storie di uomini e di mare

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storie di uomini e di mare
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via telematica a uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale
o di lucro, ed a condizione che questa dicitura sia riportata
La fotografia in copertina non può essere usata disgiunta dal testo dell'opera
(by Giuditta Marcolongo, 2012)
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Parte I
TRITTICO TURCO
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Taksim
È notte sul Bosforo, una brezza pungente poco ricorda la
primavera e di oppio non ne hanno ancora trovato.
“ti dico che bisogna andare a Taksim.
“sei sicuro? Questi nomi si assomigliano tutti.
“Taksim aveva detto.
Una brezza che non ricorda affatto la primavera si è alzata dallo
stretto e fa battere i denti. Ci si stringe dentro ai vestiti. Non è più
la prima notte, la prima fu la notte dell'incanto. Troppo. Bisognava
rovinare tutto. Scesero dal treno che era buio e Istanbul li accolse
con le cose che aveva da tirare fuori un po’ in fretta. La luna piena
dietro ai minareti illuminati con il tetto blu e i gabbiani che
ronzavano attorno. Un muezzin decise di invocare il suo Dio
proprio quando il mozzo e il capitano Zaravakis camminavano da
quelle parti.
“com'è che ti fidi di un tipo che di lavoro rapina i supermercati?
“non li rapina più.
“mozzo, dal carcere è difficile rapinare un supermercato.
“lui lo sapeva e ha detto Taksim. Se vogliamo trovare le fumerie
dobbiamo andare a Taksim.
“mozzo, sono passati vent'anni.
Questa non è la prima notte, la prima fu la notte dell’incanto.
Facciamo che è la seconda, la verità è che può essere la terza o la
quarta, però la seconda servirà a trasmettere la fretta e l’ansia di
rovinare tutto che i due protagonisti si portavano addosso. È notte
sul Bosforo ma è notte diversa e non ci saranno minareti e non ci
saranno gabbiani. Non ci sarà nemmeno la luna, bella e rotonda la
notte prima, non oggi, perché le nuvole salirono dal mare e
occuparono il cielo. Atmosfere che sembrano messe a posta per
fare da contorno alle sordide intenzioni del mozzo e del capitano
Zaravakis.
È stata colpa del sultano, dirà il mozzo. Se non avessimo visitato
il Topkapi… Si sa, per le menti labili è sufficiente un richiamo. Che
potevamo fare? Continuerà il mozzo. Il sultano aveva un harem con
duecentocinquanta pulzelle. Il sultano era pieno di vizi. Il sultano
andava nel sordido giardino perché gli piaceva sotto ai bouganville.
Il sultano aveva inventato l’amore alla turca e forse anche il cesso.
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Il sultano aveva una donna grassa che gli puliva il culo quando
cacava e gli ammorbidiva i coglioni con il talco. Insomma, il sultano
faceva cose turche.
Città umida e pesante, paesaggi confusi con le case offuscate
sullo sfondo dalla nebbia e dall’oscurità. Ci mettiamo anche la
pioggia, così mozzo e capitano cammineranno per i quartieri di
notte di Istanbul, si bagneranno fino a dentro le ossa e avranno
freddo. Che è quello che si meritano. Non andava bene l’incanto?
Che volevano ancora?
Li troviamo in una strada in salita che gira su per una collina
deviando a sinistra dalla principale. Non ci sono luci qui, la strada
è sbagliata e stanno svoltando troppo presto. Le indicazioni erano
chiare, ma come fidarsi dei turchi? Poi tutta questa fretta di
arrivare chissà dove, e allora alla prima strada che svolta a sinistra
e sembra salire verso Taksim, i due si guardano con uno sguardo
che è di chi crede di saperne un po’ di più e dicono sì, è questa,
anche se lo sanno entrambi che quella non è, ma è la prima e sale
su per la collina, che anche se non è quella ci assomiglia. Mozzo e
capitano non sembrano troppo interessati a curare i dettagli.
Però rendono meno complicato il lavoro di narrazione, perché
non era mica facile farli salire per una strada larga piena di
macchine e luci dei lampioni, cartelli stradali che indicavano
Taksim e tassisti increduli perché nessuno ci va a piedi. Mozzo e
capitano decidono di camminare in una via piccola e stretta con le
case pericolanti che sembrano chiudere il cielo, buia che non si
accorgono di niente e pestano sopra ai cani che l’hanno scelta per
dormire. Tante grazie ai due che hanno deciso un intorno noir per
dare sfondo all’avventura.
Attraversano dunque l'intorno noir di strade buie e appare un
luogo pittoresco come se l’erano immaginato dovesse essere a
Istanbul. Un retrobottega di un panificio che è aperto anche se è
notte.. L’odore del pane avvolge mozzo e capitano. Dentro al
panificio gira attorno a un fuoco un kebab di agnello. Si mangia.
Fuori piove, c’è un vento che prova a staccare le orecchie e la
nebbia riempie i polmoni a ogni respiro. Il mozzo si gocciola
addosso una salsa speziata e bestemmia come un turco. I turchi in
fila lo squadrano in maniera poco rassicurante.
“fottuti turchi di merda, se non fosse che ho i vestiti buoni vi
farei vedere io.
“di dove siete?
Chiede un turco della fila.
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“parli italiano?
“ho lavorato sette anni a Milano.
Il turco sembra volere attaccar bottone. Parlotta con gli altri
turchi. Parlotta con il mozzo. Il mozzo risponde, come se nulla
fosse.
Il turco insiste.
“a me piaceva Umberto Bossi.
“credo che a lui tu piacessi un po’ meno.
“mozzo, è meglio andare.
Il capitano Zaravakis non si fida di questa gente, e ancora meno
dopo gli apprezzamenti del mozzo. Il turco parlotta e il capannello
di turchi che fa da auditorio comincia ad essere numeroso.
“mozzo, con questi turchi non si capisce mai.
“cos'è che non capisci?
Ma chi non capisce è il mozzo, che se non se ne andranno in
fretta il turco sfilerà un coltello lungo ed affilato. Ci sarà il delitto
ed arriverà nella notte di Istanbul un investigatore assonnato con
l'impermeabile sporco. Ecco bello e servito il racconto noir. È che il
capitano Zaravakis un turco non lo ha mai visto. Davvero si va.
La strada buia e stretta si apre a una strada più grande fatta di
negozi che mostrano vestiti costosi, bagni turchi per le élite
ottomane e mercati nascosti. In mezzo corrono le rotaie di un tram
che durante il giorno sale su per la collina. Adesso no, anche se un
tram che sferraglia nella notte ci stava proprio bene.
Ma adesso no, perché è notte sul Bosforo che non accenna a
migliorare. La pioggia cade fitta e si mescola con il vento. La
nebbia con la luce dei lampioni che si propaga irreale per quello
che resta del cielo di Istanbul. Compaiono le prime discoteche, con
i buttafuori grossi e negri che rimangono immobili a guardare e
non accennano a un invito. Compaiono night club con l’entrata
modesta, con i buttafuori magri vestiti in smoking economici sicuro
a nolo per il fine settimana. Che a dire il vero non riuscirebbero a
buttar fuori proprio nessuno. Loro sì che invitano, a fare l’amore
con una ragazza turca.
Mozzo e capitano camminano per la strada in salita di un
quartiere che non hanno mai visto in una città sconosciuta. Si
guardano attorno come non si dovrebbe fare la notte. Ma non è più
possibile farne a meno. È il momento di chiedere indicazioni.
“perché volete andare proprio a Taksim?
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“è il quartiere delle fumerie d’oppio.
“non ci sono fumerie d’oppio a Istanbul.
“come no?
“saranno vent'anni che non vedo una fumeria ad Istanbul.
“ci saranno anche oggi.
Il mozzo ne è sicuro. Un aspirante asceta che di lavoro rapinava i
supermercati raccontò storie di vecchi che passavano le notti
sprofondati nei tappeti, e quando le prime luci dell’alba
illuminavano i mosaici, salutavano con rispetto e ritornavano dalle
loro mogli. Istanbul è una città piena di fumerie d’oppio. E allora
via, alla ricerca dei luoghi dimenticati e del passato perduto, che
non poteva finire tutto in soli vent’anni.
Le luci di adesso non sono più quelle che illuminano le vetrine a
giorno e che per qualche miracolo della tecnica non disturbano gli
occhi. Sono fari che accecano e quando si è passati si ritorna nel
buio. Ci sono anche i neon colorati dentro alle insegne di plastica.
Le discoteche sono finite e sono finiti anche i buttafuori eleganti.
Le vetrine dei sarti famosi non si vedono più. Bar che sanno di
alcol e di tabacco e bordelli di ordine infimo bordeggiano la strada.
Volti nascosti dai cappucci osservano dal buio senza parlare. Il
quartiere è sordido a sufficienza. È questo il posto, perché le
fumerie d'oppio non stanno mica in mezzo ai negozi di Gucci e
Armani. Ma sono passati vent’anni.
“fumerie d’oppio?
Le persone guardano stupite e rispondono che non sanno.
Sorridono. Il mozzo le insulta.
“Taksim ci aveva detto.
“magari si è sbagliato.
“il problema sono le stronzate che ci raccontato questi buoni a
nulla per le strade di Istanbul. Vent'anni. Che saranno mai
vent'anni?
Vent’anni fa il mozzo si svegliava per andare a scuola, pensava
che fare il ladro fosse una professione interessante e si nutriva di
matite.
“mozzo, se dicono che non sanno è perché non sanno. Ci
guadagnerebbero dei soldi.
“io non mi fido di questa gente.
Ma nella storia mica si parlava delle insegne a basso costo e dei
bordelli. E nemmeno delle persone sugli ingressi che invitavano a
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comperare un’ora d’amore con una ragazza turca.
E se fosse finito davvero?
La fantasia del mozzo e del capitano si sgretola minuto dopo
minuto sotto alla pioggia battente. Taksim è una promessa che non
viene mantenuta. Vent’anni fa si poteva. Non adesso, che le
lampade colorate di vetro le vendono soltanto ai turisti.
Tutto è andato. Le strade strette si aprono in una piazza grande e
grigia contornata di hotel e insegne pubblicitarie. La pioggia ha
smesso di cadere ma il cielo non si riesce a pulire. Un filo di
nostalgia attraversa i pensieri del mozzo e del capitano Zaravakis.
Nostalgia di che cosa? Ma dell’incanto, dei minareti e dei gabbiani,
di quel treno che li portò ad Istanbul, dei muezzin che invocavano
nella notte, che non era la stessa notte. Era notte chiara senza nubi
e una luna grande e rotonda illuminava le case.
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Orient Express
I minareti della grande moschea blu spuntavano dal buio e tanti
gabbiani volavano attorno e contemplavano dalle cupole. Un
muezzin invocava il suo Dio. Era notte sul Bosforo e si alzava un
vento che sapeva di sale.
Istanbul città bella e vanitosa mostrava se stessa in una cartolina
per turisti. Ma a nessuno andava di essere chiamato a quel modo,
nemmeno da una città. Era un viaggio e un viaggio implicava tante
cose e un turista viene e non capisce e scatta le fotografie e un
giorno lontano potrà ricordare. Loro no, dicevano che era un
viaggio e un viaggio promette e a volte mantiene, e non è una
vacanza che fa tornare felici, un viaggio regala sogni che non si
possono dire.
Si allontanarono da una folla discreta che rimaneva impietrita ad
ammirare i minareti. Nessuno faceva caso al mozzo e al capitano
Zaravakis, tante persone erano già arrivate davanti al Bosforo e
tante erano già andate via. Con gli stessi sogni che non si possono
dire. Era notte sul Bosforo e una luna grande e rotonda faceva da
sfondo ai minareti.
Camminavano sotto alle cupole che solo qualche minuto prima
avevano visto passare sbirciando dal finestrino. Il treno entrò nella
città grande delle baracche e senza fretta apparente camminò
verso la città splendente dei sultani. Si diceva che a Istanbul
bisognasse arrivarci in treno. Storie di viaggiatori. Il mozzo e il
capitano Zaravakis capirono il perché. I minareti e le moschee si
lasciavano guardare da lontano e accennavano a meraviglie che di
lì a poco, e riempivano gli sguardi di curiosità e impazienza. Poi
arrivò una stazione affollata di facchini eleganti in cerca di uomini
e valige, una stazione che era quella dell'Orient Express.
Che tutti sanno cos'è, anche se parte e arriva in luoghi che non si
conoscono. Il treno del mozzo e del capitano Zaravakis non era
mica così bello, era un treno dimesso e arrugginito e quando
passava nessuno si voltava a guardare. Era il treno che veniva da
Pythion e non c'era nemmeno un biglietto da poter comperare, che
Pythion era la frontiera della Grecia ed il treno era turco. Qualcuno
durante il viaggio si sarebbe fatto vivo.
Qualcuno in effetti si fece vivo e propose uno scambio. Pagate la
metà però il biglietto non ve lo posso mica dare. Mozzo e capitano
si consultarono sospettosi, ma sembrarono accettare di buon
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grado, anche se al mozzo un po’ dispiacque. L’Asia non l’aveva mai
vista e un biglietto è una prova che non si può confutare. Ma il
controllore turco spiegò che in tutti i modi il treno si sarebbe
fermato prima dell’Asia e i patemi del mozzo erano pressoché
risolti.
Non era mica l’Orient Express il treno del mozzo e del capitano.
Era un treno scomodo con le cuccette a sei posti e le poltrone con
le macchie. Però si poteva fumare e al mozzo e al capitano
Zaravakis questo bastava. Era bello guardare la Turchia che
passava davanti agli occhi. Ma non era l’Orient Express e i
finestrini erano sporchi sudici e incrostati e per vedere qualcosa
bisognava abbassarli e per abbassarli bisognava trovare la
cuccetta giusta, con i finestrini che scendevano. Una volta trovata
la cuccetta giusta, il mozzo e il capitano guardarono la Turchia
passare davanti agli occhi. Con i suoi campi verdi coltivati a grano
che prendevano la forma delle onde. Verde perché era aprile, o
forse maggio. I papaveri rossi dicevano più maggio, ma la terra dei
sultani non era la terra dei monti che diede i natali al mozzo e al
capitano, e maggio non era mica maggio in tutto il mondo e un
papavero è soltanto un indizio.
Guardarono la Turchia entrare per il finestrino aperto e crearono
dentro alla cuccetta un’atmosfera ventosa e ritmica da treno merci
e passeggero clandestino che avevano letto in libri di altri. Si era
messa pure la storia del biglietto che non c’era. Il controllore si era
sì fatto vivo con la sua proposta, però il mozzo e il capitano
avevano diffidato di quel tipo basso che parlava una lingua
incomprensibile e non avevano scucito un soldo. Col suo foglietto
pieno di appunti di soldi rubati, scriveva e scriveva cifre di molti
zeri, che servivano 17 milioni di lire turche per arrivare a Istanbul,
e al mozzo e al capitano sia consentito il sospetto. Ci vediamo dopo
gli avevano detto. Poi venivano dalla Grecia ed erano mesi che il
mozzo ascoltava storie brutte e il capitano Zaravakis un po’ meno
ma le ascoltava anche lui e non sapevano se fossero vere o solo il
frutto di ataviche rivalità, ma una cosa l’avevano capita: dei turchi
non ci si poteva fidare.
Era bello il vento che consumava le sigarette arrotolate di
tabacco ed era bello anche il rumore che la carcassa arrugginita
del treno lasciava nell’aria quando passava da un pezzo di rotaia a
un altro, totum (pausa) totum, tutte e due le ruote, e lo spazio tra
un pezzo di rotaia e l’altro c'era per far sognare chi viaggia, mica
per il ferro o l’acciaio che si dilata quando fa caldo e si stringe con
il freddo. A dire il vero non conoscevano le ragioni dello spazio e
non sapevano nemmeno se il suono totum dolce lo facesse davvero
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una ruota. Che importa. Piaceva il rumore e piaceva che il vento
entrasse nella cuccetta e lasciasse entrare anche i paesaggi.
Ma torniamo al mozzo e al capitano che guardavano la Turchia
passare davanti agli occhi. La guardavano passare e la guardavano
immobile, che il treno non era mica l’Orient Express e sostava
decine di minuti dentro alle stazioni dei paesini poveri di cui non si
capiva il nome e sostava altre decine di minuti in mezzo alle vacche
a ai trattori e il mozzo e il capitano potevano scattare le fotografie
anche se era un viaggio. Perché magari, un giorno lontano, sarà
necessario ricordare.
Attraversavano da molte ore una striscia di terra che si dice sta
ancora in Europa anche se sventola la bandiera rossa della
mezzaluna, e a pensarci bene una frontiera l’avevano passata. E
che frontiera, tra la Grecia e la Turchia, che forse faranno parte
tutte e due di un grande continente, ma trent’anni prima, quando
mozzo e capitano stavano sopra una nuvola in attesa di un paio di
genitori, la Grecia e la Turchia si prendevano a cannonate. Quando
mozzo e capitano sognavano ancora che una cicogna li portasse
lontano. A pensarci bene una frontiera l'avevano proprio passata,
di filo spinato e soldati minacciosi che puntavano la mitraglia
contro l’unica rotaia che correva sopra un ponte. Sotto c’era un
fiume in disuso che era il confine, dicevano i turchi, anche se i
greci lo avrebbero spostato qualche centinaio di chilometri a
oriente il confine, il fiume non si poteva.
Ma sorridevano i soldati minacciosi, che erano ragazzi come i
greci dall’altra parte, e quando c’erano loro ad aspettare le
cicogne, non si sparava più nessuno. Lo sapevano cosa stava
arrivando, era il treno che veniva da Pythion, non era quello blu
laccato elegante e non aveva nemmeno i decori e le tendine
arruffate che lo facevano assomigliare a un bordello. Non serve la
faccia arcigna per il treno che viene da Pythion. Chi c’era sopra
non ha nemmeno il biglietto e sanno anche questo, e non chiedono
mai niente perché è un affare che non li riguarda e il controllore
manderà i figli a studiare. Oppure se ne andrà a vedere la danza
del ventre e cercherà una donna bella per farci l’amore e le
regalerà dei profumi, e se non la troverà nessun problema, che ha
le tasche piene di milioni di soldi che qualche turista o viaggiatore
sprovveduto gli ha dato per raggiungere l’Asia, e non comprerà
profumi ma una donna bella ci sarà, per fare una cosa che
assomiglia all’amore. Pagherà per avere un sogno, che non è poi
tanto diverso da quello che stavano a fare il mozzo e il capitano
Zaravakis.
Il mozzo di più, aspettava di vedere l’Asia e il mozzo l’Asia non
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l’aveva mai vista e la Turchia ancora non contava, mancava il
Bosforo, e il treno che viaggiava e sostava tra campi di grano e
paesini poveri, in Asia non ci sarebbe mica arrivato. Non erano
quelli i soldi per comperare il sogno. Non sarebbero serviti
nemmeno i minareti e i gabbiani perché nemmeno i minareti e i
gabbiani erano il sogno del mozzo anche se gli assomigliavano
tanto. Dopo i minareti c’era il mare e stare lì a vedere le navi
passare ancora non contava.
Ci arriverà il mozzo in Asia, ma ci vorrà fatica. Ci arriverà
davvero e chiederà una foto al capitano Zaravakis, così nessuno gli
potrà dire che non era vero e un giorno magari gli verrà voglia di
ricordare. Basterà poco. Basterà cercare in mezzo alla polvere e la
fotografia dell’Asia è stampata grande e sarà facile da ritrovare.
Poi è in bianco e nero e già assomiglia ai ricordi e quando i colori
del sogno se ne andranno, il mozzo sarà pronto con la sua
fotografia che i colori non li ha avuti mai e pensarci farà male, ma
un po’ meno. Ricorderà i minareti e i gabbiani e le navi che
suonavano forte la sirena, sigarette arrotolate bionde e profughi
kurdi. Narghilè fumati dentro ai cimiteri e pane basso appena cotto
che nelle notti fredde del Bosforo teneva calde le mani. Ricorderà
quel treno che lo portava senza fretta verso la terra dei sultani
ottomani. E i tramonti dietro alle moschee e le spezie colorate
vendute ai turisti. A loro no, il mozzo e il capitano erano in viaggio
e un viaggio sono sogni e promesse e serve uno zaino largo che
nasconda i corpi. Altro che valige che si trascinano con la maniglia
e facchini con il fez. Serve un peso grande sulle spalle, che ci si
possa buttare esausti dentro a un letto dopo decine di minuti e
centinaia di parole spese per pagare un po’ meno. Serve un treno
scomodo e lento, che si fermi nei campi di grano e nelle stazioni e
che lasci il tempo per immaginare. Serve un treno arrugginito. Che
importa se non sarà l’Orient Express, che passa veloce tra le
vacche e i trattori e i contadini bruciati dal sole continueranno
chini sul loro grano. Non saranno mai dentro a quel treno, perché i
finestrini sono puliti, trasparenti e chiusi, e rimarrà lontano il
profumo dei papaveri e l’erba. Poi in Asia mica ci arriva, nemmeno
l’Orient Express.
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La storia dell'uomo posacenere
Il sogno è andato. Il mozzo e il capitano Zaravakis gironzolano
per una piazza grande e grigia contornata di hotel e insegne
pubblicitarie. La pioggia ha smesso di ammalare le ossa ma il cielo
non si riesce a pulire. Il sogno è andato davvero. Rimane il freddo
che sale dal Bosforo e un po’ di nebbia che nasconde le strade di
Istanbul.
“fumerie d'oppio? E le volete cercare a Taksim?
Ma certo che le vogliono cercare a Taksim. Perché un amico del
mozzo era partito dall'Italia con destinazione Istanbul e aveva
scoperto che Taksim era piena di fumerie d'oppio. Quando?
Vent'anni fa. E poi? E poi era ritornato in Italia e si era messo a
rapinare supermercati. Che fine ha fatto? Galera.
“forse vent’anni sono troppi.
Riflette il mozzo.
“vero ragazzo, in vent’anni succedono un sacco di cose.
Gli risponde un uomo sporco vestito male che sembra vivere
nella piazza dall'epoca delle fumerie.
Negli ultimi vent’anni il mozzo ha deciso che progetterà un
veliero. Ha imparato che quando si toccava il gingillo, provava un
piacere che valeva la pena approfondire. Tante, troppe cose
succedono in vent’anni.
“ragazzi, l'oppio uccide.
Il tipo è completamente sbronzo.
“uno si aggancia facile.
La bottiglia di birra gli si rovescia sui pantaloni. La macchia
nuova non si distingue dalle altre.
“nonnetto, smettila
compriamo noi.
di
bestemmiare,
un'altra
birra
te
la
“siete gay?
“gay saranno i tuoi figli maschi.
“non vi arrabbiate. È che i gay sono sempre più gentili di tutti
questi turchi di merda che mi trattano male. E in ogni caso, se
volete passare la notte in un modo diverso, io sono qui.
“nonnetto, la vuoi ancora la birra?
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“ragazzi, ho una dritta per voi. Se proprio vi volete drogare ci
sono i bar dove si fuma l’hashish.
“dove?
“qui vicino.
“vicino dove?
“i bar di Taksim.
“quali bar?
“dai gay.
“ancora, nonnetto?
“no, davvero. Dai gay.
“perché i gay?
“in tutti i bar frequentati dai gay si fuma l’hashish. Non so
perché. A vedere cosa vi chiedono in cambio.
“nonnetto, vedi di crepare al più presto.
“ehi, mi avete promesso una birra! Dove credete di andare!
Non saranno le fumerie d’oppio dove turchi con i volti consumati
dalla vita vanno a riposare lo spirito. Dai gay si fuma l’hashish.
Meglio di niente.
La piazza scende verso un groviglio di strade male illuminate.
Mozzo e capitano errabondano alla ricerca di un sogno sbiadito.
“tutto quello che volete, non c’è problema.
Un ragazzo invecchiato precocemente è uscito dalla notte e
sembra abbia qualcosa da dire.
“no, l’oppio no.
“spiegati meglio. Che vuol dire “tutto”?
“hashish e ragazze turche dalle grandi tette e dalle fiche che
ricordano il Bosforo.
“hashish.
“e le ragazze turche dalle gran…
“hashish.
“siete gay?
“gay saranno i tuoi fratelli.
“non vi incazzate. Era solo per dire che se eravate gay “tutto”
significava hashish e peni duri come le conformazioni calcaree
della Cappadocia.
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“hashish.
“l’hashish c'è, ma bisogna aspettare.
Allora si aspetta, non dai gay, ma in un altro locale che il ragazzo
che sembra una mummia del popolo delle nuvole indica ai due. C’è
un’insegna blu al neon che ricorda di sultani, illuminata forte al
centro e buia ai lati che quasi non si legge. Lo aspetteranno dentro,
perché in strada non si può, c’è la FBI dice la mummia, e lui andrà
a fare le cose che deve fare e tornerà.
Scendono per qualche scalino, poi come una galleria e altri
scalini. Il locale è buio e fumoso e nell’aria si mescolano al tabacco
odori di sudore e profumi ostentati. Arrivano addosso come corpi
solidi. La notte umida di Istanbul è anche dentro alla sotterranea
sala d’aspetto.
Mozzo e capitano Zaravakis vengono accolti da un maggiordomo
un po' troppo avanti con gli anni ma vestito elegante. Li invita a
sedersi, con una gentilezza verminosa che lascia presupporre tutto
ma non buone intenzioni.
“siete soddisfatti del vostro tavolo?
“certo, tante grazie.
“tante grazie a voi per aver scelto il nostro umile locale.
“non lo abbiamo scelto noi.
Si nota che i due ragazzi non sono turchi, per troppe cose.
“ah, venite dall’Italia? Pizza, spaghetti, mafia.
E ride il coglione, muovendosi epilettico avanti e indietro e
riuscendo a mantenere il busto perfettamente eretto.
“oh l’Italia, il paese più bello del mondo. Venezia, Michelangelo,
Colosseo…
In un inglese che si capisce imparato lucidando il culo ai turisti.
Totò Riina, la Juventus che paga gli arbitri e Silvio Berlusconi che
paga un po' tutti. E i medici che si dimenticano gli attrezzi dentro
alla pancia della gente. Proprio bello.
Una birra chiara chiedono mozzo e capitano, e guardano ma non
troppo, perché il locale è uno di quei bordelli di basso rango pieno
di ragazze turche con le fiche che ricordano il Bosforo. Alcune
ballano indiavolate una musica tecno di qualche anno prima, altre
se ne stanno sedute sui loro sgabelli e regalano sguardi. E grandi
tette. Accanto al tavolo dei due, un uomo sudato che ha l’aspetto di
un ricco industriale tiene sulle ginocchia un culo nudo colore
dell’ambra. Un altro uomo, tozzo e sgraziato, si inciampa in uno
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scalino e mozzo e capitano se lo ritrovano sdraiato che sembra
morto in mezzo ai piedi.
“che cosa orribile!
Dice il maggiordomo.
“se non vi piace questo tavolo lo possiamo cambiare.
“non si preoccupi, basta che ci tolga il cliente sdraiato.
Il cameriere di plastica lo aiuta ad alzarsi, con la deferenza che è
propria nei confronti di chi ha sganciato parecchio.
Al tavolo affianco, la donna seduta sopra alle ginocchia
dell’industriale si struscia provocandolo e l’uomo sudato è ancora
più sudato e muove con vigore una mano. L’uomo più sudato del
mondo respira male, in quell’aria pesante di sospiri e profumi.
Una ragazza bella guarda verso il mozzo e fa correre la lingua
lungo tutte le labbra turche. Il mozzo ha un’erezione. Ne incrocia
gli occhi colore dell'ossidiana e la ragazza scende dallo sgabello e
crede di capire. Non è così. Stanno nel bordello per salvare un
sogno, perché un uomo cupo con il cappuccio tirato sopra all’anima
disse loro che sì, l'hashish, ma si doveva aspettare.
La ragazza parla.
“Italia Firenze spaghetti mafia.
Ma perché non pensa ai cazzi che dovrà massaggiare?
Accarezza un ginocchio al mozzo. Il mozzo ha il ginocchio in
erezione. Sono arrivate anche le birre, il manichino in smoking da
saldi estivi le ha portate. A guardare bene tutto sa di cose che
costano poco. Anche la ragazza. Al capitano Zaravakis viene voglia
di una sigaretta. Prepara sopra al tavolo una cartina distesa e la
riempie con del tabacco biondo.
Ma c’è un inconveniente che va risolto. La ragazza turca
richiama l’attenzione del damerino in costume. Ordina un Martini.
Al capitano questa cosa non va. Lo dice subito al mozzo e poi alla
ragazza. Che vuole? Sono lì che aspettano e da quando il mondo è
mondo si aspetta soli, anche in mezzo alla gente.
Il capitano Zaravakis sa di una vecchia storia che racconta di un
avventuriero che abbandonò l’Italia per vivere in una città lontana.
Come un po’ tutti gli italiani che viaggiano per mancanza di cibo o
esigenze dell’anima, il ragazzo era un ignorante della peggior
specie e non conosceva una sola parola della nuova lingua con cui
avrebbe in futuro stretto relazioni. In conseguenza andò a
festeggiare il compleanno in uno di quei luoghi dove le ragazze
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sono cordiali e promettono cose turche ai visitatori e parlare non
serve. Gli fu presentato un conto talmente alto che passò i giorni
successivi della sua vita da immigrante in una prigione che
galleggiava al largo di un’isola.
L’incubo è giustificato. Il capitano non si vuole mica svegliare la
notte in un bagno di sudore, ricordando un cameriere e un conto,
pochi soldi in tasca e una carcere da cui fuggire a mezzanotte.
Niente Martini con ghiaccio e nemmeno cocktail dal nome
tropicale.
“signorina, se ne vada.
“ma sono qui soltanto per parlare.
“e allora parla, ma non bere niente.
Si alza, offesa e umiliata. E non regalerà più sguardi peccaminosi
ed erezioni al mozzo.
Anche questa è andata, pensa il capitano. Ha voglia di una
sigaretta. Prepara sopra al tavolo una cartina distesa e la riempie
con del tabacco biondo.
Una sensazione forte di déjà vu investe il capitano. Ha come
l’impressione che tutto sia già successo. Ma non ci sono cartine sul
tavolo e nemmeno sigarette. Chiede al mozzo. Lui non sa niente. È
sicuro di averla preparata. È sicuro di troppe cose il capitano
Zaravakis. Pensa agli scherzi che comincia a fare la memoria.
Forse è giunto il momento di cambiare vita, riflette, con un sapore
amaro in fondo alla bocca. Ricorda la notte prima. Arrivarono con il
treno alla stazione che era proprio quella dell'Orient Express e ad
aspettarli c'era l’incanto, uno spettacolo di minareti e gabbiani e di
muezzin che invocavano nella notte. Non poteva bastare?
Un polsino inamidato si infila tra i volti increduli. Capiscono di
chi si tratta. Non capiscono che vuole. Poi si accorgono che tra i
volti ondeggia la sigaretta arrotolata che non ancora arrotolata era
scomparsa dal tavolo. Altro che scherzi della memoria. Poco male,
pensa il capitano Zaravakis, la vita sì la cambierà, ma senza fretta.
Sfila la sigaretta dalla mano fluttuante e se la appoggia alle labbra.
“tante grazie.
L’altro ha già i fiammiferi in mano e accende. Una nuvola di fumo
si alza dal capitano Zaravakis.
Il cameriere elegante ringrazia a sua volta e gli sguardi si
incrociano e rimangono l'uno nell’altro. Che vuole, dei soldi? che
vada a chiedere altrove. Magari dall’industriale, che adesso la
ragazza ce l’ha sdraiata addosso come in un 69 ma sulla sedia e
17
fanno il gioco che lui la può solo annusare. Si vede la patacca
aperta. Dai tavoli attorno sogghigni bavosi.
Lo sguardo del capitano cade verso la seconda cartina distesa. Il
manichino intuisce e arrotola. Il mozzo sorride.
Basta, imprecano mozzo e capitano, il sogno non può essere
salvato. Non sono benvoluti all’interno del locale, non vogliono che
le ragazze vengano a bere Martini con ghiaccio e cocktail dal nome
esotico. Il manichino si è stufato di arrotolare sigarette. Cominciò
come uno scherzo, ma il capitano Zaravakis è un cinico inespresso
in apprendistato e adesso ne hanno un numero sufficiente per
quasi una settimana. Che non fumeranno, perché il manichino
arrotolasigarette dava delle leccate che sembrava una mucca e che
schifo, cazzo. Era facile. Si appoggiavano sul tavolo e si aspettava.
Ma il sogno è sotterrato. Il sogno è caduto più in basso
dell’industriale al tavolo vicino, che adesso si è tolto la camicia e
ha indossato una maschera di gomma da uomo tigre. Mozzo e
capitano sono decisi ad andarsene, con quello che resta delle loro
sordide intenzioni.
Pagano il conto e salutano il manichino con una stretta di mano
senza banconote al seguito.
“volevate lasciarmi solo?
Cazzo, l’uomo con il cappuccio. Al capitano quasi dispiace,
perché i pensieri si stavano pulendo e cominciavano a tornare i
minareti e i gabbiani. Per l’incanto era ancora troppo presto.
Ma non c’è posto per la nostalgia, c’è del lavoro da fare. L’uomo
dice che ha tutto e che adesso vuole i soldi. Ma prima si controlla
nel bagno. Mozzo e capitano non sono mica due sprovveduti alle
prime armi. Si riaccomodano al tavolo e l’uomo chiede una birra.
Niente da fare. Qui non si offre niente a nessuno.
Parte il mozzo. Ritorna. All’uscita del bagno una donna grassa lo
prende per un braccio e gli profuma la punta delle dita. Chissà
cosa avrà toccato. Dentro alla busta non c’è niente di quello che ha
detto l’uomo con il cappuccio.
Parte il capitano Zaravakis. Ritorna. Ma prima passa per la
stessa donna grassa che gli profuma anche a lui la punta delle dita.
Il capitano conferma. Niente che possa assomigliare a quello che
l’uomo aveva promesso.
Parte l’uomo. Ritorna. A lui nessuno profuma un cazzo. Protesta e
chiede denaro, ma i due hanno deciso di non scucire un soldo.
Insinua un ammanco. Magari è una cosa che dice sempre. L’uomo
discute animatamente. Si arrabbia. Non si capisce mai con questi
18
turchi. I due garantiscono di non aver prelevato nulla. Mentono
entrambi. L’uomo prosegue sempre meno gentile. Agita le mani che
fino ad allora aveva tenute ben appoggiate al tavolo con i palmi
ben girati verso il basso. Mozzo e capitano capiscono perché. Sul
palmo destro ci sono due cicatrici enormi a forma di sigaretta. Più
che cicatrici sono buchi. Manca la carne. Per farli ci hanno
dedicato del tempo.
che sollievo, la scoperta rinfranca il mozzo e il capitano
Zaravakis. È un marchio d’infamia, segnano i corpi di chi si è
comportato male, sul viso o sulle mani perché tutti sappiano. Il
furto acquista connotazioni etiche. E poi la mummia non è
nemmeno pericolosa, altrimenti nessuno l' avrebbe mai usata come
posacenere. Quando si teme una vendetta, si porta la gente nei
pressi del Bosforo con una pietra al collo.
È lunga la strada del ritorno. La nebbia continua a salire dal
mare anche se un vento forte soffia lontano le nuvole. Si vede
qualche stella. La luna è grande e rotonda e sembra quella della
notte prima. Mozzo e capitano non parlano, ma li accompagna un
pensiero di minareti e gabbiani.
19
Parte II
LA TERRA DEGLI DEI
20
Panos
È l'ora del tramonto in piazza Exarchia. Non è la piazza dei
drogati veri. Qui vendono l'erba, ma bisogna aspettare. Allora
aspettiamo perché siamo ospiti in una terra straniera.
Forse è aprile o forse e già maggio e ho raggiunto il mozzo ad
Atene da qualche settimana. La piazza è piena di greci. C'è Panos,
c'è Micaelis e c'è Bilia, che non è proprio greco perché è di Creta
ma ad Atene c'è finito a vivere.
Mi chiamo Dimitri Zaravakis, professione capitano, età non
pervenuta, hobby nessuno. Capitano di che? Non importa. Il posto
è triste. Guardatevi attorno, dice Panos, non assomiglia alla
decadenza?
Panos invece assomiglia a un greco sui libri, che dalla Macedonia
partì a cercare l'ignoto ma trovò un saggio dai lunghi capelli
aggrovigliati che tra i monti dell'India gli disse che a Babilonia
sarebbe morto. A Babilonia morì.
Bilia parla in greco e basta. È grosso e tozzo e ha una pancia
enorme, sembra un frammento di colonna dorica con le gambe. Da
piccolo credo abbia preso un sacco di botte. Rimane qualcosa negli
occhi. Anch'io ho qualcosa negli occhi. Micaelis no. Studia a Creta
e diventerà un bravo archeologo. Bilia è il Minotauro. Bilia
gonfiava di legnate gli uomini che venivano a casa a fare cose con
la mamma, se facevano rumore. Bilia, cazzo, dobbiamo pur
mangiare. Bilia gonfiava anche lei. Ha dei cotechini al posto delle
dita. Micaelis ha degli anelli. A Bilia non entrano e poi mica se ne
potrebbe comperare. E se ne avesse se li potrebbe anche rivendere
con una certa facilità. Ma non se ne può comperare e nessuno
presta anelli a un tipo come Bilia. Per questo non ne ha. Si capisce
che è povero, si capisce dal sudore sulle guance. I ricchi sudano in
posti che non si vedono.
Panos ha gli occhi blu, come i decori delle case e l'Egeo. Studia a
Creta con Micaelis ma non so se diventerà un bravo archeologo.
Impreca ma sorride. Credo abbia voglia di scappare. Se fossi una
donna da un tipo come Panos vorrei dei figli.
Il mozzo controlla l'ora. Ha un amico che è in viaggio dall'Italia e
quel suo amico magari è arrivato, ma l'erba è anche un benvenuto.
A casa troverà i ragazzi. È che non ci si dovrebbe far aspettare
mai. Da nessuno. Poi questo che arriva non sono mica sicuro meriti
riguardi. La notte prima di partire si è chiuso in una casa a fumare
21
haschisch fino a quando non ha perduto i sensi. Risultato: l'aereo
decolla con un posto libero non programmato e al nostro gli tocca
il ponte di una nave.
Panos schernisce il fantomatico spacciatore improvvisato
tossicomane. Quel tipo schifoso che ha detto che sarebbe tornato
con l'erba. Improvvisato spacciatore e basta. Tossicomane di
vecchia data. Panos dice di non fidarsi di nessuno. Se chiedono una
tessera per fare una telefonata, spariscono e se la rivendono. È che
l'erba c'è soltanto in piazza Exarchia.
Città che soffre, che ha venduto l'anima per sopravvivere ai
sultani. È più facile farsi una pera che uno spinello. Qui sotto c'è
una piazza grande e rotonda. Di giorno è piena di banche. Si
chiama Omonia. Poi il sole se ne va e la gente ha voglia di qualcosa
di caldo che salga nelle vene. E serve un posto. Di giorno gli affari
ma quando è notte sapore amaro dove si attacca la lingua.
La Grecia è piena d'erba talmente buona che la si trova nei
coffeeshop di Amsterdam. Ad Atene solo erba che viene
dall'Albania, e mi scuserà l'albanese di turno ma non è certo un
complimento. Se si volesse comprare una busta d'eroina sarebbe
tutto più facile. Panos impreca. Se solo si volesse. Anche adesso?
Certo. A quest'ora? Se solo si volesse.
