Fair Play: il segno della nostra umanità

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Fair Play: il segno della nostra umanità
Fair Play: il segno della nostra umanità
diMaurizio Monego
Presidente della Commissione scientific-culturale del Panathlon International
e membro del Consiglio del C.I.F.P.
Qualsiasi società umana si fonda su un complesso di regole che disciplinano i rapporti fra gli
individui in tutti gli aspetti della vita. A quali principi queste regole debbano ispirarsi è materia di
cui tratta l’Etica.
La storia della filosofia propone una grande varietà di linee di pensiero a riguardo. Gli antropologi,
dall’Illuminismo in avanti studiano l’universo dei sistemi simbolici e istituzionali che connotano il
comportamento dei gruppi sociali. I sociologi si occupano di analizzare e interpretare le società in
cui agiscono e interagiscono gli esseri umani organizzati.
Il dibattito contemporaneo intorno all’etica si organizza secondo due modelli, quello teleologico
(finalistico), esemplarmente sviluppato da Aristotele, e quello deontologico kantiano. Sempre più
spesso questo dibattito privilegia le cosiddette “etiche speciali” per realizzare concretamente il loro
confronto. Sentiamo così discutere di etica pubblica, di bioetica, di etica dell’ambiente, di etica
dello sport e così via.
Lo sport, in quanto attività umana libera, a cui nessuno è costretto, che si fa per diletto, come
suggerisce l’etimologia della parola, costituisce un “fatto sociale totale”- secondo l’espressione di
Marcel Mauss – ovvero “un fenomeno legato ai caratteri di una società: le sue rappresentazioni, i
suoi riti, i suoi valori, la sua economia, la sua estetica, in quanto li integra nella loro globalità, ne
riproduce le sfaldature e le contraddizioni, tanto è integrato nel sociale e influisce su di esso”.1
La parola éthos designa “il luogo definito nella sua specificità e familiarità”. Per estensione
significa anche “lo stato delle cose ed il rapporto di senso che conferisce loro carattere di specificità
e familiarità. Allora l’etica è il processo che ci permette di accedere al mondo come luogo
necessariamente familiare e di afferrane il rapporto di senso, che ci consente di abitarlo anziché di
esserci capitati.
Detto in altri termini, l’etica rappresenta una fede, una casa comune che non è di nessuno, ma
appartiene a tutti e che tutti dobbiamo curare e difendere, se necessario, rinunciando in qualche caso
alla egoistica tutela della nostra proprietà, del nostro tornaconto. L’etica, dunque, è ricerca. Ricerca
continua di questa dimensione, di questa fede comune.
In nessuna attività umana si vede questa possibile etica come nello sport e nella competizione,
intesa nel suo significato etimologico: cum-petere, tendere insieme ad uno stesso fine. Questo fine
è la gara, che non è di nessuno, ma in cui tutti possono concorrere. E la (l’etica) si vede chiaramente
in certi sport in cui è evidente la co-sofferenza (da cum-patire, termine del tutto simile a cumpetere) degli atleti: in una maratona, in una impervia salita ciclistica, nelle prove multiple
dell’atletica, in una gara di sci di fondo.
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Ariel Morabia, “Sport e/è etica”, I Quaderni del Panathlon n. 3, edito per iniziativa congiunta di UNESCO e Panathlon
International, 1993
Con l’avvento dello sport moderno un altro termine è intervenuto a dare senso allo sport: il termine
fair-play. Non mi soffermo sul suo significato o sull’evoluzione che ha avuto da quando comparve
per la prima volta in letteratura nella tragedia King John di Shakespeare, e attraverso la tradizione
cavalleresca, fino alla pedagogia di Thomas Arnold. È noto come il fair-play sia uno dei principi
fondamentali dell’olimpismo (vedi la Carta Olimpica).
Sottolineo piuttosto il significato che esso assume rispetto all’etica. Se mi è consentito il termine,
direi che il fair-play è l’epifania dell’etica, è la manifestazione dell’etica che sta alla base di
qualunque gesto e comportamento che si verifica nello sport come in ogni altro settore della vita
quando si dà un senso all’agire in relazione con l’Altro.
Sappiamo quanto al giorno d’oggi siamo lontani dai concetti che ho espresso. La complessità della
società, l’abnorme importanza del denaro e del successo che scambievolmente propongono valori
ben diversi dalle “virtù” di cui discorreva Aristotele, ma a cui bisogna ancora riferirsi per
riconoscere i tratti della nostra umanità.
