Giugno - salesiani don Bosco

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Giugno - salesiani don Bosco
Spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20B - Legge 662/’96 - D.C./ D.C.I. - Torino - Tassa Pagata / Taxe Perçue
• ANNO XXVIII - MENSILE - N° 6 - GIUGNO 2007
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MARIA
A U S I L I AT R I C E
RIVISTA DEL SANTUARIO BASILICA DI MARIA AUSILIATRICE - TORINO
Il Pane di Vita
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L’eco di una splend i
La pagina
del Rettore
Carissimi amici del Santuario,
P
er chi è stato testimone delle solenni celebrazioni dei
giorni scorsi, riecheggia ancora nella mente e nel cuore, la
grande testimonianza di una
grande devozione popolare a Maria Ausiliatrice. Quante suppliche, quante preghiere, quante
confessioni, quante testimonianze...! Anche agli occhi di chi è
diffidente e scettico un’attenta esperienza a Valdocco nei giorni
“caldi” delle celebrazioni lo impressiona fortemente. Così è stato anche per chi ha potuto seguire alcuni momenti salienti della veglia e delle celebrazioni del
24 mattino e sera, su TELEPACE, televisione satellitare che,
con la collaborazione del “Don
Bosco Media Center” di Torino
ha portato nelle famiglie e nelle
comunità religiose di tutto il
mondo un messaggio mariano significativo e forte. Attenti osser-
ia
Festa di Mar
24 maggio
vatori hanno valutato che solo
tra i due giorni del 23 e 24 sono
passate a Valdocco più di 100.000
persone e certamente più di un
milione hanno seguito l’evento
in tutto il mondo. Nel prossimo
numero della nostra rivista vi daremo conto della festa con numerosi flash fotografici.
Ritorniamo ora, per qualche
istante, a riconsiderare la rilettura degli eventi che hanno segnato la nostra storia salesiana e
il senso recondito del santuario
di Maria Ausiliatrice. Dicevano
nel numero scorso, che la costruzione del tempio è più che
un lavoro tecnico, che una preoccupazione per i piani, i materiali e i finanziamenti. Per Don Bosco la costruzione della Basilica
di Maria Ausiliatrice rappresenta un’esperienza spirituale ed una maturazione della mentalità
pastorale. La realizzazione di
questo grande tempio supera l’idea iniziale: da una chiesa per la
sua casa, il suo quartiere e la sua
congregazione all’idea di un santuario, meta di pellegrinaggi, centro di culto e punto di riferimento
per una famiglia spirituale.
Parrocchia salesiana di Codigoro (Ferrara).
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I problemi economici poi si
sono risolti con grazie e miracoli che stimolarono una generosità non calcolata del popolo (oggi possiamo affermare e testimoniare che si ripetono tali grazie!).
Tutto ciò radicò in Don Bosco
la convinzione che “Maria si era edificata la sua casa”, “che ogni mattone corrispondesse a una sua grazia”.
All’origine del santuario di
Valdocco non c’è, come in altri
luoghi mariani, un’apparizione
o un miracolo. Ma il tempio stesso finisce per essere un luogo e
un complesso “taumaturgico” (v.
don P. Stella). Affermò un sacerdote di quel tempo, un certo
teologo Margotti: “Dicono che
Don Bosco fa miracoli. Io non ci
credo. Ma qui ne ebbe luogo uno che non posso negare: è questo sontuoso tempio che costa un
milione ed è stato costruito in
soli tre anni con le offerte dei fedeli”.
La costruzione coincide ed è
seguita dalla fondazione dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Esse rappresentano l’al-
Parrocchia di Morgex (Aosta) con Don Renato.
A
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d ida esperienza che continua
e
a Ausiliatric
o
largamento del carisma al mondo femminile. Così come un’altra fondazione, l’arciconfraternita di Maria Ausiliatrice è, insieme ai cooperatori, l’estensione verso il mondo laico. Comincia allora l’espansione delle Congregazioni. Avrà la sua manifestazione vistosa nelle spedizioni
missionarie che ancor
oggi partono, in gran
parte, da Valdocco.
Ne venne come
conseguenza l’apertura apostolica: dall’istituto educativo ad una pastorale popolare
con elementi tipici: la
predicazione, i sacramenti, la pratica della
carità attraverso offerte materiali e partecipazione alle attività
caritative. Seguì anche
lo sforzo sistematico
per le vocazioni adulte chiamato “opera di
Maria Ausiliatrice”.
Senza assolutizzare l’affermazione, si
può dire che Don Bosco incominciò la costruzione come direttore di un’opera e la finì come capo carismatico di un grande movimento ancora in germe ma già definito nelle finalità e tratti distintivi; la cominciò come sacerdote originale di Torino e la finì come apostolo della Chiesa, passò
dalla città al mondo.
Parrocchia di Robbiano Giussano (Milano) con Don Virgilio.
Se l’esperienza dell’oratorio aveva dato come risultato
positivo la prassi pedagogica,
l’opera del santuario fece emergere nel lavoro salesiano
una visione di Chiesa come popolo di Dio sparso su tutta la
terra in lotta con le potenze del
male: una prospettiva che presenterà in un’altra forma nel
sogno delle due colonne (1862
di cui già avevamo parlato la
volta scorsa).
Forgiò uno stile pastorale fatto di audacia e fiducia: saper cominciare con poco, osare molto
quando si tratta del bene, andare avanti affidandosi al Signore.
Scolpì una convinzione nel cuore della congregazione: “Propagate la devozione a Maria Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli...”.
L’augurio più cordiale per tutti noi è che sappiamo imparare
dalla nostra storia di famiglia e
che dalla fiducia in Maria ognuno di noi si senta al sicuro ed
aiutato ad essere un degno testimone dell’amore di Dio.
Don Sergio Pellini
Rettore
Scuola Materna Gesù Fanciullo di Rosà (Vicenza).
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Editoriale
Il matrimonio
è l’accoglienza
della definitività
dell’amore.
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Cnell’a
o n more
sacrati
«Ti amo». È una delle espressioni più usate ogni giorno da milioni di persone. Pronunciata con intensità e trasporto. Coscienza e
passione. Ponderatezza e affetto. Una frase che anche i coniugi legati da molto tempo non farebbero male a ripetersi. È una dichiarazione, un’invocazione, un mostrarsi nella semplicità di ciò che si
è, disarmati ma forti della propria donazione. Come acqua di primavera essa sgorga dalla semplicità del cuore e proclama la trasparenza e la purezza dell’amore. Parole che temono solo di non
reggere ai rovesci della vita e che invocano un fondamento perenne
e assoluto che fondi il loro stesso vibrare. Parole che anelano all’eterno e che bramano l’immortalità. Esse sono termini di un desiderio senza termine. Nell’istante in cui sono pronunciate l’Universo sembra vibrare di gioia. La ferialità dell’inesorabile temprerà l’incandescenza vitale dell’entusiasmo contenuto nella semplicità di questa espressione. Ma ogniqualvolta essa verrà utilizzata,
s’imporrà con l’autorità del suo abbandono poiché ricorda
agli umani le possibilità dischiuse dall’amore e indica loro la via verso l’amore perfetto, suscitando nel cuore, nella mente, nei sensi una domanda: ma esiste l’amore perfetto? Esiste un amore di cui non se ne può pensare uno
maggiore? Oppure la perfezione nell’amore è come un
orizzonte verso cui si cammina ma mai si raggiunge?
La sera del Giovedì Santo, nelle chiese si proclama
il testo del capitolo XIII del Vangelo di Giovanni, in cui
si dice: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo
che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».
Il testo greco di “sino alla fine” non significa solo: sino al termine
della propria vita; indica la consumazione totale del proprio essere, l’offerta esaustiva di sé. Poiché Gesù è l’uomo perfetto, anche
l’amore che ha dimostrato è un amore perfetto. Si potrebbero ancora dire altro su questa frase di Giovanni, poiché Gesù è persona
divina e il suo amore ci introduce in quella fine che non ha fine che
è l’eternità stessa e che la sua offerta è perenne e dura in cielo come in terra sino alla consumazione dei secoli mediante l’offerta
dell’Eucaristia. Gesù dimostra, quindi, un amore perfetto, tanto che
non si può amare più di Gesù. Il suo amore umano è, dunque, l’amore umano perfetto.
Quando un uomo e una donna assumono nella loro vita questo amore? Semplicemente quando accolgono la definitività dell’amore.
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In ogni età
l’amore ha le sue
espressioni. Col passare
degli anni, l’affetto
e la vicinanza assumono
tonalità nuove
che rendono l’amore
una continua scoperta.
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Questa radicale e conclusiva donazione viene sancita nel sacramento del matrimonio. In ogni sacramento è Cristo che agisce
mediante il ministro. Ora,
nel sacramento del matrimonio, per la Chiesa d’Occidente, i ministri sono gli
sposi stessi: attraverso il loro reciproco donarsi, Cristo porta a compimento in
loro il Suo “amare sino alla fine”. In loro, Cristo realizza il Suo donarsi all’umanità per sempre. Così
Cristo rende gli sposi partecipi del Suo stesso amore che è amore infinito ed eterno. Quando
Cristo celebra il matrimonio, rende partecipi i due sposi della definitività insita nel Suo amore. Istituisce fra essi un vincolo che li lega in un’appartenenza indistruttibile. Il dovere della fedeltà e la forma giuridica dell’indissolubilità sono conseguenze non l’essenza di
questo vincolo. Gli sposi infatti possono essere infedeli; possono divorziare: ma il vincolo che li unisce l’uno all’altro permane più forte di ogni divisione, poiché, in questo senso, il sacramento è stato istituito da Cristo stesso.
Quando gli sposi accolgono la perennità dell’amore di Cristo, Gesù stesso rende partecipi i due sposi della Sua capacità di amare.
E poiché ogni sacramento è frutto della Pasqua del Signore e del
dono che Lui fa ai Suoi discepoli nella storia, cioè il dono dello Spirito, allora gli sposi sono mossi dall’azione dello Spirito Santo. È
lo Spirito Santo che ha spinto Cristo a donarsi sulla Croce e gli sposi sono resi partecipi di questa stessa forza amorosa: questa partecipazione effusa nel cuore degli sposi è la carità coniugale. È questa l’operazione più preziosa compiuta da Cristo quando celebra il
sacramento del matrimonio. Il vincolo coniugale esige la carità, e
nello stesso tempo è il vincolo coniugale che abilita gli Sposi a ottenere il Vivificante, cioè lo Spirito Santo che porta a compimento
e perfeziona il loro amore umano. Il vincolo senza la carità è un
non senso e la carità, ossia l’amore di Dio nei nostri cuori, si ottiene mediante l’implorazione della preghiera. «Io voglio amare te,
ma senza l’amore di Dio in me, so che il mio amore è fragile e fugace, per questo chiedo a Dio di amare attraverso di me la persona che ho scelto come segno della Sua amorosa fedeltà»: Concedi,
o Signore, che le nostre famiglie scoprano la forza della Tua benevolenza, e in Te si consacrino affinché il loro amore raggiunga gli
orizzonti del Tuo.
Don Giuseppe Pelizza
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Il mistero del
Gesù
racconta il Padre
pane della vita
Gv c. 6
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© Elledici / G. Schnoor
S
e una similitudine c’è tra il
capitolo 5 e il 6, è che anche qui si inizia con un miracolo e qualche appendice e poi
segue un lungo e non facile discorso-dibattito sul pane di vita.
Il miracolo viene chiamato segno e questo dice che ci vuole indicare qualcosa d’altro simbolizzato dal racconto. L’inizio è
molto strano: “Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea”,
ma da dove partì e dove approdò
sull’altra riva? Silenzio assoluto. Poi si crea l’atmosfera per il
racconto miracoloso. La narrazione è molto diversa da quella
dei Sinottici, ma assai piacevole
(6,5-15). La riassumiamo: l’iniziativa è tutta di Gesù, il quale,
vedendo una grande moltitudine, dice a Filippo: «Dove possiamo comperare il pane perché
costoro abbiano da mangiare?».
Poi si fa avanti un ragazzino con
cinque pani e due pesci. Allora
Gesù fa sdraiare la gente, rende
grazie, e distribuisce il pane; ce
n’era in sovrabbondanza.
La gente si entusiasmò e voleva prendere Gesù per farlo re,
ma egli riuscì a sfuggire solo sul
monte, mentre i discepoli presero la barca e si diressero verso
Cafarnao. Durante la notte il mare era molto agitato. Ma a un certo punto venne verso di loro Gesù, camminando sull’acqua. Si
avvicinò e disse: «Non abbiate
paura». E con lui la barca raggiunse presto la riva (6,16-21).
Anche la gente al mattino si diresse con le barche verso Cafarnao, dove incontrarono Gesù. A
questo punto (6,25) ha inizio il
discorso-dibattito sul pane che
dà la vita.
Andrea conduce da Gesù un ragazzo e poi si ritira. Lascia che Gesù incontri
personalmente questo giovane. In questo modo diventa il modello di ogni apostolo: condurre a Gesù rimanendo liberi dinanzi ai propri impegni e progetti.
“Discorso-dibattito” sul pane
che dà la vita (6,26-59)
Nella spiegazione seguiamo il
metodo usato nel capitolo 5: inserire il testo in corsivo nel commento. L’importante è di non
perdere mai di vista il testo. Una prima parte è racchiusa da
due frasi: dalla parola di Gesù:
«Cercate il cibo che dura per la
vita eterna» e dalla domanda
del popolo: «Signore, donaci
sempre questo pane». Gli interlocutori diretti sono le folle, ma
l’evangelista sta parlando alla
comunità cristiana che deve assumere le sue responsabilità di
fronte a Gesù.
“Gesù rispose alla gente che
gli chiedeva come era giunto a
Cafarnao: «In verità, in verità vi
dico: voi mi cercate non perché
avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi
siete saziati. Cercate non il cibo
che perisce, ma quello che rimane per la vita eterna e che il
Figlio dell’uomo vi darà, perché
su di lui il Padre ha messo il suo
sigillo».
Il fatto che la gente non lo cerchi perché ha visto dei segni è
spiegabile. L’hanno appena proclamato come “Il Profeta che deve venire nel mondo” (6,14). Ora lo cerca perché si sono saziati. Un inviato di Dio che risolve
la materialità della loro vita: assicurare il pane, è più che sufficiente, ma non per Gesù che è venuto per donare la vita eterna.
Perciò subito eleva il suo linguaggio e fa guardare in alto:
«Datevi da fare non per il cibo
che perisce, ma per quello che dà
la vita eterna, che sazia per sempre». Solo questo cibo è un ve-
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ro dono di Dio e ve lo darà il Figlio dell’uomo. “Ve lo darà”, al
futuro perché si tratta di una promessa. Il compimento viene spiegato nel discorso. Però il Padre
con il miracolo, compiuto da Gesù, ha messo il suo sigillo sull’agire del Figlio, cioè assicura
che si compirà.
Allora gli dissero: «Che cosa dobbiamo fare per compiere
le opere di Dio». Gesù rispose
loro: «Questa è l’opera di Dio
che crediate in colui che lui ha
mandato».
“Le opere”. La gente di solito educata dai farisei pensa alla
vita eterna come a una conquista personale, frutto del proprio
agire, non come a un dono. E
invece Gesù fa guardare al dono: “l’opera di Dio” singolare;
e poi dice che consiste nel “credere in colui che Egli ha mandato”. L’opera è fatta dall’uomo, ma è allo stesso tempo
“un’opera di Dio”, compierla significa aderire totalmente a Gesù per un dono che non può dare ora, ma che darà quando sarà
innalzato sulla croce.
Allora gli dissero: «Quale segno compi perché vediamo e crediamo in te? Che cosa fai? I nostri padri hanno mangiato la
manna nel deserto, come sta
scritto: “Diede loro da mangiare un pane venuto dal cielo”».
Rispose loro Gesù: «In verità, in
verità vi dico: Non è Mosè che
vi ha dato un pane dal cielo, ma
il Padre mio vi dà ora un pane
dal cielo, quello vero. Infatti il
pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
Gesù ha chiesto la fede in lui,
un’adesione totale alla sua persona. Ma la gente non ci sta. Ci
vuole ben altro; per credere in
lui, non basta il miracolo del pane. Quindi, come i farisei, chiedono un segno più strepitoso e citano quello che avvenne nel deserto, quando Dio con la manna
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diede loro un pane disceso dal
cielo. Gesù cambia il soggetto e
dice: «Non è Mosè che ve lo ha
dato» e poi passando dal passato al presente aggiunge: «Ma il
Padre mio vi dà ora un pane dal
cielo, quello vero». E, definendo
se stesso dice che il pane vero è
colui che discende dal cielo e dà
la vita al mondo, cioè “è sorgente di vita per tutti, non solo
per un popolo”. A questo punto
come la samaritana, quando ha
sentito parlare di un’acqua che
disseta per sempre, anche loro
rispondono in modo simile: «Signore, dacci sempre questo pane». La samaritana ha detto così per togliersi il fastidio di attingere ogni giorno al pozzo. Ora hanno risposto per un simile
motivo non perché vogliono credere. La risposta verrà.
Gesù rispose loro: «Io sono il
pane della vita; chi viene a me
non avrà mai più fame e chi crede in me non avrà mai più sete.
Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete».
Si è parlato della manna, “un
pane venuto dal cielo”; E Gesù
allegorizzando dice: «Io sono il
pane della vita» o come si è detto: «Sono colui che discende dal
cielo e dà la vita al mondo»
(6,33) «Sono io il pane dal cielo, quello vero che il Padre vi
darà». Il pane che sazia per sempre è Gesù nella totalità della sua
persona. Egli è quel nutrimento
che solo può sostenere e saziare
e dare quella vita che ha il carattere della definitività; egli è
davvero per l’uomo sorgente di
vita. Non è quindi possibile avere la vita senza Gesù. Il Padre
infatti lo ha mandato affinché chi
crede in lui abbia la vita eterna.