Dell'erba non mi importa più un cazzo di niente. Rimane il
mozzo, che a lui invece non gli importa un cazzo di niente di quel
tipo che siccome alla stazione del treno non c'era nessuno è
arrivato a casa con il taxi. Ma c'erano i ragazzi e mica è rimasto
per strada. Io vado con Panos giù per la collina. Attraverso incroci
di macchine e cani e ingresso in piazza Omonia quasi circolare con
le insegne accese di quello che è chiuso e tanti uomini e tante
donne felici per un po'.
Io guardo perché il greco è lui. Deca evro (dieci euro). Per me un
poco di più. Sono un ospite in terra straniera. Un uomo con la
gamba in decomposizione apre le buste. Tutto bene, credo. Io
compro anche per il giorno che viene perché mi toccherà di andare
all'Acropoli con il tipo che è venuto dall'Italia sembra con qualche
velleità turistica. Non ci sono ancora entrato all'Acropoli, e lo farò
gratis con una tessera verde dell'università greca, con la mia faccia
in foto senza timbro e un nome italiano di donna. Maria Luisa. I
greci non sapevano. Ma il Partenone si vede dalla terrazza del
mozzo e se non ci vai è più bello. Lo dicono tutti. So che un giorno
la incontrerò la proprietaria della tessera e non potrò resistere al
fascino suo e degli eventi. Per adesso un pensiero.
Ce ne andiamo, che Omonia non è mica un posto per rimanere
22
troppo tempo. Infiliamo una galleria di negozi che dalla piazza
grande e rotonda porta a un'altra più bella lastricata coi piccioni,
con la fontana e gli spruzzi, che i greci hanno dovuto costruire
perché quella di prima faceva schifo. Incrociamo un manichino
donna che ci osserva. Pallida. Sognante. Sta lì, in piedi fuori da una
vetrina. Come stesse aspettando. Nessuno la ruba. Hanno tutti
qualcosa di più importante da fare.
23
Spiros
Panos è un amico. Di quegli amici che hanno un contatto, uno
spacciatore privato che dà il telefono a poche persone coi soldi e
che queste persone coi soldi chiamano amico. L’eroina è un mondo
lineare, fatto da legami di polvere che tiene assieme più del
cemento. Ma basta poco e nemmeno le case rimangono in piedi.
Dicono che è come la rive gauce, dicono che è fragilità e che è la
via che il destino ha riservato loro per provare a vivere. Dicono
davvero un sacco di cose. Ma le parole sono il vento e il resto è una
montagna di fango che scorre a valle e arrivata alla pianura si
ferma e rimane per farsi accorgere. Panos ha un amico e questo
amico si chiama Spiros.
Correva l'anno 1974. La Grecia riconquistava la libertà e ad
Atene, in piazza Omonia, apriva l’Hondos Center grande magazzino
per nuovi e presunti ricchi, con una gigantografia al neon del nome
che si accende quando non si vede più. Ne andavano davvero fieri i
greci e poi tutto venne da sé. Aprirono le banche, gli uffici eleganti
e i cavò, e tanti sportelli colorati con greche belle e sorridenti.
Prenda signore, se fa un po' d'attenzione e se li spende tutti
all’Hondos Center non correrà nemmeno il rischio che glieli rubino.
Perché purtroppo anche le favole finiscono e il cuore economico
pulsante della metropoli bianca si era riempito di cani e drogati.
Forse fu il vero motivo per cui affidarono le Olimpiadi del
centenario ad Atlanta-USA. God bless America. Sembra che da
quelle parti non ci siano cani e drogati. Adesso che le Olimpiadi le
fanno davvero non si può mica fare la figura. Bisogna dare nuova
dignità alla piazza. Si dice che ad Atlanta si conta una banca per
ogni cane che si conta ad Atene. Costruiranno una tettoia che
chiameranno cupola in greco e che nasconderà la decadenza al
cielo. Piazza Omonia sarà tolta al giorno e alla notte come non lo
sia abbastanza e ritroverà il decoro perduto. Ma i greci parlano e
parlano e la cupola progetto di grandi architetti dell’Ellade che
impiegarono anni di dracme per decidere che fare, potrebbe non
farsi mai. Si diceva per le strade di Atene.
2:00pm] Chiamo ma non risponde, chiuso in una cabina
pubblica in via di estinzione, mica per ragioni di sicurezza, è che a
casa del mozzo non c'è il telefono. Scorgo una banca che fa al caso
mio. Devo cambiare un travel cheque pure lui in via di estinzione.
Immagino che vorranno dei soldi. Ma non è una di quelle banche
24
con le greche sorridenti e ricciolute. Mi accoglie una specie di
scriba ammuffito che fuma una sigaretta dietro allo sportello e
parla inglese che non si capisce, ma sono in Grecia e so che la
colpa è mia. Conosco due parole. “Signómi”, che vuol dire scusa,
che mi ha insegnato uno strano studente alla deriva che abita nella
casa del mozzo. Un disperato che non aveva più il diritto di
chiedere cose alla vita e che per un capriccio del destino è finito
sulle sponde dell’Egeo. Forse è l’unica parola che sa dire anche lui
ma la dice spesso, “signómi”, a un vecchio che sta di sotto e
trascorre le notti delle feste folli in Asklipiu n. 50 a proclamare
insulti e minacce che nessuno capisce. In momenti come questo
interviene Alessandro Lo Ganno, si sporge dalla terrazza e
proferisce scuse greche monoverbo che ogni volta incazzano il
vecchio alle soglie della bara.
La seconda parola è “presa” e di lì a poco me la insegnerà un
certo Bilia.
3.20pm] Questa volta risponde ma pronto sono il capitano
Dimitri Zaravakis, e in Grecia un greco pensa a un greco e si
confonde e poi sicuro che era in casa ma chissà. Tutto apposto dice
Panos, l'ora è buona perché possa telefonare a Spiros, e fissiamo
un appuntamento e l’ora la decide lui e il posto lo decido io. In
piazza Exarchia. Certo, ho poca fantasia, è il luogo dove ci
conoscemmo qualche notte prima, ma fa parte di un rito e poi io
che c'entro, sono di passaggio ad Atene, sono ospite a casa del
mozzo, non conosco la città. Alle 7:20pm. Lui di fantasia ne ha di
più.
Quattro ore di attesa greca, bella sublime attesa che è un
desiderio che stai cullando, perché il demone è feroce e se non lo
culli non aspetta e le quattro ore diventano mille e va a finire che
le sette e venti della sera battono la morte del corpo, perché il
demone che si nutre di nettare ormai ha visto, ha annusato le
forme nude di madre, ha accarezzato capelli e seni. Lo devi cullare
che dorme e chiamarlo alle 7:20pm, che ti accompagni con rumore
e rabbia. Altrimenti l’attesa sarà spegnersi piano piano e la notte
palpebre chiuse su occhi sognanti e sigarette arrotolate a metà
ferme nelle mani.
7:20pm] Arrivo col mozzo compagno fedele di tristezza e follia a
piazza Exarchia e abbiamo il tempo per una sigaretta e due parole
e subito Panos che arriva con Bilia e si va. Passiamo per Omonia, la
piazza di banche e persone con l'anima al caldo che ci sono già.
25
Andiamo a piazza Vatis, piccola, un quadrato deforme e spigoloso
con palazzi strutture anch’esse spigolose e acute che la
contengono e tanti bar e tante puttane. Qui non ci sono banche o
centri commerciali e i corpi si accasciano anche di giorno. Panos
parla con qualcuno che prova a vendere qualcosa e chiede e si
informa, prezzi, qualità dell'eroina corrente, con la certezza solida
che stiamo andando da Spiros che aspetta, e ascolta parole e lo
tiene in mano a quello spacciatore da quattro soldi, che vive
sempre il vantaggio ma non questa sera, Panos contratta, sfrontato
come non si vede mai, perché se lo spacciatore si arrabbia rimani
con il culo al freddo e la notte è lunga. Lo spacciatore intuisce e
tergiversa, ma alla fine Panos dice no, perché Spiros aspetta e
Spiros è un amico. C’è Micaelis, un’archeologo di cui si sentirà
parlare nei documentari. È simpatico e intelligente e non partecipa
al gioco ma è seduto e guarda le danze. Bilia è un personaggio
inquietante. Anche di Bilia si sentirà parlare, ma nelle cronache
giudiziarie dei telegiornali. Ha già salutato venti persone
decomposte che si ostinano a vivere anche se non hanno più i
denti. Io e il mozzo sediamo su una panca di legno quasi nuova e
c’è un palazzo più alto degli altri che rompe il ritmo agli sguardi e
nello spazio di una strada che entra nella piazza, cala il sole di
maggio di sera che non finisce, un sole bello, colorato sul cemento
che è Atene anima che si nasconde, un sole delle
8:00pm] Le ombre dei palazzi disegnano geometrie di
chiaroscuro che sembrano dividere chi si è già fatto da chi ancora
aspetta. Panos ha smesso di giocare e mi chiede una sigaretta e se
l’arrotola con le mani belle di vergogna di uomo che non lavora.
Spiros ci aspetta alle nove. Vediamo un tizio che avrà trent’anni e
non ce la fa più, che è seduto contro un muro e ha gli occhi rigirati
e la testa barcolla e si appoggia. Ha la bocca aperta e il corpo è
molle ma i respiri continuano. Pochi minuti e un medico scenderà
svogliato dall’ambulanza, lo prenderà a schiaffi senza parlare, lo
coricherà sulla barella e dentro, che per oggi non si muore. Poi
urla e gente che corre.
26
Scene di ordinaria violenza in piazza Vatis
Mie care lettrici, il pettegolezzo raddoppia. Sì, perché
nel parapiglia generale il nostro affezionato Dioskoros
Kazzuranis
è
manganellaggio.
rimasto
Proprio
vittima
lui,
il
di
famoso
un
barbaro
reporter
della
cronaca nera. Parapiglia di che? Vi chiederete. Non siate
impazienti, mie curiose lettrici, lo scoprirete presto.
Dunque
lo
spazio
dedicato
al
pettegolezzo
raddoppia,
perché da quanto si dice, lo sfortunato Kazzuranis non
sembra essere in gran forma e alla cronaca nera non hanno
trovato un'anima che ci volesse andare. Sempre disgrazie
che
non
importano
a
nessuno.
Ed
eccoci
qui
mie
affezionate, più pettegole che mai. Cito fonti mediche,
che a dire il vero non sono altro che il nostro collega
Petros Pantaliagunis, il veterinario che cura la sezione
dedicata
credetemi,
alla
per
salute
dei
nostri
quell'animale
di
piccoli
Dioskoros
amici,
è
più
e
che
sufficiente: “Il sig. Kazzuranis ha perso momentaneamente
l'uso dei quattro arti e dell'organo della riproduzione.
Problema che potrebbe anche scomparire con il passare
delle settimane”. Spero davvero che abbia ragione. Non
fraintendetemi, care lettrici, nessuno augura del bene a
un tipo come Dioskoros. Che se ne stia un po' fermo.
Andava a ficcare il naso dappertutto. Non so cosa ne
pensate voi, ma i giornalisti arrivano sempre dopo. Mi
spiegate che ci faceva in piazza Vatis? Non è mica un bel
posto quello. Non poter deambulare gli farà solo bene. E
non parliamo delle mani, non le teneva mai a posto. Ma
27
per quell'altra cosa… è davvero un peccato. Ok, Dioskoros
era quello che era, lo è ancora perché non è mica morto,
ma in certe cose non ce n'era per nessuno. No, non siate
maliziose,
mie
raccontato…
Come
credete?
Da
sporcaccione,
chi?
quando
Ma
a
tutta
Dioskoros
me
la
lo
hanno
redazione.
lavora
al
solo
Non
mi
giornale,
la
redazione ha un tasso di natalità pari a quello delle
baraccopoli
di
Bombay.
Ma
vi
ho
già
fatto
aspettare
abbastanza e se non vi racconto cosa è successo non mi
pagano l'articolo. Ecco a voi la cruda cronaca dei fatti.
Sono
le
otto
di
sera
quando
la
signora
Menodora
Papadopulos, come tutte le sere, attraversa piazza Vatis
per ritornare a casa. La signora Papadopulos ha 93 anni e
il
morbo
di
Alzheimer
disfunzione
alla
cornea
informazioni
ai
segnali
cronica
canale
del
dalla
che
la
nascita.
che
piccola
a
chiedere
costringe
stradali
uditivo
Una
e
non
un'incrostazione
le
permette
di
ascoltarne le risposte. Ma la signora Papadopulos ha un
problema ben più serio: vive in piazza Vatis.
Sono le otto di sera e la signora Menodora, dopo ore di
tentativi, è quasi giunta a casa, dove l'aspettano i
nipotini orfani che con qualche difficoltà sta crescendo
da
sola.
Lavora
duro,
perché
il
marito,
morto
in
circostanze oscure da qualche decada, ha bighellonato tra
bar e bordelli per tutta la sua breve vita e non le ha
lasciato
in
eredità
che
debiti
di
gioco.
I
nipotini
l'aspettano impazienti e sono l'unico conforto in quella
sua vita dura ed ingiusta. Ogni giorno, quando ritorna a
28
casa, li abbraccia come fosse la prima volta, forse a
causa
dell'Alzheimer,
forte
anche
i
si
bambini,
commuove,
che
sono
piange,
ore
che
e
piangono
non
mettono
qualcosa sotto i denti.
Ma non c'è problema, perché oggi è giorno di paga e la
signora Papadopulos ha terminato il turno in fabbrica ed
ha raggiunto piazza Vatis con la borsetta imbottita di
quattrini. Sull'uscio di casa si avvicina un ragazzo, N.
K., minore d'età, che la saluta con calore chiamandola
nonnina. Menodora crede di riconoscerlo. Pero Menodora
crede di vivere negli anni '40 e non ha ancora capito il
perché di tutti quei cadaveri sul pianerottolo.
Il ragazzo le intima di consegnare la borsetta se non
vuole che le succeda qualcosa di brutto ma la vecchina è
sorda e prende il giovane a braccetto e gli propina una
caramella. Gli altri giovani della piazza lo deridono. Il
ragazzo comincia ad alterarsi e tira fuori una siringa.
La signora lo ringrazia ma dice che ne ha comperate a
sufficienza e mostra al magro giovane la borsa della
farmacia. N. K. rovista, ma non trovandovi niente di
interessante, rifà il nodo e restituisce.
Gli altri magri individui lo scherniscono, gli gridano
che è un buono a nulla e costui, accecato dalla rabbia e
dall'astinenza, sferra un gomitata in pieno volto alla
povera Menodora. Una volta a terra la riempie di calci.
Ma c'è un problema che va risolto. La vecchia è caduta
proprio sopra alla borsetta e pur piccola e minuta sembra
essere
un
peso
troppo
grande
29
per
il
nostro
smilzo
assalitore.
Il
ragazzo
si
deve
ingegnare
in
fretta.
Nessuno lo aiuterà. Gli altri giovani gironzolano come
avvoltoi e se N. K. non riuscirà nel suo intento, il
bottino sarà loro. Strani codici di piazza Vatis.
La povera Menodora è una maschera di sangue. N. K., dopo
uno sforzo che sicuro gli accorcerà la vita al pari delle
sue iniezioni, riesce a girare la vecchia su se stessa,
adesso pancia all'aria e con la borsetta alla vista. Ma
mie
indignate
lettrici,
non
credete
sia
facile
sfilargliela. La vecchia è di fibra dura e non molla la
presa. Il nostro stimato veterinario Petros Pantaliagunis
spiegherà
poi
alla
stampa,
che
sono
io,
che
“è
intervenuto una specie di prematuro rigor mortis, caso
eccezionale dato che la signora Papadopulos era ancora
viva”, anche se non troppo, dico io. Il risultato non
cambia, il ladruncolo rimane impietrito almeno quanto la
vecchia ma per la rabbia, e che fare adesso? Non si può
mica lasciare lì tutto quel ben di Dio. I ragazzi attorno
lo continuano a schernire e lo coprono di appellativi non
troppo lusinghieri.
È a questo punto della vicenda che si verifica il fatto
più
ignominoso:
l'arrivo
della
polizia.
Gli
adoni
in
divisa scendono in massa dal cellulare e manganello alla
mano cominciano a picchiare un po' tutti. Gli smilzi, i
vicini accorsi, i giornalisti, e in modo particolare il
nostro Dioskoros Kazzuranis. Ma vogliamo dare la colpa a
quei
bei
ragazzoni
alti
e
forti?
Diciamo
la
verità,
Dioskoros sembra un drogato. E questo spiegherebbe la sua
30
presenza in piazza Vatis. Ma più di tutti i poliziotti
manganellano la vecchia Menodora, vista con la borsetta
in mano e creduta nella confusione la responsabile di
tutto il trambusto. I marcantoni le sfilano quello che
eroicamente aveva difeso e che cominciano a chiamare in
un modo nuovo: il corpo del reato. Da sequestrare, in
attesa di accertamenti. E i bambini? Se non mangiano
oggi, mangeranno domani. Di fame non è mai morto nessuno.
La
piazza
selciato
di
ha
ripreso
Atene
il
profuma
tran
tran
un'altra
quotidiano.
volta
a
Il
tragedia.
Menodora intanto si è alzata, sola, e una puttana ce l’ha
a un metro ma non toglie le labbra dal suo gelato come in
prove di fellazio, che non è colpa sua se quella passa in
quel posto a quell’ora.
Per l'Eco di Atene
Georgios Papadopulakis
31
8:20pm] Panos dice che possiamo andare sottoterra a prendere
il treno. Il primo, quello bello e veloce, poi si cambia, un altro più
vecchio, e cambiano le stazioni e ci si accorge che è sottoterra,
niente piastrelle, niente vetrine copiate dei musei, sbarre vecchie
per entrare e quando metti il biglietto senti clok e metallo, penso
io, perché il biglietto non ce lo abbiamo. Proprio così. Vado a
comperare l’eroina e mi preoccupo con Panos perché non ho il
tagliando per il viaggio e lui ride e ride anche l’anima mia perché
racconta di sé. Dice che al controllore si può anche parlare. Se hai
i capezzoli duri che escono dalla maglietta, penso io, e il sorriso lo
manda a quando per vivere gli bastava il vento. Curiosa è l’anima
dell’uomo, che la fai sciogliere come ghiaccio in mezzo alle cosce e
te lo ricorda così, con un biglietto.
Aspettiamo sulla banchina il sottomarino che va da Spiros e parlo
con il mozzo, e non mi fido nemmeno di lui quando compero, ma gli
dico che Panos è a posto e che tutto andrà bene. Anche il mozzo mi
dice che tutto andrà bene ma è presto e andiamo lontani fuoricittà.
Andiamo al Villaggio Olimpico a comperare l’eroina, perché Atene
farà le Olimpiadi e il Villaggio Olimpico è il quartiere che verrà
abbattuto per gli eroi dell’esperimento medico ma adesso è ancora
di chi prova a vivere. Arriva il treno scassato di una volta sulla
linea verde e non so quanto passa ma passa in silenzio e scendiamo
per Spiros.
9:00pm] Panos lascia istruzioni e noi diamo i soldi e lo
aspettiamo con Bilia. Spiros non si fida se vede altra gente e allora
va Panos e rimane Bilia a fare l’ostaggio, che porcoddio è grosso
che è il toro di Minosse e se vuole elimina mozzo e me narrante e
ci abbandona in un cassonetto. Io mi fido meno di Spiros ma non
sono Spiros e nemmeno Panos, così consegno cinquanta lucidissimi
euro per un grammo che si racconta ateniese di eroina
dell’Anatolia. Siedo col mozzo, tanto i coglioni siamo noi e siamo
due. Sulla panchina di sinistra c'è Micaeilis che ride, e spero
davvero non sappia qualcosa in più che io e il mozzo non sappiamo.
Sulla panchina di destra c’è Bilia, fuori dalla tettoia di una stazione
che è all’aperto su per una collina. Lui sta seduto in un posto dove
il treno non si può nemmeno prendere perché si ferma prima.
La notte cala sulla città e la collina chiama un vento poco greco e
io sono in maniche corte e ho freddo e anche Bilia più di noi sta in
mezzo alle ilarità del tempo di maggio nella panchina sua
all’agghiaccio ma non so se ha freddo, non ci guarda, recita,
perché Spiros verrà all’appuntamento alla stazione o nel
sottopasso dove è sceso Panos e farà il passeggero e non deve
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capire che stiamo assieme. Panos ha dettato le battute, suggerisce
ai suoi amici strani e greci da quella buca sottoterra dove si è
infilato. Micaelis non sta nella pelle e recita come un cane, ci
guarda e lancia intese e sorrisi. Arrivano i treni che lasciamo
passare. Io e il mozzo, Micaelis l’archeologo e Bilia il cretese. Tutti
gli altri cambiano ogni volta. Così chi aspetta ci guarderà aspettare
e quando si chiederà perché non siamo saliti sarà già lontano. Così
chi scende e vede che non saliamo ci noterà appena, e una volta a
casa non si ricorderà di noi.
Chi manca è Panos. Le ultime notizie lo davano uscendo dal
sottopasso però dall’altra parte per scomparire tra le case
accatastate. Dico al mozzo che non ci lascia alla stazione del
Villaggio Olimpico sulla linea verde con i suoi amici, e che se
avesse voluto fregarci lo avrebbe fatto in un altro modo. Ma i
pacchi non hanno bisogno di nessuna logica, solo di
un'opportunità. Dico al mozzo che tornerà per convincere me
stesso.
Passano i treni. Panos ci arriva alle spalle con l'ultima luce del
giorno sul viso e con un’espressione che mica ci si può sbagliare.
9:40pm (ultimo rilevamento orario)] Ce ne andiamo in un
viottolo stretto di scalini che scendono e sediamo tra due case al
buio. Panos apre e si serve con la tessera del telefono, farfuglia
qualcosa e prepara una banconota, per primo perché la storia è
sua, anche se i soldi sono miei. Poi Biglia, poi ci fermiamo, passa
un uomo con pancia e famiglia e guarda per un momento
l’istantanea di voluttà e pace. Tocca a me e poi al mozzo perché è il
mozzo. Micaelis sempre dietro, inconsapevole e profumato.
Torniamo alla stazione del dubbio e dell’attesa e il primo treno ci
riporterà ad Atene del Mediterraneo, e il vento non segna più. Il
treno culla su rotaie attutite. Fumiamo tutti una sigaretta
arrotolata di tabacco. Siamo fatti e il fumo scende morbido e il
resto lo lasci a domani. Fumiamo sul treno e Panos fa la corte a
due ragazze belle, in inglese così capiamo, angelo dolce del Pireo.
Bilia non guarda. È alle prese con quel momento che dura ancora,
che comincia con l’attesa di qualcosa che arriva sicuro perché l’hai
già nel sangue e puoi chiudere gli occhi, senza avere paura. Bilia è
lì.
Facciamo la strada al rovescio e le stazioni passano senza
accorgersi e giù da un treno che rimane e quello nuovo porta allo
stadio delle prime Olimpiadi di adesso, Panos il discobolo abita là,
in una casa vuota dai genitori con mobili antichi di legno intarsiati,
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tappeti veri dell’oriente, gioielli degli avi donne, quadri di artisti
che vanno nei musei, reperti e vasi integri decorati da greci che
non ci sono più. È bella la casa di Panos.
Eroina ancora, che brucia sopra un foglio di stagnola e impregna
la stanza con un odore acre che sa di fumeria. Aspiriamo con un
rotolo di carta a cono per concentrare nei polmoni la preziosa
essenza, avidi come bestie da documentario sulla vita che si
spegne.
Il tempo passa senza fare male e ci scambiamo parole e miele e
Panos il greco è ospitale che se non fossi fatto mi sembrerebbe
antipatico ma se non fosse fatto non sarebbe così greco.
Organizziamo una cena alla griglia sulla terrazza del mozzo che
non si farà mai. Lo invito nella terra mia dei monti per sciare. Ci
scambiamo anche indirizzi che ha tenuto il mozzo e credo sappia
anche la data, lui, signore del tempo da ricordare, ma più anni e
stagioni. Risponderebbe era la primavera del duemilaedue.
Scendiamo le scale e giriamo due palazzi, camminiamo un pezzo
di strada e c’è casa di Bilia, che è brutta come lui, che è un
seminterrato dove vive con la madre che è al lavoro anche se è
notte, che è vuota di mobili ma è calda e accogliente e vera come
l’anima sua malata. Ci offre in un pezzo di carta quel poco che ha.
Erba greca.
È notte, ma andiamo subito perché la mamma di Bilia potrebbe
arrivare, la mamma che è al lavoro proprio perché è notte, e la
mamma ci ha visti nudi e non è il caso di farlo ancora.
Camminiamo verso casa del mozzo con Panos e Bilia che ci
accompagnano per un po’. Micaelis non c’è più ma forse non c’è
mai stato. O c’è stato una sera diversa. Ci salutiamo a piazza
Exachia, il luogo dell’appuntamento. È un rito che nessuno ha
deciso e che va concluso, senza sapere il volto di Spiros.
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Delle occasioni perdute
Era un giorno di maggio sulla terrazza del mozzo e il capitano
Zaravakis guardava i tetti di Atene e le antenne della Tv. Lontano,
offuscato per la calura del mezzogiorno, il Partenone.
“mozzo, e se partissimo per Istanbul?
Il mozzo sorrise e fece sì con la testa. Il mozzo fa sempre sì con
la testa. Teneva le mani appoggiate sulle ginocchia. Mani che
potevano essere di pianista ma che sono di persona poco seria e
incline alla droga.
La decisione era presa. Stavano ancora sopra una terrazza al
quinto piano in un quartiere residenziale di Atene mostro bianco di
cemento ma erano in viaggio. C'era solo da riempire uno zaino e
aspettare che arrivasse il vento. Non sostavano più nella sala
d'attesa dei pensieri a interrogarsi tra sigarette arrotolate e pezzi
di vita prossima se era meglio Gavdos o Costantinopoli. Perché è la
Grecia che è madre di queste pagine e la ferita che porta è ancora
aperta, e soltanto in Turchia e in tutto il resto del mondo Istanbul
si poteva chiamare Istanbul ma non in Grecia, perché sentivi un
peso dell'anima ogni volta che un greco si faceva scivolare sulle
dita il suo rosario d'ambra o si fermava a mangiare il kebab nel
pane degli arabi, anche se per rappresaglia lo facevano con il
maiale e quando lo ordinavano chiedevano una pita.
“Costantinopoli, si chiavava così. A che serviva cambiarle il
nome?
“i turchi sono dei bugiardi.
“non ci si fida dei turchi.
“Panos, in Italia le turche sono quei cessi dove ci si accuccia per
cacare.
Panos sorrise.
Uscirono dal limbo delle decisioni, si andava ad Istanbul, non si
andava a Gavdos, ultimo avanposto d'Europa nel Mediterraneo,
perché ci si arriva da Creta e a Creta le dà le spalle e una volta
arrivati si è quasi in Libia.
“capitano Zaravakis, Istanbul va bene, ma per Gavdos un poco mi
dispiace.
“mozzo, la vita è fatta di scelte.
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“si può sapere come diavolo sei arrivato in Grecia e mi hai tirato
fuori questa Gavdos?
“mozzo, è una storia lunga.
“hai qualcosa di meglio da fare?
“era la primavera del 2001…
“ehi capitano, sono io quello che si ricorda le date.
“mozzo, la vita è fatta di stranezze.
“ehi capitano, sono io l'aspirante saggio.
“l'isola era lunga quattro chilometri e larga uno e mezzo,
cresceva l'albero del mango e la melanzana…
“la melanzana non fa molto tropico.
“lasciami continuare. Ti dicevo, cresceva l'albero del mango ma
di marijuana nemmeno l'ombra.
“sempre a cercare queste cose.
“no, io che c'entro? Io sono un drogato organizzato. Trasportavo
un chilogrammo di charas per uso personale. Ma non ero mica
l'unico. C'era un francese che nella lingua internazionale dei
viaggiatori diceva solo verigud, che si era messo in una scatoletta
palline d'oppio monodose già avvolte in una cartina per non farle
appiccare e che offriva ai passanti come fossero caramelle.
Verigud, diceva.
“te l'ha il raccontato il francese di Gavdos?
“no, che c'entra il francese?
“eri arrivato alle melanzane.
“vivevo in una capanna con il tetto di palma. Nella capanna
affianco viveva un greco e viveva Katharine e a Katharine davanti
ai tramonti dell'oceano veniva voglia di fumare.
“te l'ha detto il greco di Gavdos?
“no, il greco che c'entra?
“no so, è greco.
“a Katharine veniva voglia di fumare, ma ti ricordi? Il mango, la
melanzana… Insomma, il greco mi chiede se ho qualcosa per loro,
e mi vuol pagare, ma a Katherine veniva voglia di fumare davanti ai
tramonti dell'oceano e Katharine era bella come una dea. Rifiutai i
soldi, per Katharine che era lì che ascoltava e portava senza troppo
mostrare un po' di pelo che le si arrampicava fino all'ombelico.
“patetico.
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“diventammo amici, tutti e tre. Io sognavo Katharine e lui era un
condottiero divertente e fiero e andava a pescare il tonno e il
barracuda con i marinai e lei che sulla barchetta si faceva due
palle tante, rimaneva con me per forza perché sull'isola non
c'erano altri stranieri e gli indiani si indurivano solo a vederla
passare e le dicevano cose sconce. Le raccontavo storie di primitivi
che popolavano le isole vicine e tante bugie sulla mia vita di
scrittore reietto, spirito solitario e triste anche un po' samurai, che
quasi mi chiedeva di sabotare la barca da pesca e di spedirla in
pasto ai calamari e rapirla e maltrattarla per il resto della vita.
“che significa quasi?
“passava più tempo con me che con Spiros il greco, bella dolce
Katharine. Il greco era un amico ed era davvero simpatico ma
pensavo nel suo letto sarò protetto e umido. I giorni passavano e
respiravamo i tropici e nell'aria le avvisaglie di una stagione delle
piogge che dicevano arriverà ancora. Prima di lasciare l'isola sotto
a un sole diritto di mezzogiorno dell'oceano, Katharine mandò
Spiros a fare i conti alla baracca del padrone, che la nave sarebbe
passata presto. Poi mi prese per mano e mi trascinò dentro alla
baracca di palma e bamboo, sollevò la gonna e con gesto di
libellula si tolse le mutandine.
“che storia è questa? Non ti crederà nessuno.
“ero nel limbo dei disperati alla riscossa, il cuore mi batteva forte
e il sangue voleva uscire dal corpo. Mi prese le mani e ci infilò le
mutandine, piccole che stavano in un palmo, che tanto il pelo si
vedeva lo stesso. Portò le mani tra i volti e in quel momento capii il
miracolo che può fare il caldo ai tropici in mezzo alle cosce. Poi
entrammo assieme nella baracca del padrone e Spiros era
simpatico davvero, si arrangiava per uno sconto e ci salutammo, e
si udiva da lontano il muggito della vacca sacra dei mari che era
venuta a prenderli.
“dunque Katharine è la proprietaria di quelle mutandine da cui
non ti separi mai?
“mozzo, che t'importa?
“guarda che le ho viste nel tuo zaino.
“credo tu debba imparare a farti gli affari tuoi.
“capitano, che cazzo c'entra tutta questa storia con Gavdos?
“beh, a dire il vero niente. Non direttamente.
Era ancora aprile il giorno in cui il capitano Zaravakis aveva
rivelato al mozzo di Gavdos. Il luogo più a sud d'Europa e sud
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suona come qualcosa dell'anima. Al mozzo si erano illuminati gli
occhi. Al mozzo che a Creta c'era già arrivato nell'inverno greco
dell'Egeo e Alexis Zorba ne aveva accompagnato i passi. Per
Gavdos c'era da prendere una nave in più. Giù nel mare nostro
degli dèi e degli eroi, dove il mare e il vento non avevano lasciato
un amico pensoso e una donna gravida. Ma questa è un'altra
storia.
“non direttamente, dici. Allora qualcosa c'entra.
“credo di sì. Sulla nave che mi portò in Grecia conobbi un tipo.
Lo avevo già visto all'imbarco con una Citroen giardinetta piena di
bambini e bagagli. La notte, per mancanza di soldi o voglia di Dio,
dormimmo sul ponte della Blu One, ammiraglia della flotta per
poveri che attraversa l'Adriatico, soli perché era aprile e freddo da
battere i denti, e tra sacchi a pelo e speranze da navigazione mi
raccontò il suo viaggio. Faceva rotta sulla pietrosa Itaca.
“e tu che gli hai detto? Così, tanto per sapere.
“che andavo dal mozzo, che per uno strano scherzo degli dèi era
finito a vivere ad Atene.
“e poi?
“parlavamo e fumavamo tabacco e parlavamo. Mi resi conto che
lungo la sua strada vive quel greco davvero simpatico che conobbi
sull'isola di palme e mangrovie.
“e ci vive anche Katharine, non è vero?
“mi disse che era una strana coincidenza e una bella opportunità.
E che un posto sull'auto c'era.
“e l'uomo della Citroen c'entra con Gavdos?
“lui sì. Non seppi resistere alla suggestione degli eventi e
accettai il passaggio. Passò la notte e la nave attraccò a
Igoumenitsa. Erano le cinque del mattino. La Citroen sarebbe
sbarcata e avrebbe preso terra e poi ancora il mare e la via di
Itaca. L'uomo mi svegliò, ma in preda agli sconforti del sonno
perduto, gli dissi che sarei andato ad Atene. Per girarmi dall'altra
parte e poter dormire fino a Patrasso.
“che considerazione.
“lui sorrise e mi augurò buona fortuna ma prima che si potesse
allontanare gli chiesi di un luogo che non dovevo mancare e mi
rispose Gavdos.
Il capitano Zaravakis aveva raccontato al mozzo di come gli
abitanti del cielo sembravano usare le persone per mandare i loro
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indecifrabili messaggi.
“mozzo, ma lo capisci? Senza Katherine sulla via di Itaca non
avrei mai saputo di Gavdos.
“credo che lavori troppo con la fantasia.
Però un giorno che era maggio il capitano Zaravakis disse al
mozzo andiamo a Istanbul e il mozzo avrebbe visto l'Asia.
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Storia di uomini e viaggiatori
Sull’autobus non si poteva fumare e il mozzo fumava come un
turco e se non fumava diceva cose strane. Era un po’ di tempo che
stava in Grecia e in Grecia quando voleva un caffè glielo portavano
e doveva aspettare che il fondo del caffè scendesse sul fondo della
tazza, perché all’inizio galleggiava, ma non sopra, dentro che non
lo vedeva. Se non avesse prestato attenzione si sarebbe trovato in
bocca una poltiglia schifosa. Dunque aspettava, e si arrotolava una
sigaretta di tabacco e sorseggiava il caffè che ormai era freddo, ma
quel sapore amaro ne voleva un’altra, perché fumare dopo il caffè
era come andare a dormire dopo un bagno caldo, un pomeriggio
breve dell’inverno.
Ci sarebbero andati in treno perché sull'autobus non si poteva
fumare e poi il mozzo diceva di conoscere l'ufficio informazioni
delle ferrovie, che là dentro erano tutti amici sui, che li avrebbero
trattati come si deve. Ma del mozzo non ci si può mica fidare.
Se non ci fossero andati in treno il mozzo non avrebbe potuto
fumare e gli sarebbe toccato ramingare senza meta apparente il
selciato di Atene in cerca di uno sconosciuto ufficio degli autobus,
importunando i passanti in una lingua che nemmeno era la loro
perché il passante era lui, excuse me, e via dicendo, e come inizio
fa schifo davvero. L'altro, il capitano Zaravakis, era nuovo in città e
si doveva fidare, del mozzo.
Tutti gli sportelli erano chiusi tranne quello con la fila.
Aspettarono più o meno un'era geologica e venne il loro turno.
Dall'altra parte del vetro una ragazza che parlava il greco e basta,
però fluente. Si cominciò a gesticolare.
“mi dispiace, questo non è l'ufficio informazioni, io faccio i
biglietti.
Ma dovevano arrivare con il codice del treno.
“però può dirci qualcosa?
Vista l'attesa geologica e lo stato di semidisidratazione in cui
versano.
La ragazza si consultò sospettosa con la collega che presiedeva
allo sportello chiuso e gli omaggiò di un orario generico delle
ferrovie greche scritto in greco. Il mozzo fece sì con la testa e
ringraziò. Il mozzo fa sempre sì con la testa e ringrazia. E' un tipo
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gentile.
“mozzo, tu parli il greco?
“no.
“posso chiederti che ci facciamo con l'orario?
“non lo so, è folkloristico. Te lo puoi portare in Italia come
ricordo.
Alcuni greci che stavano invecchiando nella stessa fila
spiegarono ai due nostri sprovveduti amici che l'ufficio
informazioni stava dall'altra parte della città. Nella lingua
internazionale dei viaggiatori. Avrebbero trovato comodi divani per
l'attesa, ragazze belle e sorridenti e orari comprensibili.
Così ritornarono a pedonare il selciato di Atene. Ma l'ufficio mica
si trovava. I vicoli erano deserti. Attraversarono piazza Vatis e
finalmente incontrarono qualche passante da importunare. Ma i
passanti parlavano in greco.
“mozzo, sei sicuro di quello che dice?
“beh, sì.
“poco fa mi hai detto che non parlavi il greco.
“non è che lo parlo parlo. Cos'è, non ti fidi?
“non lo so, forse è la borsetta. È piena di payette.
“che ti importa della borsetta. Ha detto o non ha detto che
l'ufficio è giusto dietro l'angolo?
“sì…
“e allora, di che ti preoccupi? Ha detto o non ha detto che ci
avrebbe accompagnati?
“sì, è che con i tacchi che porta ci metteremo un'eternità.
Si infilarono una volta ancora nei vicoli bianchi di Atene, questa
volta in compagnia, e dopo un'eternità giunsero nei pressi di un
seminterrato.
“mozzo, che ufficio è questo?
“cosa vuoi che ne sappia?
“prova a chiedere.
“ma lasciami in pace.
“ci avevano detto dei divani e delle ragazze belle e sorridenti.
“la ragazza sorridente c'è.
“sì, pero mi sembra un po' sciupata.
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“sei prevenuto.
“certo che sono prevenuto. Ti sembra forse un ufficio? Adesso
gliene dico quattro a questa qui. Ma per che ci ha preso, per due
imbecilli?
Il capitano Zaravakis cominciò a discutere ma la ragazza
cominciò a gridare e in pochi secondi i nostri amici erano
circondati da passanti greci grossi come alberi. La porta del
seminterrato si aprì e un signore dall'aria distinta riconquistò la
strada. Un'altra ragazza, forse un'impiegata dell'ufficio, lo salutò
maliziosa mostrandogli una frusta. I passanti dissero qualcosa al
signore distinto, che si avvicinò, con tutta l'aria di chi conosce la
lingua internazionale dei viaggiatori.
“ragazzi, c'è qualche problema?
“no, signore, nessun problema.
“loro la pensano diversamente.
“è che non troviamo l'ufficio delle ferrovie. La ragazza ha detto
che ci avrebbe accompagnato…
Il signore distinto spiegò che si erano messi d'accordo per un
pomeriggio nell'ufficio di lei, 50 euro e 65 se le strappavano le
mutandine. Tutto quello che si voleva, bastava non venire sul
divano che era nuovo.
“mozzo, la devi smettere di fare sempre sì con la testa.
“cercate l'ufficio delle ferrovie? Io vado in quella direzione. Sa
volete vi aspetto e ci andiamo assieme.
“grazie signore, sarà sufficiente l'indirizzo.