Niente di nuovo, a ben vedere. Negli antichi Giochi, quelli olimpici, i pitici, i nemei o gli istmici,
nonostante la loro natura religiosa, troviamo l’importanza della vittoria forse più sentita di oggi,
(non esisteva il podio), del denaro e degli onori tributati ai vincitori, troviamo il professionismo, il
doping e gli imbrogli, testimoniati dagli Zanes di Olimpia.2disposti lungo il percorso dal Metron
allo Stadio, ai piedi del monte Cronio.
Oggi come allora ci sono uomini – oggi anche donne – preposti a far rispettare le regole, a
salvaguardare lo spirito dello sport. Ci sono donne e uomini che come atleti, giudici, tecnici,
dirigenti, con i loro gesti testimoniano l’esistenza di un filo rosso che rende riconoscibile lo sport
autentico e la sua etica. Come il filo rosso intrecciato fra le fibre rendeva riconoscibili le gomene
della Marina Imperiale Britannica3.
In una delle edizioni del Quaderno del Fair Play che il Panathlon International e il Comitato
Internazionale per il Fair Play hanno pubblicato (1994), Antonio Spallino4 poneva alcune domande:
“Spirito e pratica del Fair Play sono forse reminiscenze di una mitica ‘età dell’oro’ dello sport,
vissuta, se mai è esistita, da una classe di privilegiati anglosassoni? O sono forse graffiti di una
stagione travolta da un epocale mutamento dei valori nelle società cosiddette avanzate?. Oppure, o
anche: atteggiamenti e gesti di lealtà, di rispetto e di onore per l’avversario, di congeniale
osservanza delle regole scritte e non scritte della competizione, di fedeltà alla verità del risultato
anche contro la propria utilità, dobbiamo accreditarli, come non pochi pensano, ad una sparuta
specie di epigoni di un romanticismo sportivo attardato ai margini dei clamori e degli spettacoli
imperanti?”.
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Il riferimento è a quanto scrive Goethe nelle sue Affinità elettive, per spiegare il legame di sentimento ed amore che
lega le pagine del diario di Ottilia, cita la “disposizione della Regia Marina Inglese, secondo cui tutto il cordame, dalle
gomene alle più piccole sagole, devono essere intrecciate con un filo rosso. Tale filo non può essere rimosso senza che
l’intera corda si sciolga e serve a far sì che ogni spezzone di corda possa essere riconosciuto per appartenere alla
Marina Inglese.”
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Olimpionico di fioretto e vice presidente del CIFP.
In questi interrogativi ci sono tutte le premesse di una riflessione sul significato e sul ruolo del Fair
Play in questa nostra società.
L’esistenza e l’opera di testimonianza del Comitato Internazionale per il Fair Play, del Movimento
Europeo per il Fair Play , dell’UNESCO ma anche di associazioni culturali come, il Panathlon
International o l’Association Française pour un Sport Sans Violence et pour le Fair Play, sono le
risposte a quelle domande.
La cerimonia di consegna dei Trofei e dei Diplomi d’Onore che domani il Comitato Internazionale
per il Fair Play celebrerà costituisce il riconoscimento che ogni anno, dal 1965, viene tributato a
persone o associazioni per gesti compiuti, per carriere ispirate al fair-play e per iniziative volte alla
sua promozione.
Sono gesti, sono stili di vita e azioni che vengono proposti come esempi. In essi sono riconoscibili il
senso di giustizia, il rispetto delle regole, il rispetto dei contendenti che fa andare anche oltre le
regole, la solidarietà, l’amicizia. Tutti valori di cui si sente un gran bisogno anche nella vita
comune, specialmente in un periodo in cui sembrano prevalere gli egoismi, la non accettazione
dell’Altro visto spesso come nemico, l’inaccettabile alterazione e distruzione dell’ambiente.
Per questo lo sport, unica fra le attività umane, che attraverso il gioco e il divertimento permette di
sperimentare quei valori - quando sia compreso nel senso – è importante che sia salvaguardato da
tutto ciò che lo minaccia e lo degrada – doping, scommesse, imbrogli – e mostri il suo volto umano,
quello di donne e uomini che pongono al centro dell’interesse la persona umana prima di ogni altro
obiettivo.
Da questo punto di vista il fair-play può considerarsi un baluardo di umanità.
Per affermarsi ha bisogno di una indefessa opera di educazione. Per questo accanto a momento
mediatico e dei riflettori, come sono le cerimonie di premiazione, occorre l’azione quotidiana
dell’esempio e della comunicazione con i giovani.
Col crescere del divario fra l’etica originaria dello sport e la realtà della pratica; con la perdita di
credibilità dello sport in tante manifestazioni in cui le minacce si concretizzano, cresce anche
l’impegno di contrasto.