I cristiani della comunità di
Giovanni che spezzavano insieme il pane eucaristico, gioivano
nell’udire Gesù definirsi: «Sono
io il pane della vita». Invece a
quelli che l’ascoltavano Gesù diceva: «Mi avete visto e non credete». Gesù si sente rifiutato, eppure continua a rivelarsi con parole incisive.
«Tutto ciò che il Padre mi dà
verrà a me: colui che viene a me
non lo respingerò, perché sono
disceso dal cielo non per fare la
mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa
è la volontà di colui che mi ha
mandato: che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma che
lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del
Padre mio: che chiunque vede il
Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciti nell’ultimo giorno».
Ci sembra di essere di fronte
Il luogo in cui Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci si trova nelle vicinanze del
lago di Tiberiade. Il periodo in cui Gesù pose questo segno, era la primavera,
in prossimità della Pasqua.
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Nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso distribuisce i pani e i pesci alla folla che
sta attorno a Lui. È Gesù che dirige l’azione e mantiene la regia di quello che
sta avvenendo.
a un meraviglioso riassunto di
quanto finora si è detto su Gesù,
Figlio di Dio, Inviato del Padre,
Sorgente di vita eterna. Gesù ora parla in prima persona del Padre come Mandante, di sé come
l’Inviato e degli uomini come destinatari della sua opera.
L’iniziativa è come sempre del
Padre il quale vuole che tutti gli
uomini abbiano la vita eterna e
siano salvi per mezzo del Figlio
suo. Ma ci sono coloro che vedono il Figlio e non credono in
lui (6,36); però ci saranno, soprattutto nel futuro, anche coloro che vedono Gesù e lo accoglieranno e crederanno in lui
(6,40); e lo accoglieranno come
“dono del Padre” (3,16). In questi Gesù vede il “dono” che il
Padre fa a lui.
È meraviglioso: come credente sono per Gesù un “dono”
del Padre. La comunità che sta
con Gesù sa che gli uni sono per
gli altri “dono di Dio”. Questa è
l’opera del Padre che, mediante
la fede, ha reso i discepoli capaci di appartenere al Figlio.
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Ma ora osserviamo il Figlio,
colui che come apprendista alla
scuola del Padre si è reso soggetto capace della sua missione. Egli dice di ciascuno: non lo caccerò via, farò sì che non si perda,
lo risusciterò nell’ultimo giorno.
E farà tutto questo perché il suo
cibo è “fare la volontà del Padre”.
Sono parole che infondono nel
cristiano un senso di sicurezza
della sua futura salvezza.
Una dura controversia
(6,41-59)
Se vogliamo leggere rettamente questa difficile pagina di
Vangelo dobbiamo collocarci nella comunità cristiana di allora e
nella sua prassi eucaristica. Essi
spezzavano il pane come Gesù
aveva loro insegnato: “Prendete,
questo è il mio corpo... prendete
questo è il mio sangue...”. Assumere il corpo e il sangue del Signore dava loro la possibilità di
entrare nella più intima comunione con lui. Leggendo o ascoltando in questa situazione il rac-
conto non capivano perché tanti
giudei sentendoli parlare suscitavano polemiche a non finire.
È questa situazione ecclesiale che traspare da tutto il racconto e che si sovrappone a quello che Gesù ha detto. Certamente Gesù ha parlato di sé come
“pane” e della necessità di essere mangiato. Leggiamo il testo:
«I giudei mormoravano contro
di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo” e dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe del quale conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Io
sono il pane disceso dal cielo?”».
Innanzitutto si parla dell’identità di Gesù e si presenta la sua
carta d’identità: egli è questo e
non si può aggiungere altro. Perciò come può dire: “sono disceso dal cielo?”. Sembra di risentire Nicodemo che dice: “Come
può accadere questo?”. Sono parole che sanno di chiusura. Gesù
sente le loro difficoltà e perciò
torna a parlare del Padre.
«Non mormorate tra di voi.
Nessuno può venire a me se non
lo attira il Padre che mi ha mandato e lo risusciti nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha
imparato da lui viene a me. Non
perché qualcuno abbia visto il
Padre. Solo colui che viene da
Dio ha visto il Padre. In verità,
in verità vi dico chi crede ha la
vita eterna. Io sono il pane della vita. I padri vostri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne
mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno
mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la
mia carne per la vita del mondo».
Gesù sente le loro difficoltà e
perciò torna a parlare del Padre.
Il credere in lui è “opera di Dio”
è dono del Padre. E, spiegando
l’agire del Padre dice loro che
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debbono aprirsi a Dio, lasciarsi
istruire dal Padre che ha già parlato per mezzo dei profeti. Ascoltino la sua parola e l’accolgano; allora capiranno chi è Gesù, andranno da Gesù senza aver visto Dio, la cui educazione
avviene nell’intimo dell’essere e
porta a poco a poco a convinzioni di fede che il Padre si rivela
definitivamente in Gesù che viene dal Padre come pane e sorgente di vita.
Poi riafferma di essere il “Pane disceso dal cielo” e di nuovo
richiama il dono della manna che
non può dare la vita. Mentre il pane che viene dal cielo dà la vita
eterna. E finisce dicendo: «Il pane che io darò è la mia carne
per la vita del mondo». Non l’avesse detto...
I Giudei si misero a discutere aspramente tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse:
«In verità, in verità vi dico: se
non mangiate la carne del Figlio
dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non
avete in voi la vita. Chi
mangia la mia carne e
beve il mio sangue ha
la vita eterna e io lo
risusciterò nell’ultimo
giorno. Perché la mia
carne è vero cibo e il
mio sangue vera bevanda. Chi mangia la
mia carne e beve il mio
sangue rimane in me
e io in lui. Come il Padre che ha la vita ha mandato
me e io vivo per mezzo del Padre, così anche colui che mangia
me vivrà per mezzo di me. Questo è il pane disceso dal cielo
non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi
mangia questo pane vivrà in eterno».
Per i Giudei la parola di Gesù è un assurdo. Impossibile fare i cannibali e mangiare la carne di un uomo e tanto meno bere il suo sangue. Ancora oggi gli
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Ebrei non mangiano il sangue,
perché il sangue è vita e la vita
appartiene a Dio. Perciò il linguaggio di Gesù è inaccettabile
e nei loro dibattiti con i cristiani mettevano in evidenza quello
che per loro era un assurdo. Per
i cristiani invece la rivelazione
di Gesù è meravigliosa e chiara.
Si intende per i cristiani che leggono nella luce pasquale.
Essa richiama loro quanto è
avvenuto nel Cenacolo. Gesù
continua a dire loro: «Prendete
e mangiate: questo è il mio corpo... Prendete e bevetene: questo
è il mio sangue».
Corpo e sangue separati; ciò
significa che è intervenuta la morte; che Gesù può diventare “cibo e pane che dona la vita” solo
nel dono totale di se stesso. Cibarsi di lui era quello che i cristiani facevano e fanno celebrando e spezzando insieme il
pane, come Gesù ha loro insegnato nel Cenacolo. “Insieme”
perché ogni partecipante deve
imparare a imitare Gesù e a farsi come Gesù dono totale per gli
altri. Mangiare Gesù “pane” significa già fin d’ora possedere la
vita eterna. Il dono eucaristico è
il dono più bello che Gesù ci ha
fatto; esso ci fa entrare nella più
intima comunione con lui e con
il Padre: ci fa vivere la sua vita
e ci insegna a donare la nostra.
Il v. 59 è un versetto isolato.
Dice che Gesù disse queste cose nella sinagoga di Cafarnao.
Ma quando vi entrò?
Gesù e i discepoli (6,60-71)
Quanta tristezza traspare dal
volto di Gesù in questa pagina di
Vangelo. Oramai i Giudei lo hanno rifiutato e i discepoli non riescono a capirlo. Dicono: «Questo
discorso è duro, chi può ascoltarlo?» (6, 60). Nella situazione
che si è creata le parole di Gesù
sono per loro uno “scandalo”.
Com’è possibile vedere in Gesù,
il figlio di Giuseppe, il Messia, il
Figlio di Dio “disceso dal cielo”
e per di più uno che cammina
verso la morte per diventare “pane che dà la vita eterna”?
Gesù, che “sa quello che c’è
nell’uomo” (2,25), li guarda e si
accorge che stanno mormorando contro di lui e dice: «Questo
vi scandalizza? E se vedeste il
Figlio dell’uomo salire in cielo
dov’era prima?» (6,62). Annuncia loro quell’evento che darà la
pienezza della rivelazione del suo
mistero, ma che può essere accolto soltanto da coloro che si
lasciano guidare dallo
Spirito Santo, perché «le
sue parole sono spirito e
vita» (6,63). Bisogna lasciarsi “ammaestrare dal
Padre” e non chiudersi in
ragionamenti puramente
umani: «la debolezza umana (la carne) non giova a nulla» (6, 63). Ma
Gesù si accorge che anche
queste parole non dicono
nulla: «Da quel momento infatti molti dei suoi
discepoli si allontanarono e non
andavano più con lui» (6,66).
Gesù, rimasto solo con i Dodici, dice loro: «Volete andarvene anche voi?» (6,67). Per non
concludere l’articolo nella tristezza la risposta di Pietro sia il
nostro atto di fede e la nostra
preghiera: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto
e conosciuto che tu sei il Santo
di Dio» (6,68s).
Mario Galizzi
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La Catechesi di Benedetto XVI
I Salmi
La preghiera del Re
Salmo 143,9-15
Mio Dio, ti canterò un canto nuovo, suonerò per te sull’arpa a
dieci corde; a te, che dai vittoria al tuo consacrato, che
liberi Davide tuo servo.
Salvami dalla spada iniqua, liberami dalla mano degli stranieri; la loro bocca dice menzogne e la loro destra giura il
falso.
I nostri figli siano come piante
cresciute nella loro giovinezza; le nostre figlie come colonne d’angolo nella costruzione del tempio.
I nostri granai siano pieni, trabocchino di frutti d’ogni specie; siano a migliaia i nostri
greggi, a mirìadi nelle nostre
campagne; siano carichi i nostri buoi.
Nessuna breccia, nessuna incursione, nessun gemito nelle nostre piazze. Beato il popolo che possiede questi beni:
beato il popolo il cui Dio è il
Signore.
L
a tonalità di questo salmo,
ripreso in due tempi distinti dalla Liturgia dei
Vespri, è sempre quella innica
e ad entrare in scena è, anche in
questo secondo movimento del
Salmo, la figura dell’«Unto»,
cioè il «Consacrato» per eccellenza, Gesù, che attira tutti a
sé per fare di tutti «una cosa sola» (cf Gv 17,11.21). Non per
nulla la scena che dominerà
il canto sarà segnata dal benessere, dalla prosperità e dalla pace, i tipici simboli dell’era messianica.
10
La pace che Dio dona al suo popolo è una benedizione che investe tutta l’esistenza della persona e della comunità.
La vera pace
Per questo il canto è definito
«nuovo», termine che nel linguaggio biblico non evoca solo
la novità ma la pienezza ultima
che suggella la speranza (cf v.
9). Si canta, quindi, la meta della storia in cui finalmente tacerà
la voce del male, che è descritta
dal Salmista nella «menzogna» e
nel «falso giuramento», espressioni destinate a indicare l’idolatria (cf v. 11). È in questa luce
che si parla dei malvagi, visti come oppressori del popolo di Dio
e della sua fede.
Ma a questo aspetto negativo
subentra, con uno spazio ben
maggiore, la dimensione positi-
va, quella del nuovo mondo
gioioso che sta per affermarsi.
È questo il vero shalom, ossia
la «pace» messianica, un orizzonte luminoso che è articolato
in una successione di quadretti
di vita sociale: essi possono diventare anche per noi un auspicio per la nascita di una società
più giusta.
La speranza del futuro
Ecco innanzitutto la famiglia
(cf v. 12), che si basa sulla vitalità della generazione. I figli,
speranza del futuro, sono comparati ad alberi vigorosi; le figlie
sono raffigurate come colonne
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solide che reggono l’edificio della casa, simili a quelle di un tempio. Dalla famiglia si passa alla vita economica, alla campagna coi suoi frutti conservati nei
depositi agrari, con le distese
dei greggi che pascolano, con
gli animali da lavoro che procedono nei campi fertili (cf vv.
13-14a).
Lo sguardo passa poi alla città,
cioè all’intera comunità civile
che finalmente gode il dono prezioso della pace e della quiete
pubblica. Infatti, cessano per
sempre le «brecce» che gli invasori aprono nelle mura urbane
durante gli assalti; finiscono le
«incursioni», che comportano depredazioni e deportazioni e, infine, non si leva più il «gemito»
dei disperati, dei feriti, delle vittime, degli orfani, triste retaggio
delle guerre (cf v. 14b).
Un popolo che vive di fede
Questo ritratto di un mondo
diverso, ma possibile, è affidato all’opera del Messia ed anche
a quella del suo popolo. Tutti
insieme possiamo attuare questo
progetto di armonia e di pace,
cessando l’azione distruttrice
dell’odio, della violenza, della
guerra. Bisogna, però, fare una
scelta schierandosi dalla parte
del Dio dell’amore e della giustizia.
È per questo che il Salmo si
conclude con una beatitudine
riservata al popolo «il cui Dio
è il Signore» (v. 15), un popolo
che non rinunzia alla sua fede e
ai suoi valori spirituali e morali. Un popolo che può, quindi,
intonare col Salmista questo
«canto nuovo», pieno di fiducia e di speranza. Il richiamo
spontaneo è al patto nuovo già
annunziato dai profeti (cf Ger
31,31-34) e compiuto in Cristo
(cf Eb 8,8-12), all’uomo nuovo,
all’alleluia della vita rinnovata e redenta, alla novità stessa
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Pagina 11
Il popolo che vive sotto lo sguardo di Dio è avvolto dalla sua pace e dal suo
amore anche quando deve attraversare i deserti della vita.
che è Cristo e il suo Vangelo.
È ciò che ci ricorda Sant’Agostino. «Non immaginare che la
grazia provenga dalla legge,
mentre in realtà è in virtù della
grazia che si è in grado di adempiere la legge. Per questo
dice: «Suonerò per te sull’arpa
a dieci corde». «Sull’arpa a dieci corde», cioè nella legge com-
pendiata nei dieci comandamenti. Lì io salmeggerò a te, lì
godrò in te, lì voglio cantarti il
cantico nuovo, poiché pienezza
della legge è la carità» (Esposizioni sui Salmi, 143,16: Nuova
Biblioteca Agostiniana, XXVIII,
Roma 1977, pp. 677).
Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 26-01-2006
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Una politica s e
Incontri
Incontro con George Weigel sul malessere dell’Europa
P
erché in Europa il riferimento a Dio è visto come
una minaccia per i diritti umani e per la democrazia? Secondo George Weigel, membro
dell’“Ethics and Public Policy
Center” di Washington “Comprendere questi fenomeni richiede qualcosa di più di una
normale analisi politica”. Né potranno le risposte politiche spiegare le ragioni che stanno dietro
la questione forse più urgente
con cui si confronta l’Europa oggi: il fatto che l’Europa occidentale stia compiendo un suicidio demografico; i suoi tassi di
natalità sono eccessivamente bassi, e creano una pressione enorme sulla previdenza statale ed un
vuoto demografico nel quale confluisce un numero sempre maggiore di immigrati islamici.
Per l’intellettuale statunitense,
George Weigel, esperto di politica
internazionale, negli Stati Uniti ha
scritto diversi libri sulla Chiesa e sui
Papi.
“l’idea che l’Europa stia attraversando un periodo di «crisi della morale civile» è una descrizione troppo generica”.
Il riferimento a Dio nella Carta Costituzionale europea, avrebbe ricordato all’uomo i suoi limiti e la sua responsabilità dinanzi a qualcuno più grande di lui.
12
È necessario effettuare un’analisi culturale e persino teologica della situazione attuale dell’Europa.
Perché, in seguito al 1989, gli
Europei non sono stati in grado
di condannare il comunismo come una mostruosità morale e politica? Perché l’unico giudizio
politicamente accettabile sul comunismo era l’osservazione piuttosto banale che «non ha funzionato»?
Forse perché, secondo quanto afferma lo storico John Keegan, gli Europei spesso rifiutano l’azione rifugiandosi piuttosto
nella convinzione che “ogni conflitto di interessi deve essere risolto attraverso le consultazioni,
la conciliazione e l’intervento
delle organizzazioni internazionali”. Insomma, come dire, troviamo una soluzione teorica è il
problema è risolto, troviamo una spiegazione (“il comunismo
non ha funzionato”) e non pensiamoci più. Che poi siano gli
stessi che fino a ieri sostenevano il comunismo a continuare a
fare i politici di grido, questo non
suscita nessuno scandalo.
Ma dobbiamo anche chiederci perché l’Europa si sta allontanando dalla democrazia, incatenandosi sempre di più nei legacci della burocrazia? Perché
gli Stati europei non riescono a
prendere decisioni forti di politica interna, come quelle sull’orario di lavoro o sulla copertura
delle spese pensionistiche? Perché l’Europa si è avviata verso
ciò che il filosofo politico Pierre Manent definisce “depoliticizzazione”? Perché Manent ha
“l’impressione che oggi la più
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de e continuata
riduzione della
popolazione europea dai tempi
della Peste nera
del XIV secolo”.
Cosa avviene
quando un intero continente,
più ricco e in salute che mai,
manca di creare
il futuro dell’umanità nel senso più elementare del termine,
non producendo
la generazione
successiva?
“Queste
preoccupazioni
– spiega Weigel
– non sono il
prodotto di una
“eurofobia” americana, né sono il risultato
della netta contrapposizione tra gran parte dell’Europa e gli Stati Uniti sul tema della guerra in Iraq. Non vi
è in effetti nulla di originale nella mia lettura dell’attuale situa-
s enza Dio?
grande ambizione degli europei
sia di diventare ispettori delle
carceri americane?”.
