuno verrebbe in
mente di chiamare “book fair” e traslocare a Berlino). E allora tutto questo
can-can a che serve? Capita che sindaci e
assessori cerchino di ovviare alle loro
manchevolezze organizzando grandi
manifestazioni, concerti, ricchi premi e
cotillon. Non si vorrebbe che anche certi
editori di libri seguano il cattivo esempio
dimenticando che per promuovere cultura e lettura non basta un evento né fare
sfoggio di inglese.
7 agosto 2016
53
Olimpiadi
Dei per un minuto
Medaglie d’oro. E poi miseria, malattie, oblio. Dalla Germania al Kenya,
dagli Stati Uniti all’Italia, storie di atleti dalla gloria durata molto poco
di Gianfrancesco Turano
54
7 agosto 2016
Muhammad Ali colpisce Leon
Spinks nel match del 1978.
Entrambi erano stati oro olimpico,
nel 1960 e nel 1976
S
E LO RICORDANO in
pochi. Nel 2012 a
Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio
non si è qualificato
ma una medaglia se la
merita lo stesso. Si
chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio
scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e
prenderà 16 milioni di euro l’anno!
Ergo nella vita meglio essere un pirla».
Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era
anche riferito all’errore dal dischetto
agli ultimi Europei e al famoso gesto
dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe
come se io andassi dal mio avversario
prima di un match e gli dicessi: ti faccio
un culo così. E poi perdessi l’incontro».
Molfetta, salentino come Pellè, è un
campione di taekwondo, arte marziale
coreana introdotta nel programma
olimpico a Seul nel 1988 come sport
dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo
al jackpot dell’oro, quotato dal Coni
150 mila euro (lordi, a differenza dello
stipendio di Pellè). Quattro anni di
sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro
i più forti del mondo. L’unico movente
è la passione sportiva.
In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel
senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è “amateur”,
nella lingua del barone de Coubertin.
La passione può abbinarsi alla gloria
ma niente dura meno della gloria senza
un giro d’affari adeguato. Lo sprinter
giamaicano Usain Bolt o la stella della
Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business
quanto Matt Damon o Jennifer
Lawrence. La portabandiera Federica
Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il
fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e
quegli azzurri che, a Rio come in ogni
altra Olimpiade, contribuiranno in
quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il
tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta,
sono destinati all’oblio in tempi brevis-
simi secondo il teorema dell’arciere
Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012)
e un argento (2008). «Il brutto è che
ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni».
E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka.
Non c’è da meravigliarsi se l’epopea
olimpica moderna è ricca di campioni
sedotti e abbandonati dalla fama ai
piedi del podio.
IL DOPING AL TEMPO DELLA STASI
I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga
sotto patrocinio statale (Russia e Cina)
o sotto il segno dell’impresa privata
(tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività
risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino)
e del 2012 (Londra). Ma in Germania
non si sono ancora spente le polemiche
per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo
squadrone tedesco-orientale capace,
con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi
al secondo posto nel medagliere a
Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti
agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione
boicottata di Mosca 1980.
I giochi coreani sono stati l’ultimo
momento di una gloria truffaldina
certificata dalle analisi antidoping che
da Messico 1968 a Seul 1988 non
hanno mai trovato positivo un solo
atleta della Germania est, caso unico
fra i paesi del socialismo reale.
La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre
1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda
imponeva agli sportivi della Ddr l’uso
di sostanze dopanti a partire da un’età
di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli
araldi del compagno segretario Erich
Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide
prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita
dalla Schering.
Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da
altri. Fra coloro che hanno chiesto
7 agosto 2016
55
Olimpiadi
VITA DA PANTERA NERA
Max Schultz (in rosso). Sotto: Carlo Molfetta, oro a Londra. A destra: Tommie
“Jet” Smith e John Carlos alzano il pugno a Mexico ’68, con loro Peter Norman
un risarcimento all’ex Jenapharm ci
sono la nuotatrice Rica Reinisch, la
sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di
circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche
agli esperti.
L’elenco delle nuotatrici tedesche
che sono state private a posteriori del
titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto,
Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a
vincere quattro ori in un’Olimpiade e
prima nuotatrice dell’est a ottenere le
copertine del gossip occidentale grazie
al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre
negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la
polizia di Stato di Honecker.
Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella
sua carriera ha assunto un totale di 2,6
chilogrammi di Turinabol (1 chilo in
più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha
sposato un’altra sportiva del tempo, la
nuotatrice Ute Krause.
Sul fronte negazionista si trovano il
pesista Ulf Timmermann, mentre il
56
7 agosto 2016
collega Udo Beyer ha confessato l’uso
di steroidi. Non ha mai ammesso il
doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400
piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che
tuttora ha il miglior tempo di sempre
sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È
il record più longevo dell’atletica
all’aperto. Negli 800 a Rio correrà
un’altra atleta molto
discussa, la sudafricana Caster Semenya.
Altrettanto negazionista è stata la casa
farmaceutica Schering
che a lungo ha addossato agli ex atleti in
maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel
2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un
anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato
la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il
martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo.
È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993.
Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie
Smith e John Carlos, oro e bronzo sui
200 metri a Città del Messico nel
1968. Di sicuro, i due statunitensi
hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto
che li ritrae durante la cerimonia di
premiazione con la testa bassa e il
pugno guantato di nero teso verso il
cielo in sostegno alle lotte dei neri
americani. Erano passati sei mesi
dall’assassinio di Martin Luther King
e quattro mesi dall’omicidio di Robert
Kennedy. Come replica, il vincitore
dell’oro dei pesi massimi nella boxe
all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring
avvolto dalla bandiera a stelle e strisce
dicendo che la protesta di Smith e
Carlos era roba da “universitari”, pur
essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per
le loro capacità atletiche.
Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e
accolti in patria come due pericolosi
estremisti vicini al movimento delle
Foto: pagine 54-55 N. Leifer - Sports Illustrated / Getty Images.
Pagine 56-57 G. Tiedemann - Sports Illustrated / Getty Images, A. Thuillier - AFP / GettyImage, Ap / Ansa
Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in
guerra in Vietnam certi atteggiamenti
non erano tollerati.
Nel 1967 era finita in castigo la
medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il
futuro Mohammed Ali aveva rifiutato
il servizio militare con la frase “I ain’t
got no quarrel with those Vietcong”
(“non ho motivi di lite con i Vietcong”).
Era stato privato del titolo mondiale
e condannato in primo grado a cinque
anni, rimanendo fuori dal ring per tre
anni e mezzo.
Ai due sprinter andò peggio. Per un
lungo periodo Carlos fece il facchino
al porto della sua città, New York, e
Smith lavò auto a casa sua, nel Texas
della segregazione.
“The Jet” Smith oggi ha 72 anni e ha allenato
al Santa Monica
College. Lo
scorso maggio
ha partecipato a
una manifestazione al Mémorial Acte, il museo
L’AUSTRALIANO PETER
NORMAN FU SOLIDALE
CON LA PROTESTA
DI SMITH E CARLOS.
