storie dall `emergenza

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storie dall `emergenza
l’arte della cura nella medicina di comunità a trieste:
storie e racconti di malattia
[1.]
storie dall’emergenza
Servizio 118
“Laboratorio di comunicazione”:
materiali e testi raccolti da Giovanna Gallio
Progetto “Fare salute” - EnAIP di Trieste
storie dall’emergenza
Carlo Pegani Demis Pizzolitto1
Storie dall’emergenza
[1. Tempi di reazione]
Carlo Pegani
Quest’anno io e Demis abbiamo lavorato spesso insieme nella centrale operativa; le storie che possiamo raccontare sono brevi, e non
potrebbe essere altrimenti: il nostro lavoro si svolge sempre in tempi
molto ridotti.
Giovanna Gallio
C’è un registro o un diario di bordo su cui annotate le cose che accadono?
Carlo
No, è tutto scritto qui, in testa... (ride)
Demis Pizzolitto
Tutto quello che accade nella sala operativa del 118 viene registrato
da un computer, e trasferito in pochi minuti a un server che immagazzina i dati, rendendoli disponibili anche a distanza di mesi o di anni.
Siamo passati, nel dicembre del 2002, a un sistema digitalizzato; il programma è stato realizzato dall’Insiel su richiesta della Regione.
Carlo
Per uniformarci al sistema nazionale di rilevazione dell’emergenza,
siamo passati da un supporto cartaceo a uno digitalizzato, ma anche
prima le telefonate che arrivavano al nostro servizio erano registrate.
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Carlo Pegani e Demis Pizzolitto sono infermieri che operano nel 118, Distretto 2, Ass
n.1 “Triestina”. L’incontro si è svolto il 5 agosto 2010.
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Lo erano da sempre, perché tutto ciò su cui noi interveniamo, o per
cui siamo chiamati, può diventare materia di contenzioso.
Demis
Da quando è nato il 118 c’è sempre stato un sistema di registrazione
delle voci, sia degli operatori che dei richiedenti. Tutte le chiamate vengono registrate, sia in entrata che in uscita.
Giovanna
Voi siete infatti gli unici operatori controllati in ogni istante, tutto
quel che dite e fate viene registrato, anche il respiro. Ma questo significa anche un’altra cosa: grazie alle registrazioni del 118 si potrebbe
ricostruire giorno per giorno l’emergenza della città. È un archivio straordinario di dati, voci e informazioni sulla vita quotidiana dell’intera
provincia di Trieste.
Demis
Chi ha la facoltà di farlo, essendo autorizzato da ragioni particolari, può chiedere di riascoltare le telefonate. Non che io possa, di mia
libera volontà, riascoltare quello che fa un collega o quel che ho fatto
io stesso; solo se l’autorità competente a raccogliere i dati riceve una
richiesta, può dare l’autorizzazione a farlo. La motivazione deve essere
molto seria per essere accolta, i dati registrati sono moltissimi: ogni
volta che riceviamo una richiesta d’intervento chiediamo il nome, l’indirizzo, il numero di telefono: in altre parole l’utente può essere identificato. Nelle telefonate si sente tutto, anche le grida, i pianti, le offese. È
certamente un materiale molto ricco per fare una ricerca, ma credo che
l’autorizzazione per ascoltare sia difficile da ottenere.
Giovanna
Da lì vengono estratti i dati per valutare il funzionamento del servizio, non è così?
Demis
Ci sono due interfacce: quella telefonica, che consiste nella registrazione delle voci di cui resta traccia, e quella del computer su cui siamo
noi stessi a immettere le informazioni. È da questa seconda che si possono raccogliere i dati sul funzionamento del servizio.
Ogni chiamata che prendo devo “concluderla”, nel senso di registrarla: può essere un’informazione data all’utente, o una chiamata di
servizio, oppure un soccorso, o ancora una domanda che viene smistata
agli operatori dei distretti e del Dipartimento di salute mentale. In seguito la direzione della Ass, sulla base di esigenze definite di volta in
volta, ci chiede i dati che servono a valutare l’andamento del servizio.
Ad essere valutati sono soprattutto i nostri “tempi di reazione”: grazie
ai dati raccolti è possibile calcolare quanto tempo gli operatori impiegano per rispondere a una chiamata, quanto tempo stanno al telefono
con l’utente, o quanto tempo passa tra la prima chiamata registrata e il
primo mezzo di soccorso che viene allertato.
Inoltre è possibile calcolare il tempo che ogni singolo mezzo, dopo
aver ricevuto l’ordine di recarsi in un posto, impiega prima di partire e
per arrivare, o quanto tempo si ferma e impiega per portare il paziente
al pronto soccorso.
Carlo
I dati sono raccolti sulla base di criteri o indici di valutazione definiti
dalla Joint Commission2, lo strumento di controllo dell’Ass, che può
così stabilire confronti, sia tra servizi dislocati in sedi regionali diverse,
che tra periodi o fasi di funzionamento dello stesso servizio. Gli indici
Iso sono degli standard con cui si valutano le prestazioni: uno di questi,
ad esempio, è che l’operatore è tenuto a rispondere a una richiesta inoltrata al 118 entro un limite massimo di dieci minuti.
Giovanna
In pratica, è una procedura di certificazione della qualità del servizio...
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Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organization.
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Carlo
Sì, noi abbiamo la certificazione Iso 9002, ma anche per il lavoro
distrettuale esiste un tipo di controllo basato su criteri adattati alle prestazioni di ciascun servizio. Nel 118 si controlla soprattutto il “tempo di
reazione”, e cioè quanto tempo impieghiamo a fornire una risposta. Per
noi è il fattore tempo a giocare un ruolo fondamentale.
Demis
In questo modo si può verificare come si modula il sistema sulla
base delle richieste dell’utenza, in una giornata ma anche in un anno.
In certi giorni siamo travolti dalle richieste, mentre in altri ci possono
essere dei tempi morti; un’eventualità, questa, che si verifica molto raramente.
Giovanna
Probabilmente la domanda si intensifica in certi periodo dell’anno.
Ad esempio, in piena estate aumenteranno le domande di soccorso degli anziani soli, anche perché i servizi funzionano a ritmo ridotto per
via delle ferie…
Carlo
Ormai non credo più nelle variazioni dell’emergenza per cicli stagionali: inverno o estate, feste o non feste, pasqua o natale l’andamento
delle richieste è molto elevato in tutte le fasi dell’anno. Può capitare
ogni tanto una notte tranquilla, ma è un’eccezione.
[2. Cogliere i segnali, i toni di voce]
Giovanna
State forse dicendo che la domanda di emergenza tende costantemente ad aumentare, un anno dopo l’altro?
Demis
No, secondo me è una questione di casualità, quasi di fatalità. Capita
di ricevere in un giorno dieci telefonate di anziani che stanno male: chi
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non riesce a dormire, chi non riesce a mangiare, chi non riesce a fare
la pipi. Nell’arco della giornata, o della notte, queste domande di aiuto
vengono gestite con le forze che abbiamo in campo, poi all’improvviso
succede un incidente stradale, con tre o quattro persone incastrate in
un’auto, e il servizio si ingorga, si mobilita completamente e si paralizza. È successo pochi giorni fa, ed eravamo proprio noi, io e Carlo, in
centrale operativa. Tre persone erano rimaste incastrate in una macchina accartocciata, bisognava estrarle: erano vive, ma una stava malissimo. Abbiamo dovuto inviare sul posto tre ambulanze più il medico, e
siamo rimasti con una sola macchina a coprire gli altri 220.000 abitanti.
Carlo
Quel giorno il caso ha voluto che ci fossero simultaneamente altre
richieste d’urgenza, e non avevamo i mezzi. Quando le tre ambulanze
sono arrivate sul posto dell’incidente, ci siamo detti: “Se adesso scatta
un’emergenza nella periferia della città siamo rovinati”. Puntualmente
è arrivata una domanda d’intervento per insufficienza respiratoria dalla
Pineta del Carso, ad Aurisina. Allora chiamo l’ospedale, poi la centrale
di Gorizia, se cortesemente ci prestano un’ambulanza per farla venire
nella nostra provincia. La procedura attuale fa divieto ai nostri colleghi
di Gorizia di portare il paziente direttamente a Cattinara, dobbiamo essere noi a farlo.
Giovanna
Nell’emergenza confluiscono problemi di ogni genere, è un lavoro
basato sulla vostra capacità di organizzare e smistare le risorse a disposizione…
Carlo
E tutto in tempi molto compressi!
Demis
Non abbiamo la possibilità di affrontare la richiesta che ci arriva con
la dovuta calma, “studiandola”, per così dire, per poi cercare di affrontarla e risolverla con l’aiuto di competenze qualificate. Non è così che
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funziona il nostro servizio: alle tre e mezza del mattino se c’è un disastro te la vedi tu, non possiamo dire “fermi tutti, mi prendo mezz’ora
per riflettere”.
Carlo
Manda l’ambulanza, invia l’auto medica, chiama i vigili del fuoco
per estrarre le persone dall’auto, chiama la polizia. Dobbiamo chiamarli
tutti noi.
Demis
La polizia non può sapere cos’è accaduto se qualcuno non la chiama, e quando c’è un incidente stradale con feriti il primo servizio a cui
si telefona è ovviamente il 118. In ogni caso noi abbiamo l’obbligo di
verificare che la polizia sia stata informata; inoltre dobbiamo allertare
le forze dell’ordine per garantire la viabilità.
Nel caso che ho citato lo scontro è avvenuto in curva, dietro la galleria; c’era un rischio altissimo di incidenti a catena. D’altra parte la
polizia svolge un ruolo essenziale nel garantire agli operatori del 118 di
lavorare in sicurezza. A loro volta i vigili del fuoco sono esperti in una
serie di funzioni: tagliare le lamiere, estrarre i corpi dai veicoli.
Giovanna
Sono competenti nel far sì che i feriti non subiscano ulteriori danni,
immagino che siano addestrati e formati per questo.
Demis
Nessun corso di formazione ti insegna come tagliare un’Alfa rispetto a una Mercedes; sono competenze che vengono sviluppate sul campo, frutto dell’esperienza.