Tutto questo immobilismo europeo e questa incapacità a prendere delle decisioni è frutto di una mancanza di identità che da
sempre per l’Europa è stata data dalla sua comune appartenenza al Cristianesimo.
La cosa è così chiara – tranne che agli intellettuali europei –
tanto che un giurista internazionale ed ebreo osservante come
J. H. H. Weiler, afferma che gli
Europei sono “cristofobici”, e si
chiede come mai “l’alta cultura
europea” sia “così sprezzante della tradizione sia religiosa che secolare”.
Ma uno dei problemi più urgenti da risolvere resta il suicidio demografico verso cui l’Europa sta andando, poiché sta riducendo sistematicamente la propria popolazione e prefigura ciò
che lo storico britannico Niall
Ferguson ha definito “la più gran-
zione dell’Europa: le stesse
preoccupazioni sono presenti nell’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Ecclesia in Europa del 2003”.
In quel testo, il Papa sostiene
che in Europa esiste l’idea che
un’Europa politica, giuridica ed
economica non sia sufficiente.
“E come Giovanni Paolo II – ha
aggiunto Weigel –, molti pensatori europei si stanno chiedendo
se un’Europa che rappresenta il
trionfo della regolamentazione
burocratica in tutto il continente
sia tutto ciò a cui poter aspirare”.
Il dibattito sulla invocatio Dei
nella Costituzione europea riguardava anche il presente e il
futuro, e non solo il passato.
Quanti hanno rifiutato il riferimento, nonostante quanto da
loro affermato, non lo hanno fatto per “tolleranza”, ha affermato infine Weigel, ma perché convinti che possa esistere una politica senza Dio, “che un’Europa libera, tollerante, civile e pluralistica possa essere costruita
solo come spazio dal quale il
Dio della Bibbia sia stato escluso”.
Marco De Bernardinis
Nel Parlamento Europeo sono presenti diverse correnti guidate da interessi economici e ideologici che sotto l’illusione della modernità, combatto più o meno apertamente la morale e le indicazioni della Chiesa sulla famiglia naturale.
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Vita liturgica
S
otto le specie del pane e del
vino consacrate, sappiamo
di avere con noi il Signore della vita e della morte, «Colui che è, che era e che viene» (Apocalisse 1,4). Lui è il Vivente,
per questo Egli è con noi tutti i
giorni sino alla fine (cf Mt 28,28),
e la sua presenza per noi è festa.
Una festa che si realizza per la
memoria della cena e della morte del Signore, al di là di ogni
distanza temporale, una festa del
futuro, perché già adesso sotto i
veli del sacramento è presente
Colui che porta con sé ogni futuro, il Dio dell’eterno amore.
L’uomo, un essere di fame
Un futuro che si offre all’uomo il quale è costituito nella sua
profonda struttura relazionale ed
esistenziale come un essere che
ha fame e sete. Cioè un essere in-
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Pagina 14
C
r
i
s
t
o
il pane necessario
sufficiente per se stesso; un essere dai continui e molteplici bisogni di nutrizione, dalla cui soddisfazione dipende la sua esistenza. Dall’aria per respirare,
dal latte materno appena egli varca le soglie della vita, dal cibo e
dalle bevande materiali più volte al giorno, alle cento altre cose a cui tende la sua vita per costituzionale necessità, il sapere,
il possedere, il godere, sempre
questo essere che si chiama uomo ha necessità di avere dal di
fuori di lui ciò che manca alla
sua esistenza, al suo sviluppo,
alla sua salute, alla sua felicità.
Perciò desidera, studia, lavora,
vuole, soffre e spera: sempre è teso a qualcosa che lo sorregga e
lo faccia vivere in pienezza, e,
se possibile, sempre. Questo quadro di esistenza, che è quello reale, di tutti, può essere riassunto
in una sola emblematica espressione: l’uomo è un vivente bisognoso di pane, d’un suo pane che
lo nutra, lo integri, gli allarghi e
gli prolunghi la sua sempre avida e caduca esistenza. Un’esistenza tesa nello sforzo di mantenersi e di dilatarsi, ma condannata a sperimentare la propria insufficienza e caducità, e a
subire alla fine una morte fatale.
Non vi è in terra pane che le basti; non vi è dalla terra pane che
la renda immortale.
Ed ecco allora la divina parola del Signore Gesù: «Io sono il
pane della vita... se uno mangia
di questo pane vivrà in eterno»
(Gv 6,48-51). La vita umana ha
in Cristo, il suo compimento, il
suo pegno di vita immortale.
Cristo il pane totale
Andreas Lothar
Nell’Eucaristia, Gesù si fa cibo per l’uomo. Alimento per la sua fame di verità
e d’infinito.
14
Come il pane ordinario è proporzionato alla fame terrena, così Cristo è il pane straordinario,
proporzionato alla fame straordinaria, smisurata dell’uomo, capace, smanioso anzi di aprirsi ad
aspirazioni infinite. Noi abbiamo sovente la tentazione di pensare che Cristo non corrisponda
in realtà ai bisogni, ai desideri, ai
destini dell’uomo; dell’uomo moderno specialmente, che spesso
si illude d’essere nato per altro alimento superiore che non quello divino, e d’essere riuscito a
saziarsi d’altre conquiste, che
non quelle della fede, ovvero che
sospetta essere la religione uno
pseudoalimento, praticamente vacuo e vano.
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gnoso, svelerà all’ultimo giorno,
quello del giudizio finale, che
tutte le volte che noi abbiamo
soccorso qualcuno, abbiamo soccorso Lui, il Cristo: «Io ho avuto fame e voi mi avete dato da
mangiare; Io ho avuto sete, e voi
mi avete dato da bere...» (Mt
25,35).
Così che l’Eucaristia non è
solo il cibo per l’anima, ma stimolo di carità per i fratelli che
hanno bisogno di aiuto, di comprensione, di solidarietà, caricando così l’azione del bene di
un’energia e d’una speranza che,
finché Cristo sarà con noi con la
sua Eucaristia, non verranno mai
meno. Cristo è il pane della vita. Cristo è necessario, per ogni
uomo, per ogni comunità, per ogni fatto veramente sociale, cioè
fondato sull’amore e sul sacrificio di sé, per il mondo. Come il
pane, Cristo è necessario!
Antonio Saglia
Varcare la soglia della fede
Nell’Ultima Cena, Gesù istituendo il sacramento dell’Eucaristia, domanda ai suoi
di perpetuare come memoriale del suo amore, il gesto del pane spezzato e del
vino versato, ponendo così in essere la Chiesa che vive del comando del suo
Signore.
Ma Cristo non si copre delle
apparenze del pane e del vino
per deludere la nostra fame superiore, ma si riveste delle apparenze del cibo materiale, oltre
che per farci desiderare quello
spirituale, ch’è Lui stesso, per riconoscere e per rivendicare le esigenze legittime della vita naturale. È Lui, che prima di annunciare Se stesso come pane
del cielo ha moltiplicato il pane
della terra fino alla sazietà di coloro che per ascoltarlo lo avevano seguito in una zona disabitata, e che non avevano di che mangiare (Gv 6.11ss.); è Lui che ha
rivolto all’umanità l’invito: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati ed oppressi; ed io vi ristorerò» (Mt 11,28). È Lui, che
non più sotto le specie di pane e
di vino, ma sotto quelle d’ogni
essere umano sofferente e biso-
La solennità del Corpus Domini, fra le sue finalità, ha anche
uno scopo educativo; quello di
renderci attenti ed esultanti alla
realtà del mistero eucaristico.
L’uomo è un essere che si abitua
alle cose straordinarie senza più
attribuire e riconoscere l’esuberante ricchezza di significato che
hanno. Così avviene sovente per
l’Eucaristia, che non offre alla
nostra conoscenza sensibile se
non le immagini apparenti, le specie del pane e del vino, mentre celano, in realtà, queste specie, la
carne e il sangue, e loro stesse
contengono sull’altare gli elementi d’un sacrificio, d’una vittima immolata, di Cristo crocifisso, Corpo unito al proprio sangue, alla sua anima e alla Divinità del Verbo. Questo è il «mistero di fede» presente nell’Eucaristia; e questo è il primo sforzo spirituale, al quale questo sacramento ci invita e ci obbliga, uno sforzo conoscitivo, non sor15
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retto da un’esperienza sperimentale, che vada oltre le sembianze,
uno sforzo di fede, di adesione
cioè ad una Parola dominatrice
delle cose create, una Parola, un
Verbo divino, presente.
Per accedere al sacramento
dell’Amore bisogna varcare la
soglia della fede. Entrati nella
sfera della Fede, la quale ci invita a leggere nei segni sacramentali l’ineffabile Realtà ch’essi localizzano e raffigurano, Cristo sacrificato e fattosi alimento
spirituale per noi, affiora una domanda: perché? Perché, il Signore ha voluto assumere queste
sembianze? Perché viene a noi
così nascosto e velato? Gesù stesso dice di Sé: «Io sono il pane
della vita» (Gv 6,48). Mediante
il pane, dunque, Egli si rende così accessibile a tutti e sempre,
tanto da moltiplicare la sua sacramentale presenza per ogni altare, per ogni mensa, dove un’altra sua presenza rappresentativa
e operativa, quella d’un Sacerdote, renda possibile la moltiplicazione indefinita di questo prodigio.
Avvolti dall’abbraccio di Cristo
Cristo si fa pane. Per tutti e per
tutta la durata della storia umana. Questo è il dato. Considerando questo dato ci chiediamo
ancora: per quale scopo Cristo
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Le specie eucaristiche conservate
nel tabernacolo, servono anzitutto
per la comunione ai malati e poi per
l’adorazione personale.
si fa pane? Cristo si fa pane per
la «comunione», in greco «koinonía». Infatti noi diciamo «fare la comunione» intendendo accostarsi all’Eucaristia, ricevere
Gesù nel sacramento che nella
sua profonda realtà consiste nell’unità del Corpo mistico del Signore. Questo modo di parlare
indica però il senso soggettivo,
nostro, dell’azione: siamo noi
che ci accostiamo all’Eucaristia.
Così facendo, però non consideriamo, ciò che provoca questo
nostro movimento e lo suscita:
l’iniziativa di Cristo che rende a
noi possibile di ricevere Lui. È
Lui che si offre a noi istituendo
e rinnovando l’Eucaristia con le
parole: «Prendete e mangiate;
Questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi... Questo è il calice del mio sangue versato per
voi...». Qui si svela l’intenzione
estrema – e finalmente dichiarata – di Cristo verso gli uomini:
l’amore. «Nessun amore maggiore di questo, il dare la propria
Nutrendoci di Cristo, pane vivo, noi veniamo trasformati in Lui e partecipiamo
alla sua vita eterna.
16
vita per i propri amici, e voi siete i miei amici...» (Gv 15,13).
Qui il grande comandamento
diventa grande dono. Qui ciò che
è comandato viene offerto. Qui
Colui che comanda esegue ciò
che ordinato. Colui da cui tutto
il creato dipende si fa dipendenza d’amore per l’uomo. Così prima di disporci ad obbedire al comando dell’amore, siamo investiti dall’amore. Prima che ci disponiamo ad amare, siamo amati, perché Egli ci ha amati per
primo (1Gv 4,10-19). Quante volte ci siamo sottratti al suo amore, noi creati da Lui, fatti per Lui,
noi abbiamo ricusato d’incontrarci con Lui forse per il vile e
segreto timore d’essere conquistati ad un Amore, che avrebbe
mutato la nostra vita.
L’Eucaristia è l’invito più diretto, più forte all’amicizia, alla
sequela di Cristo. L’Eucaristia è
l’alimento che dà l’energia e la
gioia per corrispondervi. L’Eucaristia pone la nostra vita sopra
un supremo gioco d’amore, di
scelta, di fedeltà.
L’Amore ricevuto da Cristo
nell’Eucaristia è comunione con
Lui e per ciò stesso si trasforma
e si manifesta in comunione nostra con i fratelli, quali sono tutti gli uomini per noi. Nutriti del
Corpo reale e sacramentale di
Cristo, noi diventiamo sempre
più intimamente il Corpo mistico di Cristo: «il calice della benedizione, che noi benediciamo,
non è forse comunione con il
sangue di Cristo? E il pane, che
noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché c’è un solo pane noi, pur
essendo molti, siamo un corpo
solo: tutti infatti partecipiamo
dell’unico pane» (1Cor 10,16ss.).
Veramente possiamo ripetere con
Sant’Agostino: «O Sacramento di
pietà! O segno d’unità! O vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha
di che vivere» (Tr 26,19: PL
35,16-15).
Lorenzo Villar
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Don Bosco
Studio
e l’amorevolezza
L
’idea di amorevolezza ha vari significati, talvolta, così sottili che tutto ciò che
si può pronunciare al riguardo
viene facilmente etichettato come qualcosa di opinabile e soggettivo. All’interno del mondo
salesiano quando si utilizza questa parola, essa è solitamente relazionata ad altri due: religione
e ragione. Tanto che l’amorevolezza nel Sistema Preventivo è
diventata ormai elemento imprescindibile per chiunque voglia comprendere, imitare o anche semplicemente rileggere cosa Don Bosco intendesse per educazione.
Ma perché cercare in Don Bosco la radice della sua amorevolezza? Di certo, siamo tutti consapevoli che non esiste evidenza
più chiara della sua capacità di
farsi tutto a tutti e, per dirla con
le parole del Rettor Maggiore, di
dare di più a chi ha ricevuto di
meno. Il Papa, Benedetto XVI,
nel suo Messaggio per la Quaresima di quest’anno, sottolinea
con la sua eleganza didattica (rifacendosi esplicitamente all’Enciclica Deus caritas est) l’importanza di ritornare all’origine
del termine “amore”. Se si rilegge il Sistema Preventivo e si
cerca in esso qualche riferimento alla Bibbia, si rischia di restare un po’ delusi, poiché esiste
un solo riferimento biblico: “La
pratica di questo sistema è tutta
appoggiata sopra le parole di San
Paolo che dice: Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque distur-
L’amorevolezza di Don Bosco si è manifestata in gesti concreti ed immediati,
volti a soddisfare le esigenze fondamentali dei suoi giovani: l’accoglienza, la
formazione culturale e spirituale.
bo. Perciò soltanto il cristiano
può con successo applicare il sistema Preventivo. Ragione e Religione sono gli strumenti di cui
deve costantemente far uso l’educatore, insegnarli, egli stesso
praticarli se vuol essere ubbidito ed ottenere il suo fine”. Don
Bosco è chiaro: solo il cristiano
può applicare questo sistema. Ma
perché solo lui? A questa domanda dobbiamo trovare una risposta.
La carità amabile è il tratto
più caratteristico dell’insegnamento e della vita di Don Bosco.
La carità è da intendersi come
dedizione agli altri senza limiti
e avversioni, come agape. Il modello e il paradigma di questa
carità lo troviamo, come dice
Don Bosco stesso, in San Paolo, con il celebre Inno all’amore, di cui prima abbiamo citato
una parte.
I riferimenti
all’antichità classica
Il famoso brano di San Paolo
inserito nella lettera ai Corinti ha
un richiamo ad uno scritto di uno dei più grandi pensatori dell’antichità, Platone, che in un suo
testo, Protagora, descrive l’in17
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Don Bosco aveva capito che tutti i giovani avevano bisogno di una mamma
per poter crescere sani. Per questo invita Mamma Margherita a Valdocco per
essere la mamma dei suoi ragazzi poveri.
tellettuale dalle vuote parole, il
sofista, come colui che è privo
di consistenza, come un nulla
che risuona.1 Ma Paolo non utilizza solo questo riferimento ai
grandi del mondo greco. Nella
sua lettera si appella anche alla
tradizione greca dei topoi. Le negazioni per mezzo delle quali
viene definita l’agape, che cioè
non cerca il suo interesse, non si
adira e non si rallegra dell’ingiustizia, appaiono quasi un richiamo a ciò che nel Simposio è
detto di Eros, chiamato scaltro
investigatore, spericolato e instancabile nell’escogitare le sue
trame.2 Così ai Corinti, che debbono comprendere l’agape cristiana, viene spiegato il contrario dell’eros greco; d’altra parte
nell’eros è anticipato ciò che si
compie nell’agape.
Le differenze fra eros e agape
Non possiamo però non cogliere delle differenze fondamentali tra i due. L’eros è un amore sostanzialmente egocentrico, è desiderio. L’uomo predomina in esso sia come punto di
partenza, sia come punto di ar18
rivo. La via dell’eros è contraddistinta dal fatto che è l’uomo
ad ascendere al divino, la sua anima vive la nostalgia per il mondo superiore, dove platonicamente è la sua patria. Nell’eros
l’anima intraprende il suo viaggio in una contemplazione e in
un’estasi da far perdere i sensi.
In questa ascesa dell’eros si esprime un atteggiamento dell’anima affine a quello dell’assalto
titanico al cielo, mantenendo il
suo carattere egocentrico perfino
nella sua forma più sublime. L’agape ha invece un carattere totalmente diverso. Non ha nulla a
che vedere con l’aspirazione e il
desiderio, come dice Paolo: «non
cerca mai il proprio interesse»,
non sale come l’eros verso l’alto per assicurarsi un vantaggio,
ma è invece sacrificio e dono di
sé. Nell’eros non è l’umano che
si eleva al divino, ma il divino che
nel suo amore misericordioso si
abbassa all’umano.
All’interno del Simposio Platone fa poi pronunciare ad Agatone un elogio di Eros, dicendo
che esso è come un dio mansueto, benevolo, colui che erige la
comunità degli uomini;3 San Paolo utilizzerà questi elementi, ma
non per parlare dell’eros, bensì
dell’agape.
