Giampiero Mughini, Quello che non sa è il Signor non so

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Giampiero Mughini, Quello che non sa è il Signor non so
Giampiero Mughini, Quello che non sa è il Signor non so
[…] Quell’aria errabonda di chi non sa dove mai sostare e ripararsi, quel sorriso che da trent’anni
non la smette di stuzzicare i nostri luoghi comuni, quel suo cantare dolceamaro che è sempre una
maniera di dire e pronunciare, quel suo essere stato così a fondo e cosi in mezzo alle febbri del
nostro tempo ma sempre come un passetto di lato: il “Signor non so” ha stravinto la battaglia,
cominciata a poco più di vent’anni, contro l’acerrimo suo interlocutore, “l’impegnato”. Il Signor
non so, ossia il sessantatreenne Giorgio Gaber, un milanese di origini triestine che nella storia del
nostro teatro e del nostro spettacolo sta nel rango dei sommi, lì dalle parti di Carmelo Bene o Dario
Fo o Eduardo De Filippo. […] Trent’anni che questo cantautore e poeta ci accompagna e
accompagna le nostre emozioni, trent’anni che ci dice di avere solo dubbi ed esitazioni su quel che
vorrebbe essere e fare, e di non sapere se questo o quello è di destra o di sinistra, e mentre erano in
tanti attorno a lui a tuonare che andava fatto così o cosà. Che solo così o cosà era buono, tutto il
resto schifezze. Lui, il Signor non so, non ne era così sicuro, e non sapeva come esattamente passare
una domenica, perciò quel giorno decise di farsi uno shampoo. Meglio che niente, in attesa di cause
migliori e più importanti. Vuol dire per questo che “una generazione ha perso” come canta l’ultimo
Gaber?
Per dire di Dario Fo, uno della sua generazione che funge da personaggio sinonimo dell’attore
e autore “impegnato”, quali erano i rapporti fra di voi?
Per molto tempo Dario mi ha fatto prediche, poi ha smesso. Voleva a tutti i costi che nelle mie
canzoni e nel mio lavoro io alzassi il pugno, ma io non me la sentivo di essere così categorico; dirò
di più, me ne sarei vergognato a essere così categorico nel definire che cosa era bene e che cosa era
male.
[…]
C’è questa sua ultima canzone famosa che ha per titolo “La mia generazione ha perso”, lì
dove lei dice che non siamo stati migliori dei nostri padri, e io non vedo come avremmo potuto
essere migliori dei nostri padri, quelli che tornarono da una guerra perduta e ricostruirono
l’Italia. Le generazioni non perdono e non vincono tutte assieme. Ognuno di noi si guarda allo
specchio e valuta quel che vede. Non credo che lei sia spiaciuto di quel che vede allo specchio.
Quella mia affermazione non vuole avere nulla di scientifico. È poco più che una sensazione, che
tutto s’è fatto come più cupo, che sviluppo economico e progresso hanno smesso di crescere
assieme, che la conversazione tra le persone ha perduto di qualità. Io non ho nulla del “reducista” né
sono particolarmente nostalgico delle grandi euforie di quando avevamo vent’anni...
[…]
Nei suoi vent’anni lei aveva debuttato da chitarrista nella band di un certo Adriano
Celentano.
Per essere più precisi, cominciai a cantare una volta che Adriano non era venuto e noi dovevamo
provare non ricordo più quale canzone e ci provai io a cantarla. Erano gli anni in cui a Milano
stavano muovendo i primi passi Umberto Bindi, Gino Paoli, Enzo Jannacci. Quanto a tecnica
canora eravamo tutti dei cani, poi ci siamo migliorati. I miei modelli a quel tempo erano Frank
Sinatra, Nat King Cole, i cantanti jazz.
Il vostro fortino in quegli anni è stato un mitico locale milanese, il Santa Tecla. Chi lo
frequentava?
Un mondo molto pittoresco, almeno per me che ero uno studente di ragioneria. Il Santa Tecla era
poco più che una cantina, scendevi dei gradini e poi quello che vedevi era lo shock completo.
C’erano intellettuali, puttane, puttane intellettuali. Lì ho conosciuto Umberto Simonetta, con il
quale ho lavorato sino a poco prima della sua morte, quattro anni. Lì ho conosciuto Sandro
Luporini, un viareggino che di mestiere faceva e fa il pittore. Né io né lui avevamo studiato musica.
Ci siamo messi a lavorare assieme e da allora gran parte del mio lavoro è metà mia e metà sua. Ogni
nostra canzone nasce da una parola scritta, mai da una nota musicale.
Per tornare a Celentano, il vostro duetto nell’ultima trasmissione televisiva di Adriano è stato
di quelli che non si dimenticano. Venticinque minuti in cui era simbolicamente ed
emotivamente concentrato il destino di due fuoriclasse della canzone italiana moderna.
Con Adriano abbiamo cominciato assieme, tutti e due veniamo dal rock and roll, ma per il resto ci
siamo visti e frequentati poco. Ed è un peccato. Avessi lavorato di più con lui, credo che gli avrei
dato dei buoni consigli. Sarei stato una spalla perfetta per Adriano.
Lei ha inventato un genere, quello che passa sotto il nome di teatro-canzone. Un gioco teatrale
ottenuto da un solo uomo che canta, ma che non canta soltanto: si muove e recita e parla e
ammicca e racconta qualcosa persino con un movimento della spalla o con un sorriso. Da
trent’anni questo suo teatro gode di un successo senza flessioni. Qual è il suo pubblico oggi e
rispetto a quello di un tempo?
Un tempo era un pubblico prevalentemente di sinistra, una sinistra che aveva dubbi e si interrogava.
Oggi io stesso non so bene da chi sia fatto il mio pubblico. A uno dei miei ultimi spettacoli romani,
all’Olimpico, lei era lì nelle prime file e mi parve che anche lei se lo stesse chiedendo, da chi era
fatto quel pubblico. […]
Com’è oggi, a 63 anni, il Signor non so?
Un uomo sempre più solo, sempre meno capace di resistere alla tentazione della misantropia. Un
uomo che si muove entro un mondo che capisce sempre meno e che ama sempre meno. Uno che
non sa assolutamente nulla.
[…]