NON VENNE MAI
PIÙ CONVOCATO
dedicato alla tratta degli schiavi alla
Guadalupa.
Carlos ha lavorato senza grande
costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs.
Il più dimenticato dei tre è il terzo
della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In
segno di solidarietà si presentò sul
podio con uno stemma dell’Olympic
project for Human rights ricevuto da
un altro atleta Usa. Norman non fu
mai più convocato in squadra, pur
essendo il più veloce del suo paese, e
rimase a lungo disoccupato.
Alla morte di Norman nel 2006,
Smith e Carlos presero l’aereo fino a
Melbourne per portare il feretro.
MISTERIOSO INCIDENTE IN KENYA
Nel 2008 un atleta keniano ha stabilito il record olimpico della maratona
correndo in 2 ore 6 minuti e 32 secondi, circa due minuti in più del
mondiale di Hailé Gebreselassie, nonostante le condizioni ambientali
rese proibitive dallo smog di Pechino.
Solo i patiti di atletica leggera ricordano il suo nome.
Samuel Wanjiru, keniano cresciuto
in Giappone, aveva 21 anni ed era
alla sua terza maratona. Un predestinato che da Pechino in poi ha continuato a vincere. Fino al 15 maggio
2011. Quella notte il fondista è stato
trovato morto dopo un volo dal balcone della sua casa, una villetta a un
piano nella sua città natale di
Nyahururu. L’altezza dalla quale l’atleta è precipitato è di poco superiore
al tettuccio del Suv di Wanjiru.
Appena dopo la morte sono state
riportate voci di una lite fra il campione, sua moglie e una donna che non
avrebbe dovuto trovarsi nel letto coniugale della signora Wanjiru.
Il corridore aveva avuto già problemi
di ordine pubblico pochi mesi prima. La
polizia keniana lo aveva denunciato
perché aveva minacciato di morte la
moglie e teneva a casa un Ak47, più
noto come kalashnikov. L’atleta aveva
ribattuto che era una montatura e aveva
alluso a tentativi di estorsione nei suoi
confronti da quando aveva iniziato a
guadagnare i ricchi montepremi delle
maratone di Londra e Chicago.
Il processo è tuttora in corso. Finora i magistrati hanno escluso una
delle tre ipotesi, il suicidio. Anche
l’incidente è considerato improbabile.
Ma nessuno finora è imputato di omicidio. Mentre a Rio si corre, in Kenya
continuano le udienze. La tomba di
Wanjiru è in stato di abbandono.
7 agosto 2016
57
Olimpiadi
Kenya dove vivrà in un campo di rifugiati. Da lì raggiungerà la Germania e
Vincere un oro olimpico è un momenriuscirà a mantenersi con il sostegno
to di celebrità che può durare un mofinanziario della Puma, al tempo la
mento o in eterno. Ma vincere una
maggiore concorrente dell’Adidas.
gara ai Giochi e subito dopo ricevere
Akii-Bua tenterà il miracolo sportiuna villa in regalo oltre a un viale e uno
vo ma sarà eliminato in semifinale a
stadio intitolati a proprio nome semMosca 1980, i giochi boicottati dagli
bra impossibile. A meno che il capo
Stati Uniti per l’invasione sovietica
dello Stato si chiami Idi Amin Dada,
dell’Afganistan. Akii-Bua è morto in
tiranno dell’Uganda dal 1971 al 1979
Uganda nel 1997 a 47 anni.
passato alla storia per le sue stragi
tribali e alla leggenda (forse) per i suoi
gusti antropofagi.
LA CADUTA DI POLLICINO
Villa, viale e stadio sono toccati in
Il lottatore di greco-romana faentino
sorte a John Akii-Bua, primo vincitore
Vincenzo Maenza era chiamato Polliolimpico per lo Stato centrafricano
cino perché combatteva nella categoalle Olimpiadi Monaco del 1972 nella
ria dei 48 chili. Memorabili le sue
gara dei 400 ostacoli.
diete per non superare il peso: saune
La vittoria e il primo giro di pista con
massacranti, digiuni, allenamenti in
la bandiera nazionale al collo della
vista di una gara che poteva essere
storia delle Olimpiadi sono i fatti per i
compromessa da un sorso d’acqua di
quali Akii-Bua è ricordato. I problemi
troppo. I risultati? Oro a Los Angeles
iniziano poco dopo la vittoria ai giochi
(1984), oro a Seul (1988), argento a
africani l’anno successivo, il 1973.
Barcellona (1992), più i titoli mondiaAmin si rende conto che il corridore è
li e le medaglie europee.
troppo popolare nel paese e rischia di
Fino al 2008 Maenza, diventato
fargli ombra. Applica all’atleta una
allenatore, è stato una garanzia in
serie crescente di restrizioni e finisce
chiave olimpica. A Pechino, il suo
per vietargli di gareggiare all’estero.
allievo Andrea Minguzzi è primo.
Il gruppo tribale di
Akii-Bua, l’etnia
IL DITTATORE UGANDESE AMIN
Lango, subisce l’ira
del dittatore. Gli
DADA ERA GELOSO DELLA
squadroni della morte di Amin uccidono
POPOLARITÀ DI AKII-BUA. E FECE
tre fratelli dell’atleta.
Solo nel 1978 il tiranUCCIDERE TRE FRATELLI DELL’ATLETA
no che si era proclamato re di Scozia sospenderà il divieto di
uscire dal paese per
Akii-Bua. Ma mentre
l’atleta è all’estero,
sua moglie e i suoi
figli verranno tenuti
in ostaggio a Kampala. Nel 1979, al momento dell’invasione
delle truppe tanzaniane che farà cadere
Amin, Akii-Bua
scapperà con la sua
famiglia nella parte
occidentale del
L’EROE E IL CANNIBALE
58
7 agosto 2016
IL BIDELLO D’ORO
I pugili Leon Spinks e il fratello Michael hanno vinto prima l’oro olimpico e
poi il titolo mondiale da professionisti,
un risultato che poche famiglie dello
sport possono vantare. Ma Leon, due
anni dopo il trionfo a Montreal 1976,
ha battuto per la corona dei massimi
the Goat (the greatest of all times),
l’acronimo usato da Muhammad Ali
per definire se stesso con una notevole
dose di esattezza.
Per il maggiore dei fratelli Spinks, 63
anni, vincitore di borse per 5,5 milioni
di dollari del tempo, tutti sperperati, il
declino dopo la boxe è arrivato fino
alla povertà estrema. Un po’ come è
Foto: Schirner - Ullstein Bild via Getty Images, M. Dadswell - Getty Images, Ap / Ansa
Nel gennaio 2013, la catastrofe. Maenza è inquisito per molestie ad atleti al tempo minorenni. La prova sarebbe in un video girato da una telecamera nascosta in una palestra di
Faenza nel 2000, oltre dodici anni
prima. L’eventuale reato sarà dichiarato prescritto a settembre dello stesso anno. Nel frattempo, Maenza viene escluso dal suo incarico di allenatore federale. Oggi Maenza gira per
l’Italia facendo stage nelle palestre
che lo invitano. A Rio ci sarà un altro
suo allievo, Daigoro Timoncini, già
in gara a Pechino e a Londra.