Non erano soli. Un ragazzo e una ragazza chiesero un vagone
letto per andare chissà dove ma comodi, e ci sarebbero andati in
pantaloncini bermuda sopra al ginocchio e scarponcino tecnico. Il
capitano Zaravakis calzava le ciabatte con l'infradito vere
comperate al mercato dei poveri di Calcutta e il mozzo i soliti
sandali di cattivo gusto. Il ragazzo e la ragazza si volevano bene
ma potevano essere inglesi e il sole caldo del maggio di Atene del
Mediterraneo gli arrossava le gambine, specie a lui che sembrava
un maiale e sudava in modo disgustoso. Esibiva una brutta
irritazione tra mento e collo, forse eredità dell'ultima barba nel
bagno comune dei maschietti dell'Hellas Youth Hostel. Lei aveva
un corpicino smagliato e floscio e una canotta color safari con i peli
sotto le ascelle sudati che uscivano davanti in una specie di
arbusto.
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L'unica volta che il mozzo e il capitano Zaravakis alloggiarono in
un famigerato Youth Hostel fu ad Amsterdam, in Olanda. Ce
n'erano due. Uno di un certo Bob, Bob Youth Hostel, e uno di un
certo Christian, Christian Youth Hostel. Visitarono Bob, un tipo che
aveva le pulci. Lo disse lui. Così andarono a dormire da Christian.
Scoprirono presto che c'erano funzioni religiose che venivano
registrate in una tessera a punti. Partecipare serviva per avere uno
sconto. Dell'etereo proprietario nessuna traccia, però pagavano
poco, specie se andavano a cantare alla messa. A pochi metri
luccicava un centro thailandese specializzato in massaggi. Poco
male, rimasero a dormire da Christian, povero cristo, che
nonostante le sane abitudini era costretto a lavorare nel bel mezzo
della Sodoma con i mulini a vento. I soldi si volatilizzarono, il
mozzo e il capitano Zaravakis non reggevano i canti e dopo ogni
funzione erano costretti a sostare dalle thailandesi. Alla fine della
vacanza avevano un sacco di amici canterini nell'ostello
dell'impalpabile Christian e un sacco di amiche palpabili e
sospiranti da Madame Bangkok.
Ma che fine hanno fatto i ragazzi inglesi? Annoiavano allo
sportello perché volevano sapere se quando è giorno i loro posti
erano quelli vicino al finestrino. Poi i turisti rosa si appartarono per
controllare se in un paese sottosviluppato come la Grecia fossero
riusciti a comperare un biglietto vero, e venne il turno del mozzo e
del capitano Zaravakis.
“dove volete andare?
“non vogliamo cuccette-notte e neppure supplementi veloci,
perché siamo viaggiatori backpacker.
Al di là del vetro c'era una donna con una sigaretta accesa
infilata in bocca. Il suo unico pensiero sembrava essere timbrare il
cartellino e tornarsene a casa.
“ho capito, ma dove volete andare?
Dietro al vetro nemmeno l'ombra di una sedia. La donna era
costretta a stare in piedi. Questioni di contrappasso dantesco
ancora in vita, si dissero i due. Ma per alleviare la sofferenza se ne
stava sdravaccata sulla scrivania, appoggiata sui gomiti, china in
avanti con la schiena inarcata. Videro una cosa simile nell'inserto
di un giornale nella sala d'aspetto di Madame Bangkok. Il capitano
Zaravakis ne restò affascinato. Non sapeva se fare i biglietti o
chiederla in sposa, ma non era libero a decidere e il mozzo metteva
pressione.
Il loro treno partiva alla mattina presto, troppo presto, ma erano
backpackers da biglietto senza supplemento e avevano una
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coincidenza al confine turco e al confine turco avrebbero aspettato
ore e ore ma erano backpackers da biglietto senza supplemento e
l'unico treno era quello. Certo, c'erano gli autobus, veloci che
sfrecciavano la Grecia, ma sono autobus diceva il mozzo, e serve
un uomo per farli camminare. Sul treno invece il macchinista ce lo
mettono per fermarlo, perché il treno è propulsione e rotaie e una
volta partito viaggia da solo. L'ingegno è per far scendere la gente.
Rotaie e destino. Tutte scuse per poter fumare durante il viaggio.
Poi costava la metà, meno il 25% che era lo sconto delle ferrovie
greche per gli studenti in Grecia, a cui il mozzo aveva diritto e a
cui aveva diritto anche il capitano Zaravakis, in quanto titolare di
una tessera falsa di una certa Maria Luisa. I greci non capivano.
Il mozzo nel frattempo si era seduto assieme ai turisti rosa e
sembrava avere voglia di attaccare bottone. I turisti rosa meno.
“ehi, che fate da queste parti?
“tu che pensi?
“Bryan, perché devi essere sempre così scortese?
“Cindy, ma che diavolo dobbiamo fare in un ufficio delle ferrovie?
“partiamo per Istanbul. E scusa per prima. Bryan non è una
cattiva persona, è solo un po' brusco.
“che coincidenza, anche noi andiamo ad Istanbul. Mi presento,
sono il mozzo e quello allo sportello che guarda le tette
all'impiegata è il capitano Zaravakis.
“è un piacere conoscervi. Siete anche voi backpacker?
“Cindy, ma che cazzo di domanda è?
“Bryan, lasciami parlare. Dimmi mozzo, posso chiamarti mozzo,
vero?
“certo che mi puoi chiamare mozzo.
“siete anche voi backpackers?
“a dire il vero non siamo veri backpackers.
“perché?
“è che normalmente il backpacker preferisce l'autobus.
“ma non ci sono autobus che vanno ad Istanbul.
“certo che ci sono.
“Bryan, sei un buono a nulla. Te l'avevo detto che c'erano. Mi
sottovaluti. Mi consideri una stupida.
“chiudi il becco Cindy.
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“sempre con quella tua guida dove non c'è scritto un cazzo.
Guarda che lo so che te l'ha regalata quella gran troia della tua ex.
Un giorno te la faccio sparire nella tazza del cesso.
“chiudi il becco Cindy.
“chiudi il becco tu, e apri le orecchie, che questo mozzo dice un
sacco di cose interessanti. Perché l'autobus, mio bel avventuriero?
“perché al backpacker piace viaggiare lontano dal bagaglio che
sta di sotto. Gli dà la possibilità, in caso di scomparsa, del bagaglio,
ovvio, il backpacker non sparisce mai, dicevo gli dà la possibilità di
insultare i locali lingua che gli è peculiare.
“come parli bene… Qual è la lingua del backpacker?
“come qual è? L'inglese. È che il backpacker parla solo l'inglese,
in America Latina, a Venezia e in tutto l'Oriente, il luogo non è
importante. Quello che conta è che l'interlocutore faccia uno
sforzo.
“credi forse di offenderci, rifiuto del Mediterraneo?
“Bryan, ben lontano dalle mie intenzioni. È così e basta.
“e tu, parli forse il greco?
“Bryan, che ti importa? Lascialo finire. Sto imparando un sacco
di cose nuove.
“i backpackers tendono all'anglosassone e se si vendono
l'attrezzatura che portano sulle spalle, si possono comprare una
casa nei luoghi che i loro nonni hanno depresso. Sospetto che era
un piano.
“così tendono all'anglosassone…
“per essere precisi vengono prevalentemente da Israele, Stati
Uniti, Australia e Inghilterra. L'ordine è alfabetico. Ognuno di
questi luoghi produce caratteristiche specifiche che sono poi
riscontrabili sul campo.
“proclami il falso.
“ne ho le prove.
“sei un povero stronzo prevenuto. E poi Israele che c'entra?
“c'entra.
“Bryan ammettilo, ti sarebbe sempre piaciuto essere come lui.
Un falso backpacker
supplemento.
mediterraneo
da
biglietto
senza
“ma se è solo uno schifoso accattone da viaggio. E tu una
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puttana. Pensi che non me ne sia accorto? Ti ho visto che lo guardi
con gli occhi languidi.
“Bryan, e se avesse ragione?
“chi, questa discarica ambulante?
“sì, proprio questa discarica, come lo chiami tu.
“Cindy, sono tutti pregiudizi.
“dice di averne le prove.
“te lo spiego io come funziona. Quando un'idea è preconcetta
sono sufficienti pochissimi rinforzi a radicarla e mille indicazioni in
senso opposto non basterebbero per farla vacillare.
“Bryan, è che indicazioni in senso opposto non ne vengono mai.
“Cindy, sono luoghi comuni.
“Bryan, i più stronzi vengono sempre da dove ha detto lui.
“Cindy, generalizzi.
“tutti generalizzano. Lo fanno perché così è più facile. Che gli
italiani sono mafiosi e mangiano la pizza. Che i giapponesi ce
l'hanno corto. È quello che si dice. Che gli inglesi…
Cindy scoppiò in lacrime.
“Cindy, gli inglesi che?
“che gli inglesi durano meno della sigla del telegiornale.
Concluse Cindy tra i singhiozzi. Bryan cominciò a sudare
goccioloni.
“rassegnati Bryan. Se lo raccontano ci sarà pure un motivo…
Bryan si fece misteriosamente silenzioso.
“lo devi accettare. È davvero possibile che alcune culture
producano un numero di stronzi percentualmente più elevato di
altre.
“no, non ascoltare le cose che ti dice. Guarda cosa ha fatto.
Questo mozzo è un disonesto, è un manipolatore di realtà per puro
tornaconto personale.
L'inglese aveva ragione.
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Storia di uomini e di santi
Lo sapeva il vento quello che accadeva, perché se non lo sapeva
il vento non rimaneva più nessuno. Il mozzo e il capitano Zaravakis
aspettavano seduti tra le rotaie di Pythion città greca di frontiera e
le cicogne facevano il nido. Un gigante con una barba lunga e
bianca disse di chiamarsi Achalananda. Un anno prima il capitano
Zaravakis camminava per le strade di Calcutta.
Incontro un vecchio che sembra uscito dall’inferno, piccolo e
gobbo, barba sul mento e un braccio monco subito sotto alla spalla.
“ehi man, sono due giorni che ti vedo camminare per la strada.
Come a cercare qualcosa.
Non è vero. Sono sbarcato ieri notte dalla Nicobar, transatlantico
indiano con un prestigiatore a bordo per i casti spettacoli notturni.
Navigavo verso il Bengala dall’arcipelago delle Andamane, oceano
perduto.
“sir, sono due giorni che cammino per la strada, come ad
aspettare qualcuno.
“sarà il destino.
“sarà il destino.
“charas, opium, heroin…
Poi la voce si fa ammiccante.
“ragazze giovani…
La charas è secca, l’oppio tagliato con lo zucchero e il lucido da
scarpe, l’eroina dalla Thailandia e le ragazze giovani dai campi di
riso vicino alla città.
“molto giovani…
“sarà il destino.
“sarà il destino.
Calcutta è la città di Kali, una dea, e Dio non ha una città, ha
molte più cose, dicono, ma una sua così mica ce l’ha. Avrà il cielo,
ma è meno specifico e poi Kali è donna. Non posso che uscirne
abbandonato e nudo.
Pago per una stanza senza finestre di fronte a un bordello, che
per andarci devo fare il giro dell’isolato ma sento gli indiani a dare
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virilità e le indiane a rispondere sospiri. È notte del Bengala e ho le
tasche piene di quella polvere marrone che mi ritrovai addosso
dopo l’incontro del destino con il galantuomo senza un braccio.
Aveva capelli crespi colore del topo che scendevano bassi sulla
fronte e due escrescenze ossee sulla testa che tanto ricordavano le
corna del diavolo ma somigliavano anche a fratture craniche
aggiustate male. Nella stanza non ci sono finestre ma una scrivania
e una sedia girevole e morbida. È notte del Bengala e annuso
arrotolando una banconota con molti zeri.
Calcutta consuma la vita della gente, mare di lebbra e
disperazione, e davvero ne ho abbastanza. È il momento di andare.
Ma non ho fatto i conti con questa Kali, signora della città e delle
anime in balia. Perdo conoscenza sulla sedia girevole e mi sveglio
nel letto. L’orologio batte le sette ma la finestra non ce l'ho e io che
a quel modo mi alzo alla mattina presto sembra davvero un po’
strano.
Sto male e mi sono cacato addosso. Non addosso, nel letto, ma
mi sono rigirato per tutta la notte in quella merda gialla che si fa in
India. Potrei vomitare. Sarà meglio raggiungere il bagno. Farò una
doccia e una palla con le lenzuola e uscirò a controllare l’altezza
del sole. Una sensazione che può essere solo un’astinenza morde
già polpacci e mani. Troppo presto. Che sta succedendo?
Fuori c’è il ragazzo della portineria. È mattina e chiedo il conto.
Mi vede malconcio e suonato e prova a fregarmi le rupie di una
notte in più, ma ricordo il giorno dell’arrivo e ne ho le prove
stampate sul biglietto della nave. Sembra risentito per il sospetto.
Che vuole? Con i soldi per una notte nella topaia torno dalle
ragazze giovani. Mi dice che conosce il giorno in cui sono arrivato.
Gli dico che lo conosco anch’io.
I bengalesi sembrano conigli. Con gli occhietti dolci e il musino
coi baffi. Solo per il fatto che sono un drogato non si può
approfittare a quel modo. Lo fanno già abbastanza gli spacciatori.
Ci guardiamo con aria di sfida. Il bengalese sembra un nano. Io
razza alpina, 179 centimetri ufficializzati dalla visita di leva. Sono
sicuro che in caso di bisogno venticinque anni di alimentazione di
montagna verranno in aiuto. Ci guardiamo negli occhi con rabbia e
cominciamo a contare i giorni.
Uno, due, tre, quattro. Fanno 600 rupie.
Stronzo di un bengalese, sono arrivato di venerdì. Fanno 450
rupie. Dice 600, con l’aria di qualcuno che non è intenzionato a
fare sconti. Allora contiamo, truffatore del Bengala. Venerdì,
sabato, domenica. E lunedì. Come lunedì? Sì, lunedì. Silenzio. Mi
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dice che sono un coglione che non sa nemmeno che giorno è. Ha
ragione. Ho perso un giorno, chissà dove. Lui lo ha trovato e lo ha
messo nel conto.
Ho dormito per una notte, per un giorno e per una notte. E mi
sono cacato addosso. Non addosso, ma non è importante. Un
brivido di terrore mi percorre la schiena. Meglio riposare ancora.
Mi scuso con il ragazzo che probabilmente è l’unica fonte di
sostentamento per tutta la famiglia di quindici persone, che se non
lo avessi pagato gli avrebbero trattenuto i soldi dallo stipendio
misero, che lo stipendio da fame è forse più basso di quello che
pago per una notte nella topaia, che se proprio ha una sorella
carina lo aiuto io a risollevare il budget della famiglia. Entro nella
stanza e mi lascio cadere sul materasso pieno di cimici e macchie
strane da coppia che si amò. Passo il resto del giorno a guardare
un agglomerato di muffa che si è formato sul soffitto.
La notte ho un sogno. Viaggio in un treno assieme a mia madre,
destinazione il mio paesino tra i monti. È buio e nel cielo brilla una
stella. All’indomani ricevo la visita di uno svizzero.
Non ho la più pallida idea di chi sia questo svizzero. Mi racconta
che abbiamo dei parenti in comune. Sospettoso di natura, gli dico
che se ha l’intenzione di convertirmi a qualche setta, ha cominciato
male. Ma l’India è il paese delle coincidenze. Mi assicura che è
tutto vero. È pur sempre svizzero e decido di credergli. Come mi
abbia trovato rimane un mistero. Gli porgo le mie più sentite scuse
per la cacca e vedendomi malconcio mi trascina a mangiare dopo
troppi pasti perduti. La denutrizione è un male subdolo che si
insinua in silenzio e quando si fa sentire è tardi. Parliamo un po’ di
questo e un po’ di quello, del parente delle Alpi che un giorno
lontano decise di varcare il confine. Scopro la sua grande passione
per l’albero genealogico. È rassicurante avere a che fare con una
persona che non mi assomiglia affatto. Stavo male e mi salvò,
piccolo grande svizzero.
Cammino sui marciapiedi e sui mendicanti e incontro una
ragazza germanica scalza e bella che mi vede e sorride. Sorrido
anch’io e per la fatica mi devo sedere un po’. Facemmo il
campeggio nudi a Little Andaman tra mangrovie e coralli, qualche
settimana prima. Dice di essere incinta. Le racconto che sto
morendo. Dice che se ho i filamenti nella cacca ho anche un virus
che spappola il fegato.
La notizia non mi incoraggia affatto. Ritorno alla topaia con le
cimici e controllo la palla che ho fatto con le lenzuola, che a
Calcutta ci sono 39 gradi con un’umidità del 97% e non si è seccato
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proprio niente. Nulla di strano. Ringrazio gli dèi blu di quelle parti,
perché mi ero visto cercando un medico con una palla di lenzuola
in una borsa di plastica per far sapere anche a lui. La ragazza non
la vedrò più, ma era bella e l’amore ce l’avevano fatto in tanti. Non
ricordo il suo nome.
Passano i giorni. Nessun cambiamento degno di nota ma ho uno
svizzero da aspettare. Passano altri giorni. Piano piano
ricompaiono le forze e lo spirito si innalza alla maniera di quando
esce dalla fogna. Io invece esco dalla stanza per delle piccole
passeggiate. Vengo spinto da qualche oscuro motivo verso un
telefono e chiamo alla compagnia pakistana d'aviazione che mi
dovrebbe riportare in Italia. In un futuro non ancora prossimo. Con
mia grande sorpresa vengo informato che nessun problema, che il
mio volo di ritorno è confermato e che partirò di lì a tre giorni. Ma
io non ho confermato proprio niente, e il pakistano ride, e chi vuole
che lo abbia mai fatto, il profeta Maometto?
Vorrei uccidere lo stronzo all'altro capo del telefono. Ma se non
parto perderò il biglietto, parola di pakistano. Rimarrò in India a
tempo indeterminato, senza poter accedere a nessun conto
corrente se non al mio, e a dire vero non serve a molto.
Capisco buona la stella del sogno e prenoto un posto, questa
volta da me, sul Bengala Express, treno da documentario lungo
qualche chilometro che da Calcutta viaggia fino a Delhi. Saluto lo
svizzero che parte per il Bangladesh e il ragazzo della reception
che dal Bangladesh è arrivato qualche mese prima e che in
Svizzera non ci andrà mai. Consegno le lenzuola. Ride, non ha mai
visto nessuno dormire così tanto. Ride, tanto le lenzuola mica le
lava lui.
Non ho nessun altro da salutare. Alla bengalese a ore ho già
detto addio. Per togliermi di dosso quei fastidiosi sensi di colpa che
si sentono dopo, mi sono convinto di averla aiutata a rispettare il
più importante dei suoi doveri rituali. Apparteneva alla casta delle
prostitute, lo aveva fatto sua nonna, lo aveva fatto sua madre, lo
farà sua figlia. Si potrà reincarnare in qualcosa di meglio, magari
la sorella di un marajà o una mendicante con la lebbra e in
entrambi i casi non dovrà sopportare corpi sudati che le
schiacciano il ventre. Mi passò il lembo del lenzuolo per
asciugarmi, si mise in posa e chiese una fotografia, che portasse la
sua anima lontano. Ma certe cose riescono solo nelle poesie e la
mia macchina fotografica a Calcutta non arrivò mai. C’è anche una
casta di ladri. Guardai le macchie sul lenzuolo e sospettai che
avesse amato molti uomini, e in un angoletto sporco ma non troppo
feci anch’io.
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Sono dentro a un taxi con due ragazze della Danimarca e via, per
la stazione di Howrah. Il taxi è mio ma si dividono sempre e sono
d’accordo con l’autista che lo pagheranno le danesi soltanto, che
sono alla prima settimana. A lui sta bene. A me anche. Le danesi
non lo sapranno mai.
Il biglietto indica la carrozza e il posto, perché la notte si tirano
giù le panche e si dorme, e si dorme in sei per cuccetta e dicono
che se non hai il posto ti fanno scendere, a meno che non allunghi
una banconota al capotreno.
Il posto sì che ce l’ho, in mezzo a due indiani, e vado di spalle
alle rotaie future e vedo l'India quando è passata. Se viaggiassi
diritto la guarderei arrivare ma non la vedrei andar via. I campi di
riso che corrono incontro risplendono della luce che è delle cose
che non sono ancora mentre i villaggi e i bambini in ritardo a
salutare sono sguardi in bianco e nero che si girano a inseguire
qualcosa che non c’è più. Manca sempre il momento presente, e
vado forse troppo forte per cogliere quell’attimo che è un
paesaggio immobile dal finestrino. Il posto sì che ce l’ho, di spalle,
rivolto ai ricordi. Vicino a me siede un vecchio vestito di arancione
che mi chiede di non fumare perché è un monaco e il dettame
religioso gli impedisce di respirare il fumo. Peccato, perché il
monaco ha i piedi che puzzano come una discarica e il fumo
avrebbe mitigato un po'. Per fumare me ne devo andare allo
scompartimento dopo, dove non ci sono monaci ma bengalesi bassi.
Calcutta-Delhi sono ventisette ore più il ritardo. È quello che ti
dicono quando comperi il biglietto. Se chiedi di più non lo sanno
ma l’India è grande e i treni hanno tutti un nome e una volta
aspettavo un treno che di ritardo aveva due giorni. Le ore passano
in bianco e nero e io e il monaco diventiamo amici. Mi racconta del
principio cosmico che governa l’universo e mi vuole accogliere
nella grande famiglia dei tantrici meditatori trascendenti e io gli
spiego che in qualche modo ci sono già, anche se capita ancora di
dormire troppo, e lui scrolla la testa come fanno gli indiani, che
sembrano dire no, ma dicono una cosa come che gli dèi allora
compiano la volontà. Si chiama Parananda.
Il treno risale il corso del Gange fiume sacro di eroi blu e
disperati. Viaggiamo fino alla stazione della Vecchia Dehli e tra
facchini in cerca di valige e venditori di tè, Parananda mi
abbraccia. Come un padre. Credo. Dice che magari un giorno ci
rivedremo. Rispondo se il cielo lo vorrà. Dice che sono sagge
parole, che potrei essere un buon monaco. Sorrido.
Poi viene l’Italia e una ninfa che da una terra lontana al di là del
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mare decide di dirmi addio. Un inverno disperato mi porta in
mezzo alle cosce di una ragazza grande, ma quella non capisce il
buio e si mette solo a pecora.
Pratica lo yoga, mi racconta del principio cosmico che governa
l’universo e mi vuole accogliere nella grande famiglia dei tantrici
meditatori trascendenti. Le spiego che in qualche modo ci sono già,
anche se capita ancora di dormire troppo, e lei scrolla la testa
come fanno gli indiani, anche se l’India l’ha vista in latta sulle
scatolette del tè.
Un giorno che è già primavera mi invita a un raduno di pervertiti
che abbracciano gli alberi, e per non litigare con nessuno mi devo
drogare ancora. Namastè, mi dicono tutti, che in hindi significa
qualcosa come che piacere incontrarti, oppure che gli dèi
preservino la tua salute cagionevole che traspare per via del
colorito e delle occhiaie. Penso al perché tutta questa gente non mi
possa salutare nel modo in cui hanno appreso dai loro genitori, e
vorrei parlarne con qualcuno, ma ogni volta che mi avvicino vengo
squadrato con aria feroce come a dire ma non lo vedi che sto
abbracciando un albero? Sono isolato. Poi subbuglio e tutti che
guardano e dal sottobosco spunta il monaco arancione del Bengala
Express.
perché i codardi si spaventano?
Forse perché sono dei codardi.
Per qualche ora mi ritiro nei boschi anch'io, ma senza
abbracciare niente. I pini e gli abeti sono pieni di una resina
appiccicosa che non si toglie dai vestiti, e nella terra dei monti lo
sanno anche i bambinii. La notizia del mio incontro indiano con
Parananda si sparge a macchia d’olio, o per meglio dire si diffonde
di tronco in tronco.
Sono l’oggetto del desiderio di una serie di zitelle arricchite e
l’oggetto dell’invidia di un esercito di maschi appiccicosi. Le
donnine mi circondano incredule. La congiunzione cosmica,
dicono, e mi toccano tutto il corpo per sentire i punti di energia.
Ammetto di non sapere che sia il tantrismo, però sembra avere
qualcosa a che fare con il mio uccello. Il raduno mi comincia a
piacere. Piace meno alla ragazza che mi ha accompagnato, ma c’è
di mezzo un non so che di mistico e non può dire un cazzo.
La notte ci sdraiamo nudi nel suo letto e mi parla del monaco. È
un maestro della scuola tantrica per integrali di cui è adepta. Mi
racconta che l’ha iniziata lui. Le chiedo come. Mi risponde che non
sono affari miei e si rimette il pigiama. E poi è stato tanto tempo fa.
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Incontro il monaco tre o quattro volte assieme alla ragazza che è
una donna grande con una bambina dolce, ma litighiamo spesso
perché nonostante il tantrismo non vuole mica fare cose strane. In
mezzo a tutta questa confusione di incensi e mutandine c'è un
viaggio verso la Turchia passando per Pythion.
Il capitano Zaravakis stava con il mozzo seduto lungo la banchina
e i piedi ciondolavano sulle rotaie che per un po’ non sarebbero
servite a nessuno. La luce era quella di una mattina di maggio.
C’era una stazione di legno e le cicogne facevano il nido. La
bandiera della Grecia sventolava, perché Phytion era la frontiera.
Arrotolavano sigarette di tabacco e parlavano del futuro e del cielo
blu.
“piacere, mi chiamo Achalananda.
Un gigante con una barba lunga e bianca si era avvicinato e
cercava compagnia. Era vestito con una tunica arancione. Era alto
più di due metri.
“mi presento, sono un monaco di una congrega sconosciuta di
tantrici meditatori trascendenti che nessuno ha mai sentito
nominare.
“che importa.
Rispose il capitano Zaravakis, che era uno scrittore con la
disfatta a portata di mano.
“tante volte non essere conosciuti da nessuno aiuta a lavorare
meglio.
Doveva pur tirare avanti il povero capitano.
“sono parole piene di saggezza. Potresti essere un buon monaco.
Anche un astronuata o un killer di prostitute, pensò il capitano
Zaravakis.
Achalanda sorrise bonario, quasi gli avesse letto nei pensieri.
“non sto scherzando. In questo mondo di opportunismo e
arroganza non è mica facile trovare delle persone che dicano le
cose che hai detto tu.
Sospettoso fino al midollo, il capitano Zaravakis si rivolse al
mozzo nell'ostico dialetto dei monti, sicuro di non essere capito da
nessuno.
“ci vuole fregare. Conosco questa gente. Ti parlano dolci dolci
all'orecchio e poi sei costretto a fare tutto quello che dicono.
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Il mozzo rimaneva misteriosamente in silenzio.
“ogni persona che si aggiunge alla nostra grande famiglia è una
goccia che va a completare il mare…
“mozzo?
“… il mare della pace e della fratellanza…
“mozzo?!
“… l'oceano delle anime dei naviganti che hanno trovato un
approdo…
“mozzo, porcoddio!!
“che c'è?
“ti ha rimbambito.
“… Che non ramingano più disperate alla ricerca di un mistero
che sole non avrebbero mai trovato…
“rimbambito che?
“… ma adesso hanno dei fratelli da amare…
“Achalananda, scusa se ti interrompo.
“che c'è?
“monaco, dobbiamo passare del tempo assieme. Vediamo di
andare d'accordo.
“tutto a posto, ragazzo.
“monaco, che stavi a fare?
“niente.
“non raccontare balle.
“facevo proseliti.
“proseliti? E come funziona?
“si comincia dicendo al pollo che le sue parole sono sagge.
“monaco, il pollo?
“non fraintendere. È un termine tecnico, per capirci.
“un termine tecnico.
“poi vengono tutte le altre cose del mare e i naviganti. Un effetto
scenico.
“effetto scenico?
“non fraintendere. È che se aspettiamo che il futuro adepto
faccia il primo passo… Che palle. Beata la vita dell'eremita, si
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legge nel Kavrangransgamati. Lassù tra i monti il capo non viene
mai. E perché questa settimana non si è iscritto nessuno, e perché
questo e perché quello. Sperduti tra i monti nessuno vuole
spiegazioni. Un mare di pace, un oceano senza naviganti, stelle che
ramingano per galassie incontaminate…
“ehi monaco, ripigliati.
“a qualcuno tocca il lavoro sporco. Lo faccio per la causa. Se
fosse per lo stronzo del capo…
“monaco, che succede?
“mi tratta male. E poi è un fottuto imbroglione. Io mica volevo
fare il monaco. Guardami, che pezzo di ragazzo. Sotto canestro ero
una forza della natura.
“e come sei finito con i tantrici meditatori trascendenti?
“ero depresso. Avevamo perso la finale del torneo studentesco
contro quelle checche delle Rondini a primavera.
“come vi chiamavate?
“i Topi di fogna.
“dovevate vincere voi.
“grazie.
“non c'è di che.
“mi ero appena ingoiato una mezza boccetta di Prozac quando
sulla panchina del parco si è seduto un tipo vestito di arancione.
Sei triste, mi ha chiesto. Cazzo se sono triste, e incazzato che
spaccherei la faccia a tutti gli zingari che incontro per strada, e
torcerei le alette a tutte le merdosissime rondini che svolazzano
nel cielo blu. E poi…
“e poi?
“e poi è successo. È tutta colpa mia…
“monaco non frignare. Non sei più un bambino. Guarda che
barba che ti ritrovi.
“gli ho detto che non si poteva vincere sempre.
“e lui?
“sono parole piene di saggezza. Potresti essere un buon monaco.
Non lo so, lo ho ascoltato. Forse i primi entusiasmi del Prozac. Mi
ha fottuto. Poi mi ha iniziato.
“come ti ha iniziato?
“non sono affari tuoi. E poi è stato tanto tempo fa.
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“certo che il tuo capo è proprio una gran testa di cazzo.
“ragazzi, scusate per prima, ma sapete, il lavoro è lavoro.
“non è successo niente, monaco.
“un giorno
vedo i titoli
Parananda il
Capirete, con
o l'altro lo faccio fuori quell'essere strisciante. Già
sui giornali: “Strangolato in circostanze oscure
Saggio. Si sospetta crimine di natura sessuale.”
quel maiale lì implicato…
“hai detto Parananda?
“sì, perché?
“statura media?
“sì.
“barba grigiastra?
“sì.
“piedi che puzzano come una discarica?
“è il suo segno distintivo.
“ehi monaco, ma lo sai che lo conosco anch'io?
“non ci posso credere.
“no, è la verità.
“che strano. Nella nostra setta ci sono solo dodici monaci in tutto
il mondo.
“perché dodici?
“il Gran Maestro diceva che dodici gli sembrava un buon
numero.
“monaco, non è stato troppo originale.
“si può sapere dove diavolo l'hai conosciuto?
“è una lunga storia.
Il capitano Zaravakis raccontò del Bengala Express e del
sottobosco. Poi un treno arrivò e se li portò in Turchia.
Achalananda morì, prima di essere riuscito a strangolare
Parananda il Saggio. Il capitano Zaravakis era nel frattempo
ritornato in Italia e passava un pomeriggio noioso e interminabile
con alcune di quelle sue nuove amiche tantriche dello yoga. È che
il telefono gli squillava in continuazione per via dei suoi frequenti
incontri con i monaci arancioni. Era il caldo di luglio dei pomeriggi
che non finiscono. Dopo una buona mezz’ora spesa nella ricerca
dei soliti punti d’energia, gli mostrarono le pubblicazioni funebri.
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Non fecero l’amore perché mancava la congiunzione dei pianeti.
Piccole regole per grandi traguardi. Non più di due volte al mese,
ci voleva tempo per recuperare l’energia dispersa. Parola del
Grande Maestro. Il capitano Zaravakis non capiva bene. L'unica
cosa che credeva stesse disperdendo erano figli futuri sul tappeto
orientale del centro tantrico della meditazione trascendente. La
ragazza grande strappava alla regola delle due settimane e non
avrebbe raggiunto il nirvana ma raggiungeva l’orgasmo quasi venti
volte e voleva fare al cavallino. Il capitano Zaravakis vide la foto di
Achalananda e lo ricordò con affetto. Poi un brivido gli percorse la
schiena, guardò il tappetto pulito e capì che non si trattava di un
orgasmo. Non ancora. Il monaco era stato seppellito in una data
precedente all’incontro tra le rotaie di Pithyon. Disse no, che non
poteva essere morto in aprile perché quando viaggiava verso la
Turchia era già maggio. Ne era sicuro. Ma la pubblicazione parlava
chiaro. Morto e seppellito in aprile. E poi nel centro tantrico lo
sapevano tutti, erano stati al suo funerale. La data era la. Mille
storie di fantasmi che ritornano a visitare i vivi gli avrebbero
riempito le notti a venire. Achalananda aveva quarantaquattro anni
e sembrava vecchio. Morì in maggio, diceva il capitano Zaravakis,
ma forse era morto già.
Adesso è passato tanto tempo. Il capitano Zaravakis dorme
ancora troppo ma non incontra più monaci. Il mozzo vuole fare il
nostromo e la ragazza grande continua a non capire il buio ma con
qualcun altro.
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La terra degli dèi
Arrivò l’autunno e le foglie cominciarono a cadere. Il mozzo
partì. Poi l’inverno freddo delle montagne, con quel vento che
prova a staccare le orecchie. Ma le foglie spuntarono ancora e tu
ragazza, la primavera non la puoi mica fermare.
È il mozzo che c’entra. Perché è il mozzo che mi ha abbandonato
ed è andato in Grecia. Perché il mozzo tra chilometri percorsi su
una Vespa e lunghe soste su piccoli scogli ha partorito il futuro.
Perché è il mozzo che è il protagonista di questa storia.
Non so quando lo abbia deciso ma è successo. Sarà stato il mare
o le notti sotto le stelle di agosto o momenti interminabili in cui
fingeva di pensare per sottrarsi al lavoro. Sarà stato quel viaggio
seduto dietro fino alla terra di Puglia. Io che ne so, io guidavo e
non lo vedevo mai. È venuto settembre e poi ottobre, sono cadute
le foglie e il mozzo è partito per la Grecia. Ne ho perso le tracce
fino all’aprile successivo, quando le foglie ricominciavano a
spuntare e le primavere passavano sopra alle donne belle e alle
ragazze distratte. Poi una nave che solcava i mari mi portò laggiù.
Prima lo immaginavo ma l’inverno era stato suo e anche i mandorli
che fiorivano. Troppo tempo senza poterlo controllare. Una volta
arrivato ad Atene non ci volle molto per farsi un’idea.
Il mozzo consuma l’eroina per la prima volta, di certo non della
sua vita, e non si fa trovare in casa quando un amico dall’Italia
giunge inconsapevole e sudato con una nave dopo aver
miseramente fallito la partenza in aeroplano.
Il mozzo consuma l’eroina per la seconda volta e in attesa
dell’alba vomita da un’altura.
Il mozzo consuma l’eroina per la terza volta e si porta a casa un
greco con il viso pieno di croste che balla sulla terrazza una danza
tradizionale. Un altro greco è in stanza da letto e ben nascosto
fuma l’eroina del greco occupato in terrazza.
Il mozzo seduce una spagnola e si appropria della sua macchina
fotografica.
Il mozzo viaggia fino in Turchia alla disperata ricerca di una
pallina d'oppio.
Poi una nave che solcava i mari mi riportò a Venezia e un treno
che non solcava proprio niente fino alla terra mia nei monti. S’era
fatto giugno e anche l’estate. Lunga della Grecia. Anche il caldo
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era del mozzo soltanto.
Adesso è di nuovo autunno ed è arrivato un compleanno
d’ottobre. L’8. Ottottobre, quello del mozzo. Una donna bella e
distratta mi ha raccontato la magia che può essere di un giorno
d’ottobre che ha in grembo qualcosa di più grande. Diciottottobre.
La donna bella dice di non bastare mai a se stessa. Il mozzo è un
minimale e non ha bisogno delle decine. La donna bella il
diciottottobre ci è nata. Occorre che le cose siano nostre prima che
ci vengano rivelati i segreti. Credo lo sappia anche il mozzo e
magari non lo ha detto a nessuno.
Ragazza, la primavera non la puoi mica fermare.
Mozzo, felice compleanno.
(Scuse a Tom Waits e Katleen Brennan).
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Parte III
SUD
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Storia di uomini e di dubbi
E DI UN GIORNO IN CUI UN VENTO DISTRATTO PORTÒ
MILLE DOMANDE E SI DIMENTICÒ I PERCHÉ. E DI MILLE
CHILOMETRI CHE SONO QUELLI TRA I MONTI E IL MARE
C’era di mezzo un sogno o un’illusione, o magari era l’Italia che
avevamo alle spalle. Davanti il mare e una strada che fu lunga e
che non lo era più. I giorni passati cominciavano a confondersi e
ascoltavo parole che ancora non capivo.
Hai visto gli ulivi e la terra arsa, hai visto il sole che non è un
sole che fa sudare ma riscalda le ossa. E hai visto San Severo e hai
pensato che Andrea Pazienza è sepolto lì. Oggi hai visto proprio un
sacco di cose. Sempre con quelle parole, pesanti come egoismi. Io
davvero non capivo.
Torniamo a viaggiare, in un giorno che è nato strano da un caffè
che non c’era.
Ragazzi mi dispiace ma la macchina dell’espresso non funziona
manca l’elettricità
sto facendo dei lavori
cazzo mi dispiace, ve l’ho già detto, ma guardatevi attorno,
cheddovevofà, chiudere il bar? Caffè freddo, dal bottiglione. Che è
nel frigo che è staccato.
Cazzo un cazzo. Visto che hai i tavolini belli all’aperto ci
fermiamo e mangiamo i cornetti del forno. E poi il succo del
supermercato. Abbandonammo il bar Amigos, l’unico degli Abruzzi
senza il caffè.
I chilometri si lasciavano dietro altri chilometri. Guidavo ormai
da molte ore una Vespa che sembrava non aver bisogno di un pilota
e dietro viaggiava un ragazzo che sembrava aver bisogno di una
Vespa. Diceva parole, poche e pesanti, si chiamava Carlo e faceva il
mozzo. Parlava di quanto può essere piccolo un uomo davanti al
destino e tutti i sogni che gelosi custodivamo dentro ai nostri
bagagli non contavano più. Però c’erano. Le parole resistevano al
vento e alla strada che non volevano portarsele via.
Una notte di agosto capìta uguale a tante altre era calata sulla
terra di Puglia che appariva meno arsa e con Bari alle spalle. Come
spaventata dalle parole del mozzo, la Vespa riprese a scoppiettare.
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Un meccanico avrebbe detto è stata la candela che avete cambiato
in quella specie di area di servizio su strada statale con il caffè a
millelire e l’acqua minerale senza pagare. Ma io non sono mica un
meccanico, e se la Vespa non avesse cominciato a marciare come
Dio comanda ci saremmo fermati per troppo tempo e il mozzo, che
quando non viaggia parla più di un zitella dal parrucchiere,
sarebbe stato libero di proclamare tristezze e fino a quando
qualcuno non mi dimostrerà il contrario la mia Vespa ha un’anima
e perché no una coscienza e magari davvero non era il caso che il
mozzo andasse avanti.
Avevamo dunque superato la neanche troppo immaginaria linea
del caffè, una linea gotica al contrario oltre la quale più a sud ci si
spinge più il caffè acquista un aroma da pubblicità in Brasile e
perde mano a mano le centinaia di lire che numerose aggravano le
mille nelle lande desolate del nordest. Non c’è niente di strano a
stupirsi se si è nati e cresciuti in Trentino. A un uomo dei monti la
terra di Puglia regala sorprese allo stesso modo in cui a un uomo di
Puglia i monti appendono ghiaccioli all’anima.