Organizzazioni come il Panathlon International operano con continuità sul territorio, nelle scuole,
presso le società sportive, fra i genitori e con le istituzioni, per diffondere la cultura del fair-play e
dell’etica. Il CIFP ha colto l’importanza di avvicinare i giovani e proporre loro modelli e principi,
partecipando attivamente ai Giochi Olimpici della Gioventù nei programmi educativo-culturali
(CEP). Lo ha fatto a Singapore; lo ha fatto a Innsbruck.
Si tratta di un lavoro paziente, che richiede costanza. “L’etica è un combattimento” ha scritto Jean
Louis Boujon5. Richiede uno sforzo continuo. Del resto ce lo ricordava Aristotele nella sua Etica
Nicomachea: “Le virtù non si generano né per natura, né contro natura, ma è nella nostra natura
accoglierle, e sono portate a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine” 6.
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6
Vedi il saggio “Etica, giovani, sport” in Sport. Etiche. Culture, vol I edito dal Panathlon International nel 2003.
Aristotele, Etica Nicomachea,II,25.
Occorre dunque mettere in campo azioni, trovare l’approccio con i giovani, contribuire alla
formazione dei formatori, degli educatori – De Coubertin non parlò mai di allenatori, ma di
educatori -. Lo dobbiamo fare utilizzando gli strumenti pedagogici e di comunicazione che le
moderne tecnologie offrono.
Spiegare il concetto di fair-play a un giovane atleta, e ancor più a un giovane non impegnato nello
sport, non è facile. Lo comprende più facilmente per contrasto con il negativo. “Il suo valore si
rivela considerando il suo contrario: l’atto sleale”, affermava Willi Daume.
Qualche stagione fa il Museo Olimpico di Losanna propose una mostra interessante: “Angeli e
demoni – la scelta del Fair Play”. La mostra parlava al visitatore con alcune citazioni di uomini
illustri e della Carta Olimpica. Parlava soprattutto con le immagini: quelle di violenza, di disprezzo
per l’avversario, di ostilità che nega il mimetismo dello sport, si contrapponevano a quelle di gioia
nella vittoria, di consolazione nella sconfitta, di amicizia e gioia di vivere che la stragrande
maggioranza degli atleti mostrano in occasione soprattutto dei Giochi Olimpici e recentemente in
quelli dei Giochi Olimpici della Gioventù.
A questo tipo di proposte, vanno aggiunte quelle di materiali didattici da far utilizzare alle scuole
fin dall’infanzia, quelle di software per applicazioni, con cui tanti ragazzi e ragazze possono giocare
sui loro computer, tablets e telefonini.
Si deve percorrere la strada di far introdurre dalle federazioni una sempre maggiore attenzione a
educare al fair play, incidendo anche nella formazione degli allenatori e degli stessi genitori.
L’opera è complessa e richiede la sinergia di tanti enti, associazioni, istituzioni.
Concludo lanciando una proposta, che non ha il pregio dell’originalità, ma a cui molti, a cominciare
dal CIFP, potrebbero aderire concretamente. Già oggi nei social network circolano filmati e
fotografie di gesti di fair-play. Da quelle segnalazioni nascono a volte candidature per i premi
mondiali al fair-play. Perché non creare degli Osservatori telematici di “buone pratiche”? Le
“cattive notizie” ce le forniscono già i media o gli osservatori specializzati. Mostriamo la faccia
pulita dello sport!, con l’obiettivo di contagiare e spingere all’emulazione.
Perfino le neuroscienze sembrano dare una mano in tal senso. Secondo autori come Donald W.
Pfaff7, le varie aree del cervello che presiedono a comportamenti e azioni sembrano connettersi in
risposte altruistiche in accordo con la Regola Aurea (Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te). Il Fair Play “istintivo” quello che si verifica in determinate situazioni, sarebbe dunque
riconducibile a risposte del cervello basate sull’esperienza e coerenti con la Regola Aurea. Ma
attenzione: i “neuroni specchio” agiscono nei rapporti con l’Altro, ma è l’individuo, con la sua
cultura che determina gli esiti altruistici o di chiusura. Al formarsi della cultura è di aiuto la
conoscenza delle esperienze di altri, vederle, sentirle descrivere, raccolte insieme in un repertorio
facilmente consultabile. Anche questi elementi entrano nel processo formativo della persona.
Solo attraverso la cultura il libero arbitrio si coniuga positivamente con la responsabilità di ognuno.
7
Donald W. Pfaff The neuroscience of Fair Play - Why we (usually) follow the Golden Rule, con prefazione di Edward O.
Wilson, Dana Press, New York/Washington, 2007.
Alla fine il gesto di fair-play è un atto volontario di libertà e di giustizia che a volte va al di là delle
regole scritte per mostrare il rispetto e l’onore dell’avversario, come ho citato all’inizio.
Come tale il fair-play è il segno della nostra umanità.