Giovanna
Sarà tuttavia necessaria una capacità di forte coordinamento tra i
diversi soggetti che intervengono, non è così?
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Demis
Quel che manda in conflitto me, ma penso anche gli altri, è in così
poco tempo riuscire a trasmettere al meglio le informazioni, e gestire la
situazione al massimo delle possibilità. Dal punto di vista fisico e psicologico ogni giorno è diverso dall’altro, e può anche capitare che quel
giorno uno si senta stanco, stressato, e non dia il meglio di sé.
Giovanna
Quando vi arrivano domande di emergenza grave è come essere investiti da un’onda d’urto…
Carlo
Proprio così, è una scarica di adrenalina impressionante. Nel gestire
gli strumenti di rilevazione, mentre sei dietro al banco della centrale
operativa non devi solo chiamare, ma segnare sul computer le diverse
richieste d’intervento che inoltri, altrimenti un domani potrebbero chiederti ragione perché non hai attivato il soccorso in maniera tempestiva.
Sei investito di un’enorme responsabilità, qualche minuto in più o in
meno può essere decisivo nel salvare vite umane. In caso di indagine, la registrazione telefonica ti può scagionare dall’accusa di non aver
attivato entro un certo limite di tempo i vigili del fuoco, ad esempio.
Allora, mentre sei tu stesso in emergenza psicologica, devi contemporaneamente parlare al telefono, chiamare e prendere una serie di decisioni
in sequenza. E intanto con l’altra mano clicchi il tasto destro, compare
la mascherina e segni l’intervento.
[3. La cultura dell’emergenza a Trieste]
Demis
Di notte siamo in due al telefono, a fronte di 230.000 abitanti. Di
due che siamo, capita magari che uno debba gestire un intervento di
emergenza grave, con tre persone incastrate nell’auto, e l’altro deve
badare a tutto il resto.
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Giovanna
Quante sono le linee telefoniche?
Demis
In entrata ne abbiamo otto, ma ne gestiamo due per volta, quindi può
capitare che altre sei persone siano lì in attesa che qualcuno risponda.
Non è raro che questo accada: stiamo gestendo una situazione gravissima e dall’altra parte c’è un vecchietto, poverino, ipoacusico3, che non
riesce a urinare, con il globo vescicale.4 Urla disperato al telefono di
andarlo a prendere, e tu vorresti farlo perché capisci che per ciascuno la
gravità è quella percepita.
La scala di gravità che motiva il soccorso può essere chiara a te, ma
non al vecchietto che in quel momento vive il suo problema come un
dramma assoluto. Lui può attendere, la sua vita non è in pericolo quanto quella della persona che ha subito un incidente stradale, ma io che
sono lì non riesco nemmeno a spiegargli la situazione, mi ci vorrebbe
troppo tempo. Allora dico al vecchietto: “Cerchi di pazientare, mi dia il
numero di telefono, la richiamo tra dieci minuti”. Ma lui il suo numero
non se lo ricorda: “… mi no so, non me ciamo mai a casa”, “va bene,
ma mi può dare un recapito, un numero in cui la posso richiamare tra
qualche minuto?”. No, non c’è recapito, e allora che fai? Aspetti che
la telefonata rimanga lì in attesa per un tempo x, che non può essere
superato, perché allora il sistema si blocca automaticamente. Se questo
accade devo chiamare la centrale di Milano per risalire al numero del
vecchietto.
Quante volte chiamano, prendi la cornetta e senti gridare “aiuto, aiuto…”, e poi un grido, la voce si spegne, “…xè morto”, e la telefonata
viene chiusa. È morto chi, quando, dove, perché? Non si sa, chiudono
senza dire più niente.
Carlo
Se mettiamo una chiamata in attesa, dopo sette minuti il nostro sistema la evidenzia. Se la telefonata termina, o cade prima che sia trascorso
questo tempo, per rientrare in contatto con l’utente dobbiamo chiamare
la centrale di Milano, perché il Tag (il sistema che traccia le chiamate)
ci permette di recuperare il numero.
Demis
Dopo venti secondi il Tag segna il numero, quindi è possibile per
noi recuperarlo. Ma se per caso l’utente chiude male il telefono, o senza
volerlo tiene aperta la conversazione, noi siamo lì impossibilitati a fare
qualsiasi cosa, mentre magari sentiamo in diretta dall’altra parte qualcuno che urla, piange o si dispera.
Capita, ad esempio, che arrivi una telefonata in cui la persona dichiara di star male e di volersi suicidare; dopo sette minuti di conversazione
noi disponiamo del numero da cui sta chiamando, e se è un telefono
della rete urbana possiamo facilmente identificare la via e l’abitazione
per intervenire. Per questo, quando c’è una minaccia di suicidio siamo
addestrati a trattenere la persona quanto più tempo possibile, mettendo
in atto degli escamotages ogni volta che siamo in difficoltà nel localizzare la chiamata.
Del resto a Trieste è difficile fare solo emergenza, è una città con una
storia tutta sua, non solo per il numero elevato di anziani, ma perché si
ricorre al 118 anche per trovare risposte ai più comuni quesiti: “ho le
vesciche ai piedi”, “ho il mal di denti”. Due giorni fa una signora chiama verso sera: “Ho il bambino con trentasette e tre di febbre…”, “Da
quanto tempo?”, “Da un’ora circa”; ”Va beh, signora, aspettiamo un po’
per vedere se la febbre sale o scende”. Ci chiamano per chiederci cosa
fare quando trovano i cuccioli di gabbiano nel giardino sotto casa…
Carlo
…o se investono il capriolo in Carso...
Ipoacusia: diminuzione della capacità uditiva, dalla forma più leggera fino alla sordità
Globo vescicale: aumento di volume della vescica dovuto all’impossibilità o a difficoltà nella minzione, e quindi alla ritenzione delle urine. La vescica diventa così palpabile.
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Demis
Siamo tenuti a rispondere anche a domande di emergenza veteri13
naria, tenendo distinte tre diverse categorie di animali: “da reddito”,
“domestici” e “selvatici”. Se sono le mucche a stare male, o i cavalli,
dobbiamo comportarci in modo diverso da quando a stare male sono i
gatti. Ogni giorno riceviamo questo potpourri di telefonate, e in mezzo
c’è chi muore e c’è chi nasce. Chi gli muore il gatto e non sa che fare,
chi non riesce a urinare da sei ore, chi ha litigato con la mamma o con
il papà, o il marito che litiga con la moglie. C’è chi va fuori di testa, chi
si ubriaca o va in overdose, chi fa violenza o si picchia per strada, chi si
suicida o minaccia di suicidarsi, chi si butta giù dal sesto piano e chi si
spara. Siamo come una spugna che assorbe e filtra tutto.
Giovanna
In futuro il servizio d’emergenza potrebbe differenziarsi. Ad esempio, in caso di minaccia di suicidio la domanda potrebbe essere smistata
a un telefono ad hoc, con competenze specifiche che vengono messe a
disposizione.
Demis
I tempi di reazione, a cui dobbiamo attenerci, sono completamente
diversi da quelli previsti da una competenza erogata via telefono.
Carlo
Ad esempio, “mi sto per buttare dalla finestra”: se sento questa frase
devo chiamare in sequenza l’ambulanza, la polizia e il medico. Difficilmente puoi mettere la persona in attesa dicendo: “Aspetti di suicidarsi
che le passo lo psichiatra”. Chi dice che sta per buttarsi dal quarto piano
ha già aperto la finestra davanti a sé, o senti in diretta che lo sta facendo.
Ricorrere a una competenza specialistica risulta tanto più difficile per le
difficoltà che abbiamo a identificare la persona, trattenendola al telefono fino a poterla localizzare in un quartiere, in una strada, in un edificio.
Demis
Se accade di notte, e la minaccia è di buttarsi dal sesto piano, come
in effetti è capitato, non abbiamo nemmeno noi il tempo di reagire come
sistema. Nel 99,9% dei casi la chiamata al 118 arriva dopo che qual14
cosa è già accaduto; sono pochissime le chiamate che anticipano un
problema o un evento. A volte è capitato di sentire in diretta la persona
che apre la finestra per buttarsi giù, o un vicino di casa ha telefonato
per segnalare un uomo che stava camminando al buio sul cornicione
del palazzo. Tempo fa un giovane uomo ha fatto proprio così: dopo un
litigio con la fidanzata ha minacciato di suicidarsi uscendo dalla finestra
e camminando sul cornicione. Dal palazzo di fronte qualcuno l’ha visto
e ci ha chiamato; ci siamo recati immediatamente sul posto, e quando il
ragazzo ha sentito le sirene dell’ambulanza e della polizia si è lanciato
nel vuoto. Che fare in quel caso? Abbiamo sbagliato a intervenire? Il
fatto è che non potevamo non intervenire. I nostri tempi di reazione
non ci permettono quasi mai di avere tutta la calma necessaria a cristallizzare la situazione, fino a portarla a un momento successivo in cui
un insieme di persone, o almeno più di due, possano gestire l’evento.
Quando sei lì dietro al bancone, e arriva la chiamata, uno di noi deve
rispondere mentre l’altro invia sul posto un mezzo. La chiamata al 118,
se è un’urgenza vera e propria, deve durare non più di un minuto, dopo
di che Carlo la passa a me, e io ho pochi secondi per prendere una decisione: se devo inviare un mezzo, quale scelgo? quante competenze
devo mettere a disposizione di quel particolare intervento?
Carlo
Le cose vanno più o meno così. Demis, che gestisce le macchine, già
mi ascolta mentre io rispondo alla chiamata; quando batto i dati sulla tastiera, segue con gli occhi sul monitor l’indirizzo di chi sta chiamando,
la zona e la via della città, e ancora prima che la telefonata sia chiusa
allerta l’automezzo. Se c’è un’insufficienza respiratoria grave, o un incidente stradale, o un caso in cui la persona è a rischio di morte, sente
e ascolta insieme a me la concitazione delle voci al telefono. E se vede
che ho scritto “via Carducci”, subito chiede dove sono le macchine e le
avvicina alla zona dove dovranno recarsi.