Il maratoneta keniano
Samuel Wanjiru. Sotto:
Vincenzo Maenza.
A sinistra: John Akii-Bua
accaduto con i calciatori George Best
o Paul Gascoigne, le cronache si occupano di lui solo in occasione di interventi chirurgici e di resoconti su una
salute e una condizione economica
sempre più precarie. Il campione del
Missouri oggi vive in Nebraska dove si
guadagna da vivere facendo il bidello
in un Ymca di Columbus.
SCHULTZ “L’ACCHIAPPAVOLPI”
Il cinema si è occupato spesso di sportivi realmente esistiti e dimenticati o
malati o in lotta con una popolarità
Una scelta fuori tempo
Con i muscoli ben torniti
e la sete di medaglie gli atleti
convincono noi tutti che
è lo sport il protagonista
delle Olimpiadi. Ma in quella
grande arena competitiva che
è diventato il nostro Globo
il fine ultimo dei mega eventi
sportivi è la glorificazione
della nazione che li ospita.
Con diversi gradi di
consapevolezza, quelle gambe,
quelle braccia e quei visi tesi
sono invariabilmente al
evanescente. Per restare in ambito
olimpico ci sono l’inglese “Momenti di
Gloria”(Giochi del 1924),“Unbroken”
prodotto da Angelina Jolie (Giochi del
1936) sul mezzofondista italo-americano Louis Zamperini o ancora “Atletu”, dedicato ad Abebe Bikila, il maratoneta scalzo vincitore a Roma 1960.
Il più recente, e forse il più esemplare,
è “Foxcatcher” che ha ottenuto cinque
nomination agli Oscar del 2015. È la
storia dello statunitense Max Schultz,
oro della lotta a Los Angeles 1984, e del
fratello Dave, anch’egli lottatore ucciso
nel 1996 dal miliardario John du Pont,
erede della dinastia farmaceutica du
Pont de Nemours.
Il film di Bennett Miller ha dato a
Max Schultz, 55 anni oggi, una popolarità che lo sportivo non aveva conosciuto né ai tempi dei Giochi né dopo
l’uccisione del fratello. E Max Schultz,
naturalmente, ha detto che il Max
Schultz del film non gli assomiglia per
niente, che lui non è uno sfigato, non è
mai stato timido, men che meno cripto-gay e, se incontra il regista, lo gonfia.
Dimenticare, a volte, è giusto. n
di Federica Bianchi
servizio della politica
e dei suoi obiettivi nazionali
e internazionali; i Paesi
ospitanti al centro della
geopolitica mondiale.
Peccato però che, per
inevitabili motivi tecnici, la
celebrazione di un Paese
coincida raramente con il
momento in cui ne sono
evidenti le ragioni.
Quando nel 2009 Rio
de Janeiro si aggiudicò
le Olimpiadi all’indomani
di quelle di Pechino il voto
fu quasi plebiscitario: il primo
Paese del Sudamerica, e il più
degno, ad ospitare i sommi
Giochi. Chi sette anni fa
non avrebbe riconosciuto
lo sgambetto che l’allora
presidente Lula aveva fatto
alla Storia, rovesciando
decenni di povertà e oligarchia
ed elevando il Brasile al rango
di potenza mondiale? Erano
i tempi dell’apoteosi dei Brics,
il famoso acronimo inventato
nel 2001 dall’economista Jim
O’Neil per designare i nuovi
colossi dell’economia mondiale
del XXI secolo: Brasile, Russia,
India, Cina e Sudafrica. E infatti
i grandi eventi sportivi dalla
tempistica decisa all’inizio degli
anni Duemila si sarebbero
tenuti in quattro di quei Paesi:
Olimpiadi in Cina (2008),
Mondiali di calcio in Sudafrica
(2010) Olimpiadi invernali in
Russia (2014), addirittura
Mondiali e Olimpiadi in
7 agosto 2016
59
Olimpiadi
Giochi
d’azzardo
Recessione, crisi istituzionale e i costi
dell’evento raddoppiati da 10 a 20 miliardi
di dollari. Ecco perché il Brasile rischia di
trovarsi ancora più povero dopo Rio 2016
di Vittorio Malagutti
S
E È VERO, COME DICONO
i critici del gigantismo a
cinque cerchi, che organizzare un’Olimpiade è la
scommessa più rischiosa
possibile per una moderna metropoli,
allora Rio de Janeiro corre da anni
sull’orlo di un azzardo senza precedenti. Non era mai successo che i
Giochi si svolgessero in un Paese in
preda a una grave recessione economica, la più pesante dell’ultimo secolo, con il Pil in caduta del 3,8 per
cento nel 2015 e quest’anno, salvo
sorprese, di un altro 3,5 per cento.
Brasile (2014-2016) e Mondiali
di calcio in Russia (2018).
A guardare oggi gli strati di
immondizia che ricoprono le
acque della baia di Guanabara
dove gareggeranno le barche
a vela e, ancora di più,
lo stato di un’economia in
discesa libera e di un governo
la cui presidente è vittima
di quello che è stato definito
un golpe bianco, è difficile
immaginare l’attualità della
glorificazione del Brasile.
Eppure, allora, sembrava
inevitabile.
60
7 agosto 2016
Gli ottimisti sostengono che la situazione del Brasile sarebbe stata ancora
peggiore senza il traino delle grandi
opere (autostrade, ferrovie, metropolitana, impianti sportivi, quartieri per
case e uffici) messe in cantiere (e in
parte ancora da completare) per la
kermesse sportiva. Può darsi, ma intanto gli amministratori pubblici, costretti a raschiare il fondo del barile per
chiudere i lavori in tempo per la cerimonia d’apertura, hanno dovuto tagliare su altre voci di bilancio. E così,
nelle settimane scorse, alcune categorie
di dipendenti statali, dai poliziotti agli
Ma giusto il tempo di costruire
piscine e stadi che il mondo
è cambiato, a dispetto di ogni
previsione. In soli sette anni
la Grande Crisi e la guerriglia
continua dell’Is hanno mutato
le posizioni e costretto a
cambiare le scommesse
sul Risiko internazionale.
Così il Comitato olimpico
rimpiange oggi le vecchie
scelte, mormora di volere
escludere Roma dai candidati
del 2024 perché “inaffidabile”
e la Francia, Giovanna d’Arco di
questi giorni di terrorismo
ospedalieri, si sono visti recapitare con
grave ritardo gli stipendi. Tutto questo
nel pieno di una crisi istituzionale, con
la presidente Dilma Roussef sotto inchiesta penale e sospesa dall’incarico.