Ma il mozzo, che è un aspirante saggio, non voleva stare zitto.
Continuava a dire del destino boa constrictor, boa di salvataggio in
mezzo al mare, boa di struzzo che ti regalano e anche se allo
specchio ti vedi ridicolo, ti tocca.
Io che faccio allora in questo mondo? Chiedevo a me stesso e alla
strada, che nonostante alcune velleità poetiche stava zitta come un
mafioso omertoso. E a dire il vero l’idea di avere una risposta non
mi piaceva affatto.
È solo una risposta. Ma una risposta fa pensare. Le domande
fanno pensare più delle risposte. Ma le domande senza risposta
fanno un pensare che anche se non pensi bene è lo stesso, tanto
non c’è una risposta. Forse era meglio così.
Dunque niente risposte in questo mondo di dolore e lacrime. Ad
essere sincero anche di post-adolescenti confuse che solo vedendo
la Vespa si sfilavano le mutandine. Servi necessità, rispondeva il
mozzo, anche se nessuno lo aveva interpellato. Raminghi il mare
acconciato come un frocio per via del boa di struzzo alla ricerca
della boa di salvataggio che è ancorata e mica ti viene a cercare
lei, se proprio qualcosa ti viene a cercare quello è il boa constrictor
e allora sì che son cazzi. È che come saggio aveva ancora molto da
lavorare. Perché se riesci a farlo, necessità ti regala di farlo
ancora, ti regala un altro boa di struzzo, direbbe nei momenti di
estasi poetica, e ancora, e una volta in più, e ti si riempie l’armadio
di piume. Ti accorgi di come necessità sia strumento del destino, è
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l'unica salvezza, è la boa in mezzo al mare. E il boa constrictor? Se
non si fa vedere lascialo lì dove sta.
Rimanevo lontano e non volevo ascoltare. Mancava qualcosa. Del
mozzo non mi fidavo e la strada non sapeva o se sapeva non
parlava. Ma il mozzo non smetteva di raccontare di un uomo
buttato a destra e a sinistra dai capricci del cielo, chiunque ci viva.
Eccolo il rettile. Lo capiva. Perché un nome di donna che non c’era
più suonava ancora troppo forte. E c’era dell’altro, di più grande.
Ci credeva.
I chilometri si facevano posto nella memoria. Non lo volevo
lasciare solo quando consegnava alle parole quello che alle parole
doveva essere dato. Primo scoglio, che fa Puglia, è che parlo con le
mani, e se arrotoli una sigaretta ti aspettano ma se guidi una moto
no. Hai detto che non aveva bisogno del pilota. Ho detto sembrava.
Non prenderlo così alla lettera perché credo il segreto è tutto lì.
Allora racconto anch’io, che sono, più codardo di un mozzo
aspirante saggio? È che veniva tutto facile, perché una voce di
donna che forse non c’era più sussurrava ancora sogni lontani. Di lì
a poco sarebbe scappata con il figlio di una scrittrice famosa e
avrebbe cominciato a masturbarsi. Ma questa è un’altra storia.
Volevo per me più cose, davanti al(la) boa e al mozzo che
suggerivano necessità. Non avevo le forze per credere a quelle sue
parole pesanti che non volevano andare via. Un mostro che
digeriva eventi e persone, come se nulla fosse. Era forse questo
che mi aspettava? È che il mozzo era proprio stanco.
Notte e chilometri e cartelli blu che ci dicono Monopoli più
vicina.
“che pensi degli eventi-ombra?
“mozzo, cos’è un evento-ombra?
“la parte di luna che non si colora mai.
“cos’è che non si colora?
“attento, quando succede qualcosa c’è sempre qualcosa che
sarebbe potuto succedere ma non è successo perché la cosa che è
successa è un’altra.
“mozzo, ci hai messo trent'anni per capire che se fai una cosa
non può farne un’altra?
“il concetto è più profondo. L'evento ombra rimane nascosto non
so dove ma influenza il normale svilupparsi degli eventi futuri, che
alla luce dei fatti non è poi così normale, dato che qualcosa che
non è successo determina quello che succederà.
63
“dici un sacco di stronzate.
“è facile per te, guidi, fai il capitano, è un lavoro che ti obbliga a
pensare. Io no. Io sto dietro e mi rompo i coglioni.
“e la magia del paesaggio?
“passa dopo dieci minuti.
“e le fighe per il lungomare?
“la testa rimane libera e posso pensare più profondo.
“sai che penso io?
“che?
“che come saggio farai vomitare. Sei più bello come mozzo.
I chilometri e la strada suggerivano silenzi che sembravano
risposte ma volevamo attese. Il rumore delle parole non lasciava
ascoltare niente. Smettemmo i nostri goffi tentativi per capire un
destino la cui unica certezza era che poco somigliava ai nostri
sogni. I chilometri e la strada sussurravano cicale e vento. Tra
taralli e trulli ancora non capivo.
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Storia di ricordi, di speranze e di svedesi
INTRO
“c'era una volta una Vespa piena di bagagli e speranze. Scendeva
dai monti di Trento fino alla terra di Puglia, tra cicale e fichi
d'India. Ti piace?
“a chi vuoi che importi la storia del mozzo e del capitano
Zaravakis?
“senti quest'altra. Vorrei un filo che metta le parole affianco
come perle di collane.
“come ricordi.
“non lo so se ci metto i ricordi. Sanno tanto a nostalgia. Magari
avventura. L'avventura funziona.
“i ricordi sono importanti. Servono per costruire le speranze. E
senza speranze non c'è avventura.
“e questa? È tutta una bugia e magari ha ragione l'accattone o la
voce del vagabondo che dice la vita un susseguirsi fugace di attimi
che fra loro ci azzeccano poco e mai come sembra. Quando
pronunci parole che ricordano il tempo che scorre lui sorride e non
parla ma direbbe che il tempo è un po' come se piovesse, ma ti
lascia andare, perché vede la tristezza che porti che è già troppo
grande.
“è melodrammatico e non si capisce niente. Potrebbe funzionare.
Quello che mi preoccupa è il poco rilievo che attribuisci al tempo.
Guarda che il tempo è importante, serve per mettere a posto i
ricordi.
“dovrebbe generare un dubbio sulla sua presunta linearità.
“sì, ma senza il tempo non si può.
“l'idea è questa. Il passato non esiste, esiste solo un continuo
presente. Il passato è un presente che non c'è più. E il futuro è un
presente che non è ancora e quando sarà, sarà presente. Come si
può dargli addirittura un nome?
“guarda che dai ricordi non ci si libera e il futuro prende le
sembianze di un coccodrillo che aspetta con la bocca aperta,
magari solo per sbadigliare annoiato perché il suo momento non
arriva mai, ma come esserne così sicuri?
“è una fregatura, non si può mica sapere. È che non posso
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lasciare il lettore con queste inquietudini. Bisogna pur dirgli
qualcosa.
“in ogni modo meglio così. Se il passato è passato e se il futuro
non esiste, credimi, alla fine è meglio. Stai raccontando la storia
del mozzo e del capitano Zaravakis e il passato di questi due non è
certo dei più lusinghieri e un futuro non ce lo avranno mai.
LA STORIA DEL MOZZO E DEL CAPITANO ZARAVAKIS
MOZZO:
Viaggiavamo per una strada piovosa e in Puglia non ci
eravamo ancora arrivati. Il capitano Zaravakis guidava la Vespa in
mezzo al temporale, quando un automobilista con il culo molle e
riparato dal vento ci affiancava e ci sbeffeggiava e prendeva di
mira una pozzanghera tanto grande, tanto scura, che questa storia
la potrebbe intitolare “Storia di ricordi, di speranze e di
pozzanghere”.
C. ZARAVAKIS:
Il mio prode e fedele mozzo è costretto ad affrontare
la tempesta con un calzino inzuppato di rabbia. All’orizzonte
nuvole nere e una sagoma di uomo al caldo su cui cala la
lontananza.
MOZZO:
Alle spalle ci eravamo lasciati tante cose. La strada dai
monti di Trento a Monopoli era lunga e i ricordi si accumulavano
come legna per l'inverno. Pronti per essere usati.
C. ZARAVAKIS:
Ma non ancora, la Vespa Piaggio regala vento in
faccia e speranze e per i ricordi non c'è posto.
MOZZO:
Proseguimmo, che era soltanto pioggia, e non sarebbe
stato un cacasotto che quando piove esce in macchina a fermare i
drogati in ferie.
C. ZARAVAKIS:
Poi ha preso il mozzo. È che non abbiamo fatto
ancora un cazzo di strada e siamo già fermi, in una specie di
galleria quadrata che potrebbe essere come sotto a un ponte o un
viadotto ma sopra non si sente nulla e cosa ci sia davvero non
importa a nessuno. Il mozzo arrotola uno spinello di pakistano che
non aspetta altro che essere acceso e magari un nome. Si chiamerà
pakistan dream. Bum Shankar.
MOZZO:
Rimanemmo intorpiditi e affascinati, circondati da
scatolame e profilattici di altri e da quella complicità con la
decadenza che una resina vietata dalla legge può dare. Macchine e
camion venivano dalla pioggia, bagnavano un pezzo di strada che
non lo era e alla pioggia ritornavano.
C. ZARAVAKIS:
Se solo arrivasse una puttana. Per ripararsi un po’.
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Perché questa galleria quadrata aperta ai lati è posto proprio da
puttane. Potrei abbandonarmi al fascino suo che è l’angelo, sorella
di tutti gli uomini stanchi che attraversano la notte, che sono
spaventati a camminarla ma vanno perché è così. La madre di tutte
le cosce che ho dormito, ma più sincera, che non sei niente te lo
dice prima e poi ti lascia con il dubbio magari di aver mentito.
MOZZO:
Il capitano Zaravakis era un romantico patetico da
quattro soldi, ma nonostante questo nessuna puttana arrivò.
Arrivarono invece e di continuo un sacco di negri, dentro e fuori da
una casa giusto all’uscita della galleria. O all’entrata. Dipende da
che parte si guarda. Anche lo spazio è importante. Un via vai
continuo formicolare di sguardi testa di moro che lo spinello di
pakistano aveva dipinto in un mercato di Khartum, tra stoffe
zafferano e fiori di ibiscus. Altri negri se ne andarono lontani con
una Duna bianca che somigliava tanto alla decadenza di un regno
antico.
C. ZARAVAKIS:
Il rombofiat mi riporta bruscamente alla vita e il mio
saggio mozzo ricorda che il clima è brutto e ostile all’eroina che già
da un po’ si sarà appallottolata in una pasta inutilizzabile. Altro che
polvere. In rimedio propone un secondo spinello da consumarsi di
fronte a un manifesto che pubblicizza mezzi futuribili che ne
stritolano altri in uno spettacolo per segaioli che si sarebbe svolto
di lì a poco ma un anno fa. Entri solo se hai le occhiaie.
MOZZO:
Era il momento di partire, ma il sottoponte che ci aveva
fatto da casa cominciava a piacere e stare immobili somigliava
tanto ai ricordi. Scambiavamo parole e io ridevo quando il capitano
Zaravakis accennava al giorno che era appena il giorno prima ma
che sembrava tanto lontano, magari solo per i chilometri. Diceva è
la tua ossessione per i ricordi a darti sorriso tutto ebete, forse è
stato il sogno venuto dall’oriente e forse rimarrai così per sempre e
un giorno potrò chiederti come hai fatto. Il ricordo ci abbracciava e
ci scaldava e asciugava il calzino bagnato. L'immobilità suggeriva
ricordi così come il movimento regalava vento in faccia e speranze.
C. ZARAVAKIS:
Ma adesso si va, giù verso Forlì, città di un'amica
sua e un'amica mia, che portano lo stesso nome e non si
conoscono. Che avremmo voluto amare ma non abbiamo chiesto.
MOZZO:
Il capitano Zaravakis salutò negri e puttane immaginarie
e chiese alla Vespa di andare. Direzione sud-sudest, con il sole in
faccia del primo mattino e suo promettere cose. Ma era la pioggia
la nostra compagna di viaggio e anche un po' il pomeriggio, ma era
bello immaginarci così.
C. ZARAVAKIS:
Piove ancora, però adesso c’è una meta. Facciamo
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rotta sull’Antica Terra della Libertà, la Repubblica di San Marino.
Un punto di Italia che Italia non è, anche se le assomiglia tanto. Su
e giù per stradine che sanno di Appennino e che sono belle, ma
uomo dei monti, quando la strada sale, la memoria pedala mitici
pendii sconfitti da eroi in bicicletta, volti scavati dalla fatica e dal
dolore che pagano il prezzo per lo spettacolo di dolomia e
ammonite a cui assisto, perché vedono nero soltanto ed è giusto
che qualcuno guardi e capisca per loro. La rocca di San Marino
invece è bella. Non datemi la colpa, generazioni di scolari a cui
hanno insegnato che le Alpi e gli Appennini sono la stessa cosa,
che anche il Gran Sasso è un ghiacciaio e che se sono più bassi è
perché non lo so, l’ho dimenticato, quasi a dover trovare una
giustificazione.
MOZZO:
Il cielo era sceso che non lasciava spazio alle montagne.
Continuava a piovere e con la pigrizia dell’estate il pomeriggio si
stava facendo sera. Di lì a poco avremmo dovuto cercare una
strada sterrata e dimessa, trovarla, inoltrarci in un bosco e cercare
un posto il meno ostile possibile per passare la notte. Ma la pioggia
continuava incessante. Il capitano Zaravakis parcheggiò la Vespa
nascosta da fronde verdi, in una piazzola con vista su casa
colonica.
C. ZARAVAKIS:
Eseguiremo un rito propiziatorio per il tempo che
piove. Chiedo al mozzo gli strumenti. Carta stradale plastificata,
tessera del Politecnico di Milano, tagliaunghie, banconota
arrotolata. Come il mozzo preveggeva, l’eroina è compatta in un
bolo che sembra una palletta di merda di quelle che gli scarabei
stercorari (Geotrupes Stercorarius) spingono per casa.
MOZZO:
Poco male, ma era meglio la polvere. Al capitano
Zaravakis toccò dividere la palletta in due pallette che lui diceva
uguali, e sotto gli occhi attoniti della famiglia agreste annusammo
la morte.
C. ZARAVAKIS:
Ripartiamo. La Vespa sale una rocca e le nuvole il
cielo, per noi calore e comprensione, cervelli permeati da uno
strato di silenzio e speranze dal retrogusto amaro.
MOZZO:
Sulla salita di San Marino mi sembrò di vedere un ragazzo
anche lui dei monti che ha i capelli pitturati di rosso da quando la
Ferrari vinse il primo campionato dell’era teutonica. Lo chiamano
Jean Alesi, che era quello simpatico che non vinceva un cazzo,
perché il ragazzo dei monti è un eroe triste un po’ alla maniera del
franco-siculano. Un perdente. Respirava il piombo delle Formula
Uno quando ancora i piloti capivano la lingua che si parla a
Maranello. Andò all’autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, gridò
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per le rosse e ritornò senza l’autoradio. Un amico del capitano
Zaravakis.
C. ZARAVAKIS:
Un giorno lontano, nel paesino tra i monti, lo visitai
a casa sua dove vive con tutta la famiglia. Mi aprì la sorella. Non
c’è nessuno, mi disse, la nonna si stava indurendo e sono andati
tutti a vedere come sta. Poco preoccupata per le sorti dell’antenata
mi sbottonò i pantaloni. Anch’io mi stavo indurendo. Forse era
un’epidemia. Non si era tolta nemmeno lo sperma dal viso quando
mi disse vieni a vedere le foto che mio fratello ha nascosto dietro ai
libri in fila sullo scaffale. Un posto da perdenti. La fidanzatina si
faceva leccare in mezzo alle cosce da un cane deforme. Colpo di
clacson, perché a lui piace essere salutato così.
MOZZO:
Se solo sapesse della sosta all’autodromo di Imola
nemmeno ventiquattrore prima, seduti lì dove depositano il culo
quelli importanti, quelli che inzaccherano i motovespisti.
C.
ZARAVAKIS:
perché anche noi ci siamo fermati allo stesso
autodromo ma non ci hanno rubato niente. Forse perché era vuoto.
MOZZO:
Seduti sulle tribune giusto davanti all’arrivo. O alla
partenza. Dipende dal momento in cui si guarda. Il tempo è
importante e condiziona lo spazio. Fummo spettatori di uno di quei
tramonti che fanno rabbrividire i romantici e dubitare i
miscredenti, con un sole arancio che spariva dietro alle colline di
Imola. Se solo sapesse, ma è una storia di ricordi e penserebbe alla
sua autoradio e magari lui sta bene così.
C. ZARAVAKIS:
Se solo sapesse delle foto.
MOZZO:
Trascorremmo il pomeriggio tra le viuzze della Città della
Gioia Eterna, senza entrare al bastione perché volevano un sacco
di soldi e perché entrambi lo visitammo quando avevamo circa otto
mesi. Pedonammo così le zone consentite ai poveri, che guarda il
caso erano piene di negozi perché guarda il destino la Città
dell’Amore Universale era anche un portofranco.
C. ZARAVAKIS:
Medito giustizia. Il mozzo arrotola uno spinello tra
mille turisti sdegnati e mille invidiosi. Il rito propiziatorio per il
tempo che piove funziona e fumiamo sotto un sole a tratti per
tenere alta la fattanza. Funziona anche questo. Mi accorgo di una
famiglia scandinava in vacanza e delle due ragazzotte al seguito,
forse nemmeno sorelle, diciamo la figlia e Ingrid, l’amichetta. Non
è il primo incontro, ricordo tutti al bastione, che entravano, e si
dicevano nella loro lingua difficile che l’Italia costa un cazzo, che
con lo stipendio di ingegnere alla Volvo potrebbe pagare l’ingresso
a tutti i poveri del Sudeuropa, che loro hanno inventato il tetrapack
e i Vichinghi arrivarono in America molto prima dell’Italiano e
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ormai tutti lo sanno ma nessuno cambia la data. Gli faccio sapere
che la Svezia potrebbe anche sprofondare con tutti i suoi abitanti,
tranne Ingrid, che indossa un pantalone verde aderente che non ce
la fa a coprire le forme di quella cosa così bella che le donne
utilizzano nei modi più disparati. Le si pianta in mezzo alle cosce
creando l’immagine di un fiore che sta per sbocciare. L’altra non la
filo perché è gobba e quando ride sembra un mulo. Deve essere la
figlia. Se proprio vuole, il mozzo. Lancio uno sguardo al vichingo
dei miei coglioni e sento i postumi di la vecchia epidemia di
indurimenti. Regalo il tutto alla curiosità della piccola Ingrid, tra
mille turisti invidiosi e mille turiste in visibilio tipo concerto degli
U2. Lui fa finta di non capire ma fa sapere che difenderà sua figlia
fino alla morte. Gli mando a dire che sua figlia non se la fanno
nemmeno i maniaci ma la voce del mozzo mi riporta a un mondo di
dolore e pietra, chiede lo spinello e se ho visto quanto è graziosa la
ragazzina crede svedese. Peccato, dice, che quando ride alza un po'
il labbro. E anche per la schiena curva.
MOZZO:
Ma non c’era nessun posto per vomitare e poi il capitano
Zaravakis si era finto assorto in non so quale pensiero e si era
fumato quasi tutto lo spinello. Ripartimmo a pedonare il pedonabile
e per capire dove bastava seguire bancarelle e negozi.
C. ZARAVAKIS:
Davanti a una rivendita di coltelli trovo una fontana
e il proprietario della prima si fa sotto al mozzo che fatto potrebbe
anche comprare, che mi aspetta mentre libero il naso aspirando un
po’ d’acqua per sciogliere quello che si può. Aspetto anch’io, il
proprietario della seconda a lamentarsi. Che pensi, di poter
aspirare la mia acqua così come ti pare, brutto stronzo di un
drogato? Ma forse la fontana non ha un proprietario e il mozzo mi
invita a una passeggiata gratuita lungo le mura.
MOZZO:
Arrivammo così in un posto incantato e subito demmo
riposo a corpi stanchi di trecento metri di salita e di affronto alla
gravità. Si vedeva tutto lo strapiombo della rocca, luogo ideale per
un suicidio panoramico, dal piccolo nostro angolo di Medioevo. Il
prezzo lo avremmo presto scoperto. Il cantuccio epico era
sovrastato da una specie di belvedere per soli spettatori paganti.
C. ZARAVAKIS:
Poco curante del pubblico compare quello che resta
della palletta d'eroina, e ben presto i nostri nasi ribolliranno di
dolore perché il taglio è cattivo e poi la Città dei Truffatori tornerà
Città dell’Amore ma un po’ meno Universale, perché siamo già fatti
e la seconda serve a poco ma per quel poco si fa qualsiasi cosa.
MOZZO:
Il lavoro era complesso e umido, e poi un occhio alla torre
dei paganti e uno al sentiero.
70
C. ZARAVAKIS:
che fa quel signore con una banconota arrotolata nel
naso? Un’altra volta gli scandinavi, quando ancora respiro
l’affanno per non vomitare. Lui guarda come poco prima guardava
lo spinello contestualmente affine. Respira uguale a me ma per la
salita e smadonna nella sua lingua complicata perché causa il
nostro posizionamento ha perduto il belvedere sullo strapiombo e
doveva fotografare vallate verdi e rocche rivali, per mostrare agli
amici che sì l’Italia, ma non erano mica i fiordi.
MOZZO:
Al capitano Zaravakis non importava. Pochi metri ancora
e sarebbe arrivata la cosa più bella che aveva regalato la Città
della Fattanza Eterna. Con la sua padroncina ad accompagnarla.
C. ZARAVAKIS:
I pantaloni verdi si infilano a ogni passo. Il vichingo
ci è ostile. Dice alla truppa che visto che sono in un bel posto, loro,
tutte in posa per una foto ricordo. Lo stronzo inquadra un po’ di
qua e un po’ di là e si accorge che se mette la macchina in piedi e
prende solo il mezzobusto ci sta anche la torre e un poco del cielo,
anche se non è azzurro come quello di Svezia. Che cazzo ci sarà
poi da vedere in Svezia? E i fiordi sono davvero lì? Il mulo va
contronatura perché non ha nemmeno un bagaglio e sorride.
Sorride anche la mamma e se ne intuisce la parentela. Un attimo
così che il fuoco è buono e sotto all’obiettivo accade. Una mano
bianca polare artica scivola fino ai pantaloni verdi e cerca sotto
alle mutandine sudate di calore e adolescenza. Sento l’aria che si
profuma anche se sto a dieci metri e ho nel naso una mistura di
eroina, veleno per topi, pastiglie per dormire e fertilizzante. Ingrid
si annusa, con tutta la grazia dei suoi tredici anni. Si ode il click
della foto. Ecco, un’altra volta con le dita nel naso! Come te lo devo
dire che non sta bene?! Baci allo stronzo.
MOZZO:
Abbandonammo SanMarinoCittà dopo il furto di un
candelabro che il capitano Zaravakis avrebbe regalato a una
rompicoglioni africana che l’Africa ce l’aveva ancora negli occhi e
mai più sulla pelle. Storie di ricordi. Si sarebbero visti di lì a pochi
giorni lungo i moli di Ancona e mica la poteva accogliere a mani
vuote, la troia. Storie di speranze. Ma nonostante la pigrizia
dell’estate, il pomeriggio era riuscito a farsi sera e pareva tenere
programmi notturni. Cercammo una strada sterrata e dimessa, ci
inoltrammo in un bosco e arrivammo a uno spiazzo d’erba
circondato da alberi che avevano secoli. Era un posto incantato.
L’indomani mi sarei incontrato con un aspide. Cacando. Indifeso.
C. ZARAVAKIS:
Sfornello un riso al tartufo in busta e intimo al mozzo
di arrotolare con solerzia e costanza. Verso, giro e rimescolo,
aggiungo acqua che se ne va dal tegame in una nuvola di vapore e
ogni tanto sbircio perché ho voglia di fumare ma dello spinello
71
nessuna notizia. Lo vedo operoso, prima con l’accendino, poi con
un filtro, poi cerca un pacchetto di cartine e le sigarette l’ho visto
che una l’aveva già aperta. Operazioni sconnesse ma cazzi suoi se
non prepara le cose prima. Dello spinello nessuna notizia. Chiedo
ragioni del consistente ritardo e lui armeggia con un filtro e perdo
le speranze. Poi risponde che se voglio fumare non c’è problema,
che ne ha già chiusi tre.
MOZZO:
Solerzia e costanza le interpretai così. Se non mi avesse
fermato, sarei ancora nei Reami dello Sballo Eterno a chiedere
cartoncino ai passanti e il capitano Zaravakis non avrebbe nessuno
da andare a trovare in Grecia.
72
Il viaggio
[Era l'anno del signore 200x e lo scritto venne presentato a un
concorso di racconti, sezione narrativa di viaggio. Sigillato e
spedito con uno pseudonimo, pagata una quota di iscrizione.
Passavano le settimane e di buste affrancate con dentro una
risposta nemmeno l'ombra. Tante buste affrancate erano già
arrivate ad altri amici di chi scrive: “Ringraziamo per l'eccellente
racconto. Considerato l'alto livello degli scritti giunti in redazione,
considerato il competente lavoro di analisi svolto dai nostri
redattori, pur pieni di dubbi ma obbligati a una decisione, siamo
spiacenti di comunicarLe che il racconto intitolato xxx non è stato
inserito nella lista dei premiati. La ringraziamo ancora per la
collaborazione e Le ricordiamo che, secondo regolamento, i diritti
d'autore appartengono adesso alla Fondazione xxx, registrata
presso la Camera di Commercio di xxx, Italia. Le ricordiamo che,
sempre secondo regolamento, il racconto potrà essere pubblicato
in riviste o inserito in antologie, senza previa comunicazione. Per
ogni contenzioso potrà rivolgersi al nostro ufficio legale e in
seconda istanza ai nostri gorilla. La ringraziamo davvero per la
collaborazione”.
Tante buste affrancate erano già state spedite. Ma non a chi
scrive. Lui aspettava e non aveva risposte. Poi una busta arrivò. “Ci
scusiamo per il ritardo. La vogliamo informare che, previa riunione
plenaria del consiglio editoriale, abbiamo ritenuto opportuno
restituirLe copia dello scritto e quota d'iscrizione, in quanto il
racconto intitolato IL VIAGGIO è stato giudicato contrario allo
spirito
etico
del
concorso
e dunque irrimediabilmente
impossibilitato a partecipare. La redazione.” (N.d.A.)]
CASA ZARAVAKIS. MATTINA DELLA PARTENZA
“sarà come una storia di uomini e di mare.
“mozzo, che vuol dire?
“vuol dire che lungo la strada incontreremo uomini e arriveremo
fino al mare.
“basterebbe che ne esca il materiale per scrivere un racconto.
“quel concorso a cui partecipi ogni anno e che non vinci mai?
“sì mozzo, proprio quel concorso.
73
“perché non lasci perdere?
“ci sarà il materiale?
“ci saranno porti, marinai che vengono da paesi lontani, uomini e
donne che camminano lungo i moli.
“mozzo, l'immagine mi piace. Ma chi camminerà lungo i moli?
“che impaziente, non siamo nemmeno partiti. E poi, caro
capitano Zaravakis, questo lo devi vedere tu. Non posso mica farti
tutto il lavoro. Per chi mi hai preso, per il tuo aiutante?
Il capitano Zaravakis tolse la banderuola che occultava il motore,
quel misterioso ammasso di ferraglia organizzata di cui ne aveva
sempre ignorato il funzionamento. Decise che tutto stava al posto
che si era meritato. Appese una coccinella al parafango anteriore,
così, per esorcizzare un po' la sfiga, perché se mai si fosse
presentato un guasto, la Vespa Piaggio del 1963 sarebbe rimasta
parcheggiata proprio lì dove aveva smesso di camminare.
Al mozzo balenò l'idea di un elenco degli oggetti irrinunciabili.
Avrebbero scoperto che mancava qualcosa di importante e ormai
era tardi per recuperare. La partenza immineva.
“mozzo, invece di tutte queste stronzate potresti darmi una mano
a fissare bene la coccinella.
“non lo vedi che sto pensando? Non mi disturbare. Poi ci
troviamo in fondo all'Italia e ci manca una chiave a pipa.
“cos'è una chiave a pipa?
“non lo so di preciso, però mi hanno detto di portarne una.
“e il resto?
“c'è tutto. Manca solo il kit da viaggio.
“mozzo, il kit da viaggio è sparito.
Il mozzo impallidì e si scordò per sempre della chiave a pipa.
IL KIT DA VIAGGIO DEL GIOVANE DROGATO
grammi 2 di charas
Chàras /t∫a’ras/ s. f. ●resina cannabinoica proveniente dalle
vallate himalayane dell’India nord-occidentale, ottenuta mediante
la pressione e lo sfregamento dei palmi delle mani sui pistilli delle
infiorescenze.
grammi 2 di pakistano
Pakistàno /pakis’tano/ s.m. ●qualità di hashish assai diversa
74
dalla precedente, anche se la vicinanza del luogo d’origine
potrebbe trarre in inganno. Ma siate seri, avete mai pensato di
somigliare ai vostri vicini di casa? Noto al mozzo e al capitano
Zaravakis come pakistan dream.
grammi 2 di super skunk
Super skunk /’super skлηk/ s. f. ●marijuana che provoca il mal
di testa.
grammi in abbondanza di caramello
Caramèllo /kara’m≥εllo/ s. m ●non pervenuto.
grammi
busta trentina contenente eroina del tipo brown sugar
Eroìna /ero’ina del ‘tipo braun ‘∫ugэ/ s. f. ●donna di virtù eroica,
dolce ma turbata e fosca.
busta bolognese contenente eroina del tipo brown sugar
Busta bolognese /’busta boloŋ’ŋese/ s. f. ●ovulo acquistato nei
pressi della stazione ferroviaria di Bologna Centrale. Ma non stai
anticipando il viaggio? Sì ma l’ovulo andrà poi a far parte della
dotazione. Stai cercando delle giustificazioni? Sto solo cercando di
dare al lettore una panoramica completa. Ma stai ancora
raccontando della partenza. E il trascorrere del tempo? E la
consequenzialità degli eventi? Hai mai provato l’eroina?
Tutto ben riposto in una scatoletta graziosa di latta offerta dalla
Liquirizia Amarelli Amarelli sas Fabbrica di liquirizia 87068
Rossano Scalo (CS) Italy. Mi vedo costretto a un flashback. Così
interrompi la storia. Il flashback è permesso e il lettore ha diritto di
sapere.
L'INFANZIA
E chi se la dimentica più quella sensazione di veleno che entra
nel sangue quando si perde qualcosa a cui si era davvero
affezionati? La mente crudele di bambino era corsa ai ripari e
aveva intuito la presenza di un luogo misterioso che itinerava per
la casa, cercava e raggiungeva gli oggetti più cari e li
smaterializzava, per poi ricomporli in una specie di dimensione
parallela. La mente crudele di bambino arrivava a una sorta di
giustificazione cosmica. Il capitano Zaravakis lo aveva pensato per
anni, ignorando la somiglianza un po’ sospetta con la teoria
spaziale dei buchi neri.
75
L'ADOLESCENZA (PROTRATTA BEN OLTRE I LIMITI DEL
CONSENTITO)
L’estate di luglio riscaldava pensieri e corpi e mamma e papà
Zaravakis stavano come ogni anno fuori dai coglioni in fondo alla
Puglia. Lui pieno di responsabilità. Spegni sempre il gas, non ti
addormentare con il forno acceso, non invitare i tuoi amici, che
non ci piacciono. Non importa se vengono anche se non li inviti,
non aprire.
Poi le responsabilità eludibili, gli esami accumulati
procedevano al ritmo del bradipo nella stagione degli amori.
che
Quante volte si accoppia un bradipo? A volte nessuna. Il
corteggiamento avviene durante la stagione delle piogge. Bisogna
stare fermi, e il bradipo maschio che non si sposta di un centimetro
è il più affascinante. Le femmine muoiono di eccitazione vedendo
quegli stracci vecchi appesi ai rami che nemmeno il vento può
muovere. Anche gli stracci appesi vivono uno stato di costante
eccitazione sentendo nell'aria il richiamo d'amore. A volte, forse
distratti dal subbuglio ormonale, forse traditi dai rami bagnati,
alcuni esemplari cadono e muoiono per il colpo. A volte no. Ma il
problema vero nasce quando la femmina ha deciso. Come la gran
parte delle femmine del regno animale ci mette un po’. Nel
frattempo, per una sorta di miracolo dell’oblio, l'impulso iniziale
all'accoppiamento scompare dai pensieri del bradipo maschio, che
quando arriva il momento già si trova in una fase di totale estasi da
riposo. Quella che doveva essere una strategia è divenuta l'essenza
più intima del bradipo. Il mezzo si è calcificato nel fine. Il bradipo
non si muove e se disturbato diventa aggressivo. Il bradipo
dominante assomiglia a un’asceta anche se il cammino spirituale è
stato un po’ diverso. Alla femmina non resta che dirigersi verso i
maschi meno affascinanti, quelli che non riuscivano a stare fermi,
quelli che non sono caduti dall'albero, e la femmina non sembra
andare troppo per il sottile, sembra non conoscere la problematica
dell’orgoglio. Ma la stagione degli amori è terminata e se ne
riparlerà con il ritorno delle piogge. I mediocri volevano ma non
hanno potuto, i migliori non hanno fatto un cazzo, ma sono grati al
destino per aver salvato la pelle. Causa-effetto: la ricerca della
serenità interiore condicio sine qua non per un'attività che
assomigli un po' allo studio, può generare effetti collaterali.
Conseguenza: terminare l'università in ritardo è un fenomeno della
natura.
L'estate di luglio continuava a riscaldare pensieri e corpi. Poi
festa reggae. In una località ricca del nordest.
76
Musica, poca perché è piovuto, tanti spinelli e un po’ di allegria.
In quel luogo della perdizione il capitano Zaravakis acquistò buona
parte del contenuto dell’Amarelli di Rossano Scalo.
Io poi
che non ho da fare un cazzo
più mi dedico al sollazzo
più di gioia mi esco pazzo.
Dimitri Zaravakis
Qualche giorno a casa e secondo fine settimana reggae. Partenza
nuova per il loco medesimo dell’oblio ma con differenti compagni e
questa volta compagne e belle. Con molta musica, perché è piovuto
ma porcoddio non durante i concerti, tanti spinelli e un po’ di
allegria, che sembra essere il nomignolo affibiato alla sorella di
una bella al seguito. Non chiedetevi perché. Chiedetelo a lei, se
non sta rimuginando sulle sfighe della vita vi risponderà. Poi
l’imponderabile. Prima parte dell’imponderabile: un inconveniente
decretò il rientro anticipato di mamma e papà Zaravakis.
Riflessione: la Puglia non era poi così lontana. Seconda parte della
riflessione: cos'è che fa cadere un bradipo?
I fine settimana reggae finiscono e grazie al cielo finirono anche i
suoi. Ritornò al paesino tra i monti e, seconda parte
dell’imponderabile, l’Amarelli era sparita. Sì, sparita. Perché non
l’aveva mica portata con sé, stava saggiamente riposta in chissà
quale buco della casa solo sua per un po’. Saggiamente? Sì, perché
ritornava in una località ricca del nord-est dove erano più gli
spacciatori degli spettatori paganti. Con i soldi che mamma e papà
avevano lasciato un po' perché non si sa mai. Saggiamente un cane
morto per strada. Non lo poteva sapere, non era ancora successo.
Hai visto la consequenzialità degli eventi? E il trascorrere del
tempo? Addebitò l’accaduto alla malasorte, o ai sempre più
frequenti scherzi della memoria, non ricorda, e tutto preoccupato
cominciò a cercare una scatoletta di latta che mica si lasciava
trovare. Perdurava un avvilente stato di angoscia. Il giorno dopo
seppellirono suo nonno.
Partecipò alla messa per non destare sospetti. Una luce colorata
e bella entrava dal rosone della chiesa sul colle dei funerali e
all'improvviso ricordò l’entità (stra)vagante che trasferiva gli
oggetti. La giustificazione cosmica si portò via l'angoscia. Al
peccatore veniva restituita la serenità perduta, ma che volevano in
77
cambio? Pensò alla fortuna impronunciabile di chi l'avesse aperta
la sua scatoletta, perché se una forza misteriosa trasferisce ci sarà
anche qualcuno che trova. Gli augurò un’epatite. Pensò a suo
nonno che ancora non stava sotto terra e già cominciava a lavorare
dall’aldilà per alleviare le sofferenze a cui sono costretti i vivi e
nello specifico il suo caro nipote. Essere morti non doveva essere
poi così brutto se un egoista come suo nonno si era già messo a
fare qualcosa per gli altri. Forza nonno.
CASA ZARAVAKIS. MATTINA DELLA PARTENZA
“coglione di un capitano Zaravakis. Cazzo facciamo senza il kit?
“non è colpa mia. Non è che tutti i giorni ti muore un nonno.
“questo non c'entra.
“hai ragione. Sai cos'è stato? la cosa che smaterializza gli
oggetti.
“non dire stronzate. È una scusa da bambino o da scienziato
disperato che non sa più cosa pensare. Non siamo nemmeno partiti
e possiamo già tornare.
“ci rifaremo lungo la strada.
“io così non vado da nessuna parte.
Arrivò un signore di mezza età, alterato come poche volte si era
visto nella vita. Urla, insulti e minacce. Il tutto corredato da un
campionario di bestemmie degno dei migliori esperti nel settore.
“e tuo padre che vuole?
Il capitano Zaravakis non capiva. Guardò la Vespa carica ormai e
pensò poco male, tanto vado a Sud.
“mozzo, non lo ha mai visto così.
“che hai combinato?
“io? Niente.
“qualcosa avrai fatto.
“tu che pensi?
“e se avesse trovato il kit?
“impossibile. Una volta smaterializzato non si recupera più.
L’Amarelli era miracolosamente riapparsa in casa Zaravakis,
esaminata con cura e gettata in un cassonetto della spazzatura.
Servivano vestiti adeguati, perché l’Amarelli si andava a cercare. È
vero che un cassonetto pieno di immondizie fa schifo. Tante cose
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sono vere. Tante cose fanno schifo. Quando arriva la stagione delle
piogge il bradipo bagnato prende un odore nauseabondo che non
ha molto in comune con il richiamo d’amore.
Si diceva che gli omini della nettezza urbana fossero svogliati e
pigri. Proprio non ci assomigliavano a quello Stakanov che da solo
faceva come una catena di montaggio. Che detto tra noi era
davvero un coglione. E figurarsi che pensavano di lui i colleghi di
lavoro costretti al continuo confronto padronale, o i vari amichetti
che si era fatta la moglie, perché questo arrivava a casa morto di
fatica e sprofondava nel letto. C'erano delle possibilità. Fiducioso
nel futuro, in quella radiante mattina di sole, il capitano Zaravakis
si inabissò.
Il luogo era ostile. Le scatole di latta dei pomodori tagliavano
come coltelli a serramanico e i gatti del quartiere sembravano non
gradire la concorrenza e si mostravano aggressivi. Passarono i
minuti. Niente. Passarono i quarti d'ora. Avete mai visitato un
cassonetto dall'interno? Non è mica facile. Il capitano Zaravakis
cominciò a conoscere le abitudini più intime dei suoi rispettabili
vicini. Pensò che la monnezza dovrebbe essere un oggetto di studio
degli psichiatri, così come la merda lo è per i dottori del corpo.