La bravura dell’operatore consiste in questa rapidità di coordinamento, nel cogliere i segnali, i toni della voce. Noi lavoriamo di schiena, sui due lati di un bancone semicircolare con dei monitor: da un lato
si risponde alle chiamate, dall’altro si attivano i soccorsi.
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Demis
Il volume di lavoro è più grande durante il giorno, e infatti c’è un
operatore in più, anche perché dobbiamo svolgere un’attività di filtro
della domanda. A Trieste il 118 non fa solo emergenza in senso stretto;
è difficile dire “chiamate solo se avete un’urgenza grave”, date le caratteristiche della popolazione a cui prima accennavo.
Per qualcuno la percezione dell’urgenza può corrispondere a un mal
di denti, mentre a qualcun altro non passa neanche per la mente di rivolgersi al 118 per una carie o un’infezione alla gengiva. E invece ci
chiamano per le vesciche ai piedi, o perché sbattono la testa al risveglio contro la mensola del bagno, e chiedono: “Devo andare a farmi i
raggi?”. Quindi è molto soggettiva la percezione di che cos’è urgente o
emergente, e uniformare questi valori secondo una scala di percezione
della gravità è impossibile. Dietro alla domanda d’urgenza c’è tutto un
substrato di emozioni, la capacità o meno di gestire la propria ansia o
di fronteggiare da soli una serie di rischi, grandi e piccoli. C’è chi si
impressiona alla vista del sangue, e chi invece è insensibile a tutto.
Carlo
L’interazione ideale per noi sarebbe: “C’è un arresto cardiaco”, “Sì,
arriviamo subito”, ma quasi mai la comunicazione è così incontrovertibile. In questo lavoro la cosa che fa un po’ ridere è che alla fine, dopo
tante chiamate, non solo riconosci le voci delle persone, ma ricordi a
memoria i numeri di telefono. Io, ad esempio, ricordo a memoria tutti i
numeri delle case di riposo, e a volte prendo quasi paura di questa memoria involontaria. Mi ricordo gli indirizzi delle persone al solo sentire
la voce, oppure ricordo il loro nome e subito rispondo: “Ah signora,
come va?”. Tutto questo ovviamente senza aver mai visto i volti, né
conoscere la storia di nessuno.
Demis
Di giorno è un vantaggio avere a disposizione un operatore in più,
che cerca nel marasma delle telefonate di scremare quelle che possono
essere indirizzate ai servizi territoriali. Il progetto distrettuale per il paziente oncologico costituisce un punto di riferimento importante, o c’è
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la possibilità di svolgere un’attività di filtro della domanda psichiatrica
lavorando con i Centri di salute mentale.
Riceviamo telefonate di pazienti psichiatrici che non si recano al
servizio, quelli che noi chiamiamo gli habitués perché telefonano ripetutamente, anche solo per chiacchierare. Se hai tempo ascolti, cerchi
di capire qual è il problema, e una volta identificato fai di tutto per
convogliare la persona al servizio che la segue da tempo. Comunque il
nostro obiettivo è non ospedalizzare, o ridurre l’ospedalizzazione ogni
volta che è possibile, mediante la gestione a domicilio di tutta una serie
di problemi.
[4. La valutazione della gravità della domanda]
Giovanna
Tu, Carlo, condividi le osservazioni di Demis sugli sforzi che vengono fatti per non ospedalizzare?
Carlo
Sì, ma vorrei sottolineare un problema: la difficoltà che abbiamo ad
accordare i nostri tempi di reazione con quelli dei servizi psichiatrici
o distrettuali. Se, ad esempio, un vecchietto chiama il 118 perché ha
un problema di ipertensione, io devo cercare di non rinviare la richiesta al pronto soccorso, mettendo la persona in contatto con il servizio
del distretto, ma l’operazione di smistamento della domanda è tutt’altro
che semplice. Dapprima metto l’utente in attesa, e sulla base del suo
indirizzo individuo il distretto di riferimento, prendo la rubrica su cui
sono annotati i numeri e qui comincia una serie di telefonate: chiamo
un primo medico e non mi risponde, chiamo il secondo e mi dice che
in quel momento è molto impegnato. Allora cosa posso fare? Devo cercare qualcun altro che mi dia una mano, ma nel frattempo tutta la responsabilità dell’urgenza ricade su di me che ho ricevuto la chiamata.
Anche se sono infermiere professionale, non posso dare informazioni
o consigli a qualcuno sui farmaci da assumere, né sono autorizzato a
chiedere al medico del 118 di mettersi in collegamento telefonico per
dare il suo parere.
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Il nostro medico deve essere sempre pronto a intervenire in situazioni di conclamata gravità, tanto più che è l’unico in turno per tutta la
provincia di Trieste.5
Giovanna
Del resto non potete da soli, al telefono, valutare la gravità delle
domande che arrivano al vostro servizio, o mi sbaglio?
Giovanna
Tu dici: non può essere l’operatore del 118 a decidere se la richiesta
può essere dilazionata, o rinviata a “dopo”…
Carlo
Beh, sì, noi dobbiamo essere in grado di esprimere una valutazione
della gravità; nel minuto e mezzo che abbiamo a disposizione dobbiamo fare domande molto mirate rispetto al tipo di sintomo, o di patologia
che viene dichiarata. Il fatto è che, soprattutto la persona anziana o il
malato cronico, risponde alle mie domande ricostruendo la storia della
sua malattia dagli inizi, con un racconto che risale a trent’anni addietro.
Allora bisogna saper troncare con la dovuta delicatezza questa lunghissima storia, con domande centrate sul presente: “Cosa sente oggi, cosa
le fa male o la preoccupa in questo momento?”.
Carlo
Il problema è che il distretto non sembra condividere la mia nozione
di urgenza: non usa gli stessi parametri, non si fa carico di comprendere
che io devo obbedire a determinati “tempi di reazione”. D’altra parte,
in quanto operatore del 118 non posso dire al vecchietto “la sua ipertensione se la tenga”, o “prenda dei farmaci”; devo avere un confronto
con qualcuno, ottenere il parere di un responsabile che si fa carico della
risposta. Se il mio compito è ridurre l’ospedalizzazione, esercitando
un’attività di filtro, devo essere messo in condizioni di indirizzare la
persona a risposte alternative.
Giovanna
Dunque, tu rilevi lacune o carenze su questo punto da parte dei servizi distrettuali…
Carlo
No, non voglio dire questo. La collaborazione tra il 118 e i distretti è buona, ed è fondamentale per ridurre i ricoveri impropri; osservo
semplicemente che bisogna fare ulteriori sforzi per migliorare il coordinamento. Noi operatori del 118 disponiamo di una lista di nomi di
referenti per ciascun distretto, ma questi professionisti non sono lì per
noi: hanno già un carnet strapieno di cose da fare, e non sempre trovano
lo spazio per rispondere alle nostre richieste.
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I medici nel 118 sono in tutto sei, ma ad essere in turno è uno solo per volta.
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Demis
Molti, specie se anziani e soli, non ce la fanno a dare informazioni
chiare, e i sintomi che vengono dichiarati possono riferirsi alle più svariate patologie. Ad esempio, il banalissimo “mal di pancia” può essere
paradossalmente più complicato, da decifrare e affrontare per il 118,
di quanto non lo sia un attacco cardiaco. C’è una gamma praticamente
infinita di mali di pancia, e quindi cominci con le domande: “Da quanti
giorni? Che dolore è – continuo, acuto, intermittente, a spasmi, etc. Va
di corpo? Urina? La pancia è gonfia, è tesa? Se la tocca, le fa più male
in qualche punto?”.
Altro sintomo frequente, difficile da codificare, sono le vertigini e
la nausea che ne consegue. Allora chiedi: “Ha mal di collo? Soffre alla
cervicale? Soffre di problemi alle orecchie? Ha acufene? Sente rumori?
Ha la possibilità di misurarsi la pressione?”. Il fatto è che tutte queste
domande devono essere rivolte e soddisfatte nello spazio di qualche
minuto.
Giovanna
Per definire la gravità della domanda utilizzate un sistema di codici
basato sul colore…
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Demis
Sì, ed è l’operatore che lavora nella centrale operativa a decidere
il colore del codice: se la domanda può essere o no procrastinata nel
tempo, rinviata o meno a un altro servizio, o respinta senza fare niente,
offrendo indicazioni e consigli molto blandi. Il vero discrimine nel definire la gravità della domanda è l’invio dell’ambulanza, con il medico o
senza medico. In ogni caso ogni volta ci assumiamo una grande responsabilità, dovendo essere noi a stabilire entro quanto tempo la richiesta
di una persona verrà evasa e soddisfatta. Se assegni un codice bianco si
parla di ore, il codice verde significa che la risposta dovrà essere data
entro cinquanta minuti; il codice giallo vuol dire “andare appena possibile”, il codice rosso “andare immediatamente”. Il codice viene attribuito sulla base delle domande che sei riuscito a fare, e delle risposte più o
meno chiare che sei riuscito a ottenere; ma giocano un ruolo importante
anche le tue sensazioni e l’esperienza che hai accumulato nel lavoro sul
campo. La risposta che vorresti sempre dare è il codice giallo, “veniamo appena possibile”, ma è evidente che se dai sempre questa risposta
il servizio si paralizza, non avrebbe più senso.
[5. Lavoro di strada, codice rosso: la storia di Carlo]
Giovanna
Mi piacerebbe sentirvi raccontare una storia, un fatto che vi è accaduto nell’intervento di strada e che vi ha particolarmente colpito.
Carlo
Posso cominciare io raccontando un fatto accaduto agli inizi del mio
lavoro nel 118, quando ancora non mi ero fatto le ossa. Mi sono avvicinato un po’ per caso al lavoro d’emergenza, quand’ero ancora studente
alle scuole superiori. A diciannove anni mi sono iscritto a un corso per
volontari della Croce Rossa, e quella prima esperienza è stata così appassionante che nel dicembre del 1999 ho deciso di diventare infermiere. Per
alcuni anni, anche come obiettore di coscienza, ho continuato a lavorare
nella Cri dov’ero diventato dipendente; nel frattempo studiavo, finché
nel febbraio del 2006 sono stato assunto dall’azienda sanitaria di Trieste.