Paolo si allontana poi totalmente da Platone quando il filosofo greco parla della funzione
del “demone” (una specie di spirito che lega l’assoluto e il relativo) e che si trova nel concetto
di amore riportato dal testo del
Simposio. Qui l’agape viene presentato come un fine a cui l’uomo può tendere con le sue sole
forze.
Paolo però vede le cose in
modo diverso. L’agape non è
qualcosa che l’uomo può otte-
Il gioco, la musica e il teatro sono stati sempre elementi importantissimi nel sistema educativo di Don Bosco: il ragazzo si forma e cresce in tutte le dimensioni e tutte vanno curate.
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Vivere in famiglia l’amorevolezza significa cercare il bene dei propri figli, la solidità per il loro futuro.
nere con la sua volontà o la sua
intelligenza: l’agape è anzitutto
un dono della perfezione che ci
viene da Dio e che possiamo ottenere già in questo mondo, ma
possiamo anche non averla affatto.
In questo modo San Paolo elimina tutti quei tentativi che la
cultura del suo tempo aveva fatto per sanare la frattura fra l’assoluto a cui l’uomo aspira e il relativo in cui si trova immerso.
Soltanto l’agape è il vero legame fra il divino e l’umano e questo legame viene donato all’uomo gratuitamente da Dio. Nell’agape troviamo così il segno
distintivo della solidarietà, e ancor di più in essa troviamo il
senso di unità del concetto di amore.
La spiegazione di Agostino
Tornando alla distinzione tra
agape e eros, tra la prospettiva
cristiana dell’amore e la prospettiva platonica, si può dire che
Agostino fu tra i primi a cercare di unificare i due principi. L’argomento di Agostino è la dottrina della caritas. Il pensatore cri-
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stiano vede però la caritas come
elemento intermedio fra l’agape
e l’eros. La caritas è la sintesi dei
due; sintesi possibile perché l’eros è già in sé slancio verso Dio:
è la superbia che gli impedisce di
giungere al suo fine; allora è lì
che interviene l’agape con la sua
umiltà. Ogni amore è appetitus,
desiderio della felicità. E come
tale può essere considerato un elemento proprio della vita umana in generale:«nemo est qui non
amet».4 Ora se l’amore è desiderio e il desiderio è specificato
dall’oggetto desiderato, potremo
definire la caritas come l’amore
che desidera le cose elevate, mentre la cupiditas l’amore che tende alle cose inferiori. Scegliere
una o l’altra forma di amore, significherà decidere di tutta la nostra vita, dato che l’amante si trasforma in qualche modo nella
cosa amata. E qui che la caritas
diventa elemento distintivo di ogni educatore cristiano. Don Bosco quando pensava all’educatore non poteva che pensarlo in
questi termini.
Infine chiederci se la caritas
è identica alla felicità è una domanda lecita, anzi doverosa per
una chiarificazione ulteriore della nozione di carità. Sant’Agostino affrontò questo problema
utilizzando l’espressione «dilige
et quod vis fac».5 Bisogna cogliere il significato pieno del
verbo “dilige”, che trova nel generico “ama” la traduzione italiana. Il comandamento non è
solamente “ama e fa ciò che
vuoi”, ma “dilige” cioè: abbi l’amore vero, autentico, redento.
La “dilectio” non si lascia ridurre alla ricerca della felicità,
essa è ammirazione, riconoscenza, santo rispetto, gioia, allegria, e poi anche voler bene e
voler fare del bene a tutti secondo le proprie opportunità. La
virtù della carità non dimentica
la felicità, ma la felicità non è
l’unico criterio.
Solitamente una dimostrazione termina con una enumerazione di esperienze e luoghi, ma si
può ben intuire che trovare citazioni dove Don Bosco visse la
carità è come scriverne l’ennesima biografia.
Vittorio Castagna
Cf PLATONE, Protagora, 329a.
Cf PLATONE, Simposio, 203d.
3
Ivi, 197b.
4
AGOSTINO, Sermo XXXIV, XXXVIII,
210.
5
AGOSTINO, In epistolam Ioannis ad
Pathos tractatus decem, VII, 8.
1
2
FRANCESCO COLUCCIA
EUCARISTIA
Terapia d’amore
Editrice Elledici, pagine 160, € 9,00
Un testo profondo, un invito a mettersi a tavola con Cristo, meditando sul dono dell’Eucaristia vista nel
suo senso antropologico e cosmico che pone il Sacramento dell’amore di Cristo come farmaco contro il male, garanzia per il futuro e senso dell’esistenza che accoglie
in sé i dolori e le gioie della vita umana. In appendice una proposta
di testi per la celebrazione, l’adorazione e la preghiera, tratti da San
Tommaso d’Aquino.
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28 giugno: Sant’Ireneo di Lione, vescovo e martire (130ca. - 202)
Un mese un santo
I
reneo significa pacifico o pacificatore, uno che si sforza
di portare o di operare la pace. Tale fu il nome e il programma di vita di Ireneo di Lione.
Nato in Oriente (a Smirne nel
130 circa) e vissuto nel 200 (è
morto infatti nel 202) operò quasi totalmente in Occidente, nella Gallia, a Lione, che già allora era un importante centro commerciale, abitato anche da una
numerosa colonia di cristiani orientali. Sembra che questi avessero richiesto una guida spirituale permanente. E arrivò dall’Oriente proprio Ireneo. Egli si
adoperò in circostanze difficili
Per la pace e
per la verità
(fu due volte come ambasciatore a Roma) per avvicinare o conciliare l’Oriente e l’Occidente,
le chiese orientali e la chiesa guida in occidente, cioè Roma con
il suo vescovo.
Ireneo poteva vantare un privilegio che era di non molti nel
200: lui era stato discepolo di
Policarpo (morto nel 160) che a
sua volta era stato un uditore attento e devoto, di San Giovanni,
l’apostolo ed evangelista: cioè di
una fonte di prima mano e di assoluto prestigio che collegava di-
Un plastico della città di Lione all’epoca del vescovo Ireneo (II secolo) nel Museo della civiltà gallo-romana.
rettamente a Gesù Cristo. Le parole che Ireneo beveva attentamente dalle labbra di Policarpo
erano le stesse parole che questi
aveva ricevuto dal grande Giovanni apostolo. Si sentiva un privilegiato e di questa esperienza
fu sempre orgoglioso. Per questo fatto Ireneo viene considerato l’ultimo della generazione
apostolica e nello stesso tempo
il primo vero teologo della generazione post apostolica. È
stato proprio lui a cominciare a
dare importanza somma non solo alla Sacra Scrittura ma anche
alla Tradizione della Chiesa.
Da Policarpo a... Lione
Si sa poco della sua giovinezza. Probabilmente proveniva
da una famiglia cristiana di Smirne, ma con sicurezza sappiamo
che fin da ragazzo fu un convinto, assiduo e attento uditore di Policarpo. Anni felici che
Ireneo richiamò in seguito in una lettera dove scrisse: “Le cose
di allora le rammento meglio di
quelle recenti. Io potrei descrivere
ancora il luogo dove il beato Policarpo era solito riposare per
parlare, e come esordiva, e come
entrava in argomento, quale vita conduceva, quale era l’aspetto della sua persona, i discorsi
che teneva al popolo, come ci
raccontava dei profondi rapporti da lui avuti con Giovanni e con
gli altri che avevano visto il Signore, dei quali rammentava le
parole e le cose da loro udite in-
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giare dell’eresia (di un certo
Montano) che annunciava la fine imminente del mondo e la persecuzione anti cristiana da parte
delle autorità romane già in atto
nella valle del Rodano. Ireneo fu
inviato a Roma come latore di
una lettera al Papa per questi problemi dottrinali. Accolto bene,
ebbe l’occasione di rafforzarsi
nell’ortodossia e nella vera dottrina tramandata dagli apostoli.
Nel mentre nella sua stessa Chiesa di Lione venivano martirizzati ben 48 cristiani, tra i quali anche il vescovo novantenne. Ritornato nella comunità, annun-
ziò la risposta di Roma alle questioni dottrinali e questa, rassicurata anche dalla sua presenza,
Pendaglio in bronzo con il monogramma di Cristo completato dall’Alfa-Omega.
L’UOMO VIVENTE
È GLORIA DI DIO
Effige del santo nella cripta di Sant’Ireneo a Lione.
torno al Signore, ai suoi miracoli e alla sua dottrina. Tutto ciò
Policarpo l’aveva appreso proprio da testimoni oculari del Verbo della vita... Queste cose... le
conservo nella memoria, non
già sulla carta, ma nell’intimo
del cuore e, grazie a Dio, assiduamente amorosamente le ripenso”. Ireneo era felice che la
propria fede si basasse sulla testimonianza e su quella tradizione saldissima e così vicinissima alle fonti apostoliche.
Nel 177 lo troviamo a Lione,
doveva c’era una fiorente e numerosa comunità cristiana (greci e orientali), scossa però da una duplice difficoltà: il serpeg-
La gloria di Dio dà la vita; perciò coloro che vedono Dio ricevono la
vita. E per questo colui che è inintelligibile, incomprensibile e invisibile, si rende visibile, comprensibile e intelligibile dagli uomini, per
dare la vita a coloro che lo comprendono e vedono. È impossibile vivere se non si è ricevuta la vita, ma la vita non si ha che con la partecipazione all’essere divino. Orbene tale partecipazione consiste nel
vedere Dio e godere della sua bontà. Gli uomini dunque vedranno
Dio per vivere, e verranno resi immortali e divini in forza della visione di Dio...
Colui che opera tutto in tutti nella sua grandezza e potenza, è invisibile e indescrivibile a tutti gli esseri da lui creati, non resta però sconosciuto; tutti infatti, per mezzo del suo Verbo, imparano che il Padre
è unico Dio, che contiene tutte le cose e dà a tutte l’esistenza, come
sta scritto nel Vangelo: «Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio
Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Fin
dal principio dunque il Figlio è il rivelatore del Padre, perché fin
dal principio è con il Padre e ha mostrato al genere umano nel tempo più opportuno le visioni profetiche, la diversità dei carismi, i ministeri e la glorificazione del Padre secondo un disegno tutto ordine e
armonia. E dove c’è ordine c’è anche armonia, e dove c’è armonia
c’è anche tempo giusto, e dove c’è tempo giusto c’è anche beneficio.
Per questo il Verbo si è fatto dispensatore della grazia del Padre per
l’utilità degli uomini, in favore dei quali ha ordinato tutta l’economia
della salvezza, mostrando Dio agli uomini e presentando l’uomo a Dio.
Ha salvaguardato però l’invisibilità del Padre, perché l’uomo non disprezzi Dio e abbia sempre qualcosa a cui tendere. Al tempo stesso
ha reso visibile Dio agli uomini con molti interventi provvidenziali, perché l’uomo non venisse privato completamente di Dio, e cadesse così nel suo nulla, perché l’uomo vivente è gloria di Dio e vita dell’uomo è la visione di Dio. Se infatti la rivelazione di Dio attraverso
il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più
la rivelazione del Padre che avviene tramite il Verbo è causa di vita
per coloro che vedono Dio.
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Cammeo gnostico con iscrizione, forse un talismano (II-III sec.), della Bibliothèque Nationale, Cabinet des
Médailles, Parigi.
pensò di eleggerlo vescovo. Ireneo accettò pur sapendo che ciò
significava porre la propria candidatura al martirio (che poi avenne sembra nel 202).
Ireneo vescovo: impegno
per la pace e per la verità
Fu un grande pastore della comunità di Lione: dotato di una
buona cultura teologica e scritturistica (così testimonia Tertulliano) si diede alla predicazione
e alla evangelizzazione. Inviò anche missionari in altre parti della Gallia. Ma il suo merito maggiore è stato quello di aver messo per iscritto quello che predicava. I suoi insegnamenti confluirono in quella che rimane la
sua (ancora oggi) famosa opera
e cioè Contro le eresie.
Ireneo non è un uomo di
scienza, di ricerca sistematica,
di speculazione: egli è soprattutto un uomo di fede, un uomo di chiesa, un vero pastore
di anime che si mette a scrivere per amore del suo gregge e
22
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della verità. Egli quindi non ha
mai avuto intenti o progetti
scientifici ma pratici, non teorici ma pastorali: rispondere praticamente e comprensibilmente all’eresia che allora minacciava la sua comunità cristiana.
Una di queste eresie che
Ireneo dovette affrontare fu
lo Gnosticismo, dalla forza
dirompente, come lo fu l’Arianesimo qualche secolo più
tardi. Lo gnosticismo era un
movimento filosofico-religioso, spontaneo e non unificato,
presente in Palestina, Egitto e in
altre parti dell’Impero Romano.
È un insieme di teorie di natura
sincretistica, teso a fondere le
religioni misteriche, l’astrologia
magica orientale, lo zoroastrismo, l’ermetismo, la Kabbala ebraica, filosofie ellenistiche, il
giudaismo alessandrino e il cristianesimo dei primi tempi. In
queste elucubrazioni fantasiose
e complicatissime, il Cristo era
un semplice eone (uno dei tan-
L’OPERA
DELLA TRINITÀ
Dunque attraverso quest’ordine, tali ritmi e tale movimento, l’uomo
creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio Increato: il Padre decide benevolmente e comanda, il Figlio esegue
e plasma, lo Spirito nutre e accresce, e l’uomo a poco a poco progredisce e si eleva alla perfezione,
cioè si avvicina all’Increato; perché
solo l’Increato è perfetto, e questi è
Dio. Infatti, bisognava che l’uomo
prima fosse creato, poi, dopo essere
stato creato, crescesse, dopo essere cresciuto, divenisse adulto, dopo essere divenuto adulto, si moltiplicasse, dopo essersi moltiplicato, divenisse forte, dopo essere divenuto forte, fosse glorificato e, dopo essere stato glorificato, vedesse il suo Signore.
ti), venuto sulla terra per salvarla, dotato di un corpo sì ma
solo apparente. Il vero pericolo di questa teoria era lo stravolgimento della dottrina dell’incarnazione e la sua vanificazione: Gesù Cristo non poteva essere il vero salvatore
perché non era morto veramente e quindi non era risorto. Inoltre in questo gnosticismo
c’era anche una forte dose di antinomismo: era presente cioè la
tendenza anarchica sostanziata
di autonomia, di rifiuto delle norPolicarpo, dal corteo dei martiri. Mosaico del VI sec. Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.
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PREGHIERA
DI SANT’IRENEO
O Signore, ci comandi di seguirti non perché tu abbia bisogno del nostro servizio, ma soltanto per procurare a noi la
salvezza. Infatti seguire te, nostro
Salvatore, è partecipare alla salvezza, e seguire la tua luce è percepire la luce... Il nostro servizio
non apporta nulla a te, perché tu
non hai bisogno del servizio degli
uomini: ma a coloro che ti servono e ti seguono, tu doni la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna... Se
tu ricerchi il servizio degli uomini è
per poter accordare, tu che sei buono e misericordioso, i tuoi benefici a
coloro che perseverano nel tuo servizio. Perché, come tu, o Signore, non hai
bisogno di nulla, così noi abbiamo bisogno
della comunione con te; infatti la nostra gloria
è di perseverare e rimanere saldi nel tuo servizio...
Da Contro le Eresie, IV, 13-4; 14,1
me legali e quindi anche della
Chiesa Cattolica, organizzata con
guide visibili che emanavano
leggi. Ireneo rispose contro queste teorie fantasiose ed elucubrazioni sincretistiche con la
chiara esposizione della dottrina
cattolica, ricevuta dalla tradizione apostolica (dall’apostolo
Giovanni a Policarpo e poi a lui
stesso). Ireneo è considerato un
vero teologo perché ha esposto
la dottrina cristiana in modo sistematico e completo anche se
sintetico e con intento principalmente pastorale.
La visione di Dio è vita
per l’uomo
Alcuni punti principali su cui
insistette Ireneo nei suoi scritti.
Anzitutto, Ireneo è l’uomo della Tradizione. Per lui sono due le
colonne dell’ortodossia: la Scrittura e la Tradizione, e come fonte sussidiaria la ragione. Ireneo
affermava che la regola di fede
era il magistero vivente della
Chiesa, magistero che conservava una perenne giovinezza proprio per l’azione vivificante dello Spirito Santo (che naturalmente è anche all’origine della
Sacra Scrittura). La tradizione si
trova, secondo Ireneo, in ogni
chiesa che si richiama agli apostoli come fondatori. Ma è
in modo specialissimo e unico
nella Chiesa di Roma, che ha
una “più forte preminenza”
(potentior principalitas) proprio
perché fondata non solo sulla
predicazione ma anche sul sangue versato dai due super apostoli: Pietro e Paolo. Ireneo
giustifica così l’importanza di essere in sintonia dottrinale con la
Chiesa di Roma e con il suo Vescovo, visto come successore di
ben due apostoli.
Ireneo, a distanza di tanti secoli, ha avuto l’onore di varie citazioni nei documenti del Concilio Vaticano II, segno che alcune sue intuizioni teologiche erano sempre attuali. Ricordiamo
Martirio di Sant’Ireneo di Lione con
la decapitazione.
tra gli altri il parallelo Eva-Maria, che sarà ripreso anche da altri autori, e l’idea del Cristo come punto focale della storia umana, preparata proprio per la
sua rivelazione. Con Cristo incarnato c’è il massimo della Rivelazione che Dio fa di se stesso nei riguardi dell’uomo, rendendolo capace di rispondere alle istanze divine. Nella sua opera Contro le eresie (4,34) Ireneo
si domanda: “Che cosa ha portato Dio di nuovo venendo sulla terra? Niente di più e di meno che Se Stesso”. Dio, attraverso il Cristo, è la vera, grande
e decisiva novità nella storia del
mondo e dell’uomo. Ed è proprio questa novità che è luce, guida, sostentamento, salvezza e gloria dell’uomo. È questa visione
del Cristo, assoluta novità di Dio,
che l’uomo ha veramente la sua
vita, la sua gloria e la sua salvezza.