Scoprirebbero tante cose. L'immondizia: quello che vuoi far sparire
e non passa per le canne del cesso.
E proprio quando le speranze erano al lumicino, lì in un
angoletto nascosta tra una rivista per lo scambio di coppie del
signor A. C. e una copia del Mein Kampf del signor C. D., luccicò
l'Amarelli.
Le endorfine gli invasero il corpo. Il sole splendeva ed il cielo era
blu, anche se dal cassonetto non si vedeva poi così bene. Il
capitano Zaravakis si tolse gli ultimi gatti di dosso e fece per
uscire. Ma un po' come per le dipendenze da droga o le relazioni
amorose, l'entrarne risulta sempre più facile e più comodo rispetto
all'uscirne. Le pareti del cassonetto erano viscide come anguille. Il
capitano Zaravakis si afferrò forte con le mani e strisciò fuori alla
maniera di un grosso verme. Quasi un simbolismo. Un vicino dei
tanti uscì anche lui ma dalla sua bella casetta con giardino e lo
guardò inorridito.
“venga, ho ritrovato la sua copia del Mein Kampf.
Ma non glielo disse. Il capitano Zaravakis si giustificò in altro
modo.
“le chiavi di casa. Stavo cercando le chiavi di casa.
Un pensiero gli perturbò la mente. E se l'avesse visto suo padre?
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che importava. Aveva già visto l'Amarelli. E se l'avesse visto la sua
fidanzata? Di lì a qualche mese sarebbe fuggita con il figlio di una
scrittrice famosa e si sarebbe masturbata alla fine di ogni rapporto
che definire sessuale era un eufemismo, perché il tipo durava
meno della sigla del telegiornale ma la scrittrice non si poteva mica
mollare per così poco. Il problema di dignità sarebbe stato presto
risolto. Ma adesso si festeggiava, c'era di nuovo l'Amarelli, perché
il capitano Zaravakis era un segugio, perché era un cercatore. Poi
il mozzo senza il kit non sarebbe partito e senza mozzo non si
parte.
E il concorso? Non lo puoi presentare, non è un racconto di
viaggio. Non sei nemmeno partito. E poi sempre tutta la droga.
Non è nemmeno una storia di uomini e di mare. Nessuno cammina
lungo i moli nel tuo racconto.
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La strana storia dell'Alma I
Questa è una storia di uomini e di mare, di porti e di gente che ci
è andata a vivere. Storia di un capo che ha messo su famiglia e di
una stella che è anche una negra, e adesso non c’è più. È la storia
di un mozzo fedele e di un capitano, e di una donna che vive al di là
del mare. Questa è una storia che se non fosse vera non lo
sembrerebbe affatto.
CAPITOLO I
GLI INTERPRETI PROTAGONISTI
Ancona, porto commerciale. Lungo i moli camminavano tre
persone: una era sognante, una era triste, una era negra.
La negra]
La negra è una donna bella con un culo che lascia senza respiro.
Cammina e si volta peccaminosa e guarda la persona che sogna.
Ha occhi profondi che nascondono cose sepolte. Dietro alla negra
c’è il porto e dietro al porto c’è il mare, grande, lontano. Il vento
vuole muovere i capelli ma non può. Troppi. Sorride la donna negra
e caccia lontano i brutti sogni.
Il mozzo]
Anche il mozzo passeggia lungo i moli. È il mozzo perché è il
mozzo. Perché l’altro è il capitano e non restava molto da fare. Il
mozzo è della bilancia, segno giusto per il lavoro e la dedizione. La
negra è della vergine. Una burla delle stelle.
È triste il mozzo. Si racconta che una donna gli abbia rotto il
cuore. A dire il vero la donna non ha fatto poi questo gran casino. Il
mozzo l’ha fatto, quasi tutto da sé. La donna si è stufata del mozzo
ed è andata a farsi abbracciare da un uomo con la schiena più
grande. Cose che succedono ma non per il mozzo. Lei c’è ancora
anche se non c’è più. Non vanno la domenica al lago e non si
amano più clandestini nella casa fredda della nonna fredda anche
lei, appena seppellita la nonna, e intanto che si decide che fare è
stato facile sottrarre una copia delle chiavi. Che guardi dall’inferno
e sconti la sua prudenza. Non si sapeva dove potersi amare,
sembrava sempre che si stesse a rovinare qualcosa. Trent’anni di
vita da vedova e non era riuscita a consumare nulla. Ecco cos’è. Ci
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consumavano l’eroina nella casa della nonna. Lei adesso consuma
l’eroina di qualcun altro.
Il capitano Zaravakis]
Capitano perché l’altro è il mozzo. Per necessità. Il capitano
Zaravakis è quello lo che sogna, e guarda il mare. Dall’altra parte
del mare vive una donna che lo strinse a sé e gli sussurrò parole
d’amore. Poi si alzò la gonna e gli promise la vita. È bella la donna
che vive al di là del mare. Ma c’è in mezzo il mare, e tra lui e il
mare adesso c’è in mezzo una negra. Non dice di amarlo, ma si
alza la gonna anche lei e gli fa sentire il sapore che ha l’Africa.
Camminavano in un porto lercio e pulcioso che poteva
essere mille altri]
Non era mille altri. Era il porto commerciale di Ancona, città
strana di albe e tramonti nel mare. Navi grandi come grattacieli
aspettavano gli uomini e le loro speranze. O lo avevano fatto
altrove e gli uomini ad Ancona erano sbarcati e già lontani e alle
navi restava solo di guardare come va. Altri uomini sarebbero
arrivati con altre navi, ma non adesso, e gli ormeggiatori stavano
seduti all'ombra perché le navi del porto, ai moli le avevano già
legate. I porti si assomigliano tutti. Anche le persone che aspettano
lungo i moli. Le persone hanno facce che si assomigliano, per quei
corridoi che sono passi rubati al mare.
I motivi del mozzo]
Il mozzo cammina perché crede che il mare gli restituirà l’amore.
Un’onda gigantesca disturberà l’orizzonte e gli butterà in braccio
colei che ancora splende nei ricordi. Magari con la coda di sirena e
i baci che sanno di sale. È per questo che il mozzo cammina lungo i
moli, non può farsi trovare impreparato, non può farsi non trovare.
Nessuno prenderà la sirena e lei si andrà ad asciugare sotto al sole
e morirà. Solo dai moli la si può vedere, e al momento giusto la
porterà a bagnare e la terrà viva, nel sale e nei ricordi.
I motivi della negra]
La negra guarda e non guarda, quasi il mare le metta dentro un
non so che di scomodo. Cammina davanti e ricorda. Dall’Africa è
venuta un giorno lontano e ci ha lasciato tante lacrime. Adesso
vuole un lavoro in una fabbrica di reni e polmoni, lo pretende e
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sarà suo, perché la negra studia l’ingegneria genetica e si attacca
ai desideri come fanno quei cani con la mascella che quando
mordono non si apre più, e aspetta un marito che venga subito e
dentro, che non la faccia sudare troppo e che non sporchi. Cose
che non si possono chiedere al mare.
I motivi del capitano Zaravakis]
Per il capitano Zaravakis è tutto più difficile. Lui è un enigmatico.
Al mozzo gli si vedono marchiati addosso, al capitano Zaravakis no.
Ma nessuno cammina in un porto senza una ragione. Ci sono troppi
altri posti. Già da qualche tempo vive come all’interno di una bolla
e il tempo gli passa addosso senza poter entrare. Sono mesi che la
negra lo rivolta come un calzino. È un cane rabbioso la donna, di
quelle negre puttane dolci e romantiche che non guardano in
faccia a nessuno. Un Tir in piena corsa sull’autostrada con con il
camionista incazzato e il braccio peloso che esce dal finestrino, e in
caso di alterco la famiglia in vacanza finisce schiacciata contro al
guard-rail. C’è un po’ di vento che muove i capelli. Il capitano
guarda il mare e aspetta risposte. Come un ormeggiatore che
ancora non sa, ma crede e aspetta. Il mare gliele deve quelle
risposte, perché lui lasciò mille domande e non ebbe più notizia.
Proprio nel mare lanciò forte una bottiglia con dentro un desiderio.
Gli dissero che nelle bottiglie si mettevano i messaggi, che il mare
non era mica un cielo pieno di stelle pronte a cadere. Sul biglietto
non scrisse nulla, come davanti alle stelle il capitano voleva un
desiderio in bianco. Non che non avesse un desiderio. Forse paura
a dirlo, perché se fosse diventato parole se ne poteva andare.
Paura a pensarlo, perché anche i pensieri andavano via.
Lungo i moli]
Era uno di quei giorni d’estate pieni di sole e di speranze. Il
capitano Zaravakis arrotolava sigarette di tabacco. Anche il mozzo
arrotolava sigarette di tabacco e le accendeva davanti al mare. La
negra camminava e ad ogni passo spostava a destra e a sinistra
quel suo culo dell’altro mondo e gli ormeggiatori sussurravano
cose sconce. Chiamava il mozzo con un nome nuovo, il killer,
nessuno lo aveva mai sentito chiamare a quel modo. Tutti e tre
camminavano nella calma apparente che è delle mattine d’estate,
con il sole che era salito dal mare e che nel mare sarebbe andato a
morire.
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Ananke]
Ancona era il luogo del destino che i demoni o gli dèi avevano
voluto comune per il dispiegarsi di un’avventura estiva. Due uomini
e una negra perché servivano uno all’altro.
Al capitano serviva un mozzo, perché scendevano dai monti con
una Vespa Piaggio piena di bagagli, giù verso il mare e la terra di
Puglia, e un mozzo serve sempre. Non un mozzo qualunque, un
mozzo speciale, fedele e silenzioso, filosofo e triste, che sapesse
arrotolare le sigarette di tabacco e conoscesse il modo in cui
bisognava guardare il cielo.
Al mozzo serviva una Vespa, mica per raggiungere la terra di
Puglia, e nemmeno per arrivare al mare. Gli serviva una Vespa che
facesse un gran rumore e che non lasciasse ascoltare più. Troppe
voci non smettevano di parlare e davvero non si capiva.
Alla negra non si sa che servisse, ma sorrideva e cacciava
lontano i brutti sogni, e il capitano Zaravakis non poteva proprio
farne a meno. Neppure di quel culo di dea africana della lussuria.
Il mozzo e la negra, chissà. Ma lei era l’unica persona a
chiamarlo il killer e magari si conoscevano da tanto tempo e non lo
potevano dire.
CAPITOLO II
LA RUSSIA NERA DEL SUD
Novorossijsk, mar Nero. Alcuni mesi prima]
Era uno di quei pomeriggi in cui l’estate prova più ad
assomigliarsi. Nemmeno i mosconi riuscivano a tenersi in volo e
figuriamoci i pensieri del capitano Zarkas, costretto a terra dal
giorno dell’incidente. Certo era successo proprio un gran casino.
Il capitano Georgios Zarkas]
Georgios Zarkas guardò il sole che ancora non si calava nel mare
e pensò che sui balconi dietro al porto qualche ragazza bella
doveva pur essersi affacciata. Pensò che era stata una fortuna
essere nati a Novorossijsk. Uomo di porti e viaggi lenti lo sapeva
che era difficile da trovare un posto che ci assomigliasse. A
Novorossisjk il sole nasceva dal mare e nel mare andava a morire.
Camminava metidabondo e nei desideri aveva una ragazza mora
con il sesso nascosto dai peli.
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Passeggiò i vicoli dietro al porto e una voce lo chiamò da un
balcone e fece l’amore con una ragazza bruna con il viso adornato
da un velo di baffi sensuali. Pensò che a volte la vita riesce a
prendere la forma dei desideri. Decise che per quel giorno nessun
altro avrebbe dovuto farci l’amore e pagò fino all’indomani. La
ragazza si addormentò presto e il capitano Zarkas rimase a lungo a
sentire l’odore di donna che la ragazza lasciava sulle lenzuola. Poi
la notte silenziosa del mar Nero.
La Principessa del Bosforo]
Brutta storia quella della Principessa del Bosforo. A pieno carico
scivolava a filo delle onde che una dama innamorata e sognante
avrebbe potuto allungare una mano e sentire il mare che le
accarezzava le dita. Vuota si alzava maestosa e si era costretti a
guardarla in cielo. Principessa del Bosforo. Forse un po’ troppo per
una petroliera. Ma che importa. Quanta teatralità in lembo di mare
che divide l’Asia e l’Europa. Annunciava il suo arrivo a suoni lunghi
di sirena. Immobili. Spettrali. Nemmeno i muezzin potevano tanto,
dai loro minareti adornati di gabbiani. A occidente i palazzi dei
sultani ottomani. Non ce n’erano più di sultani ottomani, sarebbero
rimasti ammirati a guardare la Principessa del Bosforo.
Ringhios]
Ringhios è uno di quei cani schifosi grandi come pantegane ma
più aggressivi e fastidiosi. Per ovvi motivi non ha un padrone, con
la vita se la deve vedere da solo. È il cane del porto. Gira per i
vicoli abbaiando alle caviglie della gente che sembra le voglia
disossare. I marinai risoluti del mar Nero già da tempo hanno
preso l’abitudine di sferrargli dei gran calci in pieno muso. Ma lui
niente, duro come l’uccello di un carcerato ritorna alla carica,
riceve il colpo e rotola via. Solo una persona sembra volergli bene.
Si china e lo accarezza.
“la prossima volta che mi imbarco ti porto via con me.
Ringhios lo guarda con la sua espressione un po’ ebete e in
risposta è uso azzannargli una mano.
Nikolaij Ziganov]
Un giorno lontano arrivò a Novorossijsk e non si è più tolto di
mezzo. Chi è Nikolaij Ziganov? Chissà. Non è un tipo che parla
molto questo Nikolaij Ziganov. Nemmeno durante le notti di vodka
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trascorse nei bar del porto. Dicono che venga dalla steppa. Dicono
che una donna gli ha rotto il cuore e da quel giorno si è seduto nei
bar del porto e l’aspetta. Non lo hanno mai visto camminare sotto
ai balconi. Passeggia lungo i moli e guarda il mare. Quando è
ubriaco gli si appiccica addosso una specie di nostalgia, si fa
ancora più malinconico e nessuno osa avvicinarlo. Forse per le
dimensioni spropositate del suo corpo, forse per l'espressione da
foto segnaletica. Arrivò a Novorossijsk e le giornate divennero mesi
e i mesi divennero anni. Da dove prenda i soldi che lascia nelle
osterie è proprio un mistero. La gente cominciò a ricamare storie.
Ancora oggi i vecchi marinai consumati dal sale sono soliti ubicare
gli eventi riferendosi all’arrivo di Nikolaij. Si mi ricordo, è stato
circa due anni prima dell’arrivo di Nikolaij Ziganov. Parla poco
Nikolaij Ziganov, silenzioso come il mare delle mattine d’estate.
I pensieri del capitano Zarkas]
La ragazza con i baffi sensuali non c’era più. Rimanevano il suo
odore forte nell’aria e un po’ di peli appiccicati alla lingua. Le
immagini della tragedia si erano presentate puntuali come la
morte, anche quella notte, come tutte le notti. Il capitano Zarkas
guardò fuori. Il sole faticava nel cielo e la mattina cominciava a
farsi giorno.
Il pensiero dell'incidente non lo lasciava libero un momento.
Martellava. Voci di marinai che rimbombavano nella testa, ma non
riusciva a distinguerne le parole, voci che sono dentro e basta,
come quando un insetto alato percorre durante il sonno il canale
uditivo e ci si sveglia increduli di essere tornati con un rumore
nuovo che assorbe tutto quello che c’è e un insetto alato e
disperato prova a liberarsi dal luogo dove nascono i pensieri, che a
sentire lui deve essere brutto davvero là dentro, ma volare non
serve e il rumore occupa tutto.
cosa gli era successo al timone della Principessa del Bosforo? Un
bel giorno era rimasto con le braccia immobili e gli occhi sbarrati.
Il mare era venuto a prenderselo, lo aveva avvolto e paralizzato,
come nei sogni quando si prova a correre e non si può. Cormorano
triste con le ali al petrolio, quasi fosse stato un presagio. Il mare
era la sua vita, lui portava le navi. Quale male misterioso lo aveva
reso immobile a consultare gli orizzonti? Tutto era cominciato un
giorno uguale a tanti altri, scrutava la linea delle onde e si
pietrificò al timone, spaventato da quel blu del mare. Non lo poteva
più guardare. Troppo grande. Profondo. A lui era capitato. A lui che
portava le navi. Solo entrando in cabina e immaginandosi con la
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testa infilata tra le cosce di una donna coperta dai peli riacquistava
la serenità perduta. Che scherzo è questo? Gli ricordava di
quand'era bambino e la mamma lo abbracciava e lo stringeva a sé
e lui che era ancora un nano arrivava proprio lì. Il piccolo Georgios
respirava a pieni polmoni e si abbandonava rapito come davanti a
un tramonto. O a un alba. Ma il sole era già alto nel cielo e il
capitano Zarkas scese le scale della stanza con il balcone e si avviò
in direzione della spiaggia.
Camminava lungo la linea che confonde la terra e il mare. Ogni
onda sconvolgeva granelli e conchiglie a pezzi. Ogni onda gli
copriva i piedi, esauriva il suo impeto su per la battigia e ritornava,
e lo faceva accorgere di come il mare riprendesse le cose a sé, con
un desiderio meno rumoroso ma più lungo e insistente. I piedi
sprofondavano nel suolo subacqueo tra gli andirivieni della sabbia.
Cercava l’orizzonte, senza riuscire a muovere le gambe trattenute
dal mare indeciso. Un po’ come al timone della Principessa del
Bosforo, pensò. Sotto al sole del mattino di Novorossijsk vide in
lontananza la figura della ragazza mora di la notte. Passeggiava
sulla spiaggia e si fermava a guardare lontano.
Il destino del capitano Zarkas]
“anche tu qui, capitano Zarkas?
Frugò nella borsetta e tirò fuori un mazzo di carte.
“capitano Zarkas, se vuoi ti leggo il futuro.
“grazie.
“per una moneta.
Tutte uguali queste puttane, pensò il capitano Zarkas.
La ragazza cominciò a mescolare le carte. Guardò negli occhi il
capitano e pose sulla sabbia un cinque di bastoni.
“riceverai molte bastonate nella vita.
“se è per questo ne ho già ricevute.
“vedi capitano, le carte parlano, ma non dicono quando. Per i
tempi te la devi vedere tu. E seri problemi economici. È che il
cinque è un gran numero di merda. Tanti soldi che vanno via,
capitano. Stai pagando qualcuno?
“non sono affari tuoi.
“finché ti rimane qualcosa potresti spenderlo con me.
Proprio tutte uguali queste puttane, pensò il capitano Zarkas.
87
“cavallo di bastoni. Vedo altri viaggi capitano, e altre bastonate.
“sei sicura che sai leggere le carte?
“non è proprio il mio lavoro. Ci sono cose che faccio meglio. Vero
capitano? Fante di bastoni. Stazionarietà.
“bella, mi hai appena detto che ci saranno viaggi.
“fante dopo il cavallo…
“che?
“non saprei. Hai un cavallo?
“ho un cane. Beh, non è proprio mio.
“re di bastoni. Sarai di nuovo comandante, però in cambio
riceverai un sacco di bastonate.
“è un piacere ascoltarti, mia bella amante di una notte.
“significa che non tornerai più?
“è un modo di dire.
“asso di bastoni. Colpo decisivo.
“no!
“va bene, non ti arrabbiare. Lo rifacciamo.
“rifacciamo che?
“asso di bastoni. Legno.
“un veliero?
Georgios si immaginò sul cassero come il capitano Achab.
Magari con tutte e due la gambe. O ammutinato sull'Hispañola, ma
sempre con tutte e due le gambe. Il capitano Zarkas era uno di
quei romantici errabondi megalomani che coltivavano il delirio.
“veliero, ma che dici? Al limite una scialuppa di salvataggio.
“è che ho sempre desiderato un veliero.
“capitano, le carte parlano per simboli ma la tua è una fantasia
malata.
“a volte il destino prende la forma dei desideri.
“quante volte ti è successo?
“non importa, bella amante con il sesso nascosto dai peli.
“nascosto sarà il tuo, che mi toccava fare numeri da circo.
“era un complimento.
“anche il mio. Regina di bastoni.
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“non esiste la regina di bastoni.
“non dire cazzate, esiste eccome.
“e che vuol dire?
“non lo so.
“come non lo so?
“decidilo un po' tu. Poi ti dico qualcosa che non ti piace e tu ti
arrabbi. Merda, sette di bastoni.
La ragazza diventò bianca in viso. Fosse nata ad Hollywood
sarebbe stata una star. Ma era nata a Novorossijsk.
“merda che?
“merda. Quando alla settima carta esce un sette di bastoni…
Merda.
“dimmi.
“sette è tre e quattro.
“è matematico.
“no, è numerologico.
“dimmi.
“io non ti dico proprio niente.
“e perché?
“sette di bastoni alla settima. Serve un altro giro di carte. Ce
l'hai un'altra moneta?
Il capitano Zarkas cercò nelle tasche ma non trovò nulla.
“non ho un'altra moneta.
“niente moneta, niente giro di carte.
“è che questa notte qualcuno mi ha svuotato le tasche mentre
dormivo.
“devi stare più attento, capitano Zarkas.
“ehi, aspetta! Dove credi di andare! Io e te non abbiamo ancora
finito. Voglio un altro giro di carte.
“mi hai pagata per una risposta soltanto.
“tornerò con i tuoi maledetti soldi.
“e io tornerò con la tua maledetta risposta.
Chi è quel poveruomo dei mari che chiede dettagli agli
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oracoli?]
Un fatalismo che ricordava la vita in alcune sue espressioni, o il
mare, suggeriva a gran voce che era meglio lasciar perdere.
Ma il capitano Zarkas era come fosse attratto dalle catastrofi. Ci
doveva passare vicino vicino.
“potrai dirmi quello che voglio sapere?
“se mi dici cosa vuoi sapere…
“non lo so cosa voglio sapere, gli oracoli dovrebbero provvedere
anche a questo.
“io non faccio mica l’oracolo a tempo pieno.
“dammi almeno una prova che tu non sia un’imbrogliona che si è
inventata la storia delle carte solo per scucirmi dei soldi.
“vallo a pigliare in culo, capitano Zarkas.
Georgios era solito salire sopra ai balconi adornati di fanciulle,
ma le fanciulle ansimano e quando non ansimano mentono più
degli ubriachi. Forse anche quando ansimano. Però Georgios era
uomo del mare e del destino e nel profondo lo sapeva che anche se
in mani sbagliate le carte non mentono mai, non sono mica puttane
che ansimano.
“almeno toglimi una curiosità. Perché continuano ad uscire carte
di bastoni?
“ho solo carte di bastoni.
“come?
“se dico alle persone che guadagneranno dei soldi non funziona.
Pensano che faccia la compiacente. Con le bastonate sì, sganciano
quattrini come disperati.
Georgios ricordò sua madre quando lo stringeva forte. Sentiva
sul viso l’umido del sudore in mezzo alle cosce e un odore pregno
di vita usciva dal vestito a fiori, quei giorni caldi dell'estate. Lo
ricorderà per sempre l’odore, e poi le volte che lo riconobbe
addosso alle ragazze del porto, non tutte, quelle con i peli sensuali
che nascondevano il sesso.
Ma di monete non ce n'erano più e la figura sbiadita della
ragazza si confondeva lontano tra i pini del mare.
L’armatore di navi Alexeij Petrovic]
“buongiorno capitano Zarkas.
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“Alexeij, non so davvero come ringraziarti.
“Georgios, lo sai che non lo faccio per te. Se non comperassi
un’altra nave l’assicurazione non caccerebbe un soldo. E adesso mi
tocca pure cercare una nave. Alla mia età. Maledizione, non lo vedi
che sono un vecchio?
“mi dispiace.
“cosa? che sia un vecchio? Brutto zotico di un capitano
impotente! Georgios, dentro a quella nave c’erano i miei sogni.
Alexeij Petrovic armatore di navi. La Principessa del Bosforo… I
gabbiani scendevano dai minareti per ammirarla. O mi hai
raccontato un sacco di balle?
“Alexeij…
“si può sapere che diavolo hai combinato?
“gli scogli.
“lo so, lo so! Quello che voglio sapere è che hai fatto tu. Come è
possibile andarci addosso?
“non lo so, Alexeij.
“hai bisogno di un pilota?
“no, conosco la baia meglio di chiunque altro.
“eri ubriaco?
“no, Alexeij.
“Georgios, vieni qui. Guarda fuori e dimmi cosa vedi.
“il mare, Alexeij.
“smetti di fare il romantico da quattro soldi, con me non attacca.
“il relitto?
“Georgios…
“Alexeij?
“se combini un'altra stronzata come questa, ti giuro sulla tomba
della mia povera defunta e santa madre che ti faccio rompere il
culo. Sai già da chi e quattrini per pagare il lavoretto ne ho ancora
abbastanza.
“non accadrà nulla, Alexeij.
“Georgios. Toglimi una curiosità. Perché ti fai chiamare con
questo nome ridicolo? Ti conosco da quando eri in fasce. Sei nato
cresciuto in questa baia dimenticata da Dio.
“è una vecchia storia di marinai. Si dice che un capitano che si
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rispetti debba essere greco.
“sei un tipo strano, Georgios.
“grazie Alexeij.
Il naufragio della Principessa del Bosforo]
Le urla dei marinai si udivano per tutta la baia e la grande nave
ferita si accasciava sopra un fianco come fanno le balene. Gli scogli
erano segnalati bene e il capitano in quella baia ci era entrato mille
volte. Ma la nave si posò sul fianco e il mare sparì sotto al petrolio.
Un velo scuro soffocava le onde come fosse una notte senza vento.
I pesci morivano a pancia in su e ricordavano la nave ferita. Anche
i cormorani morivano, un’agonia di ali al petrolio che non
riuscivano più a volare. A vedere se arrivavano pure quelli di Green
Peace. Di problemi a Novorossijsk ne avevano già abbastanza e dei
cormorani non importava un cazzo a nessuno.
I pescherecci uscirono a soccorrere i marinai, ma la coperta sul
mare nascondeva i corpi galleggianti e le eliche delle barche ne
facevano un frullato. Squarci scarlatti si aprivano sul mare denso
illuminato a chiazze dalla luce dei fari. I soccorritori tornarono in
porto con i superstiti. Poi il mare cominciò a restituire quello che
aveva tolto. Per giorni corpi incompleti chiusi dentro a sacchetti di
plastica venivano adagiati sulla spiaggia di Novorossijsk.
La città moriva, con lo stesso battito stremato delle ali che faceva
il cormorano. Ma a salvare la città non sarebbe arrivato proprio
nessuno.
La nave fantasma venuta dai tropici]
“Alma I san Lorenzo.
“che nome è per una nave?
“tutto qui, capitano Zarkas? che nome per una nave?
“bella, Alexeij. Quante storie potrebbe raccontare.
“smettila. Lo so che è vecchia, ma è stato un affare. I miei soldi
sporcano ancora questa baia dimenticata da Dio.
“grazie, Alexeij.
“che grazie e grazie! Lo sai che non l'ho fatto per te. È tutta
colpa di quel topo di fogna dell’assicurazione. Vive sulle disgrazie
altrui. E dimmi un po' Georgios, non è che hai combinato qualche
stronzata?
92
Il topo di fogna dell’assicurazione lo aveva chiesto subito se a
timonare fosse stato il capitano o qualche suo vice.
“il capitano Zarkas timonava!
Aveva tuonato l’avido armatore Petrovic.
“meglio per lei, perché una clausola del contratto lo dice molto
chiaramente, se al momento dell’incidente non c’è al comando il
capitano della nave, l’assicurazione non caccia un soldo. Capito?
Può chiedere il risarcimento alla persona che era il timone. E
smettere di chiedere quattrini a noi, che non siamo mica un'opera
di beneficenza.
“c'era il capitano Zarkas al timone.
“non voglio dirle di no, ma sa, certe voci che girano.
che avevano combinato? Chi c’era al timone della Principessa del
Bosforo? Nelle bettole del porto si raccontavano storie di ogni
genere. Contrabbandieri armeni sostennero dopo una notte di
vodka e mutandine sgualcite di avere visto dalle parti di Ararat un
vascello conficcato nei ghiacci perenni di un monte. Era Zarkas a
timonare. Chiedere il risarcimento a chi? Per poi vederlo marcire
in galera? Petrovic voleva i suoi soldi. Meglio non sapere. Chiunque
avesse timonato la nave, Petrovic voleva solo i sui soldi.
“Georgios, non è che hai combinato qualche stronzata?
Nikolaij Ziganov stava arrivando al porto.
“maledetto essere strisciante.
“che c’è capitano Zarkas, non mi sembra ti sia troppo simpatico.
Nikolaij Ziganov raggiunse l'armatore Petrovic e il capitano
Zarkas.
“buongiorno Nikolaij.
“signore.
“stavo appunto mostrando la nave al capitano Zarkas, è arrivata
questa notte.
“da dove vengono?
“da qualche paese dei tropici che non hanno voluto dire.
Navigano senza bandiera ma assicurano che nessuno verrà a
cercare la nave. Ha fatto il suo ultimo carico a Buenaventura,
tronchi dell’Amazzonia che hanno scaricato a Cardiff, e poi se ne
andata, sparita dalle mappe. Si è nascosta in un mare di porti.
Saint-Malo, Lisbona, Tangeri, Marsiglia, Salonicco, Odessa,
Sebastopoli e poi qui. Scappano. Hanno deciso di venderla. A
93
queste condizioni non hanno mica potuto chiedere troppo. Un vero
affare. E volete saperne un'altra? Sono tutti d'accordo a dichiarare
un prezzo più alto di lo vero. In culo al topo di fogna.
“gli dèi saranno con noi. La nave porta il nome di una donna.
“che cazzo dici Nikolaij? Anche la Principessa del Bosforo aveva
un nome di donna. E guarda la fine che ha fatto.
“signori, non è un nome di donna.
“Georgios, sai che vuol dire?
“anima.
“anima? Anima Prima san Lorenzo?
“a bordo.
Il capitano Zarkas seguì l’armatore Petrovic e Nikolaij Ziganov su
per la passerella puntellata che conduceva fino all’Alma I venuta
dai tropici. Camminarono sul ponte e visitarono la stiva e le cabine,
e una sensazione olfattiva familiare colse il capitano che non capì.
L’arancio denso del tramonto sulla baia e sul mar Nero faceva da
sfondo a una nave sconosciuta e ai riverberi del metallo. Giorgios
Zarkas ebbe paura, e il sole se ne andò, nel mare.
CAPITOLO III
IL VIAGGIO
L’Alma I prese il mare]
Fu così che l’Alma I prese il mare, nero come il suo nome, del
mare. A bordo uno strano equipaggio di disperati alla ricerca di
quelle cose che al mare si possono chiedere. C’era il capitano
Zarkas con Nikolaij Ziganov. C’era anche la moglie del capitano
Zarkas, comandante della nave e unico privilegiato all’amore,
almeno nei termini come è solito accadere.
Ananke]
Ogni tanto il capitano abbandonava la stazione di pilotaggio e
sostava in cabina giusto una mezz’ora, tempo canonico
riconosciuto a un rapporto sessuale senza troppi preliminari. La
moglie non uscì mai, nemmeno quando l’Alma I infilò lo stretto del
Bosforo e suonò la sirena dimessa, che non era mica la Principessa
del Bosforo e il capitano Zarkas e un po’ tutto lo stretto se ne
dispiacquero. Non uscì a guardare i gabbiani inconsapevoli a
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volteggiare i minareti. Terminato il tempo concesso ai rapporti
quasi sessuali, Georgios ritornava al timone passando dal ponte, e
il viso risplendeva della serenità di bambino malizioso che conobbe
negli abbracci materni e durante le successive permanenze tra le
cosce. Riprendeva il suo posto e comandava l’equipaggio. Sudato
da far schifo, perché chiuso in cabina faceva un caldo mica da
ridere. Poi l’odore strano che si portava addosso per tutta la nave,
misto tra le spezie di un mercato d’oriente e il vomito rancido di
una sbornia da vodka. I volti torvi dei marinai si riempivano
d'ammirazione. E bravo capitano. L’hai rotta? Sicuro che non si alza
più dal letto. Che cosa il mistero della donna che non usciva mai
dalla cabina. Troppo bella per mostrarsi alla ciurma. Mica una
donna piena di peli del Mar Nero. No, è che nei Mari del Sud uno
squalo le aveva staccato le gambe, e come cazzo esce? Avete mai
provato una sedia a rotelle in mezzo alle onde? I marinai
ricamavano storie. Nessuno l’aveva mai vista sulla nave. Qualcuno
diceva che un bel giorno se l’era portata a bordo e non se ne era
separato più. Qualcuno diceva che il capitano Zarkas fosse un tipo
incline alla fantasia.
Su in cabina di pilotaggio Nikolaij Ziganov nascondeva per intero
il timone, maledetto Ziganov, lurido ubriacone portatore di navi al
naufragio. Georgios ne ammirò la schiena, larga che avrebbe
occupato il canale di Corinto, e pensò alla donna che dicevano gli
avesse rotto il cuore. Ben gli sta a quello stronzo. Che se la
spupazzino orde di cosacchi. Non si sarebbe fidato per nessun
motivo al mondo, ma serviva un farabutto che per quattrini
avrebbe fatto qualunque cosa e il farabutto era lui. Assicurò di
saperla portare una nave di quel tonnellaggio. Sugli scogli l’aveva
saputa portare. Però guarda come vanno le cose. Un topo di fogna
di un'assicurazione di strozzini avrebbe inconsapevolmente
obbligato Nikolaij Ziganov a timonargli la nave fino al resto dei
suoi giorni. Adesso sì che avrebbe mantenuto il segreto. A nessuno
piace marcire in galera.
L’Alma I attraversò il mare]
Fu così che l’Alma I attraversò quel mare nero come il suo
equipaggio, vero o immaginario, costeggiò minareti grandi come
fari e si diresse con il suo carico di disperazione verso l’unico
meandro del mondo in cui nemmeno il più mistico tra gli
ormeggiatori avrebbe sospettato qualcosa vedendoli attraccare.
Carico di disperazione perché sull’Alma I non c’era altro. Viaggio a
vuoto, un po’ strano, sì, ma nessuno dentro a quella nave era in
condizione di fare domande. Verso il mare della Grecia, Patrasso, le
95
isole Ionie e l’Albania, e ancora su per quella pozzanghera che è
l’Adriatico, fino a una città dimenticata da Dio che si chiamava
Ancona.
L’ormeggiatore]
che si chiama Ancona anche adesso, c’è un porto e c’è un
ormeggiatore che aspetta, non l’Alma I, perché quello dell’Alma
l’aspettò un po’ di tempo fa e la sua missione è conclusa.
L’ormeggiatore è un lavoro duro. Ti viene affidato un molo e il
molo sarà quello per la vita intera. Aspetti una corda con attaccata
una nave, e anche la nave sarà quella, non una nave qualunque ma
una nave con un nome. Poi la corda arriva e sei troppo indaffarato
per guardare la nave, perché se non leghi la corda, la nave
potrebbe non attraccare mai e le persone a bordo devono pur
scendere. Non hai il tempo per vedere se la nave è davvero come
l’avevi immaginata. Quando è ferma non la guardi più. Cambia.
Non serve a niente. C’è chi dice che ogni ormeggiatore stia lì ad
aspettare la nave della vita, che quando arriva succedono quelle
cose del destino. Storie di marinai.
L’ingresso al porto]
Facciamo che è Ancona dell'Adriatico per abbellirle un po' il
nome. Perché la città si presentò male all’equipaggio dell’Alma,
con un monte che ricordava un po’ Novorossijsk e il porto e le pulci
e le zanzare di una varietà pregiata venuta dall’oriente. Ma questo
un po’ di tempo fa.
CAPITOLO IV
L'INCONTRO
Ancona dell'Adriatico]
La città non è poi tanto diversa, le pulci continuano a mordere le
persone malfidenti e le zanzare un po’ tutti. Il porto è sempre pieno
di ormeggiatori e disperati e a guardarli bene non si distinguono
gli uni dagli altri, se non al momento del lancio della corda. Due
uomini e una negra camminano e si fanno strada tra mille pensieri,
e guardano le navi. È bello guardare le navi. C’è una nave che non
è grande come le altre. C’è un marinaio che ha l'espressione di una
foto segnaletica e fa la vedetta sul ponte.
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L'abbordaggio]
Era un po’ di tempo che il capitano Zaravakis cercava avventure
mistiche per dare un po' di senso alla vita e confondere i pensieri.
Riusciva a immaginare una cosa sola: strappare le mutandine alla
negra. La negra, in risposta alle poco nobili fantasie, lo provava a
schiacciare come si fa con gli scarafaggi. Ma gli continuava a
provocare erezioni.
“buongiorno marinaio.
“(cenno del capo).
“(non ricordiamo le parole con le quali il capitano Zaravakis
chiese di salire a bordo ma chiese di salire).
Ci fu un momento sospeso in cui il capitano Zaravakis e un
marinaio sconosciuto dall'aspetto poco rassicurante si indagarono
gli occhi in silenzio, e due nuovi personaggi fecero comparsa sul
ponte che era il palco di un’Alma I traboccante di avventura e
mistero. Il trio a terra uscì da quella situazione di preponderanza
numerica nella quale si era trovato fino ad allora e che aveva
contribuito in maniera determinante all'audacia necessaria per il
tentativo di salire a bordo. I pensieri del capitano Zaravakis furono
colti da una forma ammiccante di simmetria. Un trio allo specchio.
Fanno due trii. Il secondo personaggio a bordo della nave,
dall’aspetto decisamente sognante, parlò.
“good morning.
che significa (in un linguaggio compreso dalle moltitudini dei
mari):
O compagni venuti da terre sconosciute
quale pena vi ha condotto
al cospetto
dell’errabondo e malinconico
capitano Georgios Zarkas?
“good morning.
Rispose la negra, mettendo in luce denti bianchi e potenziale
internazionale rispetto agli altri due che erano italiani.
“I am the capitan of this ship. My name is Georgios Zarkas. I am
from Greece.
97
che significa (nell’idioma amusicale dei porti):
Siate dunque i benvenuti
all’odierno spettacolo
mentre un cupo destino
calpesta i desideri.
Siate allora guardinghi
sotto al palco dell’Alma
o pubblico scelto
alla partenza prossima
Il nuovo personaggio comanda una nave, si chiama Giorgio
Zarkas e dice di venire dalla Grecia. Il capitano, quello dell’Alma I,
ha un aspetto mite che lascia trasparire profondità e fatalismo, e
una vita piena di sfighe.
Il mozzo rispose al saluto con la deferenza dovuta al grado.
Salutò anche il capitano Zaravakis, ma un po’ schivo e dimesso, e
coloro che nelle notti lunghe dell'inverno hanno trovato un
momento per leggere Moby Dick, sanno che due capitani che
incrociano negli oceani del Sud e si avvistano puntini nel mare,
sicuro che si augurano il reciproco naufragio.
Il terzo personaggio a occupare la scena è un cane odioso che
per tutto il tempo del silenzio disturberà l’attesa mistica e
marinara con un ringhio feroce. Dal ponte della nave che era il
palco dell’Alma I.
Riusciranno i due uomini e la negra nel tentativo di abbordaggio?
perché queste erano le intenzioni del capitano Zaravakis, nel bel
mezzo di un delirante sogno estetico.
Sull'Alma I]
“Nikolaij, fa salire i ragazzi e precedimi in cabina. E non fare
niente agli ospiti.