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Giovanna
Sentiamo allora la storia.
Carlo
L’episodio risale all’estate del 2002, otto anni fa. Verso le dieci di
sera veniamo inviati con codice giallo all’ingresso del porto nuovo, passaggio Sant’Andrea. Al nostro arrivo c’è un uomo steso a terra, completamente solo. È un incidente, ma non si riesce a capire cosa possa averlo
procurato: nessun veicolo lì accanto, né una moto o un’auto; solo quel
corpo steso a terra, e a una certa distanza due uomini fermi a guardare.
Ci accorgiamo immediatamente che la situazione è disperata: trauma facciale, occhi sfondati. Non mi soffermo sui particolari – il sangue,
la materia cerebrale fuoriuscita – ma essendo un giovane uomo respirava ancora, il cuore continuava a battere. L’auto era stata catapultata cinquanta metri più avanti, e sotto la testa del ferito c’era del vetro. L’uomo
doveva aver colpito qualcosa mentre guidava a grande velocità; l’urto
lo aveva sbalzato fuori dal veicolo in corsa, in un movimento che aveva
spinto in avanti il corpo fino a sfondare con la testa il parabrezza.
La ricostruzione della dinamica dell’incidente accerterà in seguito
che era andato a urtare contro il rimorchio di un camion, fermo alla sua
sinistra; guidava troppo veloce e non aveva allacciato la cintura.
Cominciamo le manovre di rianimazione e chiamiamo il medico,
che non era con noi sull’ambulanza; al suo arrivo il ferito viene intubato, ed eravamo tutti concentrati nello sforzo di rianimare quel povero
corpo quando comincia a suonare un cellulare. Il suono proveniva proprio da lui, dall’uomo ferito; il cellulare che portava con sé nel marsupio, legato alla vita, non si era rotto, e ora suonava, suonava. Lo spazio
dove eravamo, vicino alle rive, a quell’ora era deserto, un po’ spettrale,
e quel suono insistente che sembrava uscire dal corpo dell’uomo era
raccapricciante. Dopo un po’ il medico decide che non c’è più niente
da fare, e mentre ci sta dicendo di smettere le manovre di rianimazione,
il cellulare ricomincia a suonare con insistenza: suona, suona, suona.
L’uomo muore, il medico constata il decesso; copriamo il corpo con un
telo e lo lasciamo lì. E anche dopo che il corpo era lì coperto, e noi ce
ne stavamo andando, il telefono riprende a suonare. Suonava, suonava.
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Il giorno dopo, leggendo la cronaca dell’incidente, scopro che a
chiamare con tanta insistenza erano la moglie e la figlia che volevano
augurare all’uomo la buona notte. Questo particolare mi ha sconvolto;
sono scoppiato a piangere, e la cosa è rimasta per sempre conficcata
nella mia mente.
Giovanna
Quando intervenite con un ferito sulla strada non siete autorizzati a
rispondere al telefono…
Carlo
No, certo, ma quella sera anche volendo non avremmo avuto il tempo materiale di farlo. È stato questo a sconvolgermi: l’idea che noi eravamo lì, a cercare di strappare l’uomo alla morte, e la moglie e la figlia
lo chiamavano per scambiare con lui un gesto di affetto, uno dei tanti
gesti di cui è piena la vita quotidiana. A tuttora se ci ripenso mi viene
la pelle d’oca. Mi sono immaginato che marito e moglie non fossero
riusciti a salutarsi: forse l’uomo era uscito di casa in fretta perché era
in ritardo, o forse guidava così veloce perché si sentiva sicuro di sé, in
quella strada che percorreva ogni giorno. Oppure era la bambina che
faceva i capricci, e non voleva addormentarsi prima di aver sentito la
voce del padre.
Fai tutte queste congetture, ma a sconvolgerti è il fatto di assistere in
diretta alla rottura del tempo. Come nello scorrimento parallelo di due
dimensioni temporali, vedi queste due vite intrecciate che, per un gioco
del caso, si scindono per sempre in un istante. Lavorando nell’emergenza tu sei lì e vedi, sai in anticipo qualcosa che agli altri accadrà dopo, in
un tempo spostato, ritardato.
Giovanna
Il tuo racconto mi fa pensare che restano in voi le tracce degli eventi
a cui dovete assistere; il grave incidente è un trauma anche per voi.
Immagino che questo accada soprattutto agli inizi del lavoro, quando
ancora le emozioni sono difficilmente controllabili…
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Carlo
No, accade tuttora.
Demis
Accade ogni volta, sempre.
Carlo
Accade sempre, perché tu sei lì e vedi le cose istante per istante.
Vedi l’uomo che sta morendo, e associ questa visione a quella di una
moglie e di una figlia che lo stanno chiamando per salutarlo e augurargli la buona notte. Assisti in diretta alla distruzione di una vita e di una
famiglia, e misuri fino in fondo la tua impotenza.
[6. Intervento a domicilio, codice giallo: la storia di Demis]
Giovanna
Chissà a quante morti avete assistito facendo questo lavoro…
Carlo
Certo, moltissime, non le conto più, ma questa storia è rimasta impressa nella mia mente più di ogni altra.
Demis
Anch’io ho conservato il ricordo di un intervento che è stato per me
uno shock, forse perché come Carlo ero agli inizi della mia esperienza
nel 118. Ho ottenuto il diploma di infermiere professionale a diciannove anni, e dopo aver fatto il militare sono stato assegnato alla rianimazione del Maggiore senza che ne avessi fatto richiesta. Ero impreparato
a quel lavoro, ma grazie all’aiuto di colleghi esperti (in quel reparto ho
trovato professionalità di altissimo livello), sono riuscito a superare le
mie incertezze e paure, e sono rimasto lì fino all’ottobre del 1999, quando è stata accolta la mia domanda di lavorare nel 118.
L’episodio risale all’estate del 2001. In pieno giorno veniamo allertati con un codice verde, un’urgenza “differibile”, senza l’uso delle
sirene, per un problema di gravidanza o forse di parto.
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La richiesta d’intervento non era ben definita, avremmo dovuto
scoprirla arrivando sul posto, ma niente lasciava presagire chissà quali
difficoltà, tanto più che l’abitazione della donna era situata in un quartiere non lontano dal Burlo. Il tempo di fare la strada senza correre
e arriviamo davanti al palazzo, suoniamo il campanello e ci infiliamo
nell’ascensore. Eravamo due infermieri; il terzo era rimasto sull’ambulanza per predisporre le attrezzature di soccorso, anche se – ripeto –
eravamo convinti di dover effettuare un semplice trasporto della donna
all’ospedale.
L’appartamento era al sesto piano di un condominio, e quando
l’ascensore si apre ci troviamo davanti a una porta socchiusa, senza
nessuno ad attenderci. Buio, silenzio: deve essere stata questa oscurità
a darmi la sensazione di entrare in una casa immaginaria, come nei film
dell’orrore. Fuori faceva un caldo impressionante e le tapparelle erano
abbassate; la luce entrava dalle fessure, tanto che mi è rimasto impresso
il ricordo del pulviscolo dell’aria, mentre si sentiva provenire da qualche parte il suono di un televisore acceso. Seguendo la traccia siamo
arrivati in una stanza con un divano nero, e due bambini seduti davanti
allo schermo perfettamente immobili. Erano entrambi molto piccoli,
la bambina che era la più grande avrà avuto sei o sette anni, eppure
riuscivano a stare così fermi da sembrare due statue di cera. Chiedo:
“Dove sono i vostri genitori?”. La bambina fa un cenno con la mano,
come a dire che dovevamo andare avanti nel corridoio, fino a una stanza
dove in effetti troviamo una donna distesa a letto. Restando fermo sulla
soglia mi presento, ma la donna non risponde; allora mi avvicino, e le
chiedo per quale problema siamo stati chiamati. La donna nemmeno mi
guarda, continua a ripetere: “Sto male, sono incinta e sto male”.
A vederla sembrava al quarto o quinto mese di gravidanza, lì per lì
ho pensato che fosse una gestosi6, anche perché non aveva contrazioni.
Decido di misurarle la pressione, e mentre cerco di infilarle il bracciale
mi arriva in pieno volto un ceffone così forte che mi gira la testa. Per
un attimo resto lì immobile, in preda allo shock, poi chiedo stupito:
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Gestosi: sindrome clinica che compare nella seconda metà della gravidanza, caratterizzata da aumento della pressione arteriosa (ipertensione), perdita di proteine con le
urine (proteinuria) e gonfiori agli arti inferiori (edemi).
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“Signora, ma cosa fa?”. Lei mi guarda per la prima volta negli occhi,
con una determinazione e una calma che mi sembrarono terribili date
le circostanze. Poi ricomincia a dire “sto male”. “Signora, capisco che
sta male, ma deve aiutarmi a comprendere qual è il problema. Ora le
misuro la pressione, poi la porteremo in ospedale con l’ambulanza che
ci aspetta qui sotto”. Intanto chiedo se ha delle perdite, o sente qualche
dolore in particolare; a ogni domanda ripete “no, sto male”.
Comincio a pensare che la situazione sia più grave del previsto, al
punto che la donna deve aver perso ogni lucidità. Smetto di insistere
con le domande e cerco di agire: do l’ordine al collega di andare a
prendere la sedia a rotelle, e di chiamare subito il medico via radio,
mentre ricomincio le manovre per misurare la pressione. Mentre sto per
infilarmi il fonendoscopio arriva un secondo ceffone; questa volta ero
più preparato a riceverlo, e dico: “Basta, la prego, si calmi e mi lasci
fare il mio lavoro”. La sensazione di essere finito in un film dell’orrore
trovava sempre nuove conferme, era come se dovesse accadermi da un
momento all’altro qualcosa di mostruoso.