Mario Scudu
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«Chi mangia di questo p
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o pane, vivrà in eterno»
Gv 6, 58
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La Musica
Sacra
Musica e Fede
C
ome detto nella scorsa
puntata, con l’inizio del
XVII secolo il solco tra
musica sacra e musica profana diviene sempre più profondo fino al
formarsi, nello stesso secolo, anzi nella prima metà di esso, di un
patrimonio musicale sacro e di
un patrimonio musicale profano.
Si era anche detto però che il secondo non è affatto il risultato di
quattro secoli – dal ’600 ad oggi
– di studi, di ricerca e di invenzioni melodiche ove sia assente la
componente spirituale. Tutt’altro.
Lo si è chiamato qui patrimonio
musicale profano non perché abbia rifiutato ospitalità alla componente spirituale, ma per il diverso fine che musica sacra e musica profana si prefiggono. L’ag-
Il musical Jesus Christ Superstar, è
una delle più celebri, ma anche discusse, riproposizioni del tema religioso in campo musicale.
26
gettivo profano, in effetti, indica
tutto ciò che è estraneo o contrario a ciò che è sacro: questo però
non significa il ripudio, ma la separazione di una strada dall’altra, allorché la secondaria (cioè
musica profana) abbia le sufficienti attrezzature per mettere su
famiglia per conto proprio, staccandosi dalla principale.
Un debito secolare
Così è avvenuto per la musica
profana: nata e nutrita dal sacro,
prosegue sul sentiero proprio, fondandosi su di esso ed utilizzando
tutti quegli elementi, fonici e letterari, che il sacro le aveva copiosamente elargito. Questo è verificabile ascoltando qualunque
composizione musicale profana
di questi ultimi quattro secoli, dagli immortali spartiti di Monteverdi (che La Scala, proprio quest’anno 2007, riproporrà in apertura di stagione), all’elegia di Bellini (che in fatto di delicatezza elegiaca trapelante afflato spirituale è maestro, vedi Sonnambula, oppure l’energia di tinta neoclassica di Norma, dove si intersecano passione, amore, delitto e
pena), alla melodia di Donizetti,
(espansiva e affascinante, che fece piangere calde lacrime anche
a Madame Bovary), alla tempra
formidabile di Verdi, unico nell’universo musicale mondiale dotato di intuito infallibile nel comprendere i segnali dei tempi nuovi: per non rimanere che in Italia,
e in tempi ormai lontani.
D’altronde i numerosi esempi
percorsi, nelle puntate di questi
ultimi due anni, circa la presenza
di Maria nella musica, dimostra-
no quanto il patrimonio musicale
profano sia debitore al sacro.
Se poi si estende lo sguardo in
tempi recenti, e in altre culture, il
successo di un «film musicale»
come Jesus Christ Superstar
(1970) dell’inglese Andrew Webber Lloyd, testo basato su di un’abile commistione di formule moderne e classiche, discutibile fin
che si vuole ma pur sempre proponente un tema religioso, indica che l’elemento spirituale, per
quanto rimestato e riadattato, non
è stato mai messo da parte dalla
produzione musicale. Certo, non
ci si sogna di pensare a questo
film come ad un’opera del patrimonio musicale sacro: ma dimostra, quanto meno, che la radice
spirituale è ineliminabile. Allo
stesso modo il compositore statunitense di origine russa Vladimir Ussachevsky (1911-1990) scrive una copiosa e colta partitura di
tonalità religiosa, che non può
considerarsi musica sacra, ma nella quale è ben percepibile l’elemento spirituale.
Gli interventi dei Papi
Per parlare ora espressamente
di musica sacra, più che dai tempi remoti è utile partire da quelli
recenti. È interessante anzitutto
considerare l’attenzione riservata dal magistero ecclesiastico alla musica sacra. All’inizio del secolo XX, San Pio X, con un lungo motu proprio dal titolo «Tra le
sollecitudini» (22 novembre 1903)
analizza attentamente gli obiettivi e l’uso della musica sacra durante le funzioni liturgiche. Sono
gli anni in cui a Bayreuth il teatro wagneriano assumeva gra-
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dualmente i caratteri di un grande tempio per il modo di fare spettacolo. Le interminabili, solenni
opere nelle quali gli déi pagani
hanno parte preponderante e tutto sembra dipendere dalla loro
volontà o dal loro destino, condizionando così la cultura e la
stessa spiritualità, la Chiesa raccomanda l’uso di una musica in
cui «santità» e «bontà delle forme» siano ben percepibili a livello di messaggio. L’organo interviene solo per accompagnare il
canto, mettendo così in chiaro la
netta subordinazione dello strumento. Questo perché il Papa ravvisa come l’organo, strumento tipico del rito sacro, rischia una
compromissione tra questa sua
funzione e quella profana: ecco
che cosa egli intende per «bontà
delle forme», cioè uso di strumento per il rito e non viceversa.
È vietata l’adozione di qualsiasi
altro strumento, che in qualche
modo possa far deviare l’attenzione dal rito alla bellezza del
suono. Ma se l’organo è il solo
ammesso in chiesa, viene utilizzato da tempo nel teatro: affiancato alla compagine orchestrale,
compare, oltre che in autori come
Ottorino Respighi (1879-1936),
anche in partiture di eccelsi autori
come Camille Saint-Saens (18351921), che lo usa nella sua
Symphonie avec orgue (1888), come Richard Strass (1864-1949),
nel suo celebre poema sinfonico
Also sprach Zarathustra (1896);
ancora il nostro Giacomo Puccini (1858-1924) lo colloca in Tosca (1900) e in Suor Angelica
(1918) e il grande musicologo e
studioso Albert Shweitzer (18751965) ne auspica nei suoi scritti
l’utilizzo per il ricupero della strumentazione bachiana. Tutto ciò
indica la vasta stima e la generale applicazione dell’organo, unico strumento caro ai pontefici
(non solo a San Pio X, ma anche
ai successivi).
Che cosa avrebbe detto Papa
Sarto, oggi, dinanzi alle Eucari-
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Il canto durante le celebrazioni liturgiche deve avere il sopravvento sulla funzionalità degli strumenti. Questa subordinazione, un tempo tanto cara alle indicazioni celebrative, oggi deve forse essere riscoperta.
stie accompagnate da chitarre,
tamburi e quant’altro...?
A San Pio X va il merito della fondazione del 1910 della
«Scuola Superiore di Musica Sacra», divenuta poi il «Pontificio Istituto di Musica Sacra» (PIMS),
con facoltà di conferire i gradi
accademici.
Pio XI, con il motu proprio Ad
musicae sacrae restitutionem (22
novembre 1922), incluse questa
scuola tra le Università Pontificie. Pio XII raccomandò vivamente la frequenza dei corsi di
musica, soprattutto ai candidati
presbiteri, attraverso lettere varie
e addirittura l’enciclica Musicae
sacrae disciplina (25 dicembre).
Proprio quest’ultimo documento
è di particolare importanza per la
musica sacra. Dopo aver riassunto l’origine e lo sviluppo della
musica sacra, specie gregoriana,
ed aver raccomandato l’osservanza «delle norme saggiamente
fissate da San Pio X nel documento da egli stesso definito codice giuridico della musica sacra» (il motu proprio ricordato
sopra), Papa Pacelli indica i motivi che ne debbono regolare ogni
manifestazione, affinché la musica risulti di aiuto efficace al servizio divino e all’edificazione dei
fedeli. Fissa le caratteristiche del27
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la musica, che saranno quelle proprie della liturgia, inculcando l’uso universale del
canto gregoriano, non respingendo altre forme, soprattutto polifoniche, purché
ornate delle debite qualità, e
disciplinando l’uso dell’organo e di altri eventuali strumenti. Raccomanda quindi
l’educazione musicale di tutti, mediante la formazione
di apposite Scholae Cantorum tra i fedeli e lo studio
della musica nei seminari.
Una vera esortazione, insomma, a promuovere sempre più la conoscenza e l’applicazione della musica sacra, considerata come importante ramo della liturgia.
Bisognerà ora attendere
il Vaticano II con la costituzione Sacrosanctum Concilium
sulla liturgia per avere nuovi e
precisi insegnamenti sulla musica sacra, eccezion fatta per occasionali brevi documenti o citazioni di essa nelle altre encicliche.
La novità di Perosi
Per concludere questo primo
tratto di storia a ritroso sulla musica sacra, è più che doveroso un
Ottorino Respighi (1879-1936), affianca l’uso dell’organo a quello degli altri strumenti musicali, svincolandolo così dal solo uso ecclesiastico.
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La musica sacra si caratterizza nel
XX secolo come una musica sostenuta principalmente, se non esclusivamente dall’uso dell’organo.
omaggio al maggiore compositore sacro degli ultimi due secoli, e
probabilmente il più profondo in
assoluto: Don Lorenzo Perosi
(Tortona 1872 - Roma 1956).
L’anno scorso il primo cinquantenario della morte è passato quasi inosservato, anche per il maggiore e giusto rilievo riservato al
secondo centenario mozartiano.
Ordinato sacerdote nel 1894 e
maestro di cappella prima ad Imola e poi a San Marco in Venezia, fu chiamato nel 1898 alla direzione della Cappella Sistina,
che mantenne, salvo una parentesi
di alcuni anni, fino alla morte. Si
può dire che Perosi rappresenti la
piena risposta al motu proprio di
San Pio X del 1903. La sua enorme produzione risulta meno concentrata sull’eredità polifonica palestriniana, e solo parzialmente
debitrice alle movenze del canto
gregoriano, che in quegli anni,
grazie al PIMS, otteneva una nuova e più accurata fase di ricerche
e di indagini. Con un carattere as-
solutamente compreso dentro le poetiche del teatro verista, filtrato attraverso un
approccio musicale semplice ed istintivo, Perosi appare sulla scena come l’ultimo
anello di una catena di musicisti che, pur avvertendo
l’urgenza di una riforma della musica liturgica, sono stati all’interno dello spirito del
tempo, senza mai perdere la
propria individualità artistica. L’affinità non solo con il
verismo, ma soprattutto con
la Giovane Scuola (di cui si
era parlato nelle puntate relative alla presenza di Maria nella musica), dona al
compositore piemontese una
spontanea e delicatissima effusività melodica. La sua è una melodia veramente rigenerata, che in modo sapiente ed
equilibrato sa realizzare una perfetta mescolanza tra le componenti veriste, con qualche ascendenza wagneriana e con misurati riferimenti al gregoriano. Compose una ventina di «oratori» nei
quali non si può non ravvisare il
taglio teatrale, ma così correttamente inserito da rendere ancora
più «sacra», all’udito e all’anima, la vicenda che viene narrata.
Valga per tutti La passione di Cristo secondo San Marco (1897),
in cui l’esigenza di rappresentare il «dramma» spirituale si esprime in una sintesi perfetta di
drammaticità e di sacralità. Compose inoltre, durante tutta la carriera, ben 52 messe, uno Stabat
Mater (1904) e centinaia di vari
pezzi sacri corali.
Lorenzo Perosi è veramente il
maestro che ha saputo perfettamente coniugare le richieste della teatralità con le forme più accurate e adeguate rivolte a ripronunciare, con timbro nuovo e con
risonanze nuove nella coscienza
dell’ascoltatore, le parole antiche
e perennemente attuali dell’annuncio evangelico.
Franco Careglio
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L’ADMA nel mondo
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INSERTO
ASSOCIAZIONE DI MARIA AUSILIATRICE
Maria rinnova la Famiglia Salesiana
(Lettera del Rettor Maggiore Don Egidio Viganò del 25 marzo 1978)
sa del titolo per farne una realtà in parte nuova e
più grande: un luogo privilegiato dalla presenza
materna e soccorritrice di Maria.
E questo dovrà certamente avere delle conseguenze anche per il nostro rilancio mariano.
La coscienza della presenza di Maria
Si può parlare di una «originalità» nella nostra
devozione all’Ausiliatrice per cui, volendo inserirci nel cuore del movimento mariano più attuale, si debbano sottolineare e curare alcuni aspetti
caratteristici che risultano distintivi di questa devozione?
Formuliamo la domanda partendo da una preoccupazione particolarmente pratica: la sua risposta
servirà a illuminare gli aspetti da privilegiare nel
nostro rinnovamento.
Don Bosco è stato, tra i devoti di Maria lungo
i secoli, uno dei grandi; lo è stato in forma caratteristica con una sua peculiare modalità, inserito
esplicitamente nel vivo del movimento mariano
più attuale e più incisivo per la Chiesa del suo
tempo.
Notiamolo bene: egli si inserì e non inventò la
devozione all’Ausiliatrice. Entrò nell’alveo di una
© Valerio Bocci
Quali che siano le motivazioni concrete alle origini della scelta del titolo «Auxilium Christianorum», già di per sé carico di storia e di una urgente attualità per le congiunture socioreligiose, ci sembra che ciò che per Don Bosco è stato determinante è il fatto d’aver sperimentato, giorno dopo giorno, che Maria si sia costruita praticamente questa
«sua Casa» nelle zolle dell’Oratorio e ne abbia preso possesso per irradiare da lì il suo patrocinio.
Il modo con cui Don Bosco parla di questa «Casa dell’Ausiliatrice» sottolinea meno gli accenni
storici, e assai più le affermazioni di presenza viva, di fontana zampillante di grazia, di rilancio
continuo di operosità apostolica, di clima di speranza e di volontà d’impegno per la Chiesa e per
il Papa.
Si presenta alla nostra considerazione una vera
«lirica dei fatti», che tiene dietro alla costruzione
della basilica e che illumina più vitalmente la scelta mariana di Don Bosco.
Penso che dovremmo riflettere di più sulle conseguenze «spirituali» che ha per Don Bosco (e per
noi) il fatto della costruzione di questo tempio, il
suo significato effettivo e la sua funzione fondale
nella configurazione definitiva del suo carisma e le
conseguenze concrete nella fondazione e sviluppo
della Famiglia Salesiana.
Dall’esistenza di questo santuario in poi l’Ausiliatrice è la espressione mariana che caratterizzerà
sempre lo spirito e l’apostolato di Don Bosco: la sua
vocazione apostolica gli apparirà tutta come opera
di Maria Ausiliatrice, e le molteplici e grandi sue
iniziative, particolarmente la Società di San Francesco di Sales, l’Istituto delle FMA e la gran Famiglia Salesiana, saranno viste da lui come fondazione voluta e curata dall’Ausiliatrice.
Penso si possa affermare che l’esistenza del santuario sia diventata, per l’esperienza viva di tante
grazie concrete, più significativa di quanto forse
pensava inizialmente lo stesso Don Bosco; la luce
che irradia dal tempio di Valdocco trascende le
preoccupazioni pastorali di quartiere e la storia stes-
(6a parte)
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tradizione già antica e specifica, ma le seppe dare
un volto ed uno stile così peculiare, che da lui in
poi l’Ausiliatrice è stata chiamata familiarmente
anche «la Madonna di Don Bosco»!
Tentiamo di soffermarci brevemente su alcuni
elementi che, sottolineati fortemente dal nostro fondatore, contribuiscono a dare a questa devozione un
volto ed uno stile suoi caratteristici.
Innanzitutto, la viva coscienza della presenza
personale di Maria nella storia della salvezza comporta nella devozione di Don Bosco, come abbiamo già osservato, l’atteggiamento costante di stabilire dei rapporti vitali con Essa (unendo, certamente, Maria a Cristo in un binomio inscindibile
di salvezza: le due colonne del suo sogno!).
Ne consegue che questa devozione mariana si riferisce sempre direttamente alla «persona» stessa
della Madonna con tutte le sue grandezze e i suoi
titoli; quindi, non si esprime mai in una qualche forma di concorrenza con le altre devozioni, ma piuttosto in una forma di convergenza intensiva e di
proiezione operativa, per cui ogni titolo e ogni festa mariana è amata e celebrata sottolineando il suo
apporto di «aiuto» alla salvezza umana.
Questa coscienza della presenza personale di
Maria Ausiliatrice è sentita concretamente da Don
Bosco nella propria vita come un dato oggettivo
basilare, un elemento fondante tutta la sua vocazione
sia per quanto definisce la destinazione e lo stile della sua missione apostolica, sia per quanto va tratteggiando la fisionomia del suo spirito evangelico.
(continua)
L’A D M A nel mondo
LA MERCED (Perù). Dalle scuole dell’infanzia sino alla superiori (statali e non statali) in zona
amazzonica.
Abbiamo gradito i saluti della Sig.ra Ispettrice,
Suor Bardini Lina, presente nella Comunità FMA
locale in cui si trovava per la visita annuale regolamentare.
Il 24 maggio 2006 altre 5 aspiranti ADMA hanno fatto la Promessa con entusiasmo attorniate da
numerosi fedeli nella Chiesa Madre dedicata a Marìa
Santissima de la Merced. Con queste 5 nuove associate sono 25 complessivamente dalla sua fondazione!
L’età delle nuove associate è tra i 72 e i 44 anni: Clarisa Vittoria del 1935 si occupa di agricoltura ed è presidente del “Club delle piante”; Sonia C.
del 1955 è segretaria dell’ADMA ed è casalinga; Rosa Maria è del 1959 è contabile; Giuseppina che è
del 1960 è sarta e fa la catechista; Sonia A. nata nel
1963 è segretaria contabile.
30
LA MERCED (Perù). Suor Nèlida Samaniego, animatrice
spirituale ADMA locale e le 5 Nuove Associate del 24
maggio 2006.
I nostri ringraziamenti a Suor Nélida Samaniego per il suo apostolato ADMA; a lei e alla comunità FMA come pure alle/gli associate/i il nostro
plauso e preghiera.
SAN ANTONIO DE LOS ALTOS (Venezuela). Noviziato salesiano e Casa di spiritualità. L’Assemblea Annuale ADMA alla quale ben tre volte ho
avuto la gioia di partecipare negli anni tra il 1995
al 2000.