Parole tratte dalla fantasia e dedotte dallo svolgersi delle azioni,
perché il capitano Zarkas si rivolse a questo Nikolaij in una lingua
che assomigliava tanto al russo, e con il russo nemmeno la negra
poteva qualcosa.
Pochi attimi convulsi e i tre aspiranti ormeggiatori erano in
98
effetti a bordo di una nave che si chiamava Alma I.
Nikolaij accompagnò i due uomini e la negra dentro a una cabina
e si mise a riscaldare un padellino pieno d’acqua sopra a un
fornelletto blu da campeggiatore.
“Nikolaij Ziganov…
Il capitano Zarkas stava in piedi fuori dalla porta e presentò il
marinaio ai due uomini e alla negra. Il cane ringhiava.
“Carlo.
Disse il mozzo.
“Stella.
Disse la negra.
“Capitano Dimitri Zaravakis.
Disse il capitano Zaravakis.
“Dimitri Zaravakis, greek name.
Disse il capitano Zarkas.
che significa (nell’idioma antico degli sventurati):
O fratello di terre perdute
che udirono le orecchie mie sorde?
che il Dio dei viandanti
porti grazia e fortuna
Il capitano Zarkas chiese al capitano Zaravakis se fosse greco,
perché lui sì che era greco e trovare una persona con cui si potesse
condividere il ricordo tragico delle radici davvero scaldava il cuore.
Nikolaij Ziganov barcollò la testa come a dire che non era vero. Il
capitano Zarkas disse anche che non si sarebbe potuto trattenere a
lungo perché in cabina soggiornava la moglie e non la voleva
lasciare sola per troppo tempo. Nikolaij Ziganov scosse il capo in
modo similare e i due uomini e la negra non capirono se la donna
che il capitano Zarkas si apprestava a visitare non fosse la sua vera
moglie ma senza un motivo palpabile propendettero per una
fantasia completa.
Il capitano Zarkas accarezzò quel piccolo cane schifoso che in
risposta gli azzannò una mano.
“sempre così.
99
Disse Ziganov.
“gli voglio troppo bene.
Rispose Zarkas.
Il marinaio accennò qualcosa sul buttare il mostriciattolo a mare.
Il capitano Zarkas salutò con deferenza e rassegnazione.
Nikolaij Ziganov divenne l’anfitrione. Il cane continuava ad
abbaiare rabbioso e si avvicinava pericolosamente alle caviglie
della negra, come se gliele volesse disossare.
“vattene, brutto cane di merda.
Diceva la negra muovendo sensuale le labbra e provocando
un'erezione portentosa al capitano Zaravakis.
“codardo di un capitano Zaravakis dei miei coglioni, mandalo via!
Non lo vedi che mi sta dando fastidio?
Il mozzo accennò qualcosa sul buttarla a mare.
Nikolaij Ziganov è un uomo alto con la barba da fare, puzza
d’alcol e di alcune altre cose, e ha quegli occhi assenti e cupi che
solo un russo lontano dalla patria può avere. Perché la nostalgia
dei russi è diversa dalle altre nostalgie. Nessuna nostalgia è uguale
a un’altra nostalgia, ma qui parliamo di una nostalgia che gli
uomini e le donne russe sentono nel cuore e riconoscono di tutto
un popolo e chiamano con un nome specifico. Come il Brasile e la
saudade, che non poteva essere spiegata con le parole e servirono
le note. In entrambi i casi, il termine che si è deciso riassuma da un
punto di vista del lessico significati reconditi dell’anima, non può
essere tradotto in lingue che non siano quella della luogo che l’ha
originato, perché questa nostalgia in altri luoghi non c’è. La
saudade russa veniva raccontata da Nikolaij Ziganov con la
trasparenza dell’iride e con tante venuzze rosse su sfondo
giallognolo in quello che è comunemente noto come bianco degli
occhi.
Nikolaij mise i ragazzi a sedere sul proprio letto, volle la negra
vicina, poi il capitano, poi il mozzo, lontano il mozzo, per
un’incompatibilità che nasce quando le mansioni si assomigliano
troppo. Lo guardava con intenzioni poco rassicuranti. Si alzò
occupando lo spazio che la cabina minuta offriva, barcollò, non
potendo scordare il piede marino che aveva sviluppato durante le
tempeste e le onde e le sbornie di vodka, compagna di tempeste e
onde e di bonacce dell'anima e attese. Barcollò maestoso verso il
fornelletto del gas e il capitano Zaravakis, che era un romantico
delirante da quattro soldi, ricordò i samovar sulle stufe scovati nei
libri e gli inverni freddi della steppa e il desiderio e l’attesa di
100
qualche cosa di caldo nello stomaco e nel cuore, e per un momento
capì di essere passato per quella nostalgia che i russi chiamavano
носдлъгия. È che dentro alla nave c’erano 40 gradi e non soffiava
un alito di vento. Non c’erano nemmeno i lupi.
Nikolaij ribarcollò verso il letto e la negra, che era una donna
bassa e schizzinosa e risultava piuttosto antipatica alle persone che
non avessero perso il senno per le sue pratiche sessuali. Nikolaij
l’abbracciò con fare amichevole e lei, schifata dall’omone sporco e
ubriaco, guardò il capitano Zaravakis con occhi fiammeggianti che
ne avrebbero disturbato i sogni per qualche settimana.
“testa di cazzo, toglimi di dosso questo stronzo ubriacone.
Nikolaij Ziganov faceva vomitare tante donne e avrebbe potuto
fare a pezzi tanti uomini. Sulla testiera del letto teneva appese
fotografie di riflesso adolescenziale di calciatori più o meno
connazionali e donne belle e svestite. Mostrò orgoglioso
Shevchenko al capitano Zaravakis, noto tifoso delle glorie
rossonere, e malizioso le donnine alla negra, che subito pensò a
come le utilizzava nelle lunghe notti solitarie dell’Adriatico e al
fatto che sulla nave non aveva ancora visto una lavatrice.
Nikolaij Ziganov conosceva quattro parole dell’idioma amusicale
dei porti e la conversazione si fece in effetti complicata, perché
capire il russo si prospettava impresa alquanto improbabile. Ma
come sempre accade alle situazioni gradite al destino, una sorta di
miracolo questa volta mediatico consentì allo scombinato manipolo
di disperati un passaggio di informazioni sufficiente alla nascita di
mille pensieri romantici.
Il trio allo specchio si era però fatto quartetto di ritorno. La
simmetria si era scomposta, provocando una chiusura mistica e
producendo un’idea sordida: comperare dai marinai russi un
panetto di eroina a prezzo straccio che sicuro si erano portati per
vendere al primo acquirente. Pensiero audace che venne esclusivo
dalla simmetria perduta. Anche un po’ dall’aspetto del Ziganov.
Ben presto l’apertura mistica sarebbe stata ancora percorribile
grazie a una storia di uomini e di mare. E grazie al fatto che l’Alma
I stava arrugginendo nel porto di Ancona già da qualche tempo e
l’eroina, se mai ci fosse stata, sicuro già stava nelle vene di
qualcun altro.
CAPITOLO V
LA STORIA DI UOMINI E DI MARE
101
I porti che diventano una casa]
Nikolaij Ziganov raccontò una storia di uomini e di mare, che
iniziava con una persona di morale equivoca che da un molo gli
chiedeva di lanciare una corda. Fu questione di un attimo. Vide
negli occhi dell’uomo una luce spenta che lo fece pensare per
qualche scuro motivo a Novorossijsk, e lanciò. Con le sue braccia
forti. La corda scese dall’alto neanche troppo avvilente dell’Alma I
e si srotolò in volo con la grazia di una trapezista di Minsk. La
persona a terra guardò con attenzione mistica la corda che si
spiegava nel cielo di Ancona. Con fare enigmatico l’assicurò
attorno a uno stipite di ghisa fusa e si fermò ad ammirare
l’intricato disegno dei nodi. Non guardò l’Alma I. Nemmeno per un
attimo. Poi salutò, con l’accento fiero di qualcuno che un giorno
lontano fuggì da Ascoli Piceno.
Attraccarono e il giorno stava per finire e tutto l’equipaggio
rimase sul ponte a guardare un tramonto mediterraneo che dava i
brividi. Il sole scomparve dentro al mare e fu la notte. All’indomani
le prime striscie rosa del cielo destarono Nikolaij Ziganov dalla
vodka e dalla носдлъгия, la saudade russa. Svegliò il capitano
Zarkas. Salirono sullo stesso ponte della sera precedente e si
misero a respirare l'alba, e nessuno camminava ancora lungo i
moli. Sempre più luce e le nuvole all’orizzonte si coloravano
cariche nella parte sotto. Fino a quando una bolla rosa salì da
oriente e dal mare. Guarda un po’, commentò il capitano Zarkas al
marinaio ubriaco, il sole nasce dal mare e nel mare va a morire
proprio come a Novorossijsk, e lo colse qualche cosa che non
riusciva a capire ma che sapeva assomigliare al destino.
Trascorsero i giorni, e le settimane, e nessuno veniva a caricare
il carico, e l’avido armatore Petrovic diceva che c’erano stati
disguidi sui tempi della consegna e che bisognava aspettare.
Le settimane passavano con quell’incalzare di cui è capace il
tempo, e divennero mesi e le zanzare non pungevano più e sempre
meno disperati passeggiavano lungo i moli, cosicché l’equipaggio
imparò a distinguere gli ormeggiatori retribuiti. Cominciava a fare
freddo. La camicia hawaiana del capitano Zarkas non bastava a
riscaldarne il corpo e il sole stava dimesso all’orizzonte e non
provava affatto a raggiungere le altezze siderali che proponeva
durante la stagione delle zanzare e dei disperati sui moli.
Accadde in sogno, un cormorano viaggiatore con il sesso coperto
dai peli lasciò cadere sull’Alma I un messaggio a forma di ancora
che affondò la nave, e il capitano Zarkas capì che nessun carico
sarebbe mai arrivato.
102
La seconda risposta
capitano
La seconda moneta
alla mano
E chi ci pensava più a la mignotta svuotaportafogli?
Pochi giorni e giunsero notizie dalla Russia nera del sud:
l’armatore Petrovic non era in grado di pagare gli stipendi
all’equipaggio e nemmeno di spedire più l’esiguo anticipo che fino
a quel giorno consentì di comperare il cibo e di immettere nei
serbatoi il carburante necessario per scaldarsi e cucinare. L’Alma I
era abbandonata a se stessa nel porto di una città dimenticata da
Dio.
Un consulto sul da farsi generò la seguente situazione. Tre quarti
dell’equipaggio sparì in tempi brevi dalla nave, non si conosce né
come né quando, perché il miracolo mediatico era pur sempre un
miracolo e in quanto tale portava con sé tutte le sue caratteristiche
di dubbio e indeterminatezza che la circostanza straordinaria è
solita presentare. Rimase il capitano Zarkas e rimase Nikolaij
Ziganov, gli ammutinati dell’Alma I.
Rimase anche il cane rabbioso detto Ringhios e rimase la moglie
immaginaria del capitano Zarkas, che ormai c’era da troppo tempo
e non poteva mica fuggire con qualcuno della ciurma, ma
continuava a non uscire dalla cabina.
Dopo un consulto più veloce del precedente, dato il numero
esiguo di persone che abitavano ancora la nave, il capitano Zarkas
proclamò la presa di possesso dell’Alma I. Sarebbero rimasti
ancorati nel mare adiacente al porto di Ancona dell’Adriatico fino a
quando qualcuno avesse deciso di comperare la nave e avrebbero
utilizzato il ricavato per pagarsi gli stipendi arretrati e l’esubero
eventuale per soddisfare le voglie più turpi.
Passarono i mesi e la nave era ancora lì, come ferma nel porto ad
aspettare qualcosa o qualcuno. A nessuno veniva voglia di
comperarsela, forse per le macchie della ruggine che davvero male
riuscivano a trasmettere l’idea di corpo solido contro le onde.
Passarono i mesi e la nave era ancora lì, quando due uomini e una
negra passeggiavano disperati lungo i moli, cercando di
confondersi tra gli ormeggiatori.
103
Le reazioni al racconto]
Gli occhi del capitano Zaravakis si illuminarono di poesia e
fatalismo, scordò presto gli stenti e le difficoltà che l’equipaggio
residuo affrontava quotidiani e decise che questa storia era una
favola da scrivere.
La negra pensò che era vero che Nikolaij Ziganov era sporco e
puzzava d’alcol, ma un certo umidore le velò le mutandine e si
immaginò sdraiata sulla schiena con quel corpo enorme che la
pistonava dentro alla sua cosa che profuma di argilla.
Anche il mozzo pensò. Pensò che al capitano Zarkas non era
servito poi molto essere il capitano e che era finito a vivere
sull'Alma scrostata nel porto pulcioso di Ancona al pari del ben
meno esimio e subordinato Nikolaij Ziganov, e se ne compiacque.
CAPITOLO VI
LA FINE DELLA STORIA DI UOMINI E DI MARE
Il cast]
Adesso è passato altro tempo e tanti sono i disperati e gli
ormeggiatori che hanno incontrato lungo i moli la sagoma tozza
dell’Alma I e del suo residuo equipaggio. La storia di uomini e di
mare si avvicina alla fine e come ogni storia che si conclude
pretende di urlare notizie in tono fintodimesso riguardo ai suoi figli
interpreti.
L’Alma I è parcheggiata nel porto commerciale di Ancona, città di
pulci e tramonti e albe dal mare. Qualche associazione umanitaria
dona cibo e gasolio all’equipaggio ma a nessuno è venuta in mente
la folle idea di comperare l’aspirante relitto e di farlo navigare.
Nikolaij Ziganov vive ancora e la routine non denota
cambiamenti degni di essere raccontati. Un’associazione di
disperati passeggiatori di moli porta vodka e sigarette e tiene le
assemblee direttamente sulla nave perché il Ziganov, presidente
per meriti sul campo, è senza passaporto e di aspetto tutt’altro che
rassicurante, incontra problemi con l'immigrazione e non gli è
consentito neppure l’accesso alla bottega dei Sali e dei Tabacchi.
Il cane Ringhios non si è più sentito abbaiare dal giorno in cui,
nelle vicinanze dei moli, l’associazione dei maghrebini liberi in
Ancona servì un gustoso kebab in segno di riappacificazione a un
gruppo scelto e delegato di Comunione e Liberazione, che tanto
aveva fatto per poterli aiutare, ma non trovandone i maghrebini un
104
motivo, furono accusati di quell’integralismo nefasto che rifiuta
ogni forma d’integrazione e porta dove tutti oggi sanno proclamare
anche se nessuno sa bene cosa voglia dire.
Il capitano Giorgios Zarkas percorre un sentiero paludoso di
alienazione mistica. Non parla con nessuno e ogni giorno invoca gli
dèi davanti al mare, all’alba e al tramonto, quando il sole gli
ricorda Novorossijsk. Come i babbuini di Abu Simbel. Blatera che
non avrebbe dovuto chiedere una seconda volta e parla con
insistenza di una prostituta.
La moglie del capitano Zarkas non c’è più e il capitano Zarkas
profuma adesso di un aroma permanente tra il gelsomino l’estate e
il merluzzo. È vero, parla con i gabbiani, ma può guardare il mare
quanto vuole e non sogna più quelle immagini terrorizzanti del
naufragio dal giorno in cui il cane è sparito. È felice che il cane non
si faccia più vedere. Troppe caviglie disossate. Pensa che a volte
davvero non si possa fare niente, si ha bisogno di qualcosa che non
dipenda dalla nostra volontà per liberarsi da certi rompicoglioni.
Il mozzo sta per diventare un designer di successo e toccato
nell’anima dalla favola dell’Alma I ha deciso che il suo primo e
ultimo e dunque unico lavoro sarà una barca che si chiamerà
Malaka. Ha trascorso giorni felici in Grecia e la decisione di partire
l’ha presa proprio dopo le scorribande sull’Alma. A volte si ferma
sugli scogli che sembra stia ad aspettare qualcuno. Che senta
nostalgia per la sirena? No, perché Malaka significa anima nella
sua lingua dei porti.
Della negra se ne sono perse le tracce ma si racconta che viva
alla stazione dei treni di Bologna Centrale e sia dedita all’uso
frequente della vodka in compagnia di amici sporchi e occasionali.
Il capitano dice addio alla nave]
Il capitano Zaravakis scende per ultimo dalla nave, e tante e
tante volte passeggerà ancora i moli, ma non vedrà più nessuno
affacciato sul ponte dell'Alma ad aspettare. Perché ad Ancona
dell’Adriatico continua a levarsi dal mare un vento che sa di casa.
Un capo ha deciso di mettere su famiglia proprio qui, all’ombra
lasciva del monte Conero. Un capo vero, che fa parte
dell'introduzione. Un personaggio che sarebbe potuto essere ma
non è stato. Come troppe cose. Il capo perdonerà il poco spazio
concesso, ma di personaggi ce c’erano già troppi e chi scrive non è
mica Robert Altman. Che lo vada a prendere in culo il capo, che poi
lo ha deciso lui da solo di essere il capo.
105
Adesso c’è un capitano che ha di spalle l’Alma I, vascello
fantasma dentro ai sogni. Bella la storia dell’Alma I, pensa il
capitano Zaravakis, con una nave che è diventata la casa per due
uomini diversi che venivano da lontano. E per un cane rabbioso e
una donna immaginaria.
La giornata è prossima a finire, al porto commerciale
dell’Adriatico, e il sole scomparirà ancora nell’abisso che al
mattino ne sostenne la salita fino agli spazi siderali. Il capitano
Zaravakis ha pensieri romantici. Vede in storie come questa il
segno impalpabile di qualcosa di grande che non può capire. Pensa
al capitano Zarkas e un senso tragico del destino lo prende allo
stomaco. Il capitano Zaravakis non sa. Non conosce quegli uomini
e non conosce troppe altre cose.
Un’atmosfera di magia rarefatta cala assieme al sole nel mare.
L’incontro con i marinai appare agli occhi del capitano Zaravakis
come il cormorano messaggero nel sogno del capitano Zarkas.
Quale Dio lo aveva mandato e per dire cosa? Pensa a una storia di
simboli e spiegazioni recondite contenuta in quell’incontro come da
una matrioska. Un incontro allo specchio per trii allo specchio ma
di quattro persone. Avrebbe avuto tasselli a posto per tutti, bastava
aprire le bambole.
che significa (nel linguaggio universale dei capitani):
Il cormorano viaggiatore
tornerà nei sogni
e annuncerà
partenze e ricordi
Certo che lui non assomiglia al capitano Zarkas, non ha una
moglie immaginaria dentro una cabina, alla quale rivolgersi
quando il mare arriva e lo sembra tirare a fondo. Lui ha una donna
bella che vive dall’altra parte del mare, vera, con la pelle liscia e
profumata, che si toglie le mutandine e gli sussurra parole
d’amore. Ogni tanto, è vero, perché vive dall’altra parte del mare.
Ma quando sente nell’anima qualche cosa che lo affossa, basta un
pensiero. È bella la donna al di là del mare. Non ci assomiglia al
capitano Zarkas, ne è sicuro. Forse il mozzo, con la sua sirena che
doveva ritornare dalle onde. Ma nemmeno. Il mozzo assomigliava
un po' a quel Ziganov. E la negra, che c’entra la negra? Sul ponte si
vedeva solo un cane che azzannava le carezze del povero Georgios.
106
Il sole non c’è più e le nuvole sono adesso di quell’arancio gonfio
con sfumature che gli innamorati davanti ai tramonti non fanno in
tempo a vedere. Forse la favola che riflette i simboli e le
spiegazioni recondite è soltanto una di quelle fantasie necessarie
perché si possa invecchiare. Se volesse partire un posto ce
l'avrebbe, lontano, al di là del mare. Troppe cose vengono lasciate
lungo i moli, senza che qualcuno si preoccupi per metterle a posto,
pensa il capitano Zaravakis.
107
Parte IV
MEMORIE DEL TROPICO
108
Storia di uomini e di rapine
“Cartagena è una delle città più tranquille di tutta la Colombia.
“davvero?
“certo, qui non succede mai niente.
“Sergio, ne sei proprio sicuro?
“non mi credi?
“è che ho visto un sacco di poveri per strada.
“che vuoi dire?
“la povertà genera fame, la fame violenza. È un circolo.
“chi ti ha detto queste cose?
“l'ho studiato.
“stronzate. La gente è rilassata. I poveri che vivono qui stanno
tutto il giorno a fumare marijuana e quando qualcuno sta tutto il
giorno a fumare marijuana, la voglia di andare per le strade a
rapinare la gente proprio non viene. L’idea non passa nemmeno per
la testa. E se per caso l’idea dovesse passare per la testa, non c’è
problema, il caldo toglierebbe le forze.
“se lo dici tu.
“i poveri dei Caraibi non sono pericolosi. Non sono mica i poveri
del Pacifico. Questi sono i Caraibi. Cartagena non è Buenaventura.
Ecco, se vai a Buenaventura devi stare molto attento. Non ci
pensano due volte a spararti nella pancia.
“ci sono stato a Buenaventura.
“e?
“niente. Tutto tranquillo.
“allora qui non ti devi preoccupare. Se non ti hanno fatto niente
a Buenaventura vuol dire che sei immune a certe cose.
“che vuol dire, Sergio, sei immune?
“ragazzo, la vita è strana. È piena di cose che non si capiscono.
Quello che ti posso dire è che ci sono persone che si tirano addosso
le rogne, così, come fossero predestinate. Se tu appartenessi alla
categoria, figurati Buenaventura. Ti avrebbero rapinato almeno tre
volte. Non ti devi preoccupare, te l'ho già detto, i poveri dei Caraibi
non sono pericolosi.
Non è che il capitano Zaravakis non credesse a Sergio, ma
Sergio viveva una realtà tutta sua. Passava le giornate chiuso
dentro alla sua stanza di motel a bere aguardiente antioqueño e la
109
cosa peggiore che gli sarebbe potuta capitare era un’embolia.
Paralizzato in sedia a rotelle. O in quel letto dove già trascorreva la
vita e non sarebbe cambiato poi molto.
Figuriamoci se i poveri dei Caraibi non sono pericolosi. Questo
Sergio diceva proprio un sacco di stronzate. Non lo aveva ancora
conosciuto un essere umano che non fosse pericoloso, almeno in
possibilità. E ci mettiamo pure la fame.
Certo che fermarsi tutto il giorno in una stanza a bere
aguardiente antioqueño comportava i suoi rischi. Il tetto che ti
crolla addosso proprio quando cominci la bottiglia nuova o un
gruppo di ladri specializzati in stanze di motel che si mette nella
tua perché non ti vede uscire mai e pensa che sei fuori città. Il
capitano Zaravakis nella sua stanza di motel mica ci rimaneva e
arrivata la notte si precipitava per le strade sempre male
illuminate della città vecchia. Di giorno troppo caldo. Il giorno era
per il riposo.
“Sergio, quando arrivavano le cinque della sera mi succede una
cosa che è difficile da spiegare. Sento la notte sulla pelle e di
chiudermi in stanza proprio non ne voglio sapere.
“per vivere come vuoi vivere sei arrivato nella città giusta.
che fortuna, pensava il capitano Zaravakis, perché la Colombia
era uno dei paesi più pericolosi al mondo.
“non devi
paramilitari.
credere
a
tutte
quelle
storie
di
guerriglie
e
“come non ci devo credere?
“storie.
“Sergio, storie vere.
“solo storie.
“però la gente continua a morire.
“è quello che raccontano i giornali.
“ho sentito di un tipo che è stato appeso a un albero con una
corda e sotto gli hanno acceso un fuoco. Lo hanno cucinato a fuoco
lento. Nel frattempo violentavano la moglie. Poi quando era cotto a
puntino hanno obbligato la moglie a mangiarlo. Poi hanno
ammazzato anche la moglie.
“guardami, mi vedi?
“certo che ti vedo.
“non mi è mai capitato niente.
110
Passava le sue giornate chiuso dentro la stanza di motel a bere
aguardiente antioqueño. Che gli poteva capitare?
“beh, ad essere sincero una volta ho rischiato la vita.
“che ti è successo, Sergio?
“si è staccato un pezzo di tetto e sono rimasto sotto. Urlavo e
urlavo ma nessuno mi sentiva. Faceva un caldo orribile. Sono
rimasto sotto le macerie per ore e la posizione mi ha provocato
un’embolia e quasi resto paralizzato.
“chi ti ha trovato?
“non ci crederai. Un gruppo di ladri che è entrato nella stanza
perché non mi vedeva mai uscire e pensava che fossi fuori città.
“e ti hanno salvato la vita.
“no, mi hanno rubato tutto.
“e tu come hai fatto?
“si sono rubati anche le travi di legno che mi erano cadute
addosso e sono arrivato fino alla strada.
“che storia terribile, Sergio.
“certo ragazzo, che storia terribile.
Dunque paramilitari, guerriglie, travi di legno ed embolie. La
Colombia era un paese davvero pericoloso. Quando il capitano
Zaravakis prendeva un autobus non era mai sicuro di arrivare. Se
non era un gruppo sovversivo che lo portava nella giungla, era
l'autista, che alla mattina presto, smaltendo la sbornia davanti allo
specchio, si pavoneggiava per una certa somiglianza somatica con
Niky Lauda e ne emulava poi le gesta al volante di un molosso di
quindici metri, con cinquanta persone a bordo.
“non credere alla frottola degli incidenti stradali, è solo
propaganda politica.
“Sergio, non capisco in che modo.
“pura propaganda. Guardami, non mi è mai successo niente di
simile.
Come smentirlo.
“e i poveri?
“i poveri non fanno niente. Qui non è mica Buenaventura.
RAPINA NUMERO UNO
IL DENUTRITO
111
“ragazzi, non potete andare a Monteria.
“che succede?
“la zona è in mano ai paramilitari e di notte chiudono la strada.
“mi faccia capire.
“per arrivare a Monteria bisogna attraversare un ponte che è un
punto strategico. L’esercito lo controlla durante il giorno ma di
notte i paramilitari fanno finta di attaccare. Del ponte ne hanno
bisogno. Passa la droga.
“si spieghi meglio.
“c’è una specie di accordo tacito. Di giorno si vede l’esercito.
Viaggiano carovane di automobili, autobus e camion e il ponte è
presidiato. Per dare l’impressione che tutto sia sotto controllo.
“come l’impressione?
“sono idee del nano. Poi arriva la notte e i soldati se ne vanno. Lo
usano i paramilitari.
“noi che dobbiamo fare?
“mi dispiace ragazzi, ma l’ultimo autobus partiva alle quattro.
Chiudono la strada. Dovete tornare domani.
Fu così che il capitano Zaravakis e la sua bella montarono
sull’autobus, non quello che andava a Monteria, ma quello che
faceva la spola fra il terminale dei trasporti terrestri e il centro
della città. Cominciava a fare notte, buia del tropico, e lungo
l’avenida si accendevano le luci. Se lo ricorda bene quel viaggio.
Fu l’ultima volta che la baciò.
“no ho ancora capito perché hai lasciato l'Italia e sei venuto a
vivere in un paese disperato come questo.
“a dire il vero non l'ho capito neanch'io.
“perché sei un coglione. Vuoi fare l'avventuriero da quattro soldi.
Ma non lo vedi che succede? Una persona non può decidere della
sua vita. Con questa conferenza la mia carriera poteva prendere
una svolta.
La baciò molte volte, lui seduto al finestrino, perché gli piaceva
guardare la città sterminata delle catapecchie. Lei dalla parte del
corridoio, perché voleva distendere le gambe e la periferia non le
importava.
“che dovevi fare di preciso?
“ti ricordi quello scritto che parlava di Hector Abad Faciolince?
“sì che lo ricordo.
112
“vediamo, raccontami un po'.
“raccontarti che?
“dello scritto.
“ad essere sincero mi sono scordato i dettagli.
“sei un buono a nulla. Credo che quando ti parlo non mi stai
nemmeno ad ascoltare.
“non ci badare. Questa sera ti porto a mangiare arabo e poi
andiamo a Santo Domingo a fumare le sigarette e a litigare.
“non lo so. Se telefono può darsi che cambino il giorno. È quello
che farò. Domani chiamo e spiego tutta la storia.
Il capitano Zaravakis pensava che se non erano partiti un motivo
ci doveva pur essere. Niente a che vedere con una strada chiusa o
con una data che si può spostare con una telefonata. Piuttosto
qualcosa che solo si capiva con un esagramma dell'I Ching. Ma non
avevano nessun I Ching a portata di mano e comunque lei non ci
avrebbe creduto.
L’avenida continuava il suo cammino e le luci fioche dentro alle
case dei poveri si facevano via via più splendenti. Vide da lontano
la sagoma imponente della fortezza spagnola che proteggeva la
città. Un tempo, pensò, perché adesso non poteva fare niente.
Il profilo invecchiato della fortezza si perse alle loro spalle. Pochi
minuti e si sarebbero viste le grandi mura che circondavano la città
vecchia. Con tutte le sue chiese e le sue luci, queste sì, luci che si
potevano chiamare così, tante e opulenti.
“signore, dobbiamo scendere al baluardo di Santo Domingo.
“straniero, non ti preoccupare. Ti avviso io.
Il bus cittadino correva forte l’avenida. Arrivarono presto a
destinazione.
Erano adesso persone a piedi piene di bagagli e i bus con i loro
fanali erano bus di altri. Passavano e facevano rumore. Loro
stavano dalla parte del mare, dall’altro lato le grandi mura che
difesero la città dai pirati, con le porte strette per entrare. In
mezzo una strada male illuminata, e solitaria.
“ragazzi, una moneta.
Comparve una sagoma alta e denutrita.
“tu stai zitto, altrimenti capisce che non sei di queste parti.
Sussurrò lei e aggiunse cose poco carine. Come sempre.
“vattene! Non abbiamo niente.
113
Lui pensò che una moneta avrebbe anche potuto dargliela.
“signorina, solo una moneta.
Il capitano Zaravakis fece un movimento verso la tasca ma uno
sguardo impercettibile di lei lo bloccò. Come a dire la situazione
necessita di mano dura e tu sei un pivello italiano che non capisce
un cazzo e la colombiana sono io e so.
“te l’ho già detto. Non abbiamo niente.
Il denutrito aveva una faccia d'ebano e pesava trenta chili. Gli
occhi sporgevano e sembravano dovergli schizzar fuori dagli
zigomi da un momento all'altro.
“una moneta, solo una moneta.
I due viaggiavano con la schiena piena di bagagli. Lui con il suo
zaino vietnamita che era quello di mille viaggi. Lei con uno zaino
più piccolo, e un telefono cellulare che pendeva da una delle
spalline come fosse una papaia.
“togliti adesso, che dobbiamo andare!
Il denutrito non aveva le scarpe e sembrava dover crollare a
terra da un momento all'altro. Il capitano Zaravakis non parlava,
perché la colombiana era lei. Figurati Cartagena, diceva qualche
giorno prima, abituata con quello che succede a Bogotá…
I due fecero per camminare dall’altra parte dell’avenida, non
dalla parte del mare ma verso le grandi mura della città vecchia.
“voi non andate da nessuna parte!
Il denutrito si spostò di un passo e bloccò il cammino. Non molto,
vista la mole. Bella strategia, pensò il capitano Zaravakis, fortuna
che la colombiana era lei.
“dammi il portafoglio!
Il denutrito parlava solo con la ragazza. Essere straniero gli
stava dando i primi vantaggi. Il denutrito non parlava. Il denutrito
le stava gridando in faccia.
“sbrigati maledetta puttana!
Lei aprì il portafoglio e consegnò la banconota più grande che
aveva. Era azzurra.
“dammi puttana!
Il denutrito guardò dalla notte buia dell’avenida. Non gli
sembrava abbastanza.
“cagna maledetta, credi che sia stupido? Dammi gli altri soldi!
“non ne ho altri soldi.
114
La voce di lei lo sembrava implorare.
E il capitano Zaravakis? Sempre lì a guardare la scena, ospite
osservante.
“forza troia succhiacazzo. Dammi il telefono!
Il denutrito si faceva sempre più minaccioso. Non c’era posto
dove andare, stavano in una specie di spartitraffico in mezzo alla
strada buia. I fanali degli autobus illuminavano quel poco che
restava del denutrito e se ne andavano via.
“puttana che prende il cazzo nel culo me lo dai quel maledetto
telefono!?
“no, il telefono mi serve.
“non mi frega un cazzo se il telefono ti serve. Dammelo!
“se mi lasci il telefono ti do altri soldi.
Lei non aveva altri soldi. Altri soldi ne aveva lui. Maledetta
puttana succhiacazzo, pensò il capitano Zaravakis.
Il denutrito allungò le mani verso il telefono bene in vista e lei si
ritrasse. Il denutrito si arrabbiò davvero. Tirò fuori una pistola
grande come una baguette.
“veloce cagna, che non ti voglio mica ammazzare per un
telefono!
Ascoltata la formula magica, aprì l’astuccio e consegnò. Poi
pianse.
Il denutrito attraversò di corsa l’avenida, verso il mare, e saltò
dentro al primo degli autobus, che i soldi per il biglietto adesso ce
li aveva. Poi la solita storia. La persona caritatevole e indignata che
si ferma con la macchina e chiede cosa è stato, quando tutto è
finito che non si sa mai. La polizia che arriva in assetto da
combattimento e comincia a infastidire con una serie di domande
inutili.
“com’era?
“magro biafrano.
“capelli?
“neri.
“colore?
“scuro.
“abbigliamento?
“uno smoking di Armani.
115
“non fare lo spiritoso, straniero. Accento?
“dei Caraibi.
“strano.
“strano che?
“i poveri di queste parti non sono pericolosi.
“eh sì.
Disse un secondo poliziotto.
“non sono mica i poveri di Buenaventura.
“autobus?
“verde.
Saltarono sulle loro potenti motociclette e partirono sollevando
la ruota davanti, alla ricerca di un tipo magro con addosso uno
smoking.
“ragazzi, dovete aspettare qui.
Disse un terzo poliziotto che era sbucato chissà da dove.
“come aspettare qui?
“sì, perché adesso i colleghi fermano gli autobus verdi e se
incontrano un tizio che corrisponde alla descrizione che avete fatto
ve lo portano per il riconoscimento.
Un’ora e quarantacinque minuti dopo la rapina.
In una città dove ci saranno almeno 450.000 persone e 700
autobus che corrispondono alla descrizione.
RAPINA NUMERO DUE
IL LADRO GENTILE
Lei se ne era andata con un altro e questa era una delle poche
cose belle che gli erano capitate da quando era arrivato in
Colombia. Adesso usciva con Grace, una ragazza nuova, più bella,
con la pelle colore dell’ambra e tanti capelli lisci e neri.
“che hai mangiato in questi giorni?
“platano fritto, riso al cocco e carimañola.
“niente di nuovo.
“no, niente di nuovo.
“ti mancano ancora un sacco di cose che devi provare prima di
partire.
116
“io non voglio partire.
“come? Non vuoi tornare in Italia?
“no.
Questa cosa del non tornare in Italia la sorprendeva. Forse la
inquietava. Lei se lo voleva portare a letto ma così, senza impegno,
e continuare la relazione con il suo fidanzato. Una presenza
prolungata avrebbe potuto essere un impiccio. Se proprio la storia
con lui doveva andare avanti, che andasse avanti in Italia, via,
lontano da questa città di merda dove non succede mai niente. In
ogni caso la presenza dello straniero che si prolungava era soltanto
un impiccio.
Anche il capitano Zaravakis se la voleva portare a letto. Anche lui
così. Senza impegno, e non pensava che una presenza prolungata
in città potesse essere un impiccio. Ancora non si erano baciati.
“lo hai provato il borojó?
“no, non lo ho provato.
“se lo mangiano gli uomini impotenti. E le ostriche della baia?
“no.
“dicono che dopo devi andare a dormire dal sonno che danno, ma
quando ti svegli…
“quando ti svegli che?
“lo hai provato il sancocho di sabalo?
“no.
“dicono che se vai a dormire dopo un sancocho di sabalo non ti
svegli più.
Parlavano solo di cibo, lui e Grace, perché lui conosceva adesso
più o meno settanta parole e quaranta servivano per mangiare. Se
voleva parlare con qualcuno era così.
“in Italia cresce la maracuya?
“no.
“e il lulo?
“no.
“e la guayaba?
“no Grace, in Italia la guayaba non cresce.
“non credo potrei vivere in Italia, non cresce niente.
Nessuno ti ha invitata a farlo, pensò lui. Non si erano ancora
baciati.
117
Con Grace si incontrava sempre in un parco. Stava seduto in una
panchina e aspettava. Prendeva un caffè e aspettava. Fumava una
sigaretta e aspettava. Poi lei arrivava e gli chiedeva cosa avesse
mangiato i giorni precedenti.
“cazuela de mariscos e bocachico fritto.
“si pesca il bocachico in Italia?
“no, non si pesca il bocachico in Italia.
Lui voleva un posto carino per baciarla. Passava le ore prima
dell’appuntamento a pensarne uno.
“dove andiamo questa sera?
“potremmo andare alla piazza di San Diego.
Era molto bella la piazza di San Diego.
“no, oggi proprio non la sopporto.
“ti piaceva molto la settimana scorsa.
“sì, ma oggi non la sopporto.
Era difficile indovinare dove Grace volesse passare la serata.
“e dove ti piacerebbe andare?
“sei qui da un po’. Conosci gli stessi posti che conosco io.
“andiamo all’orologio pubblico.
“la sera è una merda, e poi è pieno di motel. Non vorrai mica…
“andiamo al negozio che vende le cose fritte, le compriamo e le
andiamo a mangiare dove fanno i succhi, dove si vede il castello.
“per quei posti gira sempre il mio fidanzato. Non ho voglia di
incontrarlo.
Per una volta erano d'accordo.
Una notte la invitò a una passeggiata lungo le mura. Era molto
bella la passeggiata lungo le mura. Si camminava sopra e si vedeva
il mare.
“però se non ti piacciono le mura possiamo andare in un altro
posto.
“no, oggi le mura mi piacciono molto.
che fortuna, pensò, la porto a vedere il mare al tramonto e
quando il sole rosso del tropico scompare dentro all’orizzonte del
tropico e i gabbiani del tropico gridano forte il loro canto, quando
la sula disegna traiettorie nel cielo, pensò lui, le accarezzo dolce le
mani e la bacio con la lingua.
118
Camminavano i due sopra a quelle mura, piene di coppie
innamorate che andavano a cercare i segreti che fanno di un
momento qualcosa che non si può dimenticare.
“la yuca l’hai mangiata?
“sì, un sacco di volte. E non mi sembra poi un gran che.
“cresce la yuca in Italia?
“no, però si può comprare nei negozi specializzati. Ovvio, non in
tutti, in quelli che vendono il cibo alle persone che vengono dai
paesi lontani e che insistono con il loro pregiudizio nei confronti
dell'alta cucina mediterranea. Beh, se vuoi mangiare yuca in Italia
non è mica così economico come qui. A dire la verità la yuca costa
un sacco di soldi e la yuca è buona solo se costa poco, perché se
devi spendere molto la yuca è una merda. Ti compri qualcos’altro.
“che storia è questa? Ti ho chiesto se la yuca cresce in Italia.
“l’ho fatto per portarmi avanti col lavoro.
“hai qualcosa da fare?
Certo che aveva qualcosa da fare, accarezzarle le dita e infilarle
la lingua. Guardò enigmatico verso l’orizzonte e non rispose. Un
sole rosso e basso occupava il cielo. I gabbiani cominciavano il loro
canto. Guardò Grace negli occhi. La sula non era ancora arrivata.
“dimmi, hai qualcosa da fare?