La pressione era su valori abbastanza buoni, e quando il mio collega ritorna, aiutiamo la donna a sollevarsi dal letto, la mettiamo sulla
seggiola e cominciamo a portarla verso l’uscita dell’abitazione. A quel
punto chiedo alla signora come facciamo con i bambini, se restano da
soli; lei dice che il marito è stato avvertito sul lavoro, sta per arrivare, infatti lo incrociamo sulla porta. Bene, finalmente possiamo andare,
ma ecco sorgere un nuovo ostacolo: l’ascensore era troppo stretto per
contenere tutti e tre, a mala pena ci stava la donna sulla piccola sedia,
e per accompagnarla io dovevo restare tutto schiacciato davanti a lei,
sporgendo a gambe larghe sopra le sue ginocchia.
L’ascensore comincia a scendere, e mentre lei ripete “sto male” io
cerco di dirle che il peggio è passato, il Burlo è vicino e a sirene spiegate ci saremmo arrivati in quattro minuti, non di più. Giunti a piano terra
esco dall’abitacolo, ma mi accorgo che un piccolo gradino mi avrebbe
impedito, col solo movimento della spinta, di estrarre la sedia a rotelle
con sopra la donna. Bisognava sollevarla, e poiché il mio collega sceso
per le scale tardava a raggiungerci, decido di farlo da solo afferrando le
due maniglie collocate in basso, sotto la sedia.
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Nell’eseguire questa operazione devo chinarmi davanti alla donna
fino a sfiorarle il volto, e in quel momento mi arriva il terzo schiaffo,
una sberla allucinante. Reagisco istintivamente cercando di tirarmi su,
lei allora inizia ad assalirmi. Mi mette le mani sulle spalle, spinge con
tutte le sue forze; io mi alzo e lei si alza con me, dice: “Lo faccio qui”…
Giovanna
…il bambino…
Demis
Prima ancora di capire cosa stava succedendo ho avuto la strana
sensazione di dovermi abbassare, ho messo le mani a coppa sotto la
donna e in pochi istanti mi sono ritrovato con una piccola creatura che
si muoveva nelle mie mani, attaccata al cordone ombelicale.
Lei ha detto: “Sapevo che l’avrei perso”; ho alzato gli occhi e davanti a me c’era una donna la cui voce mi sembrava di ascoltare allora
per la prima volta. In effetti era un’altra persona quella con cui stavo
parlando, e solo allora ho capito che cos’era accaduto: concentrata nella
paura di perdere il figlio, volendo trattenerlo all’estremo delle sue forze, la donna aveva perso ogni altra facoltà; era capace solo di dire “sto
male, sto male”, nient’altro.
In seguito ho saputo che la sua gravidanza era a rischio e lei lo sapeva. Già quand’era rimasta incinta, i medici del Burlo l’avevano avvertita che con ogni probabilità non avrebbe portato a termine la gravidanza.
Giovanna
E dopo cos’è successo?
Demis
Mi sono ritrovato con questa creatura, che ha fatto quello che tutti i
bambini fanno quando nascono, ha cercato di respirare. Era un esserino
grande così, una bimba di quattro o cinque mesi, e anche se siamo andati al Burlo alla velocità del suono non sono riusciti a salvarla. Del resto
poi non ho saputo più nulla.
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[7. Lo sguardo dell’uomo che muore]
Giovanna
Questo è un altro aspetto inquietante del vostro lavoro: dopo aver
condiviso con le persone momenti così intensi, decisivi per la loro vita,
si perde ogni traccia e non sapete più niente di loro.
Demis
Sì, dal momento in cui le persone entrano in ospedale noi perdiamo
l’informazione, ma restano impressi nella mente certi casi particolari.
Ad esempio, ho conservato il ricordo molto vivo di un altro episodio:
un uomo con una gravissima crisi allergica. Al nostro ingresso nella
casa c’erano sulla porta ad aspettarci la moglie e la figlia, che piangendo urlavano: “Aiutatelo, aiutatelo!”. Sono andato di corsa nel soggiorno
dove lui era, vicino alla tavola ancora apparecchiata, e avvicinandomi
ho incrociato il suo sguardo. È uno sguardo che non posso dimenticare, anche perché l’uomo in quel preciso istante si è lasciato andare, ha
smesso di combattere contro la morte quando mi ha riconosciuto come
operatore del 118.
A causa dell’edema alla glottide stava soffocando; non riusciva più
a respirare già da molti minuti, ma aveva una forza d’animo incredibile,
e anche una forza fisica incredibile. La sua volontà di resistere era impressionante, ma quando ha visto che erano arrivati i soccorsi deve aver
pensato: “Ora siete qui, ce l’ho fatta, posso lasciarmi andare”. Invece
non siamo riusciti a salvarlo. Il cuore era forte, continuava a battere,
ma tutte le vie respiratorie erano ostruite e il medico non è riuscito a
intubarlo, così è morto.
Giovanna
Avete accertato la causa della morte?
Demis
È stato il cibo. L’uomo stava mangiando e all’improvviso è diventato rosso, gonfio, non respirava più. Quando ci hanno chiamato siamo arrivati immediatamente, ma tutto è accaduto in un lampo: lui che
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chiude gli occhi e si lascia andare, noi che lo prendiamo, lo mettiamo
giù disteso per soccorrerlo. L’attività cardiaca è andata avanti tanto; il
medico ha provato a intubarlo dal naso, dalla bocca, ma non ci riusciva.
Esistono casi di persone che soffrono di allergie in maniera del tutto
incontrollata: mangiando un cibo, una o più volte, possono non avere
alcuna reazione, non gli fa niente; poi invece a distanza di mesi o di
anni assumono lo stesso alimento e cadono in uno shock anafilattico. A
provocarlo è sufficiente una lieve variazione negli ingredienti, cosa che
accade quando lo stesso alimento viene prodotto da aziende diverse,
che utilizzano due differenti sistemi produttivi.
Giovanna
Questi saranno casi rari…
Demis
Certo, sono rari. Le persone con queste particolari allergie possono morire da un momento all’altro e non lo sanno, come nel caso di
quest’uomo: gli occhi pieni di stupore che si chiudono lentamente, il
corpo che va giù e il cuore che continua a battere, battere. Era nel pieno
della vita e non voleva lasciarsi andare, non era pronto a morire.
[8. Mappe di ordinaria emergenza: la marginalità urbana]
Giovanna
Queste storie sono sconvolgenti, ma a colpirmi è il vostro modo
di raccontarle: la precisione dei termini che utilizzate, la ricchezza dei
dettagli, la memoria visiva di tutti i passaggi e le sequenze di gesti che
siete tenuti a compiere nel vostro lavoro.
Quelli che avete raccontato sono casi eccezionali, poi ci sono le storie di ordinaria emergenza: dimensioni più banali e quotidiane dell’intervento nelle strade e nei caseggiati, di cui vorrei sentirvi parlare. Prima tu, Demis, accennavi al fatto che a Trieste il ricorso della popolazione ai servizi d’emergenza è molto diffuso…
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Demis
… direi quasi smisurato, con richieste spesso assurde.
Carlo
“Mi è si è rotto il tubo dell’acqua, chi devo chiamare?”, “Sono rimasto fuori dalla porta, ho perso le chiavi”…
Demis
Chiamano il 118 come se fosse il numero che risolve un po’ tutto:
per la cura degli animali, o per piccoli incidenti quotidiani. Per ottenere
informazioni di qualsiasi tipo chiamano, chiamano.
Giovanna
Coloro che chiamano per ragioni futili o assurde costituiscono una
minoranza? Sono i vecchi, o le persone sole e disperate a chiamare?
Carlo
No, lo fanno anche molti giovani non particolarmente disperati.
Giovanna
Eppure per una serie di problemi ci si può rivolgere anche al 113…
Carlo
Sì, ma il 113 vuol dire polizia, e cioè reati, furti, crimini contro la
persona, leggi violate, regole del codice non rispettate. Anche i carabinieri sono agenti dell’ordine pubblico, come la finanza che sorveglia i
crimini economici. Rispetto a queste altre possibilità di soccorso, il 118
è conosciuto dalla popolazione come il numero su cui far confluire “tutto il resto”: non solo le domande di aiuto sanitario, ma anche le richieste ambigue, inclassificabili. In altre parole, l’intervento del 118 viene
definito in via residuale, per differenza rispetto a tutte le altre agenzie
dell’ordine pubblico.
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Giovanna
In ogni caso, avrete osservato se esistono particolari insediamenti,
aree territoriali o quartieri della città da cui proviene un numero più
elevato di richieste. Mi chiedo, cioè, se la domanda d’emergenza si caratterizza anche in relazione ai luoghi, agli habitat sociali.
Demis
La maggior parte delle domande che riceviamo proviene dal centro
città, anche perché lì c’è un maggior numero di case di riposo.
Carlo
In effetti ci sono culture diverse dell’emergenza da una zona all’altra, da un quartiere all’altro della città. Ad esempio, gli abitanti del Carso sono molto restii a chiamare le ambulanze, forse perché si pensano
lontani dal centro e con minori probabilità di ricevere un soccorso immediato. Nei paesi dell’altipiano c’è uno stile di vita diverso, e ciascuno
tende a sfruttare gli aiuti che può trovare intorno a sé, nelle immediate
vicinanze, prima di ricorrere al 118.
Le zone di Borgo san Sergio, Ponziana, via dell’Istria, via Battera,
via dell’Industria, Vaticano, San Giacomo: sono queste le aree della
città da cui proviene una domanda abbastanza intensa. Lì è concentrato
un certo tipo di popolazione a rischio: si sa che negli insediamenti Ater
ci sono più tossicodipendenti e alcolisti, o persone con disturbi psichiatrici. In ogni caso, chi lavora da anni in emergenza sa cosa aspettarsi già
dall’indirizzo della persona, o dalla zona dove abita.
Demis
Nell’area compresa tra la stazione ferroviaria e piazza Garibaldi,
verso l’altipiano o verso il mare, sono concentrati al 75% gli ubriachi,
i clochard, le persone che vivono per strada o sulle panchine, e che noi
dobbiamo spesso andare a prendere. In particolare lungo via Carducci,
verso piazza Goldoni o verso l’ospedale maggiore, e in tutte quelle vie
collaterali che salgono a San Giacomo, dove quasi a ogni passo c’è
un’osteria o uno spaccetto, lì si concentrano i nostri clienti più affezionati.