Le cronache recenti si sono già occupate di ritardi e contrattempi nell’organizzazione olimpica, ma una volta
passate alla storia, si spera senza gravi
problemi, le tre settimane di gare, Rio
e il Brasile dovranno affrontare la
questione più importante di tutte. E
cioè come gestire un’eredità fatta di
debiti miliardari e di impianti, sportivi
e non, che dopo la chiusura del grande
islamico, reclama a se
il Grande Evento, con il senno
di oggi programmando gli eventi
di un lontano domani dalle
dinamiche sfuggenti.
Intanto, immersi nell’oggi,
ci accorgiamo che i luoghi
dei prossimi eventi sportivi
riflettono nuovamente la
geopolitica di ieri. Già vecchia.
I Mondiali di calcio del 2018 si
terranno in Russia, luogo scelto
nel 2010, quando fu ratificato
uno storico accordo sulle armi
nucleari tra Usa e Russia che
avrebbe dovuto spianare la
strada a una nuova era
distensiva. I Mondiali
del 2020 si terranno in Qatar,
protagonista della cacciata
di Gheddafi in Libia, simbolo
dell’ascesa della regione del
Golfo ma anche finanziatore
di tanti islamisti. Infine, le
Olimpiadi del 2024 saranno
a Tokyo. Che avrebbe dovuto
essere la protagonista di
una politica Usa più attiva
in Oriente. Non lo è stata.
Chissà se, per una volta,
lo sarà giusto in tempo a
celebrare la Grande Festa.
Foto: Y. Chiba - AFP / Getty Images, Visual China Group - GettyImages
evento rischiano di restare inutilizzati.
Nel Paese sudamericano sono ancora alle prese con lo scandalo degli stadi
fantasma, strutture faraoniche inaugurate per i mondiali di calcio del 2014 e
da allora abbandonate a se stesse. Per
esempio a Nadal o nella capitale Brasilia, dove le squadre locali contano su
poche migliaia di spettatori a partita.
Due anni fa, il conto finale per la festa
del pallone fu di 11 miliardi di euro a
carico delle casse pubbliche brasiliane
e almeno 2 miliardi servirono a costruire da zero quattro modernissimi impianti per il “futebol” ora fatiscenti. Il
budget di spesa per le Olimpiadi si è
gonfiato di anno in anno finendo per
superare, e di gran lunga, i costi del
mondiale calcistico. Si parte da un
preventivo di 11,6 miliardi dollari,
pari a quasi 10,5 miliardi di euro, e si
arriva ai 20 miliardi di dollari (18 miliardi di euro) segnalati in questi giorni
da molti analisti.
Dati alla mano, un fatto è certo: i
Giochi di Rio non saranno comunque
i più costosi della storia. Due anni fa a
Sochi, il governo di Vladimir Putin
bruciò qualcosa come 50 miliardi di
dollari per finanziare le Olimpiadi invernali. Una montagna di soldi pubblici che secondo le accuse dei partiti di
opposizione e di molte Ong internazionali andarono a gonfiare i bilanci delle
imprese controllate dagli oligarchi
amici del Cremlino. Anche in Cina nel
2008, per i Giochi che consacrarono la
trasformazione capitalistica del Paese
ex comunista, il regime di Pechino non
badò a spese. Il bilancio finale superò i
40 miliardi di dollari. Rio invece viaggia appaiata con Londra. Anche le
Olimpiadi organizzate nel 2012 nella
capitale britannica costarono circa 20
miliardi di dollari. Ben diverse però
sono le economie dei due Paesi. Nonostante i progressi dell’ultimo decennio,
il reddito procapite brasiliano è ancora
la metà di quello del Regno Unito.
Senza contare l’enorme divario tra i
due Paesi in termini di servizi pubblici
essenziali: dalla sanità ai trasporti.
Nel 2009 quando Rio vinse la corsa
ai Giochi battendo rivali come Madrid,
Tokyo e Chicago, il Brasile era convinto di aver conquistato il biglietto d’ingresso nel club dei grandi del mondo.
A sette anni di distanza, con una recessione nel mezzo, il presidente del Cio
(Comitato olimpico internazionale), il
tedesco Thomas Bach, è costretto a
difendere una scelta che, col senno di
poi, ora sembra difficile da giustificare.
Questione di spiccioli, a volte. In questi
giorni, il Cio ha dovuto finanziare il
comitato organizzatore, in difficoltà
per saldare le fatture
di alcuni fornitori
Il presidente
per un valore di alcudel Cio
ne migliaia di euro.
Thomas
In sostanza, i soldi
Bach. In alto:
sono già finiti. E il fuil cantiere
turo prossimo, per i
del centro
cittadini brasiliani, è
olimpico
lastricato di debiti.
Bmx a Rio
Quelli che serviranno a pagare il conto
della bolletta a cinque cerchi. I Giochi
di Rio, presentati come il trampolino
di lancio verso un futuro più stabile e
prospero, rischiano invece di portare
altra legna al gran falò della crisi. Secondo un report della banca d’affari
Euler Hermes, del gruppo tedesco Allianz, tra il 2015 e il 2017 il debito
pubblico brasiliano passerà dal 74 al
98 per cento del Pil.
Colpa dell’Olimpiade? Solo in minima parte, rispondono gli analisti. Lo
Stato di Rio, però, che ha sopportato
una quota importante della spesa per i
Giochi, si è già dichiarato in “emergenza finanziaria” e le casse federali hanno
dovuto intervenire con un prestito urgente di 2,9 miliardi di real, circa 800
milioni di euro, per gli impegni più
urgenti. Anche sul fronte del lavoro i
benefici del grande evento sportivo
saranno modesti. Si stima che verranno
creati 120 mila nuovi posti, per l’80 per
cento destinati a scomparire una volta
chiusi i Giochi. Intanto, però, il tasso
di disoccupazione continuerà a crescere per effetto della crisi economica.
Secondo il report di Euler nel 2017 la
percentuale dei senza lavoro arriverà a
sfiorare il 13 per cento, mentre nel
2015 non superava l’8 per cento.
Nel libro dei sogni infranti un capitolo importante potrebbe infine riguardare anche il turismo. Nelle speranze degli organizzatori, la ribalta
mediatica mondiale garantita dalle
Olimpiadi avrebbe dovuto moltiplicare il numero dei visitatori a Rio negli
anni a venire. Al momento però le immagini di inefficienza che hanno preceduto la cerimonia di apertura non
sembrano un gran biglietto da visita. E
molti si chiedono se una frequentatissima meta turistica come Rio avesse
proprio bisogno del traino olimpico
per farsi conoscere. I precedenti, peraltro, non sono incoraggianti. Negli ultimi trent’anni, tra le città sedi dei
Giochi, solo Barcellona e Sydney hanno visto aumentare in modo consistente i flussi turistici dopo le Olimpiadi.
Per le altre, a cominciare da Pechino e
Londra, è cambiato poco o nulla. n
7 agosto 2016
61
Riccardo Bocca
Gli Antennati www.gliantennati.it
Doveva essere l’ora del cambiamento. Invece,
come in una fiction di mostri, tornano gli zombie.