Certo che aveva qualcosa da fare, e subito, perché il tutto stava
prendendo una piega strana. Vide una coppia di ragazzini che
passeggiavano felici mano nella mano. Non voglio finire così,
pensò. Forse il posto che aveva scelto era troppo romantico.
“perché non andiamo alla stazione degli autobus?
“e che devi fare alla stazione degli autobus?
Rimase in silenzio e guardò ancora l'orizzonte. Pensò che era
l’ultima, perché va bene l’enigma ma dopo un po’ l'avrebbero preso
per un minorato.
Camminarono lungo le mura. Il sole non c’era più e la sera
cominciava a farsi notte, buia dei tropici. Una figura sinistra e
magra come un fuscello uscì dal buio.
“ragazzi, rimanete tranquilli e non vi succederà niente. Vedete
questo ferro? Si usa per rompere i blocchi di giacchio. Non ho
nessuna intenzione di usarlo con voi ma se sarà necessario lo farò.
Sono due giorni che non mangio. Fa vedere che hai in tasca.
Dammi la banconota da dieci. Non così, più nascosto, altrimenti
capiscono. Fai finta di stringermi la mano. Come se fossimo amici.
119
Grazie, adesso potete andare.
Fu indolore. Ripresero a camminare fino al primo spazio
illuminato. Potevano arrivarne altri. Si fermarono sotto alle luci del
Café del Mar.
“la guanabana l’hai provata?
“no Grace, la guanabana non l’ho ancora provata.
Il capitano Zaravakis l’accompagnò alla stazione degli autobus e
la baciò.
INTERMEZZO
LA GENTE DI NOTTE
“se ti vai a mettere sulle mura in piena notte…
“Sergio, non era piena notte e poi c’era un sacco di gente.
“sì, però le mura non sono un posto sicuro.
“ma Cartagena non era la città dove non succede mai niente?
“è vero. Cartagena è il posto più tranquillo di tutta la Colombia.
“com’è che sono qui da due settimane e mi hanno già rapinato
due volte?
“stai troppo in giro. La strada è sempre la strada e se decidi di
vivere la strada la devi prendere per quello che è, in tutti i suoi
aspetti. E la notte? Non parliamo della notte. La notte è fatta per
dormire. Uno si corica nel letto, si fa un goccetto e aspetta il
sonno.
Così no. Quando il sole se ne andava prima dietro alle grandi
mura e poi dentro al mare, qualche cosa di magico calava sulla
città.
“Sergio, proprio non me la sento di chiudermi dentro alla stanza
solo perché fuori le strade sono popolate di magri individui
malintenzionati pronti a tutto pur di togliermi i quattro soldi che ho
addosso.
“la vita è fatta di scelte, ragazzo.
“ben detto, Sergio.
Passeggiava una notte per quelle strade che sapevano d’incanto.
Aveva salutato Grace che andava a casa sua e l’aveva linguazzata
alla stazione degli autobus. Era il momento di ritornare, e come
tutte le notti qualcosa era arrivato e lo incollava alla città. Non
posso tornare adesso, pensava, e la verità è che davvero non lo
poteva fare. Imboccava così le viuzze strette e male illuminate
120
della città vecchia e più erano strette più gli piacevano, più erano
male illuminate più gli davano una sensazione di sublime paura che
partiva dallo stomaco e arrivava fino alla punta delle dita. Era
notte e la città cambiava. Si spegnevano le vetrine che mostravano
smeraldi e oro, i venditori di oggetti inutili se ne andavano a
dormire, i turisti si barricavano dentro alle stanze belle dei loro
hotel. Rimaneva il popolo della notte, una strana mescolanza di
personaggi disperati che sembrava non avessero più niente da
chiedere alla vita ma si fermavano comunque lì ad aspettare.
Gamines (ragazzi di strada)]
Abitavano nella città vecchia, come i ricchi che avevano scelto il
centro storico perché vivere nel centro faceva tendenza, come i
romantici visionari che ancora aspettavano i pirati. Comparivano
con il buio, prima non si vedevano mai, e non lo aveva ancora
capito dove si andassero a mettere. Gironzolavano tutta la notte
scalzi e sporchi di polvere chiedendo pochi soldi per un pasto e
quando qualche anima buona regalava loro una moneta, sparivano
e si compravano quella colla che si respira da dentro alle bottiglie.
Il capitano Zaravakis li conosceva quasi tutti. Certo, aveva lasciato
tante monete. Non dare le monete ai gamines, gli dicevano, non si
vanno mica a comprare la cena, si comprano la colla. Ma a lui non
importava, non era tipo da distinzioni sottili, e quello che si
andavano a comperare con le sue monete era affar loro. Li
conosceva quasi tutti, e a ciascuno di loro raccontava storie con il
solo scopo di esercitare la fantasia.
“capitano Zaravakis, perché non vuoi tornare al tuo paese?
“amico mio della strada, non è che non voglio tornare, non posso.
“e perché non puoi?
“ehi amico, questi sono affari miei.
“no, scusa. Non ti volevo infastidire.
“non mi infastidisci. A te che sei un amico fidato lo posso anche
raccontare.
Un po’ di silenzio per il mistero.
“e allora?
“ho ucciso un uomo che faceva parte di una banda mafiosa e
adesso tutta la sua famiglia mi sta cercando.
“perché l’hai ucciso?
“perché ha chiesto il nome alla mia fidanzata.
“come l’hai ucciso?
121
“gli ho piantato una forchetta nella gola.
“con una bottiglia rotta sarebbe stato tutto più facile.
“grazie, per la prossima.
Oppure.
“capitano, perché non vuoi tornare nel tuo paese?
“non è che non voglio tornare, ma sai com'è, adesso lavoro qui.
“e che fai?
“sono affari miei.
“scusa.
“è che faccio un lavoro delicato.
“pericoloso?
“molto pericoloso.
“quale?
“lavoro per la mafia italiana.
“la mafia?
“sì, la mafia. Coordino il traffico di droga tra la Colombia e
l’Italia.
“e guadagni tanti soldi?
“talmente tanti che se li vuoi immaginare tutti assieme non ce la
fai.
“ti piace farlo?
“è che non posso stare un momento solo.
“che stai a dire? Non ti ho mai visto con nessuno.
“mi osservano e mi seguono da lontano, per non dare nell’occhio.
“chi?
“come chi? I sicari.
“perché?
“sono troppo importante per loro. Non si possono permettere che
mi succeda qualcosa.
“ci sono anche adesso?
“sì, ci sono anche adesso.
Sempre raccontava di mafia, perché era una delle poche cose
italiane che tutto il mondo conosceva. La pizza non era adatta.
L’altra bugia se la teneva per il giorno e per le persone che
122
vestivano elegante.
“qual è la tua professione?
“scrittore.
“che lavoro divino.
“sì.
“famoso?
“sì.
“tradotto?
“sì, ma solo in Giappone.
Venditori di notte]
Arrivava presto la notte del tropico e le persone camminavano
veloci verso le loro case. Ci si ritira la notte, che non si sa mai.
Quando il pomeriggio finiva e tutte le vetrine spegnevano le luci,
quando le porte si sbarravano con lucchetti e catene, le strade si
popolavano di individui vampiro che cominciavano a vivere le loro
giornate. Venivano a vendere cose un po’ da tutti i quartieri lontani
della città. I venditori arricchiti tenevano i loro negozi mobili in
qualche garage del centro storico. Pagavano un affitto a una
guardia qualunque di sicurezza che guadagnava troppo poco a
vigilare il suo edificio elegante, che apriva il portone di quello
vicino in disuso e riempiva il cortile di carrettini. Nessuno diceva
niente. Nessuno diceva mai niente in Colombia. Poi arrivavano
loro, il popolo dei venditori di notte, ritiravano il negozio e
cominciavano a mettersi ciascuno al proprio angolo di strada,
sempre lo stesso perché i clienti potevano tornare, sempre senza
dispute, perché nessuno aveva un permesso per stare lì e se c’era
qualche problema bastava chiamare il cognato che per l'occasione
smetteva di picchiare la moglie e arrivava con una pistola.
I più temerari si costruivano un negozio attaccato alla bicicletta.
Pedalavano lungo le avenide lunghe della città per chilometri e
chilometri, piano, molto piano, perché il negozio pesava come un
autobus. L’ora era quella del tramonto, per stare lì pronti quando
calava la notte. L’ora era quella del traffico. Gli autobus
zizzagavano verso il bordo della strada perché c’erano le persone
da raccogliere. Le moto-taxi zizzagavano perché sono motociclette
e le motociclette lo fanno per natura. Anche le auto zizzagavano,
perché il traffico che ondulava apriva varchi interessanti. Gli unici
che non zizzagavano erano i conducenti di carretti-negozio,
incollati al bordo dell’avenida, perché cominciava a fare buio e
desideravano arrivare interi al lavoro. Eccellenti pedalatori,
123
pensava il capitano Zaravakis, lui che aveva il ciclismo nel sangue
e le salite e le Dolomiti come ricordo e nostalgia, adesso che viveva
in questa terra calda e lontana. All’ora del tramonto anche il
capitano Zaravakis zizzagava, montato in qualche bus lungo le
avenide che portavano ai quartieri poveri del sudest, per vedere se
riconosceva qualcuno di quei pazzi conducenti di attività
commerciali che avrebbe poi incontrato negli angoli di strada.
Perché di notte la città vecchia si riempiva di venditori in
bicicletta, o di quelli che tenevano il carretto dentro alla casa in
disuso con il proprietario scappato a Miami o in prigione a Miami.
O morto ammazzato prima di arrivare a Miami.
Puttane]
“amore, la facciamo una cosa eccitante?
“bellezza, ho pochi soldi.
“amore, non ti preoccupare dei soldi.
“io non mi preoccupo dei soldi. Sei tu quella che si preoccupa dei
soldi.
“e che cazzo. È il mio lavoro.
“niente da eccepire.
“allora amore, la facciamo una cosa eccitante?
“e che sarebbe una cosa eccitante?
“tu me lo metti fino a quando vieni e io sto sotto e godo che
sembra vero.
“sarebbe questa la cosa eccitante?
“se ti piace, ti dico le cose sporche.
“già meglio.
“andiamo?
“ne sai molte?
“certo che ne so molte, non faccio mica la maestra d'asilo.
“giusto.
“amore, mi sembri un po’ stanco oggi.
“è che mi sono dovuto svegliare alle 9 del mattino. Non sono
abituato.
“alle 9 del mattino? che è successo?
“un molestatore. Voleva informazioni sul corso di italiano.
“molestatore e molestatore. È il tuo lavoro.
124
“non è proprio il mio lavoro. E comunque gli ho detto tutto quello
che voleva sapere. Però che palle.
“sempre a lamentarti.
“ehi bellezza, se adesso arriva un vecchio grasso e puzzolente
con l’accento degli USA e ti riempie la passera di soldi però a una
condizione: a lui piace pisciarti addosso e poi farselo succhiare,
infilartelo nel culo e…
“se è gringo non ce la fa, gli si affloscia.
“il gringo è imbottito di Viagra.
“continua.
“lui continua. Dice che te lo vuole infilare dentro al culo e poi che
glielo succhi un’altra volta.
“che vecchio porco.
“è il tuo lavoro. Per concludere ti vuole venire in bocca e ti vuole
fotografare quando ingoi tutto.
“pure il ricordo?
“da mostrare agli amici. Quando è venuto prende la telecamera.
“sempre gli amici?
“no, questo è per la collezione privata.
“che vuole filmare?
“ti mette sdraiata sulla schiena, ti solleva il bacino e fai pipì. Lui
si avvicina con la telecamera perché vuole fermare il momento,
vuole il rumore della tua cosina dolce e che si distinguano bene i
rigagnoli che ti corrono giù per la pancia.
“figlio di una gran troia.
“che fai?
“che vada a mangiare la merda.
“questo lo potresti fare tu al secondo incontro.
“chi ti dice che accetto?
“se ti mostra 50USD?
“ci potrei pensare.
“e se te ne mostra 100 di USD?
“sono già nel taxi.
“visto?
“sei cattivo. Perché mi dici queste cose?
125
“è una questione etica. C’è ora e ora per chiamare alla casa di
uno scrittore che insegna l'italiano per sopravvivere.
“da quanto tempo sei un professore/scrittore?
“sono uno scrittore/professore.
“che differenza fa?
“fa.
“andiamo?
“ho pochi soldi.
“quanti soldi hai?
“1000 pesos.
“1000 pesos? Bastano appena per un biglietto dell'autobus.
“1000 e 200.
“per 1000 pesos ti posso dire le cose sporche.
“dove andiamo?
“possiamo stare qui.
“bene.
“prima mi paghi.
“ti pago 1000 adesso e se le cose sono molto sporche ti do i 200
dopo.
“amore, farò un ottimo lavoro. Ti farò venire dentro ai pantaloni.
I 200 li puoi tenere per una sigaretta.
“grazie bellezza.
“non c’è di che, amore.
La gente del parco]
C’era un parco nella città vecchia, con tante panchine e tante
persone. Più persone che panchine. In mezzo troneggiava la statua
di Simon Bolivar. Di giorno arrivavano i turisti e si facevano
fotografare appesi alla statua. Si fermavano sulle panchine giusto il
tempo di riposare per il gran caldo e l’arrampicata e ripartivano,
che la città era piena di cose da vedere e rimanere troppo tempo
nello stesso posto non era poi tanto sicuro. La notte i turisti
scomparivano e rimanevano lì quelle persone che non avevano un
altro posto dove andare. Le persone continuavano ad essere più
delle panchine.
“signor Alberto, come sta?
“molto bene capitano Zaravakis. Qui, facendomi un goccetto.
126
“Maribel!
“ciao capitano Zaravakis. Come è andata oggi?
“bene, non ho lavorato.
“io nemmeno, neanche un ritratto. Quelli che arrivano in questi
giorni non hanno voglia di spendere. O meglio, si fermano a bere
nella piazza di Santo Domingo e pagano una birra come un ritratto
ma per l’arte non c'è mai un soldo.
“Maribel, il futuro ti sorriderà.
“speriamo lo faccia presto.
Maribel era negra, aveva trentacinque anni e dipingeva. È negra
anche adesso, perché non è mica morta. Quando voleva mangiare
andava al parco e disegna la faccia ai turisti. Era bella Maribel, e
aveva gli occhi tristi.
“Valencia, come sta?
“bene, bene.
“lo stomaco?
“sta migliorando.
“la schiena?
“mi fa ancora male.
“e l’ernia?
“dovrei operarla il mese prossimo.
Valencia diceva di avere un’ernia. Diceva, perché lui sì che è
morto. Quello che si vedeva da fuori era come una borsa dell'acqua
calda che cominciava subito sotto all’organo della riproduzione e
finiva alle ginocchia.
Il signor Alberto leggeva il telegiornale alla radio. Perse il lavoro
e cominciò a vivere nel parco.
“signor Alberto, la posso invitare per un caffè?
“molto gentile capitano Zaravakis. Marko! Un caffè per me e uno
per il mio amico italiano.
Marko era uno di quei venditori ambulanti che arrivava di notte
pedalando per l’avenida. Quando parlava non si capiva un cazzo.
Quando gli parlavi, chissà.
SIG. ALBERTO:
“Marko, dimmi quando mai ho bevuto un caffè
grande a quest’ora della notte!
MARKO:
“no, però. Cafè è cafè. Piccolo?
TRADUZIONE:
“mi dispiace signor Alberto. L’ho fatto così senza
127
pensare.
SIG. ALBERTO:
“non è che ti volevi approfittare del mio amico
italiano e mi hai dato un caffè grande solo perché lo pagava lui?
MARKO:
“grande, piccolo.
TRADUZIONE:
“sì, però non è necessario che lo dica qui davanti a
lui.
Di notte arrivava tutta una serie di personaggi a chiedere
denaro. Alcuni brutti.
“collaborami, ho fame.
“non posso, oggi non ho lavorato.
“tu non lavori mai.
“che ti importa?
“dammi una banconota.
Alcuni mica si accontentavano di una moneta.
“ma che vuoi?
“dollari.
“non hai capito. Un dollaro non lo ho neanche mai visto.
“dammi una banconota.
“non ho nessuna banconota e soprattutto non ne ho per te. Anzi,
lo vuoi sapere? Mi stai sui coglioni.
“dammi un banconota! O vuoi obbligarmi a rubare? Magari
proprio a te.
SIG. ALBERTO
(si alza in piedi da una panchina, con tono irritato):
“lascia in pace il mio amico italiano, che è una brava persona!
Se solo sapesse.
L'UOMO DI MERDA:
“sta zitto, vecchio. Me ne vado solo con un
banconota.
SIG.
(in piedi con il braccio destro alzato. Ferito
nell'orgoglio per il “sta zitto”, preoccupato forse più per i pensieri
che ha generato l'espressione “vecchio” che per la situazione dello
straniero. Con tono decisamente minaccioso si avvicina al
personaggio che chiede il denaro): “come ti permetti, lurido
schifoso uomo di merda. Non lo sai con chi stai parlando? In questo
parco dopo Simon Bolivar ci sono io!
ALBERTO
RAPINA NUMERO TRE
128
IL MONO E IL NEGRO
Fu così che una notte passeggiava per quelle strade che tanto gli
sapevano d’incanto. Salutò Grace che ritornava a casa e la linguò
alla stazione degli autobus. Era il momento di rincasare, ma ormai
è una vecchia storia, qualcosa era arrivato, e non posso tornare
adesso, e imboccò viuzze strette e male illuminate.
Dicono che la sorte aiuti gli audaci ma il confine tra l'audacia e
l'essere un coglione a volte è davvero labile. Vide due giovani
uomini giungere da una strada ancora più stretta e ancora più
scura. Uno era alto, magro come un palo della luce, aveva i capelli
pitturati di biondo ed era brutto come una scimmia. Lo
chiameremo il mono, che nella lingua del posto significa appunto
biondo, e anche scimmia. L’altro era magro come un verme in
posizione verticale, brutto almeno quanto il precedente ed era
negro. Lo chiameremo il negro. Il capitano Zaravakis continuò a
camminare come se le due figure della notte non esistessero, ma le
figure esistevano e si stavano dirigendo proprio verso di lui. Poi
cominciarono a correre e il capitano Zaravakis pensò ok, ci siamo.
Lo spinsero con violenza contro alla serranda chiusa di un
ristorante cinese, dal quale usciva un odore sinistro.
“fermo. Dacci tutto quello che hai!
Il mono colpì allo stomaco. Il negro tirò fuori un coltello dalla
tasca e glielo schiacciò contro la gola. Il mono infilò le zampe
dentro alle tasche.
“ha solo 7000 pesos, questo stronzo.
“cerca meglio, sicuro che è pieno di soldi, guarda la faccia che
ha.
“ti dico che non ce ne sono altri.
“figlio di puttana, dove tieni i soldi?
“dentro alla fica rotta di tua madre!
Ma non glielo disse.
“è tutto quello che ho.
“non mi raccontare balle, figlio di puttana!
La lama del coltello premeva sulla gola. Sentiva il freddo
dell’acciaio. Il mono colpì altre volte.
“controlla la borsa!
“niente, niente. Solo carte.
“gli orecchini. Veloce!
129
Il mono gli mise le mani sul viso, gli tolse gli occhiali e provò a
strappargli gli orecchini, ma le orecchie erano dure e gli orecchini
non venivano. Il capitano Zaravakis sentiva un dolore sordo e
diffuso.
“gli orecchini, figlio di puttana!
Ma le orecchie non venivano.
“i pantaloni!
Disse il negro.
I pantaloni venivano. Il mono li abbassò fino alle ginocchia.
Il capitano Zaravakis non pensava più. La paura se l’era preso. Il
freddo della lama che premeva contro alla gola, i colpi ricevuti o
chissà che. Non capiva più. Stava lì, e il mondo gli passava davanti
agli occhi come un teatrino di ombre. Una musica forte veniva
fuori da un locale pieno di puttane e faceva da sfondo. Anche
l’odore nauseabondo continuava a uscire dalla serranda abbassata
del ristorante cinese. Almeno un altro posto per essere rapinato,
cazzo, lontano da questa fogna. La strada era popolata di uomini e
donne che guardavano dall’altra parte.
“sì, ma le persone non si mettono mai.
Gli diranno.
“che vuoi che facciano? che si prendano una pugnalata nella
pancia solo per venire a difenderti?
Poi chiuse gli occhi.
“dai figlio di puttana, butta il coltello!
Mancava solo la polizia.
“butta quel maledetto coltello!
Sembrava che il negro non ne avesse la più lontana delle
intenzioni. L’arrivo della polizia era un impiccio. Meglio andarsene
senza i pantaloni ma andarsene. Vero, si dava un po’ nell’occhio.
Ma che importava, il capitano Zaravakis aveva delle gambe
sensuali e forti.
“il coltello, il coltello!
Il capitano Zaravakis guardò il negro negli occhi e gli vide dentro
la paura, adesso che il negro stava nella stessa strada con lo stesso
coltello (e con lo stesso italiano) ma con una pistola puntata alla
testa. La polizia di Cartagena aveva una fama sinistra. Gli atti di
violenza si susseguivano. Picchiavano, ammazzano. Poi erano tutti
corrotti. Anche il negro lo sapeva. E a lui nessuno lo aveva
raccontato. La sua era quella paura di chi ha provato sulla pelle.
130
“butta il coltello o ti sparo nella testa, grande figlio di una troia
negra!
“con chi ha scopato quella discarica di tua madre per farti così
brutto?
“ehi, ma i negri puzzano tutti come te?
Il negro non rispondeva.
In una maniera o nell’altra sarebbe terminato.
E terminò.
“che ti hanno rubato?
“tutto quello che vedi è mio.
“loro dicono che hai della marijuana.
“loro sono quelli che mi hanno rapinato. Non sono attendibili.
“ti hanno rubato dei soldi?
“7000 pesos.
“non hanno soldi addosso.
“certo che ne hanno. Me li hanno appena presi.
“ragazzo, se ti dico che non ne hanno non ne hanno.
“li avranno portati in banca.
“straniero, non fare lo spiritoso.
“non faccio lo spiritoso. Voglio solo i miei soldi.
“ti ho già detto che soldi non ne hanno.
perché continuare? Desiderava dormire.
“signor agente, abbiamo finito?
“hai fretta di andare? E tutti i tuoi soldi?
“sono stanco.
“vedo che hai capito. Se vuoi, il collega ti accompagna.
“un momento collega. Deve fare denuncia.
“straniero, ti interessa denunciarli?
“mi interessa di più schiacciarli come scarafaggi.
“smetti di fare lo spiritoso, te l’ho già detto.
“non faccio lo spiritoso.
“ragazzo, li vuoi davvero denunciare?
Il mono e il negro stavano contro un muro, sotto alla minaccia
dei pistoloni dei polizonti.
131
“io non te lo consiglio. Questi tra due giorni sono di nuovo in giro
e ti potresti mettere in un grosso problema. Ti hanno o non ti
hanno restituito le tue cose?
“non mi hanno restituito i miei soldi.
“ti ho già detto che soldi addosso non ne hanno.
“sarà.
“allora?
“allora che?
“dai vattene, il collega ti accompagna all’hotel.
“motel.
“ti accompagna al motel.
Se ne andarono verso l’Hotel Central. Che anche se si chiamava
hotel era un motel. Il capitano Zaravakis e l'agente che lo
accompagnava.
“ragazzo, non stare ad ascoltare il mio collega. Adesso li
portiamo alla stazione di polizia e domani mattina li trasferiscono
al carcere di Chambacù. Tu vai e denunci. È l’unica cosa che si può
fare. Li possiamo trattenere per ventiquattro ore e se non lo fai
domani sono in giro. Ma devi essere tu a denunciarli. Ricordati.
Domani mattina. Carcere di Chambacù.
“e la storia del problema?
“tu credi che se li lasci andare ti offriranno una cena?
Il tempo non si può fermare nemmeno rimanendo nel letto con
gli occhi sbarrati, e arrivò il mattino.
“che desidera, signore?
“sono qui per denunciare due persone.
“che è successo?
“sono stato rapinato.
“quando?
“ieri notte.
“dove?
“città vecchia.
“che facevi di notte nella città vecchia?
“ci vivo.
“racconta.
Lui raccontò.
132
“ragazzo, seguimi fino alle celle.
Camminarono lungo un corridoio. Le celle davano tutte al cortile.
“dai figli di puttana, alzatevi!
Si fermarono davanti alla prima. Le celle erano piccole e buie e
occupate da una massa umana intenta a riposare. Usciva un caldo
innaturale. Usciva un odore che toglieva i respiri.
“che cazzo vuoi, stronzo di un poliziotto?
“sta zitto, scarico di fogna, e presentati qui davanti.
“e che vuoi?
“il ragazzo deve identificare due persone.
“che gli hanno fatto, poverino?
Tutti risero.
Un uomo di cui non si capiva l'età si alzò dal pavimento di terra e
polvere e camminò fino alle sbarre. Il poliziotto lo colpì allo
stomaco con il manganello.
“più diritto, figlio di puttana!
L’uomo era magro e curvo e non aveva vestiti. Portò le mani alla
bocca dello stomaco e si piegò in un gemito di dolore. Il suo affare
lungo e magro ciondolò.
Il poliziotto fece per colpire di nuovo ma l’uomo fece un passo
indietro e guardò fuori, con lo sguardo di chi augura la morte.
“vieni qui topo di fogna, e mettiti bene in piedi.
L’uomo si avvicinò alle sbarre e guardò diritto in faccia il ragazzo.
Le spalle gli rimanevano curve in avanti. Anche il capitano
Zaravakis lo guardò diritto in faccia, poi lo sguardo scivolò a quel
suo coso lungo, troppo lungo, che adesso non ciondolava più.
“è lui?
“no, non è lui.
“vattene, ammasso di letame.
L’uomo con la faccia sporca e i capelli arruffati di polvere tornò a
sdraiarsi, lì da dove era venuto. Scomparve nell’oscurità della
cella.
“tu, pezzente, alzati!
Un altro corpo si mosse dalla massa umana che il buio non
lasciava distinguere. Anche l’aria immobile si mosse e dalla cella
uscì un odore forte di sudore e merda.
Il capitano Zaravakis aspettava di vedersi davanti la faccia da
133
scimmia del mono, o quella da culo del negro, ma dall’altra parte
delle sbarre. Aveva paura.
“no, non è questo.
“nemmeno questo.
“no, era più alto.
“più negro.
“più brutto.
“ragazzo, qui non ci sono.
Le celle erano terminate ed erano terminati anche i corpi.
“mi hanno detto che li avrebbero portati qui.
“vuoi che ti spieghi come funziona da queste parti?
“dica.
“i poliziotti vedono due rapinatori che ti tolgono i pantaloni in
mezzo alla strada e si fermano. Perché gli importa dei tuoi
pantaloni? Sbagliato. È che pensano: se stanno lì a quell'ora può
essere che abbiano già rapinato. E questo è un regalo, mi spiego?
“no.
“sei nuovo?
“sì.
“non mi hai raccontato che hanno trovato tutto tranne i soldi?
“sì.
“è che di soldi ne hanno trovati molti. Se li sono messi in tasca
loro e i ladri via, che nessuno ha visto niente. Oppure i ladri
lavoravano sotto protezione e i poliziotti sapevano. L’arresto era
tutta una messa in scena.
“un poliziotto insisteva perché li denunciassi.
“perché è una persona onesta. Mica tutti sono marci. È che
questo è un paese difficile.
“agente, tante grazie.
“non c’è di che.
Il ragazzo uscì dal carcere e cominciò a camminare su per il
ponte che attraversa la laguna. Una delle tante. Lontano si vedeva
la siluette irregolare della città vecchia. Si sentì bene. L’aveva fatto
ma loro non c’erano. Lui sì.
FINALE
134
“Sergio, ne ho abbastanza. In questa città non succede mai
niente.
“te l'ho detto, la marijuana, il caldo…
“me ne vado.
“e dove credi di andare?
“Buenaventura.
“Buenaventura? Ma se è una delle città più pericolose del
mondo…
“Sergio, è che ho bisogno di un posto che mi obblighi a tenere gli
occhi aperti. Devo cercare qualcosa e qui non posso. Troppo
tranquillo. Non succede mai niente.
“hai ragione, ragazzo. Qui non succede mai niente.
“il problema è che la città è piena di poveri che passano le
giornate a fumare marijuana, e se non lo fanno i poveri chi lo deve
fare?
“qui si buttano dentro all’amaca.
“non è che sono obbligati a farlo, però così non va.
“giusto, se uno è povero che faccia il povero.
“giusto Sergio, se uno è povero che faccia il povero.
“che stai cercando ragazzo?
“qualche cosa, Sergio, che mi incolli alla vita. La sento tanto
lontana. Ho bisogno di problemi.
“sai dove potresti andare?
“no Sergio, dove potrei andare?
“Buenaventura.
“Buenaventura?
“sì, Buenavantura. Là sì che i poveri fanno i poveri. Rapinano,
stuprano, ammazzano.
“è il posto che fa per me.
“ragazzo, sai come arrivare a Buenaventura?
“come Sergio?
“prendi un autobus per Buenaventura.
“grazie Sergio.
“anch’io ho pensato molte volte di cambiare aria.
“perché Sergio, non ti piace qui a Cartagena?
135
“come sono i tetti a Buenaventura, ragazzo?
“buoni, ho sentito dire.
“partiamo assieme?
“ne sarei felice.
136
Hotel Central
Le case erano alte due piani e i balconi affacciavano uomini con
pancia e sigaretta e donne con uomini e bambini. Tutto era
pitturato di verde, di giallo e di blu. Dentro a una di quelle case
c'era una donna che camminava con fatica su per una scala.
Portava uno zaino largo che le nascondeva il corpo, come se si
dovesse fermare per molto tempo. Dietro alla donna camminava il
capitano Zaravakis. Anche lui aveva uno zaino largo che segnava le
spalle. Gli scalini di legno si piegavano sotto al peso e si ascoltava
il rumore. Faceva caldo, appiccicoso immobile pomeriggio del
tropico senza un filo di vento. La città vecchia stava dentro alle
mura e toglieva i respiri.
Sorrideva la donna, salutava persone che sembrava conoscere e
le persone sorridevano a lei e le guardavano il culo. Non c'è
dubbio, c'era già stata all'Hotel Central. Il capitano Zaravakis
stringeva la mano alle stesse persone che guardavano il culo alla
donna e si presentava con rispetto come tocca ai viandanti in una
terra straniera. Aveva gli occhi riempiti coi sogni e i pensieri
lontani. Avrebbe rotto la faccia a tutti quei maiali, ma pensava poco
male, guardate pure e immaginate quello che volete, che tanto
quel culo me lo linguo solo io.
Grazie signore
per farmi debole
pazzo
infantile
Grazie per queste prigioni
che mi liberano
Per il dolore che con me è cominciato
e non finisce
Grazie per tutta la mia fragilità così flessibile
Come il tuo arco
Signor Amore
Raul Gomez Jattin
137
Troppe cose in quel secondo piano dell'Hotel Central. Sedie a
dondolo, gatti, scimmie e pappagalli. E parole di poesie pesanti
come navi e dolci come le carezze di una donna lontana.
Occupavano i pensieri. Sembrava davvero non ci fosse posto per
quelle sedie dove riposavano i corpi persone vecchie e rugose con i
volti consumati dal sale. Non c'era posto per i pappagalli che
ripetevano suoni sgraziati in una lingua nuova. Le persone rugose
scherzavano con la donna dalle loro sedie a dondolo. Forse non ci
sarà posto nemmeno per lei, pensava il capitano Zaravakis.
Quattro anni erano passati e la donna non sembrava più la
stessa. Il capitano Zaravakis custodiva geloso la sua poesia. La
incontrò in un foglio sgualcito sul tavolo di una biblioteca.
Dimenticata da qualcuno o lasciata lì perché non serviva più.
Adesso serviva a lui. Grazie per farmi debole. E chi mai aveva
desiderato altro? Il capitano Zaravakis si immaginava come una
foglia dell'autunno in quella terra difficile e fredda che gli ha dato
la vita. Gli scappò un sorriso. Ha sempre creduto che l'immagine
possa apparire banale, a chi non sa. A lui no, che è persona dei
monti e degli autunni colorati e degli inverni lunghi. Che ascolta il
rumore delle foglie cadute che non si possono calpestare, troppe,
ai piedi tocca aprirsi il passo in quel mare di giallo e marron.
Sorrideva il capitano Zaravakis. Certo, sembrerà banale, piaceva
ripetersi al capitano, a chi non sa.
Ricordava con nostalgia gli autunni tiepidi di castagne e legna
che brucia dentro ai camini, lontano adesso nella terra sconosciuta
al di là del mare. Ricordava le notti che si portavano via la luce alle
quattro del pomeriggio, quando terminavano le foglie e il freddo
arrivava all'improvviso e si prendeva i corpi. Coprirsi non serviva a
niente. Il freddo entrava dentro come qualcosa dell'anima. Sentiva
che era giusto immaginarsi a quel modo, come una di quelle foglie
che il vento non lascia in pace nemmeno quando sono cadute. Gli
piaceva immaginarsi così. Ma non c'erano più autunni o inverni
lunghi e freddo che rompe le labbra, a Cartagena delle Indie.
Grazie per tutta la mia fragilità. La donna stava seduta con un
uomo vestito di bianco. L'uomo parlava anglosassone, con la
pronuncia sicura di chi al nord c'è stato davvero. Anche la donna al
nord c'era stata. Un altro nord, dove non si parlava anglosassone
ma una lingua dura dei monti, un nord che è freddo e che ha gli
autunni colorati e le foglie portate dal vento.
Era come dentro a un sogno. Il caldo del pomeriggio e i rami
color lillà del bouganville. Molte persone sedevano attorno alla
donna. Lei sorrideva a tutti. Sembrava felice. Mani si stringevano e
raccontavano di nomi che il capitano Zaravakis non ricordava.
138
Suonavano come un continente nuovo che piano piano si faceva
sentire sulla pelle. Nomi che sarebbero tornati, molte volte,
all'Hotel Central. Ma i fiori del bouganville duravano un giorno e
basta, non avevano il tempo nemmeno per seccarsi dentro alle
mura di Cartagena, e fuori c'era sempre quel vento.
Era molto tempo che il capitano Zaravakis non guardava la
donna. Quattro anni che erano quattro autunni di foglie gialle che
cadevano e quattro inverni lunghi come notti insonni. Quattro anni
anche per la donna, che vive in una terra che un autunno non lo ha
mai visto. Però lei lo sapeva cos'era il nord e forse poteva capire. Ci
si dimentica degli autunni e degli inverni lunghi. Ci si dimentica
anche dei volti e delle carezze. Quattro anni che sembravano mille.
Che suonavano lontani come le onde del mare che non si ascoltava,
a Cartagena delle Indie.
Partì dalla terra dei monti con un bagaglio pieno di sogni. Ma i
sogni finirono presto come i fiori del bouganville. Il capitano
Zaravakis stava all'Hotel Central che sarebbe diventata la sua
casa. Tanto che cambia, anche al nord nella terra dei monti
dormiva in un letto che era stato di un hotel. Che aveva chiuso e
che non lo era più. Due letti separati che quando faceva l'amore si
vedeva obbligato a legare uno all'altro, perché altrimenti si
sarebbero aperti uno a destra e uno a sinistra sotto i movimenti
appassionati di una donna e sotto ai suoi, dubbiosi e scomposti.
Quante persone avevano dormito in quei letti e quanti sogni e
speranze, prima di chiudere gli occhi. Poi un armadio piccolo,
perché era un hotel e chi vive in un hotel non può mica tenere
troppe cose.
In quella stanza fredda e buia del nord le pareti non erano forti
abbastanza per piantare dei chiodi. Non si poteva attaccare niente,
toccava legare dei fili alle travi di legno del soffitto. Un quadro
inchiodato rimane. I quadri del capitano Zaravakis e le fotografie
stampate grandi scendevano dal cielo e penzolavano e bastava un
po' di vento per farli muovere. Il capitano Zaravakis sapeva di
queste cose. Credeva che non era poi tanto strano vivere in una
stanza fredda e buia dove i quadri si muovono con il vento. Non per
lui, che se avesse potuto scegliere avrebbe scelto così. Gli regalava
un'emozione che è difficile da spiegare, un senso di precarietà e di
certezze soltanto accennate. Era questo che voleva, un mondo
intero che si muovesse con il vento, che lo lasciasse dare le spalle a
quei quadri inchiodati che tanto gli facevano paura. Ma nella città
vecchia il vento sembrava non arrivare. E' colpa delle mura,
dicevano, lo tengono lontano. Non ci sarebbero stati quadri che si
muovono all'Hotel Central. Non ci sarebbero state fotografie
139
stampate grandi per guardarle dondolare quando si aspetta il
sonno.
La donna sorrideva e il capitano Zaravakis pensava a come
sarebbe stato bello sorridere assieme a lei. Un uomo che ancora
non aveva un nome intonò una canzone straziante che sapeva di
nostalgia. Raccontava di baci e paure. Il capitano Zaravakis
rabbrividì. Guardò la donna e pensò a una di quelle solite cose
strane di cui è capace il destino. Ricordava la stessa canzone
cantata alla stessa donna in una città diversa, piccioni che si
alzavano in volo e bambini increduli a rincorrerli. A dire il vero
anche la donna era diversa, era vicina. Si abbracciavano per le
strade di Parigi e aspettavano che il sole si oscurasse in pieno
giorno. Il mondo intero lo stava aspettando.
Poi anni di silenzio.
Il capitano Zaravakis camminava per le strade di una città grigia
e veloce. Era un momento complicato per la vita del capitano.
Come se dovesse restituire alcune cose che si era preso senza
chiedere. Camminava per le strade di Milano e andava diritto verso
un bar dove lo aspettava un amico della donna che a Milano era
arrivato per imparare la moda. Perché la donna aveva rotto i suoi
silenzi e il capitano Zaravakis era quattro anni più vecchio.
Viaggiava sotto terra dentro a un vagone della metropolitana.
Era inverno e una pioggia sottile gli aveva bagnato i vestiti. Aveva
freddo. Si aprirono le porte e una folla che si muoveva uniforme
portò dentro uno zingaro scalzo che non era grande abbastanza
per caricarsi addosso la sua fisarmonica. Il treno si mosse,
scuotendo le persone in piedi e le loro valigette. Poi corse veloce e
tutti sembrarono più tranquilli. Il capitano Zaravakis stava in piedi
perduto nella folla. Lo zingaro cominciò con la sua fisarmonica una
canzone che sapeva di nostalgia. Raccontava di baci e paure.
Al capitano Zaravakis mancò il respiro. Quella canzone era la
stessa che quattro anni prima ascoltava assieme alla donna che
ancora gli sorrideva, in quella città che faceva pensare all'amore.
Si teneva forte, ma il suono straziante della fisarmonica gli strinse
il cuore. Gli uscirono lacrime dagli occhi. Quel giorno il capitano
Zaravakis ricordò carezze e un sole alto nel cielo che si velò
lasciando il mondo in un silenzio irreale. Pensò che solo il destino
che si compie poteva essere così chiaro e allo stesso tempo così
difficile da capire.
Un uomo sconosciuto cantava parole alla donna, all'Hotel
Central. Raccontavano di baci e paure. Ricordavano note
trascinate di fisarmonica, piccioni che volavano via e bambini.
140
Tornavano in quel calore che soffoca. Il capitano Zaravakis ebbe
paura.
Arrivò la notte e un vento forte venne dal mare, fino all'Hotel
Central. Forse si ha bisogno del buio, che nasconda quelle mura.