L’assemblea si è tenuta nei giorni 1, 2 e 3 settembre 2006; vi hanno partecipato... solo 85 assoSAN ANTONIO DE LOS ALTOS (Venezuela). “Assemblea annuale ADMA” 1-3 settembre 2006: gruppo generale.
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ciate/i purtroppo per mancanza di posti disponibili. In compenso grande fu l’interesse, la compartecipazione e l’entusiasmo di tutti i partecipanti.
Sono stati presenti il Padre Raùl Biord, vicario
dell’Ispettore P. Jonny Reyes, il Padre Giuseppe
De Franceschi, animatore spirituale nazionale dell’ADMA, parecchi animatori spirituali locali salesiani e FMA, alcuni appartenenti ad altri gruppi
della famiglia salesiana.
Durante 3 intere giornate hanno riflettuto sul tema della famiglia in approfondimento della strenna 2006 del Rettor Maggiore, P. Pascual Chávez V.
È stata generale la soddisfazione e la gioia dei
partecipanti, che sono tornati alle loro sedi e alle
rispettive famiglie con la ferma volontà di essere
sempre più fedeli a Don Bosco quali appartenenti
all’ADMA seguendone sempre più il regolamento.
TORINO-VALDOCCO. ADMA Primaria e
ADMA locali di TO-Crocetta, SDB e FMA di TOAgnelli, Sassi, Stura, Mappano, Giaveno. Da venerdì
23-03-2007 alle 15,30 a domenica 25-03-2007 dalle 09,30 alle 18,00 ESERCIZI SPIRITUALI. Li abbiamo sempre fatti fuori sede, generalmente presso la “Madonna dei Laghi” di Avigliana (TO) nella casa di spiritualità SDB. Sono stati finalizzati alla preparazione alla Santa Pasqua. I partecipanti
pernottavano a casa loro, ma potevano pranzare al
“Self-service della Basilica”.
I partecipanti al ritiro spirituale erano sempre
almeno una trentina, al pomeriggio sono giunti all’ottantina! Mai meno di 15 uomini e arrivarono a
essere 22! Particolarmente numerosi i partecipanti
la domenica 25 soprattutto al pomeriggio, una settantina!
I temi svolti: 1) Sete di Dio (Mc 10,17; Mt 17,14).
Non basta il buon desiderio; ci vuole radicalità e costanza. 2) L’insegnamento di Gesù è “esigente”:
conoscere Gesù è sinonimo
di seguire quanto insegna a
parole e a fatti; in questo
TORINO-VALDOCCO. Incontro quaresimale nella sala
Don Bosco.
TORINO-VALDOCCO. Il Sig. Ispettore Don Pietro Migliasso presiede la celebrazione eucaristica del ritiro nella chiesa di San Francesco di Sales.
TORINO-VALDOCCO. Il gruppo dei partecipanti dopo la
Santa Messa nella chiesa di San Francesco il 25 marzo.
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Ricordi degli Esercizi Spirituali
23-25 marzo 2007 - Torino-Valdocco
TORINO-VALDOCCO. Il brindisi pasquale ha chiuso l’incontro degli esercizi spirituali.
“consiste la vita eterna”: lottare contro il peccato e
vincerlo; praticare la virtù.
Per comprendere e realizzare quanto Gesù insegna esige interiormente orienta il nostro cuore verso le sue parole e conduce la volontà sulla via dei
suoi insegnamenti (Salmo 119,35.36). Santa Teresa di Gesù bambino... non sentiva la sua parola ma
sentiva Lui dentro se stessa!
È, però assolutamente indispensabile dare spazio e prestare attenzione e, all’atto pratico, collaborare!
SABATO 24. Dalle ore 10,00 alle 12,00 almeno
6 confessori in basilica di Maria Ausiliatrice erano
disponibili a confessare e sono stati molto occupati! Nella riflessione fatta in sala Don Bosco fino alle 10,00 si è curato l’esame di coscienza e ci pare
che vi sia stata molta attenzione.
DOMENICA 25. Il Sig. Ispettore, Don Migliasso
Pietro alle 11,15 ha iniziato la celebrazione della
Santa Messa nella chiesa di San Francesco di Sales, avendo Don Viotti Sebastiano come concelebrante, e all’organo Don Pagliero Angelo.
Tema della liturgia della parola: la misericordia
di Dio è infinita... in Lui tutto è infinito. Dio perdona sempre, tutto, e chiama alla conversione, a
cambiare, a fare il bene al posto del male, a fare
quanto e come si deve fare quello che non si è fatto, a non peccare più, a essere fedeli e costanti! Ecco il grande messaggio di questa quinta domenica
di quaresima anno C.
Alle 12,15 oltre una quarantina hanno pranzato
in clima di vera amicizia.
Alle 14,30 la sala Don Bosco era già tutta occupata, data la pioggia, che continuava a cadere! Si è
iniziato con il Santo Rosario recitato a due cori,
con calma; precedeva ogni mistero un’adeguata riflessione come si è fatto anche ieri pomeriggio. Subito dopo Don Viotti commenta i “ricordi” letti da
Maria Lucia Caffaro in Martina.
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Come persona umana: sii onesto/a sempre con
tutti.
Come cristiano/a: vivi in grazia di Dio.
Come Associato/a: sii Educatrice/tore alla Don
Bosco in famiglia, sul lavoro, nella Società ecclesiale e civile.
Per questo: 1) Prega almeno 5 minuti al mattino e
alla sera e prima dei pasti fa una breve preghiera
ma con raccoglimento! 2) Santa Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. 3) Confessati almeno
una volta al mese e se per disgrazia pecchi mortalmente, pentiti al più presto, chiedi perdono di cuore col proposito di confessarti appena possibile, ma
necessariamente prima di fare la Santa Comunione. 4) È consigliabile un confessore fisso.
Per le/gli Associate/i: ogni 24 del mese 2 ore di riunione, la festa di Maria Ausiliatrice e di San Giovanni Bosco, Santa Messa e processione, giornata
di ritiro, l’ultima domenica di Avvento, la 5ª domenica di Quaresima, la Giornata Mariana annuale, gli Esercizi Spirituali di tre giorni.
La santa Comunione quando si va a Messa se si è
in grazia di Dio.
Infine, vivere e diffondere la devozione a Maria
Ausiliatrice!
Don Viotti ha commentato, puntualizzato e illustrato i vari punti e ha dato possibilità di chiedere
chiarimenti. L’incontro è stato molto interessante,
utile, compartecipato!
Abbiamo trasmesso a continuazione un filmato
di 12 minuti: “Ci vuole una casa per accogliere la
vita e custodire il mistero”: si parla di Mornese:
Mazzarelli, Valponasca, Collegio; Santa Maria Domenica Mazzarello, la sua famiglia, la sua Opera
FMA e fece seguito un secondo filmato: “XXV
giornate di spiritualità della Famiglia Salesiana - Roma 18 - 21 gennaio 2007” per approfondire la Strenna del Rettor Maggiore, Don Pascual Chávez V.
per il 2007: “Lasciamoci guidare dall’amore di Dio
per la vita”.
Per le 16,20 tutti erano in Basilica per i vespri,
l’Esposizione, l’adorazione, la benedizione di Gesù Eucaristico poi TUTTI IN SALA DON BOSCO
“PER IL BRINDISI PASQUALE” con lo scambio
di auguri con Don Sergio Pellini, Vicario dell’Ispettore e Rettore della Basilica. Un clima fortemente
mariano e salesiano alla luce dell’imminente Santa Pasqua!
Un vivo “grazie” ai membri del Consiglio ADMA per il lavoro fatto nella preparazione e gestione di tutto il “movimento”!
Don Sebastiano Viotti
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Cuore di Gesù. Io amo solo te,
santissimo Sacramento. Sono povero e misero, ma quando possiedo il tuo santo e amabile Cuore, allora sono ricco. Sono malato, ma conosco la medicina miracolosa e ricerco il santissimo
Sacramento. Quando ingiustizia
e pericolo mi assalgono, mi af-
esempi
esempi e pensieri
A cura di Mario Scudu
Odiarsi è più facile di quanto si
creda. La grazia è dimenticarsi.
Ma se ogni orgoglio fosse morto
in noi, la grazia delle grazie sarebbe amare umilmente se stessi, come qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo.
G. Bernanos, scrittore
Il minimo sguardo di Dio calmerebbe molto di più il vostro cuore turbato da questa preoccupazione di voi stessi. La sua presenza spinge sempre ad uscire
da se stessi, ed è ciò che vi occorre. Uscite dunque da voi stessi e sarete in pace.
F. Fénelon, predicatore
Ogni tramonto è un piccolo passo verso la morte.
Susanna Tamaro
L’uomo è misura di tutte le cose.
Protagora, filosofo
Tutto è relativo, ecco il solo principio assoluto... Non vi è nulla di
buono, non vi è nulla di cattivo assolutamente parlando. Tutto è relativo: ecco la sola cosa assoluta.
Auguste Comte, filosofo
Amare la propria fragilità
dopo essere stato a NaPversitàroprio
gasaki, mi trattenni all’unidi Kyoto per una riunione di studenti e di professori, non
cristiani o cristiani, cristiani di
vecchia o di fresca data. Domandavo loro: «per quale ragione, voi giapponesi, siete divenuti cristiani? Voi avete tutto. Lo
scintoismo per celebrare la nascita e le forze della vita; il buddismo per circondare la morte e
celebrare l’aldilà, e, tra i due, a-
vete il Giappone e il vostro affetto
alla giapponesità. Avete battuto
gli svizzeri con gli orologi migliori del mondo; avete battuto i
tedeschi con l’ottica migliore del
mondo; avete battuto gli americani con l’elettronica migliore
del mondo... Allora perche avete bisogno di Cristo?».
Uno di loro, convertito da
quattro anni, professore di storia
dell’arte e specialista dell’estetica di Kant, che era appena entrato
nell’Ordine dei domenicani, fratello Kamitsubo, rispose: «Fino
a Hiroshima, fino alla bomba di
Hiroshima, noi non eravamo mai
stati vinti. Eravamo persuasi di
essere i figli del sole. Nessuno ci
poteva vincere. Ma dopo il disastro, ci fu solo il Cristo per farci amare la nostro fragilità».
Dopo la visita di Nagasaki e
di Hiroshima, la porta di entrata
del cristianesimo e di ogni “confessione” mi si era ridotta ad una sola frase: è impossibile, da
soli, amare la propria fragilità. I
poveri del Vangelo hanno trovato la risposta prima degli apostoli. I poveri di cuore conoscono la sola condizione. Gli apostoli hanno avuto bisogno di tempo. Se si preferisce restare soli,
la domanda posta dalla nostra
fragilità ci fa paura.
Bernard Bro
Accoglimi
tra le tue braccia
S
acro Cuore di Gesù, ti lodo e
ti amo con tutto il cuore.
Santissimo Sacramento, pane spirituale dell’anima mia, con amore sincero ti prego senza sosta. Io amo solo te, sacratissimo
Sacro Cuore di Gesù, (G. Carnovali (1806-1873), attribuzione, Camaitino (Sotto il Monte - BG), Casa del
beato Giovanni XXIII.
fido al sacratissimo Cuore di Gesù. Quando i nemici incalzano,
essi non possono farmi del male. Subito mi rifugio in te, delizia dell’anima mia. Spesso sono
stato confuso. Nelle mie necessità stammi accanto, sacro Cuore di Gesù. Tu sei il maestro, io
il discepolo. Fammi ascoltare con
cuore sincero e aperto le tue parole. Desidero portare ogni fatica, ogni croce fino alla fine della mia vita per amor tuo, sacratissimo Cuore di Gesù. Quando,
nell’ora della mia morte, il corpo e l’anima vengono meno,
prendimi tu tra le tue braccia.
Nel giudizio sii misericordioso
con me. Non mi respingere, sacratissimo Cuore di Gesù! Fammi essere tuo per l’eternità! Non
chiedo nessun’altra felicità, o
santissimo Sacramento.
San Giuseppe Freinademetz, Missionario in Cina
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Santuari del Tri v
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Santuari mariani
VERONA
Santuario di
Santa Teresa di Gesù Bambino
Frati Carmelitani Scalzi
Indirizzo: Via Volturno 1
Tel. 045.500.266 - 045.50.52.66
Diocesi: Verona.
Calendario: È celebrata la festa del 1º ottobre (Santa Teresa del Bambino Gesù)
e il 1º maggio si svolge la benedizione
dei bambini.
Note: Nel mese di settembre, ogni sabato, concerto d’organo con organisti
di fama internazionale. Inoltre, nel convento dei carmelitani, vengono ospitati
soltanto laici che intendono fare esperienza vocazionale.
Il Santuario fu eretto nel 1905.
È in stile neogotico e il suo interno è un tripudio di marmi, la
cui policromia è sorprendente.
Straordinari le sculture, gli affreschi, i dipinti, le vetrate. La
Il Santuario di Santa Teresina di Verona è uno dei centri più importanti del Veneto per la musica organistica.
facciata è stata rivestita in cotto
nel 1968. L’ampio sagrato è cinto da una cancellata in ferro battuto sorretta da un basamento e
da colonne di marmo. Il monumento a Santa Teresa è in marmo bianco, elevato su un ricco
piedistallo in porfido. Sulla parete interna della facciata, in un
grande affresco del Bargellini è
raffigurata l’apoteosi del Carmelo: 220 figure disposte e studiate con grande gusto in 144
metri quadrati di parete. L’altare maggiore è in marmo broccato, al di sopra si trova un tempietto in cui è collocato il gruppo della Sacra Famiglia con Santa Teresa. Sulla porta del tabernacolo, ingemmata di pietre preziose, è riprodotta con finissimo
lavoro d’intarsio la Santa ai piedi del Crocifisso.
VICENZA
Santuario di Monte Berico
Servi di Maria
Indirizzo: Viale X Giugno 87
Tel. 0444.32.09.99
Diocesi: Vicenza.
Calendario: Sono celebrate solennemente tutte le festività mariane: Annunciazione (25 marzo); Assunzione (15
agosto); Natività (8 settembre); Madonna del Rosario (7 ottobre); Immacolata (8 dicembre).
Note: In maggio si tengono concerti
d’organo. Si organizzano, inoltre, conferenze di carattere teologico e mariologico.
Posto sulla sommità del Monte Berico, il complesso religioso è formato dal Santuario e dall’annesso convento che domina
la città sottostante. È possibile
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La statua in pietra del 1400 della Vergine venerata al Monte Berico.
Uno scorcio dell’interno e la panoramica del Santuario (a lato).
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i veneto
/17
accedere al tempio a piedi attraverso due strade caratteristiche: quella delle Scalette e quella dei Portici. La prima, la più
antica (1574) è composta da 192
gradini, che iniziano con un arco trionfale (1595), che reca la
firma del Palladio. La seconda,
dei Portici, con 150 archi come
i grani del Rosario e gli affreschi
dei 15 misteri del Rosario: in
tutto 700 metri di lunghezza.
Davanti alla facciata il grande
piazzale della Vittoria, che domina tutta la città. Qui fu costruito il Santuario agli inizi del
Quattrocento, nel punto in cui,
il 7 marzo 1426 e il 1º agosto
1428, Vincenza Pasini vide la
Madonna che le promise di far
cessare la pestilenza se i vicentini le avessero elevato un Santuario. Nel 1578 il Palladio edificò un nuovo tempio che venne in seguito distrutto per erigere
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l’attuale Basilica fra il 1688 e il
1703, progettata da Carlo Borella. L’imponente convento è
affidato ai Servi di Maria dal
1435. All’esterno del Santuario
le tre facciate simmetriche barocche sono ornate da 42 statue
di santi e tre bassorilievi di Orazio Marinali. I resti dell’oratorio gotico (1428) formano il
presbiterio della chiesa, diviso
da colonne in tre navate.
Nel refettorio ammiriamo la
Cena di San Gregorio Magno di
Maria Santissima e i Quattro Evangelisti, quadro di Alessandro Maganza (15561630), conservato nel Santuario del Monte Berico. A lato, il chiostro gotico con
le arcate decorate da cornici in terracotta.
Paolo Veronese (1572). Il chiostro gotico possiede belle arcate decorate da cornici in terracotta del XV secolo e in sacrestia si conservano opere pregiate come la Pietà di Bartolomeo
Montagna del 1500 e il coro ligneo intagliato di Pier Antonio
dell’Abate.
Cristina Siccardi
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MADONNA DELLA CORONA - 24 GIUGNO 1522 - SPIAZZI (VR)
Calendario Mariano
U
no dei più caratteristici
Santuari, sia per l’austerità del paesaggio che
lo circonda, sia anche per la sua
storia, è sicuramente quello della Madonna della Corona che
sorge sul Monte Baldo, in Diocesi di Verona.
Il Monte Baldo è una stupenda catena prealpina che si estende tra il lago di Garda ed il fiume Adige, per una lunghezza di
circa 40 chilometri e per una larghezza di 20. Il massiccio da
sempre è chiamato «la Corona»,
«da quei monti che in giro piegando, formano intorno una corona».
Per questo il Santuario dell’Addolorata prende il nome della «Corona».
In un breve spiazzo incavato
Altare della Crocifissione presso il
Santuario della Corona.
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L’antico sentiero
nella parete di roccia cruda, che
si drizza a picco sull’abisso per
una altezza di 400 metri, sta la
chiesa, appiccicata sulla roccia
come un nido di aquila.
La tradizione
La tradizione fa miracolosamente comparire nel 1522, sulla
parete rocciosa del Baldo, la statua della Madonna.
La Venerabile Elena da Persico (1869-1948), fondatrice delle
Figlie della Regina degli Apostoli, riferisce che, in una notte
del giugno 1522, una luce misteriosa illuminò le selve che coprivano le balze orientali del
monte Baldo, in quella insenatura
rocciosa, che scende a picco fin
quasi all’Adige e guarda i monti sorgenti sull’altra riva del fiume. Così intensa e viva è quella
luce che i terrazzani dei dintorni ne sono colpiti ed accorrono
sui cigli della roccia per vederne la causa. Ma da lassù nulla
possono scorgere, se non la
meravigliosa luce.