Con retribuzioni record. Per palinsesti scontati
Rai Rischiatutto
Mass Media
ALTO Cultura. Amore.
Maestria. Conoscenza del
profondo e dello sprofondo
umano. Da qui ogni volta
partono Francesco
Conversano e Nene
Grignaffini per i loro filmdocumentari. Tutto il mondo
da anni li premia e
applaude. Da noi, il 3
agosto, hanno trovato
spazio su Raitre nel buio
delle 23.40 con la storia
della scrittrice moldava Lilia
Bicec. Evviva.
GLI ESSERI UMANI sono ridotti a quel-
lo che mai avrebbero pensato di diventare, cioè una micro collettività che in
un anfratto di provincia americana
lotta per non estinguersi. Il quadro
storico-fantascientifico è quello del
4032, e l’evento cardine è la mutazione
genetica che ha creato la genìa degli
Abbie: mostri devastatori del pianeta
intero, ora all’assalto della cittadina-fortezza di “Wayward Pines” (da
cui il titolo della serie in onda in questi
giorni su Fox con la prima stagione, e
dal 29 agosto ogni lunedì alle 21 con
la seconda).
DOPODICHÉ IL DISCORSO frena per
assumere doppia forma e sostanza,
visto il parallelismo tra quanto accade
nel video-dramma scritto da M. Night
Shyamalan e le vicende horror che
quest’estate ingombrano i corridoi di
viale Mazzini. In Rai, di fatto, la situazione è emergenziale almeno quanto
nell’urbe immaginaria dell’Idaho dove
i resti della nostra civiltà oppongono
resistenza ad antagonisti feroci. Soltanto che qui, nella sede romana della
tv di Stato, all’ombra del celebre cavallo ormai esausto, si assiste a un day
after senza che ci sia stato il day before.
Foto: P. Tre - A3, A. Casasoli - A3
DOVEVA ESSERE LA STAGIONE del
cambiamento, questa, l’apoteosi della
meritocrazia e della conversione alle
ragioni del Mondo Nuovo (devoto
alla multimedialità e al ripensamento
del verbo generalista nel rispetto di un
pubblico sempre più anziano), ma a
fronte di un passato logoro sta arrivando un ulteriore passato: quello riassunto, ad esempio, da Fabio Fazio e il suo
“Rischiatutto” zomIl direttore generale
bie. O dalla ripropodella Rai Antonio
sta del duo CuccariCampo Dall’Orto
ni-Parisi come sintesi
di un presente in letargo. O ancora, dal
ricollocamento dell’ottantenne Pippo
Baudo a “Domenica in” in sostituzione
del semi coetaneo Maurizio Costanzo
(l’anno scorso a capo della direzione
artistica).
COME GIUSTIFICARE il peso delle retri-
buzioni apicali con le modeste ambizioni dei prossimi palinsesti? Evitando la
noia del dibattito socio-culturale, si
può passare direttamente alla constatazione che il modello “Wayward-RaiPines” lancia un allarme rosso: ovvero
la fatica di costruire un’identità catodica che non sia frutto di schegge e schemi di ieri. Deriva non casuale. Se
nell’accerchiata cittadina su Fox a comandare è la Prima Generazione, costituita da un gruppo di giovani oligarchi,
in Rai governa una bella squadra di
amici: che se da un lato - ed era ora- non
ha la macchia della lottizzazione,
dall’altro rischia di finire imbrigliata
dalla sua matrice iper omogenea.
BASSO Maratona
Mentana. È il video-format
con cui il direttore e anima
del telegiornale de La7
affronta le emergenze
della grande cronaca.
Dalle elezioni all’inferno
internazionale Is, un
crescendo di informazioni,
collegamenti,
approfondimenti ed
esondazioni (e)gotiche
del carismatico Enrico. La
conferma di quanto per tutti
sia insidiosa la bulimia.
DIFFICILE, A QUESTO PUNTO prevedere
quale sarà il finale: sia della fiction che
della Rai. Riusciranno gli uomini di
“Wayward Pines” a sconfiggere i mostri sanguinari? E riuscirà Viale Mazzini a debellare una volta per tutte la
mediocrità, stroncando il ciclo dei ricicli e dei format cari e sciapi? Molto
dipenderà dalla capacità di visione del
direttore generale Antonio Campo
Dall’Orto. Che, sarà certo un caso, ha
lo sguardo più sfuggente d’Italia.
7 agosto 2016
63
Reportage
Gallup, New Mexico,
città di 20 mila
abitanti fondata
nel 1881. I suoi
eventi principali sono
il rodeo e il festival
degli indiani Navajo
Che fine ha fatto
il sogno dell’America
Qui, negli Stati Uniti profondi, è dove tutto ha avuto inizio.
E dove poi qualcosa si è inceppato. Fino a evaporare trasformandosi
in rancore. E a generare un fenomeno chiamato Donald Trump
di Aldo Nove foto di Daria Addabbo
Reportage
UANTO È GRANDE IL CIELO in Ameri-
ca. Cielo e terra si promettono a vicenda. La magia e l’imprevedibilità
dello zodiaco, della volta celeste,
sembrano riflettersi nella vastità
di una terra che si concede come
una promessa. C’è tanta fatalità,
in America. Tutto può accadere.
E per chiudere, rievocando i personaggi di “Furore” di Steinbeck,
c’è la speranza di un’inesauribile
rinascita, quasi fosse un mondo in
cui trovare tutto. Basta cercarlo.