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Giovanna
E le persone immigrate, i cosiddetti “extracomunitari”?
Carlo
A quanto mi risulta sono pochissimi; i cinesi ad esempio non chiamano mai.
Demis
In undici anni di lavoro ricordo solo un cinese con un problema cardiaco, e una donna della Mongolia che doveva partorire. Si ammaleranno anche gli immigrati, ma con ogni probabilità si curano da soli. A parte qualche caso, anche dalla comunità serba e croata non arrivano molte
telefonate. La zona di via Donadoni, sotto via Rossetti e via Piccardi
fino alla Madonnina, è diventato un po’ il crogiuolo della comunità serba, ma non c’è stato in questi anni un aumento di flusso delle chiamate.
Certo, se qualcuno sta molto male chiamano, ma non provengono da lì
richieste del tipo “Ho trovato un cane, cosa ne faccio?”, o “Quale farmacia aperta è di turno oggi”. Trieste è una città multietnica, con culture
e mentalità diverse; e poi c’è il porto, con tanta gente che la attraversa
per via del confine, ma non si può dire che il 118 risenta particolarmente
di queste caratteristiche della città.
Giovanna
Quindi, secondo voi sono i triestini a esprimere una cultura di forte
investimento sulle istituzioni dell’emergenza, in quanto diritto ad avere
dei servizi...
Carlo
Una qualsiasi ricerca, condotta a livello nazionale, potrebbe dimostrare che i triestini hanno sviluppato un senso altissimo dei diritti
nell’uso del 118. Si sa che appena fuori dalla provincia, già a Monfalcone, la gente va da sola in ospedale con il braccio rotto: il braccio amputato se lo portano dietro per farselo ricucire. La mentalità del friulano
è quella di chiamare l’ambulanza solo in casi eccezionali, estremi, a
Trieste non è così.
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Poco tempo fa una signora ha chiamato alle 5.30 del mattino per un
problema di insonnia. Stavo finendo il turno, allora dico: “Signora, la
vegni qua al posto mio, perché mi purtropo stanotte non go chiuso ocio.
Se la volessi se demo el cambio”…
Giovanna
Anche voi ogni tanto vi concedete qualche battuta...
Carlo
Ogni tanto capita, anche perché quelli dell’insonnia alle cinque del
mattino li conosciamo.
Giovanna
Voi dovete essere cortesi con tutti…
Carlo
L’educazione sempre, ogni parola è registrata e non puoi sbagliare:
non puoi trascendere, arrabbiarti o perdere il controllo. Ma ogni tanto
affiora un po’ di ironia, un sarcasmo leggero che fa da commento a
domande assurde. È il minimo sindacale: quando ricevi la centesima
chiamata di notte ti può anche scappare la risposta non perfetta.
Tu sei lì distrutto, con gli occhi gonfi, e una chiama alle sei di mattina per denunciare un problema di insonnia. Cosa vuoi che ti dica? “Il
sole è all’orizzonte, rallegrati, il tuo problema è risolto”. Oppure: “Si
consoli, tra poco potrà andare dal suo medico curante a farsi prescrivere
delle gocce per dormire”.
[9. Il circolo vizioso dell’emergenza psichiatrica]
Giovanna
Per tornare alla popolazione più povera, ai marginali, in quali altri
quartieri vi recate spesso?
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Carlo
Ad esempio il rione di San Giovanni, via delle Docce, via Caravaggio, strada per Longera: anche là ci sono aree abitate da persone che
vivono in condizioni di precarietà, con problemi di salute mentale o di
alcolismo. La tossicodipendenza, secondo me, incide solo in minima
parte sull’emergenza: i casi sono pochissimi, e penso che questo sia
dovuto alla buona gestione da parte dei servizi territoriali.
Demis
La salute mentale incide di più, per la frequente richiesta di farmaci
o per problemi che in certi casi restano irrisolti. Parlo di clienti abitudinari, persone già in carico ai servizi psichiatrici, a cui ho accennato
prima.
Carlo
A volte possono insorgere seri problemi di comunicazione con i
Centri di salute mentale. Capita, ad esempio, che una persona esprima
difficoltà in certi periodi a restare nella propria casa, e ci chiama ripetutamente, magari con minacce di suicidio. Una prima volta inviamo
l’ambulanza che porta l’utente nel Csm di riferimento, ma non resta a
lungo nel servizio; torna a casa, e a distanza di poche ore ci telefona con
le medesime richieste. A quel punto cosa fai? Chiami gli operatori del
Csm e chiedi se puoi riportare il signore lì, ma sono da poco passate le
venti e trenta, e da quell’ora il servizio è in funzione per chi è già ricoverato o ospitato, ma non accoglie nuove richieste.
Da quando le disposizioni sono cambiate, la persona prelevata a domicilio non può essere portata direttamente al servizio di Diagnosi e
cura, situato al Maggiore; prima deve passare dal pronto soccorso di
Cattinara, e dopo un tempo di attesa più o meno lungo viene stilata la
carta di ricovero. Ogni intervento prevede, dunque, l’impiego di due
ambulanze: la prima per andare a Cattinara, la seconda per trasferire il
paziente al Diagnosi e cura. La storia potrebbe non finire lì: se lo psichiatra del Diagnosi e cura non ritiene opportuno il ricovero, dopo aver
svolto un breve intervento rimanda a casa il paziente. Ormai è notte
fonda e, per quanto sembri paradossale, di lì a un paio d’ore la persona
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potrebbe richiamare il 118, e come nel gioco dell’oca sei rinviato alla
prima casella, tutto ricomincia da capo.
Giovanna
Immagino che abbiate discusso di questi problemi con gli operatori
della salute mentale, cercando di affrontarli e risolverli...
Carlo
La responsabile del 118, Elisa Bogatec, si è incontrata spesso con
gli psichiatri nella sede del Dipartimento, ma è lo stesso discorso che
facevo prima a proposito dei distretto: la nostra urgenza non è la loro.
Per gli operatori della salute mentale i tempi sono più dilatati, mentre
noi dobbiamo dare una risposta immediata.
Se un tale mi chiama dicendo che vuole suicidarsi, o perché avverte
un’ansia o un’angoscia insopportabile, io chiamo il Csm di riferimento,
ma di notte non trovo lo psichiatra; non trovo nessuno che possa dare
una risposta immediata, e allora devo per forza ospedalizzare.
Giovanna
Di notte c’è lo psichiatra reperibile per telefono, che fa capo al Diagnosi e cura. Non si può consultarlo?
Carlo
Sì, ma lo psichiatra dice “portatemelo giù”. Il fatto è che per trasportare la persona al Maggiore bisogna mobilitare, come ho detto, due ambulanze in due tempi diversi; un iter lunghissimo, tanto più che in caso
di minaccia di suicidio devo inviare anche i carabinieri. È allucinante,
secondo me, questo dispiego di forze.
Giovanna
Gli interventi di emergenza psichiatrica a Trieste non sono frequenti,
i ricoveri in Diagnosi e cura sono tra i più bassi a livello nazionale. È
possibile calcolare l’incidenza di questi tipi di richieste sull’insieme
delle domande che vi arrivano?
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Demis
No, perché magari una persona chiama il 118 ogni giorno per un’intera settimana, poi sparisce, non si fa viva per un po’. Sono quei periodi
in cui noi immaginiamo che il paziente sia stato ricoverato, nel Csm o
in Diagnosi e cura. Ma prima o poi tutto ricomincia.
Carlo
L’entità del fenomeno è microscopica, i casi si possono contare su
una mano o due, ma per noi diventa un problema perché in ogni caso
siamo tenuti a soddisfare la domanda di aiuto.
Demis
Le cose per noi si complicano enormemente se la persona non si
limita a dire “sto male”, ma ricorre a tutto un linguaggio un po’ ricattatorio, del tipo: “Basta, non ne posso più, voglio farla finita, mi uccido”.
Minacce che noi non sappiamo come valutare. E poi, ripeto, di notte
siamo in due, le forze in campo sono di meno, e non si riesce più di
tanto a mediare o a filtrare una richiesta.
Comunque, da quanto ci raccontano i nostri colleghi di Grado, di
Udine o di Monfalcone, i servizi psichiatrici di Trieste sono di gran
lunga più dotati di risorse e di capacità organizzative. Insomma, a sentire loro siamo fortunati, quasi privilegiati, ma alla fin fine noi siamo
un servizio di emergenza e non possiamo ignorare il substrato delle
emozioni che affiorano nelle richieste. Quando senti l’ansia, l’angoscia
o la solitudine non possiamo far finta di niente; dobbiamo comunque
trovare un’omeostasi, un equilibrio tra domanda e risposta. Quello che
a noi manca, in questi casi, è qualcuno a cui passare la domanda di intervento, soddisfarla in qualche modo, per poi al momento opportuno
valutare con più calma il caso, per capire come gestirlo meglio quando
il problema si ripresenta.
Giovanna
Sui pochi casi che esprimono questi comportamenti dovreste avere
qualche conoscenza in più, che vi permetta di sdrammatizzare, o di decodificare la domanda.
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Demis
Resta il fatto che io non posso mai dire a qualcuno: “Guarda, veditela tu, arrangiati”…
Carlo
Nessuno si assumerebbe la responsabilità al posto nostro, rilasciando una carta in cui sta scritto: “Se chiama questa persona, che è sempre
ansiosa, non preoccuparti, dille che stia buona, e se minaccia il suicidio
sdrammatizza, non darle credito”.
[10. Integrazione con i servizi territoriali ]
Giovanna
Mi chiedo se, nel vostro lavoro di ambulanza, vi capita di constatare
condizioni di vita o abitative particolarmente degradate: mondi chiusi,
dove le persone vivono in situazioni di miseria e abbandono.