Allora i più coraggiosi, per
mezzo di funi si calano giù al
centro di quegli splendori. Sopra un brevissimo spiazzo, a mezza roccia, scorgono la statua di
Maria col Figlio morto sulle ginocchia.
La notizia si diffonde subito in
tutti i dintorni ed è un accorrere
di gente a venerare la statua miracolosa. Ma il luogo dove essa
si trova è inaccessibile, ed allora si pensa di portarla alla borgata
Spiazzi, composta di poche case, alla cima delle rocce.
Superando grandi difficoltà,
si riesce nell’impresa. L’immagine preziosa e venerata, a forza
di argani, è portata sulla sommità del monte. Viene improvvisata una processione, alla quale prendono parte moltissimi fedeli accorsi dai paesi vicini, e la
statua, tra canti di gioia, è collocata sopra un altare in una cappella di legno, costruita in tutta
fretta.
Ma il giorno seguente, quando i devoti accorrono per venerarla di nuovo, la statua non c’è
più! Pensando ad un furto, si cerca nelle case, negli antri delle
rocce, nei boschi. Inutilmente!
Finalmente qualcuno pensa di
guardare sullo spiazzo roccioso,
dal quale è stata tolta. Si trova
proprio là.
Raffigurazione dell’apparizione della Vergine addolorata con il Figlio
morto fra le braccia.
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Suggestiva visione del Santuario della Corona, incastonato ai piedi del monte Baldo. Secondo la tradizione la sta-
Allora quegli uomini semplici rinnovano la fatica del giorno
prima, scendono di nuovo a prendersi la preziosa statua e la riportano nel luogo dove già le
hanno eretto un altare. E per la
seconda volta Ella sparisce dalla Cappella di legno, e per la seconda volta è ritrovata nel breve
spiazzo roccioso. Si decide allora di costruire sul posto una piccola chiesa. Per circa venti anni,
i fedeli debbono calarsi giù dalle rocce con le funi dell’argano,
finché non viene costruita una
strada.
Un’altra spiegazione
Oltre alla tradizione che riferisce l’apparizione miracolosa
della statua della Pietà, si ritiene che, già prima del 1522 in
quella cavità rocciosa vivessero
dei religiosi eremiti, ai quali Ludovico di Castelbarco fa dono,
come ex voto, di una statua del-
tua dell’Addolorata giunse in questi luoghi da Rodi, dopo
che l’isola cadde in mano ai Turchi.
l’Addolorata che la tradizione
vuole sia giunta da Rodi, dopo la
caduta dell’isola in mano ai Turchi. Infatti sul piedestallo della
statua vi è la scritta «Hoc opus
facit fieri Ludovicus de Castro
Barco AD 1432».
Attorno a questa statua fiorisce la devozione all’Addolorata,
molto viva in quel tempo, e sorge il Santuario che con gli anni
si sviluppa ed abbellisce.
del venerdì santo, quando Maria riceve tra le braccia il corpo
di Gesù deposto dalla croce. Una statua simile è quella che si
venera nel Santuario altoatesino
di Pietralba, «Maria Weissen-
La statua
La statua della Madonna che
si venera alla Corona è un gruppo in pietra alto cm 70; la Vergine è raffigurata in atteggiamento di profondo e composto
dolore materno, mentre sorregge e contempla afflitta il corpo
di Cristo deposto dalla croce. È
una delle tante immagini e statue della Pietà (in tedesco «Vesperbild», cioè «Quadro della
sera») che ci riporta alla sera
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stein», in provincia di Bolzano,
molto amato dall’indimenticabile Papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I. Queste raffigurazioni della Pietà sono in gran
parte una forma artistica caratteristica della regione tedesca e
alpina.
Le vie attuali al Santuario
Oggi per giungere al Santuario della Madonna della Corona
si possono percorrere diverse vie.
Da Brentino, in Val d’Adige, si
snoda lungo il costone del monte Cimo «l’antico sentiero del
pellegrino», che si percorre a piedi: tratti di terreno battuto si alternano a rampe di gradinata
(1540 gradini). È la via più ardita, che ogni anno è percorsa da
molti pellegrini.
Una strada asfaltata scende
dal piazzale “Giovanni Paolo II”
di Spiazzi e arriva alla Corona
immergendosi nell’ultimo tratto
in una galleria (scavata nel 1922).
Questa strada è percorribile anche da auto, ma nei periodi di
maggior afflusso è riservata ad
un pulmino di linea.
Un’altra antica via «la via del
pellegrino orante» è costituita da
una lunga teoria di scalinate che,
partendo da Spiazzi, presso la
fontana, o dal piazzale “Giovanni Paolo II”, portano al Ponte del
Tiglio; da qui inizia la «via Matris», il tratto di scalinata a strapiombo sulla vertiginosa vallata.
Percorrendo queste scalinate si
possono ammirare le visuali più
suggestive del Santuario.
Il numero dei gradini disseminati nei dintorni della Corona
è di circa duemila (2.000).
Ogni anno in questo angolo
nascosto, sospeso tra cielo e terra, giungono numerosi pellegrini per chiedere alla «Pietà», che
la tradizione popolare ama pensare giunta da Rodi, quell’aiuto
di cui è stata ricca nei secoli.
Don Mario Morra
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Manoscritt
Centro
di Documentazione
L
’Archivio Storico del Centro
di Documentazione racchiude oltre 350 manoscritti. Descriviamo i più antichi
e i più significativi.
Possediamo il Testamento
Spirituale del Beato Giovanni
Colombini, (1305-1367) fondatore dei Gesuati, morto il 31-71367, cinque giorni dopo averlo
dettato, in rogito del notaio Benedetto Pacis di Città di Castello, con relativa copia originale e
trascrizione del Sac. Tarcisio Valsecchi.
San Francesco di Sales
(1567-1622). Due Autografi originali riportano brani di Omelia
della 3ª Domenica di Avvento
del 1603 (fronte e retro), ed un
frammento di scrittura del medesimo ha l’autentica dell’Arcivescovo di Torino Michael Antonius, in data 10-4-1710 (vedi
foto 1 e 2).
Possediamo una lettera, interamente autografa ed inedita, di
Santa Giovanna Francesca
Fremiot di Chantal (1572-1641)
scritta da Annecy in data 2-11(anno sconosciuto) indirizzata a
San Francesco di Sales. È firmata: Umilissima ed Obedientissima Figlia SR. Giov. Franc.
Fremiot.
쐃
San Filippo Neri (1515-1595)
con lettera, inviata da Roma l’812-1575, presenta alla nipote Suor
Maria Vittoria Trievi, Monaca
del Monastero di San Pietro martire a Firenze, le condoglianze
per la morte del padre.
Lettera della Beata Giovanna Maria Bonomo (1606-1670),
benedettina del Monastero di San
Girolamo in Bassano del Grappa, indirizzata il 16-12-1638 a
suo padre Giovanni, in Vicenza
al Carmine.
Cristiani Giapponesi: (1659).
Due documenti inviati da Don
Mario Marega sdb (1938) a Don
Pietro Zerbino, studiati e tradotti dalla Dr. Laura Moretti:
– Professione di fede: “Le persone sopra indicate non hanno
intenzione di apostatare. Sigilliamo con le impronte del pollice il fatto che tale decisione
non comporta per noi alcun ripensamento. Di conseguenza
chiediamo disposizioni in merito. Secondo anno dell’era Manji
(1659), decimo mese, primo
giorno”.
– Giuramento di Abiura: “Noi
rinneghiamo la religione cristiana. Non diventeremo una seconda volta cristiani. Qui giuriamo solennemente. Che que-
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쐋
tti antichi
sto documento serva come atto
per il futuro. Quattro componenti
della famiglia Zengoro. Anno del
cinghiale, dell’era Manji (1659),
ottavo mese, settimo giorno” (vedi foto 3).
San Crispino da Viterbo
(1668-1750). Lettera da Roma
del 21-9-1744(?) ad una certa Signora Caterina: “Si rassicuri, Signora Caterina mia, che ogni
giorno prego il mio amato Gesù
ed in specie la mia Signora Madre Maria Vergine per lei, acciò
le dia pazienza ed a suo tempo
il Paradiso”.
Di Santa Veronica Giuliani
(1660-1727) possediamo cinque
lettere alle sorelle, tra le quali
quella da Città di Castello, inviata il 5-1-1710 alla sorella Anna Maria Giuliani, in poesia sul
Natale.
San Giuseppe Benedetto
Cottolengo (1786-1842). Quietanza alle Regie Dogane (Torino,
28-1-1837): “Dichiaro di aver ricevuto due franchi e centesimi
otto dalle Casse delle Regie Dogane per conto dell’annuale porzione determinata a favore del
fu Coppo Giovanni Battista di
Andezeno”. Due fogli con firme
di Giuseppe Benedetto Cottolengo.
쐇
Sant’Alfonso Maria De Liguori (1696-1787). Tra le lettere e scritti a destinatari vari citiamo la petizione del Maggio
1749 inviata, a nome delle Monache Redentoriste di Napoli,
al Re Carlo III da Nocera dei
Pagani e la lettera del 3-12-1777
all’Ill.mo Signore Don Remondini editore a Venezia (vedi foto 4).
쐏
San Vincenzo Pallotti (17951850). Biglietto al Signor Giovanni Marchetti (Roma, 18-61848): “Prego la sua carità di
mettere nelle mani di M. G. Vescovo di Gubbio le 100 copie latine e le 200 italiane colla fiducia che le farà diramare in tutta
la Diocesi”.
Beato Giuseppe Allamano
(1851-1926). Lettera a Ill.mo Signore (Torino Consolata, 14-111902): ringrazia “pel caro regalo delle Reliquie del nostro santo Patrono delle Missioni d’Africa. Il Signore la rimeriti del-
la bontà ed insieme della generosità dell’offerta. I miei giovani missionari pregando ogni giorno davanti alla preziosa Reliquia
non dimenticheranno il buon donatore”.
Beato Luigi Boccardo (18611936). Lettera (Torino 1898): invita il destinatario a collaborare
con il Teologo De Alexandris
Luigi per un nuovo Presepio per
i giovani della scuola di religione, sezione completa, sita in via
Milano n. 3.
San Giovanni Bosco (18151888). Lettera (Torino, 12-81871) al Padre Barrera al quale invia, in allegato, la lettera della
Marchesa Cavalletti Luisa e chiede chiarimenti in proposito. Lettera a Carissimo Signore: “Mi è
giunta a Roma la sua lettera,
l’attendo a Torino per parlare di
cose di maggior rilievo. Assicuro preghiere (Roma, Via Sistina,
104, 15-3-1874)”.
Don Mario Morra
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Santi di ieri e di oggi
S
uo padre faceva il calzolaio
a Hussowitz-Brunn (Moldavia). Lì, nella sua umile
casa, sesta di sette figli, nel 1894,
nasce Elena Kafka. Quando comincia a parlare, la piccola è balbuziente. Ha soltanto due anni,
allorché, nel 1896, la sua famiglia, tutt’altro che benestante, emigra a Vienna.
A sei anni, va a scuola, ma
balbettando come non dovrebbe,
la maestra con un sistema del
tempo, le ordina di stare zitta per
tre mesi, con la speranza di guarirla dal grave difetto di pronuncia. “La cura” riesce assai bene
ed Elena è molto fiera di potersi esprimere scioltamente come
la altre bambine.
Ha voglia di studiare, ma a 15
anni, è costretta a lasciare la scuola, per impegnarsi come cameriera. Ha in cuore una grandissima affezione a Gesù e vuole
spendere la vita per Lui solo.
Non gli piace il lavoro che fa,
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Martire
per il crocifiss
perché vuole servire Gesù nei
malati come infermiera.
Gesù nei malati
Riesce a farsi assumere all’ospedale di Lainz, tenuto dalle
Suore della Carità cristiana, una
congregazione viennese. Lì esplode il suo desiderio più intenso e più intimo: farsi suora,
consacrarsi a Dio. I suoi genitori si oppongono, ma Elena, con
l’ostinazione che sarà sempre sua
propria, non si arrende. Prega,
insiste per convincere i suoi, infine scappa di casa.
A 20 anni, entra assai lieta
nell’Istituto da lei amato: veste
l’abito religioso e prende il nome di suor Maria Restituta, riferendosi a una giovane martire,
uccisa nel 304 d.C., al tempo delle persecuzioni dell’imperatore
Diocleziano.
Nel 1914, scoppia la “grande
La chiesa di Hussowitz-Brunn in Moldavia,
dove Elena venne battezzata.
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guerra”. Restituta, ancora novizia, presta il suo servizio all’ospedale di Modling, come infermiera in sala operatoria e anche
come anestesista. Non c’è nulla
che la intimorisca o la spaventi.
Anzi, è bravissima con i feriti di
guerra e sempre pronta ad affrontare le emergenze, anche le
più gravi.
È ardente di amore a Gesù
Crocifisso ed Eucaristico: tutta
la luce e l’energia che possiede
– a cascate – le vengono da Lui.
Lo prega a lungo, ogni mattina
nella Santa Messa, ripresentazione del suo Sacrificio, e durante il giorno, alza spesso gli
occhi al Crocifisso esposto nelle camere e nelle sale operatorie.
Medici, colleghe e soprattutto i pazienti sono letteralmente
affascinati dal suo stile deciso e
cordiale, dalle sue capacità di risolvere ogni problema che capiti. In breve, la soprannominano
“suor Resoluta”: ella ne è fiera
perché questo è un onore grande al suo Gesù che crea personalità forti e dolcissime in modo
che chi si consacra a Lui non fa
mai voto di perpetuo abbattimento, ma trova gioia senza confini.
Al termine della guerra, suor
Restituta diventa assistente volontaria di un famoso chirurgo,
con il cui carattere nessuno vuole avere a che fare, ma lei lo “domina” e lo orienta tutto a servizio dei malati. Da parte sua, continua a essere sorella e madre dei
sofferenti, con vera carità cristiana.
Intende amare e donarsi, a immagine di Gesù, fino a dare la
vita: perché non c’è amore più
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so dai luoghi pubblici, così come si vuol fare oggi, da parte di
molti. Suor Restituta riesce a continuare, più o meno segretamente, ad assistere malati e morenti. Il nuovo chirurgo, benché sia
un nazista fanatico, ha troppo bisogno della sua esperienza per
permettersi di denunciarla.
Quando il Crocifisso viene tolto dall’ospedale di Modling, ella si ribella e lo riporta al suo
posto. Quando viene edificata una nuova ala dell’ospedale, suor
Restituta, appende di persona il
Crocifisso nelle diverse camere,
sapendo bene a che cosa può andare incontro.
sso
Elena
Kafka
1896-1943
Quello è il posto del Crocifisso!
grande di chi sacrifica la vita per
i suoi amici. Con il passare degli anni, diventa un’istituzione,
benché sia bassa di statura, e, a
vederla, al primo incontro, non
sembri un granché. Impressiona
per il suo buon umore, anche nei
momenti più difficili. Le chie-
dono: “Come fai a essere sempre
così?”. Restituta risponde alzando il dito verso il Crocifisso: “Dipende da Lui”.
Nel 1938, i nazisti invadono
Vienna. Hitler non vuole la presenza delle suore negli ospedali
e ordina che sia tolto il Crocifis-
Il suo gesto è una sfida alla
falsa croce – la svastica – emblema del nazismo. Colta nell’atto di rimettere il Crocifisso
al suo posto, viene denunciata
alla Gestapo. Il mercoledì delle
ceneri 1942, viene arrestata dalle SS, che per di più le trovano
addosso un libello che definisce
Hitler un dittatore sanguinario.
Viene accusata di alto tradimento. Nel carcere di Vienna, viL’ospedale di Vienna
presso cui Suor Restituta
svolgeva il servizio
di infermiera.
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ve un Calvario lungo più di un
anno. Suor Restituta si prodiga ad
aiutare i compagni di prigionia –
le donne incinte, i condannati nel
braccio della morte – con la sua
fede invincibile, il suo coraggio,
il suo buon umore.
Verso la fine del marzo 1943,
giunge da Berlino la condanna a
morte, firmata da Bormann stesso, uno dei gerarchi del nazismo:
Suor Restituta riesce a mandare
il suo ultimo messaggio alle consorelle: “Per Gesù sono vissuta,
per Gesù voglio morire”.
Il 30 marzo 1943, Suor Elena
Restituta Kafka viene decapitata a Vienna sotto la lama della
ghigliottina. Prima di porgere la
testa al boia, chiede al cappellano: “Padre, mi faccia sulla fronte il segno della Croce”.
Papa Giovanni Paolo II l’ha
beatificata nel 1998, come “martire del Crocifisso”. Il 21 giugno
1998, parlando di lei nella Heldenplatz (= la piazza degli eroi)
di Vienna, 60 anni dopo la manifestazione tenuta da Hitler nello stesso luogo, il Papa disse:
“Grazie, suor Restituta per la tua
resistenza alla moda del momento”. Poi: “Tante cose possono essere tolte ai cristiani. Ma la
Croce come segno di salvezza
non ce la faremo togliere. Non
permetteremo che la Croce venga esclusa dalla vita pubblica. Ascolteremo la voce della coscienza che dice: bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29). “Cari giovani,
piantate nella vostra vita la Croce di Cristo. È la Croce il vero
albero della vita”.
In questo nostro tempo in cui
da molti, anche tra sedicenti credenti, si vorrebbe togliere il Crocifisso dalle case, dalle scuole,
dai luoghi pubblici e persino dalle Chiese, questa umile figlia del
popolo, con un’autorevolezza singolare, ci dice: “Non toccate il
Crocifisso”.