Strade che congiungono punti
di fortuna dispersi in desolati
paesaggi d’attesa. Basta percorrerle. Il futuro è là, da qualche
parte. Vi ci porta(va), dal 1926, la
Route 66, una sorta di via della prosperità (o della sua
speranza) che collegava Chicago alla spiaggia di Santa
Monica e attraversando quindi Illinois, Missouri, Kansas,
Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, California. Per una
lunghezza che supera quella che congiunge Trento a Palermo, e ritorno. Oggi esiste ancora, la Route 66, ma si chiama Historic Route 66: pesa, su di essa, la storia di drammatiche migrazioni interne, infelici eredi delle libertà di chi
l’America l’aveva “scoperta” e conquistata. Storie di povertà e orgoglio di riscatto. Su tutte, quella magistralmente narrata da Steinbeck. La storia di “Furore” (narrata da
Steinbeck e poi portata sugli schermi da John Ford, che
66
7 agosto 2016
vinse proprio grazie a quella pellicola, aiutato da uno
splendido Henry Fonda nel ruolo di Tom Joad) è celeberrima. Quanto, nell’essenza, attuale. La famiglia Joad,
perfetta espressione di quell’American dream dove a chiunque abbia la volontà di rimboccarsi le maniche è data la
possibilità di trovare il proprio spazio vitale, trascorre la
propria esistenza nella classica fattoria americana, in
Oklahoma, fino a che non intervengono con violenza i
prodromi apocalittici di qualcosa che si manifesterà anche
in tempi recenti, prima in America e poi nel mondo intero:
le banche: «Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un
essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini,
questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo», dice Tom. Saranno infatti le banche, dopo aver
prestato i soldi a centinaia di famiglie come quelle di Tom,
a non rinnovare i crediti ai contadini, espropriando loro i
terreni e spianando con i trattori le loro abitazioni. E
Nel motel delle carote
Dall’alto in senso orario: il treno che attraversa
il deserto tra l’Arizona e la California; la Route
66 all’ingresso di Albuquerque, principale città
del New Mexico; un motel a Bakersfield, centro
della California dove alla fine dell’800 fu scoperto
anche il petrolio. Oggi l’economia è basata sulla
coltivazione delle carote per conto della Campbell
7 agosto 2016
67
Reportage
Il bowling verso il Canyon
Il parcheggio del bowling a Flagstaff, Arizona,
67 mila abitanti: nata alla fine del XIX secolo,
oggi produce soprattutto legname e le sue
campagne sono disseminate di ranch. Una parte
della popolazione vive sul turismo dei visitatori
in viaggio verso il Grand Canyon. Tra le sue glorie
ha il telescopio che vi fu costruito nel 1896
Reportage
70
7 agosto 2016
UN’UMANITÀ CHE DIFENDE
CON OGNI MEZZO
LA PROPRIA FRAZIONE
SEMPRE PIÙ RISICATA
DI LIBERTÀ, RINCHIUSA
DENTRO LE GEOMETRIE
DI STERMINATE PERIFERIE
così, improvvisata carovana di varia
umanità, la famiglia di Tom inizia la
propria odissea verso la California,
ripartendo da zero. Odissea dei penultimi aggrappati alle parole attribuite alla Statua della libertà, pronta
ad accogliere tutti per poi lasciarli al
proprio destino, che è sottomesso più
che alle effettive capacità di emergere
dei più meritevoli (è tutto qui, in fondo, il “sogno americano”) a un sistema economico brutale.
Cieli immensi e spazi sterminati come infinite periferie di
centri di aggregazione spesso scosse da telluriche variazioni
finanziarie, più potenti delle carestie o degli uragani che si
scatenano su una terra in buona parte ancora selvaggia quanto spaventata dalle bizzarrie del tempo e della finanza. Paesini che spuntato come miraggi nelle piatte desolazioni desertiche che hanno accompagnato la cinematografia americana,
dallo stesso John Ford all’allucinatorio David Lynch passando per le denunce esplicite di Michael Moore. Tutta un’umanità che certo non filtra nell’America che siamo soliti vedere
mediata dalla macchina d’immaginario hollywoodiana.
Un’umanità che difende con qualsiasi mezzo la propria frazione sempre più risicata di libertà. Libertà che diventa autosegregazione. Resta mitica la storia del pacioso contadino
americano che si corica ogni notte con il suo fucile tra le
braccia. Sulle tracce di Tom Joad, oggi, troviamo realtà residuali e pulsanti, in credito nei confronti di una vita che si dimostra altro da quello che si sperava fosse.
Pare che tutto ritorni, dal disastro finanziario che portò
all’epopea di Tom alla crisi dei mutui facili e avvelenati dai
subprime, con conseguente aumento della povertà questa
volta non solo in America ma, in un mondo globalizzato,
in ogni estrema propaggine di un sogno americano diventato incubo (le disavventure militari in Medio Oriente,
l’irresponsabile partecipazione all’incomprensibile guerra
in Libia e il ritorno del fantasma della guerra fredda). Ma
lì, dove il sogno ha avuto origine e dove si è come inceppato nel tempo, restano emblematiche le immagini di un
paradosso esplicito. Sogni piccoli per grandi paesaggi.
Grandi paesaggi per sogni piccoli. E ancora, gli ultimi
La ricchezza era una ferrovia
In alto: un ristorante messicano ad Amarillo, Texas,
che si era sviluppata grazie alla linea ferroviaria
tra Fort Worth e Denver; oggi ai discendenti degli
abitanti originari si mescolano immigrati vietnamiti
e birmani che lavorano nell’industria della carne. In
basso: due bambini giocano nel giardino della loro
casa alla periferia di Albuquerque, New Mexico
sussulti di un mostro merceologico di
cui rimangono quasi solo le insegne,
quelle di una guerra perduta, e una
forse per noi inimmaginabile legione
di arrabbiati che spera di riscattarsi
attraverso la velenosa furia razzista di
Donald Trump.
C’è un tempo dell’attesa che ha
superato ogni dimensione di senso.
Una raggelata provvisorietà che osserva dalle tapparelle,
in penombra, il sogno di una metropoli novecentesca che
evapora quasi nelle fantasie di infanzie deluse e pronte a
farsi maturità infantili e aggressive, con i sacchetti della
spesa pieni di sfolgoranti buste di cibo spazzatura da consumare in garage che sono tinelli, tra supereroi e Madonne,
cascami di un meticciato culturale che trovi i propri templi
avventizi attorno ai tavoli di “ristoranti” semideserti che
hanno fatto e fanno l’iconografia di una certa America
(quella che va dalla storica Twin Peaks, diciamo - dove
ancora permane, per quanto sotterraneamente, mostruosamente corrotta, un’apparenza di “normalità” - al recente successo delle estreme “Breakin Bad” o “True Detective”). Sono le serie televisive a mostrarci oggi un’America
che, sospesa tra il reale e la surrealtà di un quotidiano che
pure si perpetua. Un’America che non a caso si mette in
scena popolata da zombie. Né vivi né morti. In attesa,
appunto. È forse ardito ma non improbabile accostare
l’odissea di Tom Joad a quella della serie di grande successo “The walking Dead”. Territori sconosciuti da attraversare dopo avere perso tutto, verso il sogno di una città
ancora integra, ancora come prima. Quel prima mitico
eppure reale che in Steinbeck, nel 1938, si allontanava da
presente per finire in mano alle banche, che con quel prima
si divoravano anche il futuro. Rimane il presente, con tutte le sue incognite, sempre più ristretto, messo all’angolo.
All’angolo di spazi infiniti.
Diceva Ezra Pound che un classico è «il nuovo che resta
nuovo». “Furore” è un classico perché queste immagini ci
rappresentano quanto nell’essenza la realtà non sia mutata se non nei colori, nelle insegne, in dettagli che soli stanno a indicarci il cambiamento. I poveri, gli emarginati, gli
spaventati, sono sempre lì, ai margini di quella “Terra
promessa” un tempo sogno del mondo intero, o quasi (vi
ricordate un giovanissimo Eros Ramazzotti che ancora
negli anni Ottanta cantava «Siamo ragazzi di oggi / pensiamo sempre all’America»?) che non sa più pensarsi.
Eppure una ragazzina la guarda, lì, da lontano, in un improbabile, pesante, opprimente presente. La guarda come
si guarderebbe una televisione. Una visione da lontano,
quindi. Anche per chi ci abita dentro. Ma sempre separata
da quel minimo scorcio che proibisce a milioni di americani di esserlo davvero. Tra gli Americani e l’Americano ci
stanno una strada, per molti impercorribile e, per tutti, un
muro. Detta in sintesi, Wall Street. n
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Culture Colonne sonore
Ho vent’anni e queste sono
Niente impegno politico o atmosfere
raffinate come i loro padri (o nonni).