Carlo
Mi è capitato pochissime volte. Da questo punto di vista credo che
l’intervento dei servizi territoriali funzioni bene, e con ogni probabilità
è grazie agli operatori dei distretti, delle microaree e dei servizi sociali
se tutta una serie di condizioni di estrema povertà o di isolamento sociale non arrivano fino a noi. Sono loro ad affrontare e a gestire in maniera
eccellente i casi più gravi o problematici del territorio, così che il nostro
intervento non è praticamente mai richiesto.
Demis
Stabilendo confronti fra passato e presente, in undici anni di servizio potrei dire che tempo fa erano più numerose le situazioni di grave
disagio e di sporcizia. Ricordo, ad esempio, intere famiglie coinvolte in
problematiche di tipo psichiatrico, in cui cioè non era un solo soggetto
a star male, ma tutti i conviventi. Mano a mano questi casi stanno scomparendo; anche nei racconti dei miei colleghi non sento quasi più parlare di condizioni di particolare degrado o abbandono. Sono d’accordo
con Carlo, forse le persone oggi sono più assistite del passato; per le
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famiglie molto disagiate è diventato più facile l’accesso a una struttura
sanitaria territoriale, o alla microarea e ai servizi sociali del Comune.
E se i bisogni di cura sono già stati intercettati e vengono gestiti dai
servizi, si ricorre molto meno all’ambulanza del 118.
Giovanna
Dobbiamo immaginare che ci sono persone incapaci di chiedere aiuto. La miseria è tale proprio in quanto esistono, in ogni società, individui e famiglie che vivono al di sotto della possibilità di chiedere qualcosa, o di rivendicare dei diritti. Prima abbiamo accennato agli immigrati,
per i quali rivolgersi a un servizio sanitario può costituire un rischio. In
questo caso dovremmo parlare di persone che restano invisibili: temono
di essere identificati e cercano di cavarsela da soli, o trovano dei rimedi
nella loro etnia.
Attorno al problema dell’emergenza sanitaria esistono universi culturali, oltre che sociali, in cui si esprimono condizioni e forme diverse
di accesso ai servizi. La percezione o la soglia dell’allarme può essere
più alta o più bassa, a seconda se io mi penso come un soggetto contrattuale, pienamente inserito in una società in cui rivendico il diritto
all’aiuto da parte delle istituzioni.
Demis
Riceviamo sì, di tanto in tanto, telefonate in cui un anziano dice
che è solo a casa e non sa come affrontare una determinata emergenza:
ad esempio, l’impossibilità di andare a fare la spesa a causa del caldo.
Capisci al volo che si tratta di una persona fragile, ma non abbiamo
modo in questi casi di comprendere se dietro ci sono problemi anche
economici, se uno ce la fa o non ce la fa.
Giovanna
Del resto, quando arrivate nelle case non avete certo il tempo di
osservare che cosa circonda la persona: entrate alla massima velocità,
prelevate il paziente e ve ne andate.
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Demis
Noi siamo degli inceneritori di adrenalina, sempre così frenetici;
dobbiamo andare, andare, e non si sa cosa succede dopo. Ma facciamo
in tempo ad accorgerci se la casa è pulita o no, o se il mobilio è vecchio
e malandato.
Carlo
A volte si entra tra pile di giornali, scatole, oggetti affastellati, in
luoghi talmente stretti e soffocanti dove non c’è lo spazio nemmeno per
passare.
Demis
Sacchi di immondizia… sì, capita di imbattersi in situazioni pittoresche, per così dire, o in appartamenti sporchi e trascurati, ma io entro
una volta e per dieci anni non tornerò più in quella casa. Forse ci passerà un altro operatore del 118, e magari nel frattempo il Csm o un altro
servizio territoriale ha promosso una serie di iniziative per cui l’appartamento è pulito, gradevole.
Carlo
Tre settimane fa siamo entrati con i vigili del fuoco in una casa dove
la persona era morta da diversi giorni, già in stato di decomposizione;
l’odore era talmente forte che i vicini hanno chiamato. In seguito si è
saputo che era un vecchio che viveva da solo, e non aveva più da anni
alcun rapporto con i figli. Il medico curante lo aveva visitato a casa un
mese prima, poi più nulla. Ogni tanto facciamo interventi così, ma certo
non siamo noi a poter ricostruire le storie di queste persone; conoscere
casi come questo è una peculiarità della microarea, ed è giusto che sia
così.
Giovanna
Quindi la vostra esperienza vi suggerisce che il progetto avviato con
le microaree è importante per migliorare le condizioni di salute e di vita
delle persone…
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Carlo
Mamma mia, sì…
Demis
C’è una cosa che non abbiamo ancora detto. Quando entriamo in
contatto con situazioni di grave disagio, o vediamo qualcosa che non
va nel nostro lavoro con l’ambulanza, chiamiamo la centrale operativa
e lasciamo la traccia di un’informazione che permette di attivare i servizi territoriali di riferimento. Lo stesso accade quando portiamo a casa
dall’ospedale anziani non autosufficienti, dopo che sono stati dimessi.
Li porti a casa e li metti nel letto, ma sai benissimo che non si rialzeranno, o che potrebbero non essere più capaci di farlo senza l’aiuto di qualcuno. Non sai se hanno dei parenti o dei conoscenti che badano loro,
e in quel caso chiamiamo l’infermiere dell’Adi reperibile, o il servizio
territoriale di riferimento.
Giovanna
Ignoravo che il 118 si facesse carico anche di questi problemi.
Carlo
Ci sono ambulanze del territorio specificamente preposte a questo,
ma comunque tutto passa attraverso il nostro servizio.
[11. Stare lì in mezzo, tra ospedale e territorio]
Giovanna
Siamo giunti alla fine della nostra conversazione. In conclusione
vorrei chiedervi cosa pensate della disputa, insorta negli ultimi anni,
se il 118 debba essere concepito come parte integrante del pronto soccorso e della medicina d’urgenza, oppure debba continuare a svolgere
un’azione di ponte tra ospedale e territorio, restando collegato dal punto
di vista operativo all’azienda sanitaria.
39
Carlo
Credo che il punto di vista su questa questione sia molto personale,
ogni singolo operatore potrebbe dare una risposta diversa. Secondo me,
per tutto quello che abbiamo detto sinora, il nostro lavoro si appoggia
molto sui distretti e sui Csm; quindi effettivamente il nostro è un servizio amalgamato con il territorio. Al tempo stesso (ma questa è una mia
valutazione) il nostro lavoro si basa su conoscenze e metodi che sono
propri della medicina d’urgenza e d’emergenza, quindi è obiettivamente importante essere integrati dal punto di vista operativo con il servizio
di rianimazione o con il pronto soccorso ospedaliero.
È un’integrazione che aiuta gli operatori a crescere, ad essere continuamente aggiornati su tecniche d’intervento: farmacologia, corsi appropriati sull’insufficienza respiratoria o sulle patologie delle vie aree,
ecc.: una cultura molto specifica, che va formata e aggiornata in continuazione. Quindi, alla domanda se dobbiamo stare di qua o di là, verrebbe da rispondere che noi stiamo in mezzo. Ma attualmente, più che
stare in mezzo, siamo continuamente spinti a oscillare tra due fuochi:
una volta ci vogliono di qua, una volta di là.
Giovanna
Siete in mezzo a due mondi che sembrano in contrasto tra loro, e
non dovrebbero esserlo. La sentite a volte come una pressione che si
esercita su voi operatori?
Demis
Direi proprio di sì, lo avvertiamo e come! Sarà che stiamo attraversando un periodo travagliato…
Carlo
(ride) …un periodo che dura da dieci anni!
Demis
Sì, ma ultimamente la pressione è diventata insostenibile.
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Giovanna
Potete spiegarvi meglio?
Carlo
Dovremmo entrare nei dettagli, e non è il caso.
Demis
Diciamo che ci sono delle lotte interne…
Carlo
…politiche, ideologiche, sindacali…
Demis
C’è un po’ di tutto.
Giovanna
Non voglio entrare nei dettagli, ma è importante capire in quale clima svolgete il vostro lavoro. Mi chiedo se l’esistenza di contrasti giunge al punto da influenzare le forme della collaborazione fra servizi, o
fra ospedale e territorio.
Demis
No, il nostro lavoro lo svolgiamo a testa bassa, come arieti. Ognuno
di noi sa perfettamente quello che deve fare, nel rispetto dei protocolli
e delle istituzioni, e agisce senza farsi turbare da eventuali conflitti, o
dal dibattito interno fra le persone. Il fatto è che in questo periodo si
sono intensificati i conflitti tra i sistemi, prima ancora che fra le persone,
con risvolti ideologici e politici, nella messa in gioco di svariati poteri.
Quindi, da un lato c’è l’attività del servizio per come la si può vedere
ogni giorno: si fa tutto quello che bisogna fare, nel modo in cui si deve
farlo. Emergenza, soccorso, attivazione delle istituzioni, rapporto con
i distretti: tutto viene fatto al meglio. Poi c’è il backstage dove si svolgono lotte intestine, che in un modo o nell’altro si ripercuotono sugli
operatori. Dico queste cose perché non sono un segreto per nessuno,
le si conosce bene all’interno dell’azienda sanitaria. Basta domandare
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“cosa sai del 118?”, e tutti rispondono che è un servizio attualmente
sottoposto a molte pressioni.
Carlo
Basta comprare “Il Piccolo”, e ogni giorno vi si possono leggere i
più svariati documenti: lettere, prese di posizione ufficiali, smentite,
attacchi degli uni contro gli altri. Ogni tanto il mio vicino di casa mi
dice: “Mah, ho letto l’altro ieri sul Piccolo che andrete a lavorare a
Palmanova…”. Lo guardo e dico: “Ah sì? Veramente non ne sapevo
nulla”. La settimana dopo lo stesso vicino mi chiede: “Ma xé vero che
andé soto l’ospedal?”…
Demis
C’è chi vuole tornare in azienda ospedaliera, c’è chi vuole restare
nel territorio. C’è chi non sa bene se vuole stare di qua o di là, e c’è chi
dice “boh”…
Carlo
Quando entri in servizio ti chiudi nel tuo lavoro che non ammette
distrazioni, ma non appena alzi la testa ti arriva un bombardamento di
informazioni che nel 99% delle volte scopri essere inutili, sbagliate,
inattendibili, deformate a piacere a seconda delle opinioni di chi le diffonde. È una cosa che dovrebbe finire, anche perché il nostro è un servizio delicatissimo; quando ti siedi lì al bancone, e rispondi al telefono,
ti viene affidata una responsabilità enorme.