Paolo Risso
Str. Lazzaretto, 5 - 14055 Costigliole d’Asti
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Pagina 42
Vita e l i
Meditazione
T
rovo stupendo quanto ha
detto Papa Benedetto XVI
nel suo discorso ai Movimenti ecclesiali, il 3 giugno dello scorso anno, specialmente a
proposito di vita e libertà. Ne ripresento le parole esatte; pur con
frequenti omissioni, perché risulti più evidente la linearità del
suo pensiero.
La grande domanda
“Che cos’è la vita? La stragrande maggioranza degli uomini ha lo stesso concetto di vi-
ta del figliol prodigo del Vangelo. Egli si era fatto liquidare la
sua parte di patrimonio, e ora si
sentiva libero, voleva finalmente vivere senza più il peso dei
doveri di casa, voleva soltanto
vivere, godersela pienamente...
Alla fine si ritrovò custode di
porci: vuota era diventata questa
sua vita, così vana. E vana si rivelava anche la sua libertà”.
“Non avviene forse anche oggi così? Quando della vita si vuole soltanto impadronire, facilmente si finisce per rifugiarsi nella droga, la grande illusione. No,
in questo modo noi non troviaLa libertà
è un dono che ci è dato da vivere
con responsabilità.
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l ibertà
mo la vita. La vita la si trova soltanto donandola. Più uno dà la
sua vita per gli altri, più abbondantemente scorre il fiume della
vita.” Gesù ha fatto così!
E poi, “la vita sboccia nell’andare insieme col Pastore che
conosce il pascolo dove scorrono le fonti della vita: il pascolo
dove scorrono le fonti della vita
è la Parola di Dio, come la troviamo nella Sacra Scrittura, nella fede della Chiesa. Dove non
scorre più la vera fonte della vita, dove soltanto ci si appropria
della vita invece di donarla, là è
in pericolo anche la vita degli altri; là si è disposti ad escludere
la vita inerme non ancora nata,
perché sembra togliere spazio alla propria vita”.
Nella nostra libertà possiamo indirizzare la nostra vita verso la sua piena realizzazione oppure verso il suo fallimento. La meta e la rotta sono nelle nostre
mani.
Liberi perché figli
“Il tema della libertà è già stato accennato poco fa. Nella partenza del figliol prodigo si collegano appunto i temi della vita
e della libertà. Egli vuole la vita, e per questo vuol essere totalmente libero. Essere libero significa, in questa visione, poter
fare tutto quello che si vuole”.
“Chi vive così, ben presto si
scontrerà con l’altro che vuole
vivere nella stessa maniera. La
conseguenza necessaria di questo concetto egoistico di libertà è
la violenza, la distruzione vicendevole della libertà e della vita”.
“La Sacra Scrittura invece collega il concetto di libertà con
quello di figliolanza: «E voi non
avete ricevuto uno spirito da
schiavi per ricadere nella paura,
ma avete ricevuto uno spirito da
figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: abbà, padre!» (Rom
8,15). Che cosa significa ciò?
San Paolo presuppone il sistema
sociale del mondo antico, nel
quale esistevano gli schiavi, ai
quali non apparteneva nulla e che
perciò non potevano essere interessati ad un retto svolgimento
delle cose. Corrispettivamente
c’erano i figli, i quali erano anche eredi, e che per questo si
preoccupavano della conservazione e della buona amministrazione della loro proprietà. Poiché
erano liberi, avevano anche una
responsabilità”.
Liberi perché responsabili
“Vale sempre il principio: libertà e responsabilità vanno in-
sieme. Libero è il figlio, cui appartiene la casa e che perciò non
permette che sia distrutta. Lo Spirito Santo ci rende figli e figlie
di Dio. Egli ci coinvolge nella
stessa responsabilità di Dio per
il suo mondo, per l’umanità intera. Noi facciamo il bene non
come schiavi che non sono liberi di fare diversamente, ma lo
facciamo perché portiamo personalmente la responsabilità per
l’intero, perché amiamo Dio e
quindi le sue creature”.
“Vogliamo imparare questa
vera libertà, non quella degli
schiavi che mira a tagliare per se
stessi una fetta della torta di tutti, anche se poi questa manca all’altro. Noi desideriamo la libertà
vera e grande, quella degli eredi
di Dio, corresponsabili con Lui!”.
Antonio Rudoni
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notizie
notizie e avvenimenti
A cura di Mario Scudu
Venti secoli
e Gesù fa ancora notizia
turisti son di casa a Roma ma quelli che in
questa cauta primavera invadono piazze,
Istrade,
vicoli hanno una meta non segnata
nella Guida: la tomba di Giovanni Paolo II.
La Domenica delle Palme, nella serpentina
di giovani accaldati in attesa dell’autobus
per San Pietro, spiccava una t-shirt. Bianca,
stilizzava il (muto) grido di Gesù sulla Croce:
occhi e bocca demoliti dallo strazio. Sul retro
della maglietta, una mano. Spalancata a
subire un chiodo che faceva spicciare gran
sangue. Sotto quella mano, una scritta: «His
Pain -Your Gain», la sua pena è la tua
salvezza. T-shirt così le vedemmo durante la
Giornata mondiale della Gioventù. Ricordo
che il collega Catucci del manifesto chiese
a dieci giovani (americani) perché
andassero a trovare il Papa con quella t-shirt
certamente pulp. «Perché? Ma perché dice
la verità: col suo dolore Gesù ci salva».
Allorché parlai di quella maglietta a
Giovanni Paolo Il, dopo una breve pausa il
Santo Padre disse che la testimonianza di
fede è anch’essa un mistero. Come tale
imprevedibile. Qualche volta il mistero sfiora
il miracolo. Ma il miracolo non è soltanto la
Ancora oggi, Giovanni Paolo II
rimane per molti giovani
un sicuro punto di riferimento.
guarigione da un male che la scienza
umana ha diagnosticato «inguaribile».
Esistono anche miracoli minori, che ci
sfuggono. E qui, senza presunzione ma solo
per «dovere di cronaca», il Vecchio Cronista
vuol riferire ai suoi cari lettori quanto, nei
giorni esaltanti del Giubileo, mi raccontò un
giovine amico sacerdote. Al Circo Massimo
avevano piantato numerosi gabbiotticonfessionali: don Matteo fu avvicinato da
un ragazzo. Dopo averlo fissato a lungo, in
silenzio, quel ragazzo sgarbatamente parlò:
«Prete», disse, «io non mi sono mai
confessato e non è detto che lo faccia
adesso, stamani. Ignoro le preghiere
comandate e come fare a dirti che ho
picchiato la mia ragazza, oppure che mi
sono ubriacato in gruppo e tutto il resto. Non
me ne frega niente di confessare a te, un
estraneo, i miei problemi ma potrei provarci,
prete, se tu mi spiegassi come ci si confessa».
«Ti sei già confessato, avvicinati che ti
assolvo, su, muoviti, non avere paura come
dice il Papa. Non avere paura», disse il prete
e il ragazzo cadde in ginocchio (in altri tempi
si sarebbe gridato al miracolo).
«Dio è il problema», diceva Prezzolini. E
Gesù? Venti secoli dopo la sua morte e
resurrezione, Gesù continua “a far notizia”. In
verità, come rifletteva Papa Wojtyla, Cristo
muore ogni giorno nel buio di noi: nella
Mesopotamia chiamata Iraq, a Kabul, in
Bosnia, a Mogadiscio, nella Palestina, nelle
carceri, in autostrada. Ma ostinatamente
risorge e «siede alla destra del Padre». Uno è
il suo volto anche se Gesù muore e risorge in
sembianze diverse: Salvo D’Acquisto, Padre
Kolbe, don Pietro Pappalardo torturato a via
Tasso e fucilato alle Ardeatine. Poteva
salvarsi, don Pietro, ma rifiutò scegliendo di
morire come gli altri. Anche Gesù poteva
salvarsi e tuttavia rimase a Gerusalemme.
Per morire crocefisso. Perché? «His Pain - Your
Gain»: come ci dice la scritta pulp sulla t-shirt
del pellegrino americano: la sua pena è la
nostra salvezza.
Igor Man, da Specchio, 2007
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I padri da multare
e i bulli da sgonfiare
on penso sia del tutto peregrina la
N
proposta che ci arriva dalla Germania
nella quale si invita a multare i genitori con
figli che combinano pasticci a scuola. Se un
minorenne marina le lezioni, se fa il
prepotente, se rubacchia e distrugge,
dovrebbe pagare, in tutti i sensi, la famiglia.
Sento già qualcuno bofonchiare mentre
legge la notizia. Fate tutti i gestacci che
volete, regalatemi titoli e insulti, ma ribadirò
fino alla nausea che vanno snidati i genitori,
soprattutto i padri, perché da decenni sono
lontani da ogni impegno educativo
all’interno del nucleo familiare. Non si
possono lasciare solo e sempre alle mamme
compiti nei quali anche i padri dovrebbero
sentirsi seriamente coinvolti.
Don Antonio Mazzi
Il «buonismo cattolico»
davanti all’integralismo
del Corano
’autore riconosce e ringrazia la direzione
LCorriere
del settimanale diocesano di Aosta «Il
della Valle d’Aosta» per avergli data
la possibilità di collaborare con alcuni
articoli. Non è però d’accordo riguardo la
preferenza data a scritti inerenti altre
confessioni religiose, soprattutto all’Islam.
Un giornale cattolico dovrebbe in primo
luogo aiutare i lettori, spiegare qual è la
realtà oggettiva di una religione diversa
dalla nostra. Per affrontare le tematiche del
Corano bisogna avere il coraggio di vederle
con gli occhi di un islamico, non con quelli
del buonista cristiano. Il Corano, come
asserisce il profeta, non può essere
interpretato con un cuore diverso da quello
arabo. Il Corano è «integralista». L’uomo non
può modificare le sue parole, i suoi significati.
Ebbene, la mia constatazione riguardo al
commento alle sure del settimanale
diocesano, è che questo è sviluppato da
una mente non islamica. Manca cioè il
coraggio di dire il REALE per timore di
OFFENDERE i musulmani. Questa debolezza è
anche la maggiore accusa che ci viene
fatta dai VERI islamici.
«Nei paesi dove l’islam è maggioritario
Una giovane inneggia al Corano e a Maometto.
sono vittime i credenti di altre religioni; in
Arabia Saudita il culto cristiano è interdetto.
Chi viene trovato con una Bibbia viene
immediatamente incarcerato». Queste sono
parole del Papa espresse l’11 gennaio 1999
al Corpo Diplomatico rappresentante 160
paesi riuniti in Vaticano. Il commento a
questa affermazione è apparsa su «Civiltà
Cattolica», il mensile edito dalla Compagnia
di Gesù (numeri 3566, 3568 e 3570 del 1999).
I musulmani nel mondo sono in continua
espansione, hanno superato come numero i
cattolici: sono oltre un miliardo e 200 milioni.
La fertilità delle donne arabe è di circa 6 figli
ciascuna, contro quelle occidentali che
sono invece orientate verso la crescita zero...
I musulmani NON rispettano i diritti di
libertà di cambiare credo o religione. Per chi
lascia la fede islamica è contemplata la
pena di morte! Dove sta la reciprocità? Chi
è veramente razzista?
In Piemonte e in Valle d’Aosta sono in
aumento i matrimoni misti. Sono però sempre
i cattolici ad abiurare la loro fede cristiana.
Una parte di colpa ce l’hanno alcuni giornali
cattolici che diffondono «la bellezza
dell’Islam; l’ecumenismo cristiano deve
accogliere questa religione; bisogna essere
buoni».
Michel Barin C., da Missioni Consolata, 2006
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Santità educativa
A cura del Gruppo di Filatelia Religiosa
“Don Pietro Ceresa”
Filatelia religiosa
I missionari Saveriani
I
n occasione dei 500 anni dalla nascita di San
Francesco Saverio (1506-1552) i Missionari Saveriani di Cantù hanno promosso, con la collaborazione del Circolo “Canturium” una mostra filatelica sull’Asia e in particolare sull’Indonesia, nella quale sono state esposte anche collezioni presentate dal nostro Gruppo “Don Ceresa”.
Francesco de Jesu y Xavier è nato nella Navarra (Spagna) e si trasferisce alla Sorbona di Parigi
per gli studi. Lì ha come compagni Pietro Favre e
Ignazio di Lojola. Diventa sacerdote a Venezia nel
1537 e parte missionario verso l’Oriente nel 1541,
a 35 anni. Dalla colonia portoghese di Goa, dove
aveva approdato, per 10 anni visse in continuo movimento: dall’India, all’arcipelago delle Molucche,
l’Indonesia, il Giappone, varie isole del Pacifico. Il
suo sogno era la Cina, ma si fermò a 150 km da Canton, dove si ammalò e morì a 46 anni, dopo aver
battezzato almeno 30.000 convertiti. Il sogno mancato di Saverio fu avverato dal beato mons. Conforti, vescovo di Parma, dove fondò i Missionari Saveriani, che spiccarono il volo per la Cina nel 1895.
Francesco Saverio, canonizzato nel 1662, è stato
dichiarato Patrono dell’Oriente e, con Santa Teresa del Bambino Gesù, patrono universale delle Missioni Cattoliche.
Le Poste dell’Italia hanno emesso un bel francobollo commemorativo (unitamente a
quello per Sant’Ignazio), mentre
quelle del Vaticano
hanno emesso una
serie di tre francobolli per ricordare il “giubileo Ignaziano, Saveriano e Favriano”.
“100 anni di vita per una speranza viva”
Centenario salesiani in Ravenna
A
lla presenza delle massime autorità: Arcivescovo, Prefetto, Questore, Sindaco è stato ricordato l’arrivo a Ravenna dei primi salesiani nel lon46
tano 1907. Con la benedizione della statua all’ingresso dell’Opera e della pianta di ulivo nonché
l’accensione del “Braciere del centenario” sono iniziati i festeggiamenti che dureranno tutto l’anno
e coinvolgeranno tutta la Città. Una lunga serie di
conferenze e tavole rotonde “i martedì di Sant’Apollinare”, tenute da esperti sul tema “La speranza
educativa”, verranno proposte durante tutto l’anno,
nei vari teatri cittadini, l’anno del centenario si chiuderà il 31 dicembre. Per l’occasione sono state edite due cartoline con un bel annullo postale commemorativo.
70º anniversario
della Scuola San Giovanni Bosco di Ginosa
D
ue cartoline con disegni degli allievi della Scuo
la Statale San Giovanni Bosco di Ginosa (Taranto) sono state prodotte ed utilizzate per l’annullo filatelico del prof. Petro D’Amelio, per ricordare il 70º anniversario della Scuola. Nata nel 1936,
è stata la prima costruita nel Comune nel periodo
fascista; la sua storia è confluita in un volume realizzato dagli alunni con il contributo degli insegnanti. In occasione dell’avvio dell’anno celebrativo si è svolta una lezione di filatelia tenuta dal presidente del Circolo Filatelico di Massafra.
Angelo Siro
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Si sta completando l’ultimo lotto di
lavori per il restauro della nostra
Basilica.
Le foto testimoniano l’avanzamento dei lavori e la loro urgente
necessità.
Foto galleria del restauro, sul sito www.donbosco-torino.it
Per le tue offerte a favore del Santuario di Maria Ausiliatrice di Torino:
1) Con Bonifico bancario: Direzione Generale Opere Don Bosco - Basilica Maria Ausiliatrice
Banca Popolare di Sondrio - Agenzia 2 - Roma - c/c n. 000008000/27 - ABI 05696 - CAB 03202
2) Con Conto Corrente Postale: Ccp n. 214106
Direzione Opere Don Bosco - Via Maria Ausiliatrice 32 - 10152 Torino
Specificando nella causale: “Restauro Basilica”
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13:28
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AVVISO PER IL PORTALETTERE
In caso di MANCATO RECAPITO inviare a:
TORINO CMP NORD per la restituzione al mittente - C.M.S. Via Maria Ausiliatrice, 32 - 10152 Torino
il quale si impegna a pagare la relativa tassa.
MENSILE - ANNO XXVIII - N° 6 - GIUGNO 2007
Abbonamento annuo: € 12,00
• Amico € 15,00
• Sostenitore € 20,00
• Europa € 13,00
• Extraeuropei € 17,00
• Un numero € 1,20
Spediz. in abbon. postale - Pubbl. inf. 45%
SOMMARIO ➡
➲
FOTO DI COPERTINA:
Sacerdote vero ed eterno, egli istituì il rito del sacrificio perenne;
a Te per primo si offrì vittima di salvezza, e comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria.
Il suo corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza, il suo sangue per noi versato è la bevanda
che ci redime da ogni colpa.
(I Prefazio dell’Eucaristia)
L’Ultima Cena, Philippe de Champaigne
(1602-1674), Louvre, Parigi.
Altre foto:
Archivio Rivista - Archivio Dimensioni Nuove
- Centro Documentazione Mariana - Redazione ADMA - Teofilo Molaro - Guerrino Pera - Andreas Lothar - Mario Notario - Valerio
Bocci - Antonio Saglia.
Direttore: Giuseppe Pelizza – Vice Direttore e Archivio Rivista: Mario Scudu
Diffusione e amministrazione: Teofilo Molaro – Direttore responsabile: Sergio Giordani
Registrazione al Tribunale di Torino n. 2954 del 21-4-1980
Stampa: Scuola Grafica Salesiana - Torino – Grafica e impaginazione: S.G.S.-TO - Giuseppe Ricci
Corrispondenza: Rivista Maria Ausiliatrice, Via Maria Ausiliatrice 32 - 10152 Torino
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4 Editoriale - G P
del pane della vita - Ge6 sùIl mistero
racconta il Padre - M. G
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10 Preghiera
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I Salmi - B
politica senza Dio?
12 Una
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14 Cristo
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20 Sant’Ireneo
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La Madonna della Corona - Ca36 lendario mariano - M M
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