I giovani cantautori oggi preferiscono
raccontare il disagio di una generazione.
Con disincanto, rabbia, ma anche ironia
di Giorgio Biferali e Paolo Di Paolo
illustrazione di Claudio Sale per l’Espresso
L
A FINE DEI VENT’ANNI è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non
farti del male, e trovare parcheggio», confessa Motta, cantautore toscano, classe
1986, nel suo album d’esordio (“La fine
dei vent’anni”, appunto). Ci si sente stanchi al risveglio, la faccia che avevamo il
giorno prima è scomparsa, non si trova più, e l’identità è un
abito sgualcito poggiato sulla sedia. La giovinezza, più che a
un ritiro spirituale in un hotel in Svizzera, somiglia a un campo minato, quel campo minato di cui parlava Ray Bradbury,
pronto ad esplodere, a ricordarci della fine di un’età che non
smette mai di finire. La fine dei vent’anni e l’inizio dei trenta,
quindi, che fare? Potremmo fuggire, cambiare città, «ma
abbiamo sempre qualcuno da salvare», a cominciare da noi
stessi. Meglio rimanere qui, allora, con quelle poche abitudini che ci siamo inventati negli anni, che ci fanno rimanere in
piedi, anche se ogni giorno bisogna ricominciare tutto da
capo. Perché quel campo minato che troviamo al risveglio, in
fondo, siamo noi. Assaliti dalla «paura di invecchiare, di
perdere i capelli, di dovere stare bene», che possa arrivare quel
giorno in cui non potremo più chiederci cosa faremo da grandi. Essere fragili, canta Motta rievocando De André, «è una
colpa, è una ferita aperta, e non serve a far capire che si può
fare male». Anche Niccolò Contessa, romano, coetaneo di
Motta e leader de “I Cani”, percepisce il disagio e le ansie del
presente, questo profondo senso di inadeguatezza, tanto da
arrivare a cantare cose come: «Se Niccolò avesse l’Asperger,
nessuno mai si aspetterebbe niente da lui, almeno in termini
emotivi e di capacità affettive». Al mondo reale, così cinico
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le mie canzoni
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Colonne sonore
“A me quella gente proprio non va giù. Taranta, Celestini e Bmw” canta Calcutta contro
i radical chic. E Thegiornalisti: “Come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?”
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zati, in una giovinezza piena di ricordi, dove il futuro sembra
non trovare spazio. Anzi, meglio affidarsi alla nostalgia e
trovare un rifugio in un ritorno ideale all’infanzia, a tutto
quello che è accaduto prima di affacciarsi sul mondo dei grandi. «Ho quindici anni e con le mani in tasca sto tornando a
casa anch’io, e in faccia ho freddo, mentre sotto la mia giacca
sudo, e ho un groppo in gola ma non so perché, adesso non
ricordo più perché», cantano I Cani, «l’unica vera nostalgia
che ho». «E io ripenso ai giorni del liceo, quando studiavo
Kant», grida Maria Antonietta, «a quanto mi sentivo sola, a
quanto lo sono ancora». «Ma io vorrei restarti accanto se
fossimo bambini», canta Calcutta, «guardare il cielo da fessure come i topi nei tombini». Ritrovarsi in quel periodo in cui
gli occhi erano ancora puliti, incontaminati, pieni di luce. C’è
bisogno d’amore, come cantava Zucchero, anche nell’età
adulta, e forse l’unico modo per averlo è attirando l’attenzione, mostrandoci innocenti, disarmati e vulnerabili, come i
bambini. Come se ci sentissimo tutti un po’ come Victor Mancini, il protagonista di “Soffocare” di Chuck Palahniuk, che
per colpa della madre, che non ha fatto altro che abbandonarlo per poi riprenderselo, durante l’infanzia, nei locali pubblici
finge di soffocare, di strozzarsi con il cibo per farsi salvare, per
sentire che qualcuno, almeno per un momento, lo tocca, lo
abbraccia forte e si preoccupa per lui. Sarà per questo che per
Calcutta i padri vanno rinnegati, da quelli che ascoltano De
Gregori («a me quel tipo di gente non va proprio giù») ai
presunti radical chic («taranta, Celestini e Bmw»)? Perché,
ormai, sono tutti contaminati? Si preferisce l’intimismo di
Tenco all’impegno di De André, tanto che la politica, a tratti,
si riduce a titoli di quotidiani sfogliati rapidamente: «Leggo il
giornale, c’è Papa Francesco e il Frosinone in Serie A», «A
questa America daremo un figlio, che morirà in Jihad». Sarebbe meglio evitare, però, discorsi retorici, prediche, paternalismi
vari, e magari ricorrere a un luogo comune, a una domanda
da bar che gli Ex-Otago, anche loro parte di questa scena indie-pop, si fanno in una delle loro ultime canzoni: «I giovani
d’oggi valgono poco, gli anziani cosa ci hanno lasciato?».
FIGHETTISMO DA FUGGIRE
Su un piano economico e politico, il discorso sarebbe lungo. Su
un piano musicale, anche quando fingono di averlo tagliato, il
filo che tiene insieme i giovani cantautori del 2016 e quelli di
quarant’anni fa c’è eccome. Il leader della band romana Thegiornalisti,Tommaso Paradiso, 33 anni, richiama esplicitamente il debito con Lucio Dalla: «A me Dalla è sempre sembrato
un socratico che avesse dirottato gli uomini laici ad avere fede».
L’attenzione alla scrittura - da poeta e da linguista - l’ha senz’altro ereditata, e così certe ondate di malinconia. «La mia malinconia - scrive Paradiso - è tutta colpa tua e di qualche film anni
Ottanta». Si aggiunge anche parecchia ansia («Vorremmo fare
di più ma il tempo è contro di noi») e un piglio da critica sociologica estraneo a Dalla e invece costante fra i trentenni di oggi,
che facciano cinema in pillole (The Pills, The Jackal) o che
scrivano canzoni. Vasco Brondi-Le Luci della Centrale Elettri-
Foto: I. Magliocchetti Lombi - Contrasto, A. Serrano’ - Agf
e spietato, preferisce quello dei film di Wes Anderson, «tutto
tenerezza e finali agrodolci». Ma è meglio sognare la realtà,
piuttosto che viverla? Ci conviene fidarci o chiuderci, ripiegandoci su noi stessi? Uscire, esporsi, rischiando anche di
farsi male, o rassegnarsi? In un discorso ai neolaureati della
Syracuse University di New York, lo scrittore George Saunders ha detto che la grande malattia dei nostri tempi è l’egoismo: «Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa
emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di
voi stessi». E in effetti capita a tutti, oggi, di sentirsi isolati,
lontani dagli altri, profondamente soli. Allora tanto vale
mettersi in gioco, correre il rischio, presentarci per come
siamo davvero, nelle nostre paure, in tutta la nostra vulnerabilità: «Avrei bisogno di parlare con qualcuno di gentile»,
«non chiedo niente di più, lo sai, di un respiro da ascoltare»
(“Il posto più freddo”). «Quindi basta cercare, la notte, su
Google, il mio nome», dice Contessa, «dentro di me non c’è
niente di niente» (“Calabi-Yau”), uscire da noi stessi per
trovare altrove i respiri, gli sguardi, i sorrisi, i gesti, le voci, e
tutte quelle cose che appartengono alla vita, che i social
network non potranno mai darci. Uscire nel mondo di fuori,
dove ci sono gli altri, per accorgerci che potremo trovare
sempre qualcosa di buono, ricordarci che «nonostante tutto
c’è la nostra improbabile felicità, la nostra niente affatto fotogenica felicità» (“Lexotan”).