Giovanna
Credo anch’io che non si possa svolgere questo lavoro nell’incertezza. Dovete essere sicuri della vostra identità, e del fatto che intorno
a voi i sistemi predisposti ad accogliere la domanda funzionano con un
certo accordo tra loro.
Carlo
Infatti la parola - chiave del nostro servizio è “essere sostenuti”. Se ti
viene a mancare chi ti copre le spalle, la garanzia che tutto scorre come
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deve scorrere, ti puoi sentire veramente solo. Comunque, alla domanda
“territorio o ospedale?” io rispondo dicendo che col territorio si lavora
benissimo, siamo amalgamati. Anche i direttori generali, prima Rotelli
e ora Samani, hanno mostrato di avere una grande disponibilità nell’accogliere ogni nostra richiesta. Credo che siano le dirigenze amministrative e politiche a doversi mettere d’accordo su dove dobbiamo stare, e
quando avranno preso una decisione ce la comunicheranno.
Demis
Una decisione è già stata presa, noi siamo un servizio territoriale,
ma l’azienda ospedaliera continua ad avanzare la pretesa di gestire il
118; di questo mi sembra che si sia discusso anche in giunta regionale.
Circola anche da un po’ di tempo l’idea di creare in futuro una centrale
operativa unica del 118, situata a Palmanova. È un progetto che potrebbe avere un senso in altre realtà, ad esempio per soddisfare la domanda
d’emergenza delle comunità montane, ma per le cose che abbiamo detto
sarebbe un forte impoverimento in una città come Trieste.
Giovanna
In effetti questa città ha sempre avuto una sua fisionomia eccentrica nel panorama regionale, con la provincia addensata in uno spazio
ridotto. La cultura dell’emergenza sanitaria ha trovato qui la capacità di esprimere un’organizzazione originale, basata su una fitta rete di
conoscenze e di rapporti operativi che facilitano l’azione di filtro, di
coordinamento e non ospedalizzazione di una serie di richieste. Anche
nell’ascoltarvi parlare, oggi per la prima volta, sono stata sorpresa dalla
cultura elevata che si esprime in voi, malgrado la giovane età. Disponete di una capacità molto raffinata di decodificare quello che sta dietro
alle richieste di emergenza, e c’è tutto un lavoro di mediazione culturale
che riuscite a svolgere in maniera egregia quando parlate con le persone
al telefono. Avete orecchio per le differenze, sapete cogliere tutta una
gamma di sfumature. Questa ricchezza non ha a che fare solo con una
formazione sanitaria aggiornata, ma col fatto che, essendo abitanti del
luogo, possedete il senso della misura nell’oscillazione nella norma.
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La norma non è la stessa in tutti i luoghi, oscilla sulla base di differenti realtà culturali e antropologiche, e voi con i vostri discorsi mostrate di possedere conoscenze molto sottili della realtà in cui agite. Mi
sono anzi chiesta fino a che punto siete espressione di una leadership, o
quanto siate invece rappresentativi dell’insieme del servizio di cui fate
parte.
Demis
Io credo che tutti noi che lavoriamo nell’emergenza siamo diversi e
ben assortiti: c’è chi per il proprio servizio darebbe l’anima e vorrebbe
sempre migliorarlo, e chi lo vive bene così com’è, un posto di lavoro
come un altro, senza sentirsi eccessivamente implicato. Come in tutti i
servizi, anche nel nostro convivono gradi diversi di impegno e di coinvolgimento.
Giovanna
Quanti sono in tutto gli operatori del 118 a Trieste?
Demis
Siamo un’ottantina in turno, molto variegati per competenza, per
ruolo professionale, per anni di lavoro e livello di esperienza acquisita
sul campo. Questa diversità ci dà equilibrio.
Giovanna
Fate riunioni fra di voi ogni tanto? C’è lavoro di gruppo, di team?
Carlo
No, sono molte poche le riunioni. In compenso abbiamo fatto anche
negli ultimi anni diversi corsi di formazione e aggiornamento professionale, distribuiti in piccoli gruppi di otto per volta.
Demis
Il nostro lavoro è molto basato sulla pratica, e l’apprendimento consiste il più delle volte nel fare esercitazioni, applicando tecniche sempre
più avanzate di rianimazione.
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Giovanna
Quindi i corsi non affrontano l’elaborazione dello stress, il burnout,
o come ciascuno di voi percepisce l’allarme o il dolore. Penso più in
generale a una formazione che tratti gli argomenti di cui oggi abbiamo
discusso: la mappatura del territorio, le competenze che vi sono richieste anche in termini di mediazione culturale, o di capacità di informare
ed educare la popolazione di fronte all’urgenza e all’emergenza.
Carlo
Solo di recente abbiamo fatto un corso di psicologia, per imparare
a gestire lo stress, ma per quanto riguarda le culture o i problemi del
territorio, non abbiamo mai fatto riunioni o corsi di formazione con gli
operatori dei distretti. Riceviamo delle comunicazioni cartacee, e sulla
base di decisioni prese dai nostri dirigenti aggiorniamo le procedure, le
forme del contatto e del rapporto operativo.
Giovanna
E di questo sentite la mancanza? Sarebbe utile, secondo voi, sviluppare una visione del territorio anche attraverso lo scambio di conoscenze con gli operatori che ci lavorano in maniera diretta e quotidiana?
Carlo
Sinceramente sì.
Demis
Sarebbe interessante, se l’obiettivo fosse quello di potenziare le forme dell’integrazione tra i diversi sistemi operativi.
Giovanna
La diversità delle competenze e dei ruoli nel lavoro d’emergenza,
così come l’integrazione tra servizi sanitari e assistenziali, è molto importante per ridurre gli effetti negativi e i costi enormi della medicalizzazione di una serie di richieste di per sé non sanitarie. In quest’ottica
avrei voluto chiedervi fin dagli inizi come funziona in concreto, nel
vostro lavoro, l’intreccio delle competenze.
45
Demis
Attualmente nel nostro servizio in ogni intervento c’è un teamleader, colui che coordina tutte le sequenze dell’azione, e può essere
di volta in volta l’infermiere o il medico. Se il medico è presente la
cosa va da sé, è lui a svolgere un ruolo di coordinamento: basti pensare
all’incidente stradale o al banalissimo infarto. Se il medico invece non
è presente, in genere è l’infermiere a prendere in mano le redini della
situazione. Ad esempio, ti trovi al quinto piano di un edificio senza
ascensore, la persona che stai soccorrendo è pallida, sudata, ipotesa, e
qualcuno deve guidare l’intervento, decidere come si procede superando nel più breve tempo possibile tutti gli ostacoli.
Per come io sono fatto non mi interessa il grado che hai, la divisa
che indossi, se sei un operatore della Sogit o della Croce Rossa. Siamo
lì e lavoriamo per il paziente, e anche se hai competenze inferiori alle
mie o guidi l’automezzo, siamo tutti mani e braccia che lavorano in un
gruppo. In un’équipe non conta dire “io sono l’autista”, “io sono l’infermiere”, “io sono l’operatore sociosanitario”; quel che conta per me
è sapere chi deve salire in ambulanza. Quando siamo senza il paziente
l’autista guida, l’infermiere sta davanti e l’operatore sociosanitario sta
dietro; quando invece siamo diretti all’ospedale, l’infermiere sta dietro
col paziente, e se c’è una particolare urgenza anche l’operatore sociosanitario sta dietro con me.
Giovanna
L’operatore sociosanitario che ruolo ha?
Demis
È una figura di supporto all’infermiere. A quel che so, ha competenze molto più marcate nel nostro servizio rispetto all’analoga figura che
interviene in ospedale. Là si occupa soprattutto dell’igiene e dell’alimentazione del paziente, mentre nel nostro lavoro di ambulanza tutte le
competenze sono più intrecciate.
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FARE SALUTE – Laboratorio di formazione,
ricerca e comunicazione sulla “medicina di comunità” a Trieste:
storie e racconti di malattia
Il progetto, realizzato nel biennio 2010-2011, si propone di raccontare,
con la voce dei protagonisti, la pratica medica dei Distretti e delle Microaree,
nella sfida che da anni, a Trieste, impegna gli operatori a sviluppare
una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali.
L’idea-base del progetto è quella di aprire un laboratorio per sperimentare
nuovi metodi di racconto della malattia, al fine di informare, descrivere,
rappresentare i contenuti e le metodologie dell’intervento territoriale.
Ricostruendo la storia di singoli casi, stabilendo confronti
tra il linguaggio delle procedure sanitarie e la complessità delle pratiche,
vengono evidenziati aspetti specifici che differenziano
la “medicina di comunità” da quella ospedaliera.
La raccolta di materiali orali, così come l’elaborazione dei testi,
serve a documentare il grado di coinvolgimento dei diversi attori:
da un lato la dimensione affettiva del lavoro di cura (l’intensità
e la frequenza dei contatti, le relazioni ravvicinate fra operatore e utente);
dall’altro i dubbi e le scoperte, le incertezze e i conflitti come punti di forza
di un intervento basato sul continuo confronto e sulla negoziazione;
dall’altro ancora gli aspetti co-evolutivi di un sistema d’intervento
protratto nel tempo, e l’importanza che assume la capacità
e il potere degli operatori di esplorare i differenti contesti,
tenendo conto di numerose variabili (determinanti di salute).
Soprattutto il racconto mostra gli interni delle case, le strade e i quartieri,
gli spaccati di vita delle persone che, ammalandosi di una malattia grave,
possono assumere un ruolo attivo o passivo, interpretando in modi diversi
il cambiamento loro richiesto (stili di vita e traiettorie della cura).