Ma come diceva Nanni Moretti a Laura Morante, in “Bianca”, «la felicità una cosa seria… io mi devo difendere». Ma
difendersi da cosa? Dall’amore, soprattutto, dal rischio di
uscire veramente da noi stessi, di esporsi, di mettersi in gioco,
di cadere e farsi del male. Nelle canzoni di Letizia Cesarini,
pesarese classe 1987 (in arte Maria Antonietta), e di Giuseppe Peveri, nato a Fidenza nel 1976 in arte Dente, l’amore
gioca con due «cuori deboli», li agita, li confonde, li illude e
poi li abbandona. Si ritorna al punto di partenza, «chiusi
dall’interno», dove le finestre che prima erano aperte sul
mondo, improvvisamente, diventano specchi. Da una parte i
ricordi, la malinconia, i giochi di parole, le serenate dolci e
miagolate da eroe romantico di Dente, che soffre per il suo
amore non corrisposto: «Ogni tanto ti penso spesso, mi manchi quando sei con me», «E mi fa male un po’ la testa, ogni
volta che penso a te, sarà che non rimpicciolisci, anche se ti
allontani da me», «Amica mia, Ah… mica mia» (“Coniugati
passeggiare”). Dall’altra parte la stanchezza cosmica, universale di Maria Antonietta, per cui l’amore, così deludente, la
porta a rimanere a casa, a non sentire più nulla: «Io stasera
non esco, saldamelo tu il conto con il resto del mondo» (“Saliva”), «Mi è tutto indifferente, a me non me ne frega niente»
(“Questa è la mia festa”). «Allora dimmi, che cosa mi manchi
a fare?», si chiede Calcutta, all’anagrafe Edoardo D’Erme,
nato a Latina nel 1989, «tanto mi mancheresti lo stesso, che
cosa mi manchi a fare?». Un’altra voce che racconta quelli
che Xavier Dolan, l’enfant prodige del cinema canadese, in
un suo film ha definito «amori immaginari», che nascono e si
consumano velocemente, pronti per essere rimpianti, idealiz-
Dall’alto: Vasco Brondi - Le luci della
centrale elettrica,
Francesco De Gregori e Calcutta
ca cita i maestri con consapevolezza: il «povera patria» di
Franco Battiato diventa «poverissima patria». E se Ornella
Vanoni cantava «Sapessi come è strano sentirsi innamorati a
Milano», Brondi corregge Milano in Milano 2. Postmoderno
come si deve: anziché “C’eravamo tanto amati” si accontenta
di un più realistico “C’eravamo abbastanza amati”. E - tra
distopia e disincanto - prefigura una gioventù che, prossima a
finire, lascerà tracce eterne su YouTube. «E cosa racconteremo
ai figli di questi cazzo di anni Zero?».
In realtà, proprio come i loro padri e nonni, stanno raccontando questo tempo. Lo fotografano, lo irridono, dettagliano
il paesaggio con riferimenti più precisi (dunque databili) di
quanti ce ne fossero nelle canzoni d’esordio di Venditti e De
Gregori. L’impegno politico si traduce in lampi di ironia acida:
«Come si fa a vivere la modernità senza fare schifo?» (Thegiornalisti), in autoironia che sfida i cliché: «I giovani di oggi si
vestono di merda, il punto di riferimento è Mario Balotelli».
Ma se temono qualcosa, è proprio di apparire programmaticamente impegnati: il peggio del peggio è finire per essere radical chic. E se certi padri barricadieri lo sono diventati, peggio
per loro. «Per me - ha spiegato Calcutta - essere radical chic è
quel mood sempiterno di essere un po’ impegnato nel sociale
ma distratto dalla realtà forte delle cose. Nel mio disco c’è una
forte presa in giro di quel sistema, quel circo, quella gimcana
di sensi di colpa come “Se non andavi su YouPorn non scoppiavano i campi rom”». Dissacrazione a tutti i costi, sì, e se si
rischia di passare per intellettuali, meglio buttarla in parodia.
Curioso: al De Gregori del ’76 veniva rimproverato il presunto
disimpegno, oggi la diffidenza nasce se sei troppo engagé.
Nell’aprile del 1976 (qualche mese prima era uscito “Rimmel”,
un gruppo di autonomi, durante un concerto, cominciò a protestare sotto il palco: «Dissero che mi ero ridotto a scrivere
canzoni borghesi come “Buonanotte Fiorellino”. Ero diventato ai loro occhi un nemico del movimento operaio. Poi aggiunsero, e non so cosa c’entrasse, che dovevano liberare i compagni
in galera e manifestare solidarietà ai proletari in divisa». I fan
dei Cani, al contrario, troverebbero sospetti versi alla“Eskimo”
di Guccini. Meglio affidarsi all’ironia e al suo rovescio - la vena
romantico-nostalgica, che apparenta in fondo tutti i cantautori under 40 sulla scena. Scherzano, ma poi piangono. E se c’è
chi li rimprovera di essere meno attrezzati musicalmente, di
limitarsi ad arrangiamenti ovvi, Calcutta ha la risposta pronta:
«Vedo tanti musicisti che cercano di fare dischi con un suono
pazzesco, riprendendo gli anni Settanta, curando eccessivamente gli arrangiamenti, lo stile. A me, invece, fare un disco così
sembra una roba da “fighetti”, io volevo essere sovietico, volevo degli arrangiamenti della mutua».
Il timore del “fighettismo” attanaglia Calcutta e colleghi;
De Gregori e coetanei temevano di apparire «maestrini saccenti e lugubri. Dotati di poca voce, poca intonazione e reclinati sul proprio dolore». L’aura hipster mette al riparo i primi,
mentre i secondi - ormai venerati maestri - sembrano divertirsi più con i rapper o le icone pop che con i loro recalcitranti discepoli. Sparigliano, e rischiano così l’accusa delle accuse
- quella di sembrare mainstream. Sarà per questo che, più
svelto di tutti, Calcutta mette le mani avanti e intitola “Mainstream” il suo secondo album: «Mi andava di rompere le
palle a un certo tipo di giornalisti che avevano sempre tifato
per me. Quando li ho sentito che dicevano che “Mainstream”
era una merda, io ero contento». n
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