Grazie per queste prigioni che mi liberano. Almeno era arrivato il
vento. Il mare continuava a stare fuori, lontano, immobile, e non
riusciva a fare rumore.
141
Maracaibo
“piacere, Gustavo Ramirez Hernandez Gutierrez Fernandez Salas
Aguilar.
“piacere, sono il capitano Dimitri Zaravakis.
“se non sono indiscreto, capitano di che?
“e se lo fossi?
“che?
“indiscreto.
“sei greco?
“no.
“che ti porta su quest'autobus?
“esco dal paese perché mi sono scaduti i giorni del visto.
“ottima scelta Maracaibo. Sai, è la mia città.
“è anche il posto più vicino.
“ti piacerà.
“Gustavo, che facevi a Cartagena?
“ho passato l'ultimo dell’anno.
“e tu Dimitri, che facevi a Cartagena?
“chiamami pure capitano Zaravakis.
CAPITOLO PRIMO
GUSTAVO
Gustavo è brutto. Ha una di quelle facce di cazzo che sono
difficili da spiegare a parole. Viaggia con tutta la famiglia. C’è la
mamma, il papà, il fratello più grande, la moglie del fratello più
grande, una coppia di cugini adolescenti con aria da teppisti e una
vecchia zia che nella vita sembra non aver rimorchiato. E la sua
bellissima moglie. Gustavo ride e scherza con tutto l'autobus, è uno
di quelli che durante le gite raccontano le barzellette. Sta seduto
nel posto davanti al mio. A intervalli si volta e sorride. E parla.
Gustavo, non ho voglia di parlare, ho voglia di dormire. Sono
partito all’alba, quando una luna araba stava ancora nel cielo scuro
del tropico.
142
“Dimitri vestiti, che devi prendere l’autobus per Maracaibo.
“lasciami dormire.
“svegliati, non puoi mica rimanere qui.
“dimmi la verità, tu mi vuoi mandare via.
“non ti voglio mandare via, coglione. Tra un’ora parte l’autobus e
tu rimani qui da clandestino. Un clandestino in casa mia non ce lo
voglio. E allora si che ti mando via.
Ho ancora il suo odore addosso. Gustavo, non ho voglia di
parlare. Ho voglia di dormire.
“Dimitri, ti presento Marta Luz Salazar Morales Santos Gutierrez
Galindo Vargas.
“chi è?
“come chi è, mia moglie.
La sua bellissima moglie.
“piacere, sono il capitano Dimitri Zaravakis.
“piacere, Marta Luz Salazar Morales Santos Gutierrez Galindo
Vargas.
Ci fissiamo negli occhi e io la penso chiusa dentro al bagno
dell'autobus che me lo succhia.
“Gustavo, l’amore della mia vita, mi ha portata a Cartagena.
Si prendono per mano e si guardano dolci negli occhi.
“sai, lavora con il petrolio.
Lui si gonfia come fa il pavone.
Io la penso che ha finito e mangia una mentina.
“Gustavo, lavori con il petrolio?
“tutti lavorano con il petrolio, a Maracaibo.
che fine avrà fatto il Corsaro Nero?
“lavora con la Pdvsa.
“è impronunciabile.
“è la compagnia nazionale più grande di tutto il Venezuela. Vendo
benzina alle compagnie aeree di mezzo mondo. È un lavoro di
responsabilità, il mio, e guadagno un sacco di soldi.
Lui guarda lei e lei guarda lui. Fanno gli occhi dolci. Lui pensa
alla topina profumata di lei e lei alla prossima vacanza.
Io penso a lui, che le chiede con amore come mai tanto tempo nel
143
bagno.
“è solo grazie al petrolio che Gustavo mi può portare in posti
belli come Cartagena.
Ora di pranzo. L'autobus si ferma per ristorare stomaci e corpi.
Mangio al bordo della strada un mucchio di cibo fritto in un olio
che sfida le leggi del tempo. Gustavo e la sua sposa entrano nel
ristorante più chic del punto di ristoro. Che a dire il vero non è poi
così chic.
Si riparte. Il pranzo funziona e dormo un sonno pesante e sogno
cose spaventose, con lo stomaco gonfio di manicaretti unti e uno
spazio minuscolo per le gambe, perché anche Gustavo ha sonno, e
reclina la poltrona che sembra un divano-letto. Peccato, si poteva
dormire a turno. Prima io e dopo lui, ma va bene anche così. Il
pranzo funziona e mi sveglio nel pomeriggio tardo di ombre lunghe
e cactus della Guajira.
“Dimitri, dove lavori?
“non lavoro, Gustavo.
“non lavori?
“no.
“e come fai a vivere?
“non è che non lavoro sempre.
“allora lavori?
“a volte.
“cosa hai studiato?
“sociologia.
“sei un sociologo?
“non proprio.
“e allora che fai?
“sono uno scrittore.
“che lavoro interessante.
“certo.
“quanti libri hai pubblicato?
“nessuno.
“allora non sei uno scrittore.
Gustavo non capisce.
144
“perché non sarei uno scrittore?
“perché così non mangi.
“ti sembra la ragione discriminante?
“mi sembra fondamentale.
Gustavo non riesce ad allontanare una qualunque attività umana
dal suo ritorno monetario.
“Gustavo…
“sì?
“un esempio. Un giorno ti svegli e decidi di aprire un negozio.
“non posso. Il lavoro con il petrolio non mi lascia un minuto
libero.
Sospetto che sia tonto.
“facciamo che un giorno ti svegli e decidi di aprire un negozio e
di regalarlo alla tua bellissima moglie.
“lei non ne ha bisogno. Guadagno un sacco di soldi.
“facciamo che un signore un giorno si sveglia e decide di aprire
un negozio.
“bene.
“lavora duro per un mese intero. Ristruttura il locale, compra i
mobili, contatta i fornitori e il negozio si va riempiendo di cose.
Passato il mese tutto è a posto.
“bene.
“arriva il giorno tanto atteso e il signore si sveglia di buon
mattino e cammina per le strade della città in direzione del suo
negozio. Ha la testa riempita di sogni. Cammina e non sa. Gira
l’angolo e lo vede, bello, con quell’insegna luccicante e il portone
d'ebano che ha fatto venire da un paese lontano.
“taglia corto.
“il signore veste elegante, è il primo giorno di lavoro e vuole che
la clientela lo incontri così. Aspetta in piedi, dietro il bancone. Non
gli piace l’idea che lo vedano seduto. Trasmette una sensazione di
pigrizia.
“giusto.
“aspetta dietro al suo bancone e passa tutta una mattina ma non
entra nessuno. È perché non lo sanno ancora, pensa il signore, e
pranza felice, perché il negozio gli sembra proprio bello.
145
“pomeriggio?
“il signore arriva al negozio. Gira l’angolo e vede quell’insegna
luccicante che gli sembra un po’ meno luccicante, che è la stessa
della mattina ma dà la colpa al pranzo che gli si è parcheggiato
sullo stomaco. Entra e si mette dietro al banco e aspetta la gente.
Che non arriva.
“sera?
“no. Metà pomeriggio. Com'è che hai sempre fretta, Gustavo?
“la vita è breve.
“troppo breve. A che serve affrettarsi tanto? Il tempo non
basterebbe comunque.
“se lo dici tu…
“il signore sente le gambe stanche e si siede. Pensa che il suono
delle campanelle quando si apre la porta lo avviserà e poi la
pigrizia è diffusa in tutta la regione. Il cliente lo vedrà che si alza
prontamente e potrà apprezzare.
“sera?
“nessuno è entrato, è ora di chiudere. Il signore è davvero stanco
e non ha voglia di camminare verso casa, se ne va con un tram.
Non riesce ad allontanare i cattivi pensieri. Che ho fatto? Ripete a
se stesso. Ha paura di avere sbagliato tutto. Viaggia con la testa
appoggiata al finestrino e le luci della strada si confondono con le
immagini riflesse. Vuole solo dormire.
“notte?
“la notte dorme, perché sì, è pensieroso, ma coltiva un vizio che
lo fa dormire facile. All’indomani si sveglia di buon mattino e
cammina per quelle stesse strade che solo il giorno prima erano
piene di speranze. Cammina e non sa. Ma senza una ragione
apparente l'umore è alto come una svedese in vacanza a Cattolica.
Gira l’angolo e guardalo lì, bello, con l’insegna che gli sembra
luccicare ancor più del giorno precedente. Apre il portone d'ebano
e si va a sistemare dietro al bancone, in piedi, che la gente lo veda
che sta lì ad aspettare. Guarda fuori le strade vuote. Se non
arrivano oggi arriveranno domani.
“sembra una parabola. Ma chi ti credi, Gesù Cristo?
CAPITOLO SECONDO
LE TURPI ABITUDINI DI GUSTAVO
146
Gustavo non arriva. Quello che mi infastidisce è che lo sto ad
aspettare nella mia stanza dell’Hotel Almeira e la mia stanza
dell’Hotel Almeira sembra un frigorifero. Fuori l’asfalto rovente
dell’avenida crea immagini di pozzanghere come fa il deserto con i
viandanti. Il pomeriggio va lasciando posto alla notte e finalmente
bussano alla porta.
“señor Zaravakis, il señor Gustavo…
Quando vogliono una mancia sono tutti molto cordiali.
“che fai con una coperta sulle spalle?
“avevo paura di ibernarmi ai tropici.
“questa lasciala, che fuori non serve. Che mi racconti del tuo
primo giorno a Maracaibo?
Trascorso provando a cambiare dollari in valuta locale ma si sa,
gli Stati Uniti risultano poco simpatici in questi giorni di sole alla
patria bolivariana che mi sta ospitando.
“no signore, mi dispiace, dollari non ne cambiamo.
“se avesse dei contanti potrei cambiarglieli io, ma con i travel
cheque non possiamo fare niente.
“ci sarebbe un ufficio di cambio, però sta dall’altra parte della
città.
“è vero, una volta li cambiavamo, ma dopo il blocco petrolifero
abbiamo smesso.
Cose di questo tipo. Meglio dimenticare.
“andiamo?
“dove?
“andiamo.
Maracaibo è una metropoli latinoamericana tipica, con il centro
storico sfasciato e pieno di pericoli e la città buona e ricca che si è
sviluppata altrove. Il centro si affaccia sul mare. Non è proprio il
mare, anche se lo chiamano così. È un lago che non fa le onde. Dal
centro partono strade ampie e diritte che vanno un po’ in tutte le
direzioni.
“questo è il nord, Dimitri.
Chissà perché il quartiere buono sta sempre al nord.
“perché a sud ci sono i poveri.
Non fa una piega.
La strada è un’avenida larga costruita per far passare le
147
macchine larghe che circolano da queste parti, le case sono palazzi
uguali, rigoroso il grigio d'ordinanza.
“vivi proprio in un bel posto, Gustavo.
“te l'avevo detto. Comunque grazie.
“non c’è di che.
“mi accompagni?
“dove?
“visitiamo una signora che è un po’ di tempo che non vedo.
Camminiamo per una di quelle strade larghe e diritte che sembra
piacciano tanto agli abitanti di Maracaibo.
“Dimitri, il quartiere sorge in cima a un monte, da qui si vede il
mare. Il lago, è un lago. Non adesso, perché è notte. Quando è
giorno si può ammirare un panorama stupendo.
Però adesso è notte.
Scendiamo in direzione del lago. Attraversiamo un quartiere
nuovo, che assomiglia a tutti i quartieri che si vedono nei
documentari che raccontano dei poveri in America Latina. Le case
cadono a pezzi, ora che è notte. Figuriamoci di giorno. Il monte,
come lo chiama lui, è una collinetta ma è ripido che quasi non si
può camminare e le case che ancora non sono crollate stanno in
piedi solo perché si appoggiano alla successiva. Il terreno è un
pantano argilloso e provo a immaginarlo quando piove.
“perché piove, vero, a Maracaibo?
“certo che piove, per otto mesi di fila.
“e le case?
“le case che?
“le case come fanno?
“le case scendono piano piano e si fermano là in fondo. È che ora
è notte e non si vede.
Non ci sono stelle a indicare il cammino.
“Gustavo, quando le case scendono giù per il monte che si fa?
“si scende con la casa e si sta lì a vedere che nessuno la rubi.
Abbandoniamo la stradina principale e ci mettiamo in una che è
ancora più ripida.
“che posto è questo?
Occhi di persone ci seguono da dietro alle finestre.
148
“non li guardare, potrebbero essere armati.
“che posto è questo, Gustavo?!
“non ti preoccupare, mi conoscono.
Forse è il problema più grande.
Notte buia sotto al cielo di Maracaibo. Nel quartiere dei poveri
manca l’energia elettrica e dalle case esce una luce debole di
candele che non ce la fa a illuminare. Pesto cose molli che non
voglio sapere che sono. Pesto cose calde che si voltano e ringhiano.
“è che sono troppo poveri. Non pagherebbero la bolletta.
Abbandoniamo la strada secondaria e ci mettiamo in una che è
ancora più brutta delle due precedenti messe assieme. Il quartiere
è un groviglio di sentieri che non finiscono mai.
“Gustavo, dove stiamo andando?
“vedi quella luce?
La vedo quella luce, Gustavo, è che non capisco come ci si arriva.
“buonasera signore, come sta?
Gustavo saluta, chiede permesso ed entra in una casa. Un’altra.
Non quella della luce che mi ha indicato.
“bene Gustavo.
“e il concessionario come va?
“a gonfie vele, Gustavo. È un po’ che non ci si vede.
“impegni di lavoro, signore.
“il petrolio che non ti lascia un minuto?
“proprio così, signore.
“e la tua bellissima sposa?
Le case attorno ridacchiano.
“ti fidi a lasciarla sola tutto quel tempo?
A Gustavo si gonfiano le vene sul collo ma non dice nulla.
Potrebbero essere armati.
“signore, è un piacere parlare con lei ma non mi posso
trattenere. È tardi e domani devo andare in ufficio.
“buon lavoro, Gustavo.
Chiediamo permesso. Passiamo per la stanza da letto del tipo
divertente che dà a un cortile pieno di scheletri di automobili e
carcasse di pneumatici, il concessionario suppongo, che dà alla
149
casa del signore successivo, che dà alla casa successiva di un altro
signore. Poi arriviamo.
L'amica di Gustavo ci aspetta sulla porta.
“ahi Gustavo, che piacere vederti. Fatti abbracciare. È un po’ che
non passi da queste parti.
“sa signora, è che il lavoro non mi lascia un minuto.
“ho sentito, ho sentito. Entrate.
Un cane grosso e rognoso staziona vicino all’ingresso.
“dimmi Gustavo, che vuoi?
“cocaina e marijuana.
che sorpresa, Gustavo.
“aspettami qui un minuto.
La signora avrà ottant’anni ma ne dimostra molti di più.
“quanto Gustavo?
Le urla arrivano dalla stanza o dalla casa o dal cortile successivo.
“il solito, signora.
La signora riappare trascinando una gamba e mi parla.
“viene qui tre volte all’anno e pretende che mi ricordi qual è il
suo solito. Alla mia età. Con tutti i miei vizi.
La signora lascia cose a Gustavo. Gustavo se ne esce con un
rotolo di banconote e ne lascia alcune alla signora. Ringrazia.
“adesso vai che è tardi e domani trovi un sacco di petrolio!
Nelle case attorno regna il divertimento.
Usciamo e il cane sta sempre là, sdraiato ad aspettare qualcosa
che non succederà. Attraversiamo le stesse case e cortili al buio
che attraversammo qualche minuto prima. Gustavo apre il foglio di
giornale che fa da contenitore e lascia una busta di cocaina e un
pacchetto di marijuana al primo uomo che incontriamo.
“è perché dobbiamo passare per casa sua.
“giusto.
Lascia una busta di cocaina e un pacchetto di marijuana al
secondo uomo.
“è perché dobbiamo passare per casa sua.
“giusto.
Il terzo uomo è uguale al primo.
150
“sono fratelli?
“no, è lo stesso.
“come lo stesso?
“è il proprietario di due case. Due case due pacchetti.
“Gustavo, toglimi una curiosità. Qui si drogano tutti?
“no, le buste le riportano alla signora.
Usciamo dal groviglio di case e cortili e ricomincia la strada
scomoda e si continua a non vedere nulla. È buia la notte di
Maracaibo. Gustavo è nervoso, cammina con molta fretta. Sembra
quasi che se ne voglia andare.
“Gustavo, fratello, quanto tempo!
“Pablo che sorpresa, non ti credevo già qui.
“è che il tipo non è morto. Si è svegliato dopo qualche settimana
di coma. Non potevano tenermi dentro per tutta la vita.
“bene, buona notizia. Dobbiamo festeggiare.
Gustavo apre il foglio di giornale.
“Gustavo, adesso vivo da mio fratello, sai com’è.
Gustavo riapre il foglio di giornale.
“Pablo è un amico.
“giusto.
Pablo è un amico e tanti nuovi amici popolano adesso le viuzze di
fango che vanno in cima al monte, al nord, verso quel quartiere
pulito di cemento che tanto piace a Gustavo. Ma le viuzze
sembrano non portare da nessuna parte e i suoi amici sono molto
cordiali. È grosso il rotolo di giornale dal quale escono omaggi e
auguri. Ma è ora di andare, è tardi, e Gustavo prende una strada in
salita e saluta gli ultimi quattro che per i saluti di Gustavo si
mettono a litigare.
“non fate i bambini, ce n’è per tutti!
Il più vecchio avrà nove anni.
“le riportano alla signora?
“loro no.
Fatichiamo su per il monte fino alla strada con l'asfalto. Gustavo
appare rilassato.
“non è che mi sentissi in pericolo, ma qui è il mio quartiere.
Le uniche persone che si vedono in giro sono adesso vigilantes
151
armati fino ai denti e venditori di cibo spazzatura.
“hai avuto paura?
“beh…
“nessun problema. Sei con Gustavo per le strade di Maracaibo.
Strade che erano buie e che non lo sono più. Il quartiere delle
luci sembra dare a Gustavo un coraggio nuovo. Cammina a testa
alta e si gonfia come fa il pavone.
“non c’è pericolo quando stai con me.
Mi fissa con quella strana luce negli occhi. Poi gira la testa come
a guardarsi il culo e mi fissa di nuovo. Cazzo vuole?
“non corri pericoli quando stai con Gustavo.
Infila una mano sotto alla camicia a manica corta e se ne esce
con una pistola che non finisce più. La conosco. È la 44 Magnum
dell’ispettore Callaghan.
È notte fonda. Camminiamo per le strade illuminate del quartiere
illuminato di Gustavo.
“ehi, Gustavo!
Cazzo, anche qui.
“Johnny Fran! che sorpresa, non ti credevo già fuori.
“la storia della rapina si è andata tutta a insabbiare. Verga, ti
ricordi l’impianto stereo?
“sì che me lo ricordo, me lo avevi promesso.
“verga…
“che c’è Johnny Fran?
“c’è che suona nella casa del poliziotto che mi ha arrestato. Era
l’unica maniera, verga.
“fatti vedere, Johnny. Ti vedo bene. Che ti hanno fatto dentro?
“dentro tutto a posto. Mi conoscono, sono Johnny Fran.
Il pacchetto di Gustavo rimane chiuso.
“devo andare adesso.
“verga Gustavo. Ritorni?
“il tempo di salire a casa.
“però vieni.
“Dimitri, aspetta un minuto qui con lui.
“lo conosci?
152
“sì, è un amico.
“sicuro?
“sicuro.
“torni subito?
“solo il tempo di salire a casa. Perdonami Dimitri, ma non ti
posso invitare, c’è tutta la famiglia. Poi ti vedono e pensano cose.
Mi vedono. E pensano cose.
“non hai lasciato niente a Johnny Fran?
“no.
Così mi faccio amico di Johnny Fran.
CAPITOLO TERZO
JOHNNY FRAN
Gustavo è un caso grave di schizofrenia relazionale. Durante il
viaggio non faceva altro che scherzare con tutta la famiglia e
parlare di petrolio. Quanto bene faceva il petrolio alla città di
Maracaibo, quanto bene faceva il petrolio alla sua vita. Anche la
sposa non faceva altro che parlare di petrolio. Quanto bene faceva
alle sue vacanze. E invece guarda che gente frequenta.
“sicuro che torni subito?
“solo il tempo di salire. Te l’ho già detto, non ti posso invitare.
C’è tutta la famiglia.
Sono seduto in mezzo a una strada con Johnny Fran. È notte
fonda a Maracaibo e Gustavo è salito un momento a casa. Io no. Se
mi vedono pensano cose. Io per strada con Johnny Fran.
Johnny Fran è alto e smilzo. Cammina tutto molleggiato con le
spalle curve.
“che verga fai nella vita?
“che verga faccio?
“sì, che verga di lavoro hai?
“non ho un lavoro.
“non hai capito, farai qualcosa?
“sono uno scrittore.
“verga! Johnny Fran con uno scrittore!
Mi passa una pipa carica di una pasta color mattone.
153
“che è?
“basuco, amico.
Queste cose mi distruggono i nervi. Accetto. Tante cose mi
distruggono i nervi. Provare a scrivere per esempio. Avvicino la
fiamma e aspiro con forza, la pallina si incendia e si sente il rumore
dell’aria che fischia dentro alla pipa. La luce esce dal braciere e
illumina la notte di Maracaibo.
“e tu, che fai Johnny Fran?
“verga che faccio!
“sì, il tuo lavoro. O quello che mi hai chiesto tu prima.
“compro e vendo cose.
Non voglio sapere dettagli.
Johnny Fran fa proprio schifo. Trema e non riesce a mettere
insieme due parole senza che una sia verga.
È il giorno successivo al viaggio e Gustavo e famiglia, la notte
che arrivammo in città, mi accompagnarono a prendere un taxi,
tutti assieme, mi consigliarono l’hotel di un amico, tutti assieme, e
tutti assieme mi dissero:
“non ti devi preoccupare. Domani, quando finisce il lavoro,
Gustavo ti viene a cercare e ti mostra la città.
Lui sorrideva.
“il nostro Gustavo fa un sacco di cose.
Lui sorrideva.
“e conosce un sacco di gente.
Uno era Johnny Fran.
Gustavo non arriva. Comincia a starmi antipatico. Che cazzo
combina? Mi lascia solo in una strada di notte con l’unico amico a
cui non ha regalato niente.
“verga Dimitri, ti è piaciuto il basuco?
Lontano per l'avenida appare un ragazzo con la faccia sporca,
con i capelli arruffati, con i vestiti a brandelli. Cammina con un
bastone e il motivo per cui ce l'ha non lo voglio mica scoprire. Io
sto nell'ombra con Johnny Fran e non riesco a staccare gli occhi
dal fondo della strada e la figura sinistra continua a camminare
illuminata a tratti dalla luce dei lampioni. Viene verso di noi.
Ho capito tutto, non sono mica un pischello alle prime armi.
Adesso arriva un tipo e mi riempie di minacce e se non faccio
154
quello che dice lui mi riempie pure di bastonate e se ne va con i
miei soldi e magari anche con i vestiti e notte scura a Maracaibo e
a difendermi Johnny Fran, l'amico fedele di Gustavo a cui Gustavo
non ha regalato niente.
che non mi difenderà, perché sicuro che si conoscono e quando
la sceneggiata sarà finita si divideranno i miei soldi e i vestiti
magari li tiene il tipo con la faccia sporca che sembra ne abbia più
bisogno e Johnny Fran proverà a vendere il mio passaporto.
E a vedere quello stronzo di Gustavo, magari me lo ha mandato
lui, lo ha incontrato a due incroci di distanza e gli ha detto ehi, c'è
un uomo con la faccia bianca dello straniero, meglio che vai a
rapinare lui, sarà tutto più facile.
E io starò lì nell'ombra con l'espressione di chi non vuole avere
paura e lui è un'anima della strada e non lo puoi mandare a fare
certe cose perché lui viene le fa. Perché è un cane incattivito che
sente la paura nelle forme di vita che si trova davanti.
Lo proverò ad ignorare, non lo guarderò negli occhi, lascerò che
arrivi e che se ne vada via un po' come è arrivato, senza degnarlo
di un sguardo. Facile a dirsi. Osserveresti qualunque persona che ti
sta transitando davanti. Un tipo elegante con la camicia stirata,
chiedendoti che cazzo fa in quel posto a quell'ora. Una coppia che
litiga per ragioni di infedeltà, meglio se di lei. Magari con il tipo
elegante che è appena passato. Ma il ragazzo con la faccia sporca
non lo puoi mica guardare perché lui cammina con un bastone e
chissà.
“Johnny Fran, sudi sempre così tanto?
Il ragazzo con la faccia sporca ci si pianta di fronte. La paura
rimane lì tra me e Johnny Fran. Non c'è vento che se la porti via.
Il ragazzo ci osserva. Johnny Fran gli dice due parole nella lingua
sua colorita.
“che verga vuoi?
Il ragazzo ricomincia a camminare. Non siamo lì per lui, non
quella notte. Silenzio per le strade di Maracaibo. La luce dei
lampioni gli illumina la schiena a tratti. Diventa sempre più
piccolo.
“verga è andato. Hai avuto paura?
“era pericoloso?
“il pericolo è il mio mestiere.
La frase mi ricorda qualcosa.
155
E' lontano adesso il ragazzo, che quasi non si distingue più. Si
incrocia con due figure sullo sfondo della notte. Una ricorda
principesse fuggite dalle favole. L'altra è bassa, tozza, sgraziata e
si gonfia come fa il pavone.
CAPITOLO QUARTO
PER LE STRADE DI MARACAIBO
“verga che bella!
“sante parole Johnny Fran.
“verga, come avrà fatto Gustavo a sposarsi con una donna così?
“il petrolio, Johnny Fran, il petrolio.
“verga, il petrolio.
Gustavo cammina rigido come un palo della luce. Gustavo
sembra un papero e oscilla lateralmente a ogni passo. La moglie di
Gustavo scivola via sull’asfalto ancora caldo di Maracaibo.
“buonasera amico mio dell’Europa Unita.
“verga, ciao Gustavo.
“Johnny Fran, per favore. Sto salutando l’amico mio.
“non c’è problema. Buonasera, amico mio dei Caraibi Bolivariani.
“ti ricordi di mia moglie?
Me la ricordo bene la moglie di Gustavo. Dentro al bagno
dell’autobus.
“come la potrei dimenticare…
“verga Gustavo, dobbiamo parlare.
“Johnny Fran, per favore. Non vedi che il capitano Zaravakis sta
salutando mia moglie?
“verga, capitano di che?
“lascia stare.
“buonasera signora.
Non parla la moglie di Gustavo. Piega un po’ la testa e accenna
un sorriso. È che ancora non sa la storia dell’autobus.
“che vuoi, Johnny Fran?
“verga, non me lo chiedere così.
“dovevi dirmi delle cose, Johnny Fran?
“così va bene.
156
“e allora dimmele.
“è per l’impianto stereo.
“che c’è?
“no, è che se ti interessa ancora…
“non lo avevi lasciato al poliziotto che ti aveva arrestato? Johnny
Fran, guarda che se mi stai mentendo ti faccio rompere il culo.
“no no. Non ti sto mentendo. Non è lo stesso impianto. Questo è
migliore.
“molto bene Johnny Fran. Andiamo.
“dove?
“dove tieni l’impianto. Lo terrai da qualche parte. O mi stai
mentendo?
“no Gustavo. Lo sai che non ti mentirei per nessun motivo al
mondo.
“e allora l’impianto?
“non è che ce l’ho proprio io. È che so dove andarlo a prendere.
“hai bisogno di soldi Johnny Fran?
“Dimitri Zaravakis. Che bel nome. Sei greco?
“no, bellezza.
“che fai nella vita?
“niente.
“come niente?
“niente.
“come fai a vivere?
“ogni tanto lavoro.
“allora lavori?
“a volte.
“che hai studiato?
“sociologia.
“dunque sei un sociologo?
“no.
“e allora che fai?
“sono uno scrittore.
157
“che lavoro interessante. Sono così affascinanti gli scrittori…
“che intendi dire?
“non lo so. È che quando ne incontro uno sento come una cosa
qui.
“qui dove, bella dolce Marta Luz?
“mi fai arrossire…
“ne hai incontrati molti?
“no, tu sei il primo.
“mi onora essere il primo scrittore che incontri.
“mi onora incontrare uno scrittore.
“non ti faceva sentire una cosa qui?
“soprattutto.
“perché non mi vieni a trovare in albergo?
“e Gustavo?
“lui no, vieni quando è al lavoro.
“è che tu Johnny Fran non hai mai capito un cazzo.
“verga non mi dire così.
“te lo dico per il tuo bene. Se nessuno te le dice queste cose, tu
continui a comportarti alla stessa maniera e la maniera in cui ti
comporti è la maniera di uno che non capisce un cazzo.
“verga grazie.
“non mi ringraziare Johnny Fran. Lo faccio perché sei un amico.
Più che un amico, Johnny Fran, un fratello.
“Gustavo, così mi fai piangere…
“vieni qui fratello, fatti abbracciare.
“Gustavo…
“Johnny Fran…
“quanti libri hai pubblicato?
“nessuno.
“come nessuno?
“nessuno. Capisci nessuno?
“sì, è che…
158
“che?
“dici che sei uno scrittore e non hai pubblicato neanche un libro.
“ti piacerebbe aprire un negozio?
“sì, ma che c’entra?
“è un discorso lungo.
“non sei uno scrittore vero. Sei un bugiardo impostore.
“senti ancora quella cosa qui?
“credo di sì.
“è che tu Johnny Fran non ti puoi mettere con queste
sciocchezze. L’impianto stereo va bene. Anche le gomme per l’auto
vanno bene. Ma per un po'.
“e allora, che verga c’è che non va?
“tu devi pensare in grande.
“io in grande? Johnny Fran?
“sì Johnny Fran, devi pensare in grande.
“e che vuol dire?
“vuol dire che non vale la pena correre tutti i rischi che corri per
quei quattro soldi che fai.
“non sono quattro soldi.
“sì che sono quattro soldi. Vedi che non sai pensare in grande?
“e poi io non corro rischi. Mi trovano con un impianto stereo in
mano? Glielo lascio. Pochi poliziotti ne hanno uno.
“e se ti trova il proprietario?
“lo lascio anche a lui. È contento che rimane vivo e in più potrà
ascoltare la musica con il suo nuovo impianto ad alta fedeltà.
“è suo, Johnny Fran.
“era suo, Gustavo.
“e tu sirena, che fai nella vita?
“niente.
“come niente?
“non fare lo stronzo. Lo sai già.
159
“quando ti parlo di pensare in grande intendo questo. Guarda
come ho fatto io. Ho deciso forse di andare a fare il giornalista?
“no.
“lavoro di merda e mal pagato. E se lo fai davvero ti ammazzano.
“non voglio che ti ammazzino, Gustavo.
“nessuno mi ammazzerà, Johnny Fran.
“continua.
“ho deciso forse di andare a fare il professore?
“no.
“lavoro di merda e mal pagato. E se lo fai davvero ti ritrovi i
genitori dei ragazzi sotto casa.
“non voglio che ti disturbino, Gustavo.
“nessuno mi disturba, Johnny Fran.
“e se un giorno qualcuno decidesse di farlo, ci sarà Johnny Fran.
“com’è Johnny che quando venivano a uccidermi non ti si
vedeva?
“verga Gustavo, lo sai che in cose di politica io non mi metto.
“che ho scelto di fare Johnny Fran?
“di lavorare con il petrolio.
“sbagliato Johnny Fran. Ho scelto di pensare in grande.
“dovrei lavorare con il petrolio?
“nessuno ti vuole con il petrolio, Johnny Fran.
“verga, è quello che ho sempre pensato.
“il tuo pensare in grande dovrà essere tutt'altro. Qualche cosa
per te, capisci?
“sì, ho capito.
“che?
“qualche cosa per me. Però in grande.
“bene Johnny Fran.
“grazie Gustavo.
“non mi devi ringraziare, lo faccio perché ti voglio bene.
“Gustavo?
“che c’è?
“ti interessa ancora lo stereo?
160
Avevamo un rotolo pieno di marijuana e cocaina. Poi Gustavo
incontrò un sacco di amici e gli amici sono amici. Chi possedeva
una casa, chi due. Chi sbucava così, dal buio o dalla prigione.
Avevamo un rotolo pieno di marijuana e cocaina.
“dove sei stato Gustavo?
“alla casa della signora.
“verga dalla signora.
“ci ho portato Dimitri.
“verga…
Gustavo tira fuori un pacchettino di foglio di giornale grande
come una scatola di fiammiferi. Era il rotolo di marijuana e
cocaina. Sulla fronte di Johnny Fran si vedono perle di sudore.
“che hai comprato Gustavo?
“due cose per passare la serata.
“verga!
“non qui, Johnny Fran. Non qui.
Camminiamo per le strade di notte di Maracaibo. Il vento non si
è alzato e non si alzerà. Forse domani. Davanti ciondola Johnny
Fran. Gustavo gli ha chiesto di allontanarsi un po’ e di non
interromperlo perché vuole un discorso a un livello intellettuale più
elevato. Parla di petrolio. La sposa bellissima di Gustavo cammina
dietro, sola, e non dice niente. Forse sta pensando a quella cosa
che sente quando incontra uno scrittore. Mi portano a visitare da
fuori gli edifici importanti della città. L’edificio della compagnia
elettrica, quello della società dell’acqua, l’edificio di quei traditori
della Shell, compagnia petrolifera concorrente. Quello dove lavora
Gustavo non si può. È il più bello, dice, però sta nell’aeroporto,
perché lui vende il carburante alle compagnie aeree di mezzo
mondo.
Fumiamo marijuana. Sa di foglia ed è piena di semi. Lo spinello è
arrotolato male e si consuma tutto da una parte. Proviamo con la
cocaina.
“no Dimitri, è per Johnny Fran. Non lascerò che ti bruci il
cervello con queste cose.
che vuole?
Mi piacerebbe che una di quelle macchine lunghe che girano da
queste parti lo appiccichi all’asfalto una volta per sempre. Domani
161
ci sarà un disegno sulla strada, un contorno bianco di figura umana
coricata e gli amici che andranno a visitare il luogo dell’incidente
potranno dire:
“guarda il destino. Lo ha ucciso un’automobile che funzionava
con il suo petrolio.
Mi piacerebbe coricarmi come il contorno bianco sulla strada ma
dentro alla sua sposa.
“pensa, senza il petrolio sarebbe vivo.
Poi le macchine passeranno sopra il disegno di Gustavo e se lo
porteranno via. Una seconda volta.
“queste maledette automobili non ti lasciano nemmeno il ricordo.
È che la vita è cattiva. E ti lascia sempre con quella sensazione
che potrebbe farlo ancora. Non sarà un disegno sull’asfalto a
rendere tristi le notti a venire.
162
Carnevale
C’era una volta una città, in una terra difficile dove cominciava a
fare caldo fin dal primo mattino. Non era difficile per questo. C’era
un fiume, e nei giorni di cielo senza nubi si poteva anche vedere.
“il Magdalena? Non è mica il fiume di Barranquilla. La città gli è
cresciuta alle spalle.
La gente continuava a vivere nonostante il caldo e sembrava che
a nessuno importasse.
Barranquilla, Atlantico. Il giorno dopo]
IL CAPITANO ZARAVAKIS
Un sole basso entrava dalla finestra e gli arrivava diritto in
faccia. Il capitano Zaravakis si svegliò con una gran voglia di
vomitare. Che notte. Il letto era troppo stretto per due persone. La
notte troppo calda per due persone in un letto stretto.
Avrebbe dormito ma non poteva. La terra era difficile e il sole del
primo mattino usava la finestra come lente e gli riscaldava il letto.
Si sentì in pericolo. Pensò che era come aveva fatto Archimede di
Siracusa con le navi nemiche. Macché. Archimede usò degli
specchi e il sole caldo di Sicilia bruciò le vele. La sua era solo una
finestra e nessuno avrebbe bruciato niente. È che il cervello ancora
non gli funzionava e il paragone gli sembrò abbastanza vicino alla
realtà per poterlo accettare, per lo meno in una mattina come
quella. Il capitano Zaravakis lo sapeva che la storia era un’altra.
Pensò che non sarebbe stato più possibile accettare
pensieri/compromesso a quel modo. Non per molto tempo. Si
poteva alzare, ma l’idea di dormire gli circolava ancora per la
testa. Viveva l’illusione e l’illusione lo teneva incollato.
La mano scivolò giù a cercare il sesso. Il suo. Lo accarezzò, ma i
pensieri non partivano. Il sesso nemmeno. Gli rimaneva lì attaccato
che sembrava una Marimonda. Cos’è una Marimonda? Il trucco lo
aveva insegnato lui a una ragazza bugiarda che un po' di mesi
prima dormiva nel suo letto. Se me lo succhi ci metto meno a
svegliarmi. Lei scendeva sotto alle lenzuola e lo prendeva.
Cominciava a muoversi fino a quando sentiva questa cosa nuova
che le diventava grande dentro alla bocca. A lei non piaceva
vederlo sdraiato nel letto facendo finta di soffrire. A lui non piaceva
svegliarsi. A lei piaceva sentire quella cosa nuova diventarle
163
grande dentro alla bocca. A lui, se proprio doveva svegliarsi,
piaceva svegliarsi così.
Ricordò una musica di banda che sembrava una festa del paese.
Pochi strumenti sgangherati che suonavano una melodia sempre
uguale che si faceva ossessiva.
Mattina della sfilata]
IL PUNTO DI RITROVO
“che musica è questa?
“porro. È la musica della mia terra.
Rispose un tipo alto e biondo che assomigliava a un tedesco.
“lui è l’Amarillo1.
“piacere, capitano Dimitri Zaravakis.
“piacere, Amarillo.
L’Amarillo è un tipo bello con gli occhi azzurri. Ambar Franco
glielo presentò.
“Amarillo, qual è la tua terra?
“Monteria.
“dunque il porro è la musica di Monteria.
“è la musica di Cordoba.
Barranquilla, Atlantico. Il giorno dopo. Parte II]
ERA UN PORRO DI MONTERIA
La musica lo aveva ossessionato. Era un porro di Monteria. La
musica non si era fermata mai. Aveva continuato anche quando la
banda stava tutta a riposare dentro alle case. Cinque note di
tromba che si andavano ripetendo all’infinito. Come una musica
sufi. Come un mantra. Non si vedevano i volti torvi del Medio
oriente e nemmeno le vacche mistiche dell’India. Come la recita di
un rosario. Ave Maria piena di grazia.
Ambar Franco stava dormendo. Aveva i seni scoperti e il viso
sporco di sangue. Giunsero alla casa in piena notte del tropico. Il
capitano Zaravakis crollò sul letto e chiuse gli occhi. Stava nel
limbo dei drogati, quando è troppo per rimanere svegli, quando è
troppo per dormire. Lei scivolò lungo tutto il corpo inerte e prese il
sesso con la bocca, fino a quando lo sentì diventare grande.
1
Amarillo significa letteralmente “giallo” (N.d.A).
164
“Ambar, sei una donna molto bella.
“tu sei un uomo bello.
“non sono un uomo. Non ho nemmeno trent’anni.
“tutto quello che vuoi, però sei bello.
“credo che tu lo sia un po’ di più.
Lo guardò e sorrise.
“un po' di più, sì.
Concluse lei.Times New Roman
Lasciò il sesso e lo baciò. Anche lui la baciò. Fu un bacio lento e
appassionato.
“Dimitri, ho ancora le mie cose.
Consumarono un amore lungo e ossessivo come quella musica di
Monteria senza un inizio e senza una fine. Lei venne subito e poi
un’altra volta. Lui venne dentro di lei. Quando lei venne per la
seconda volta lui tolse il sesso e si fermò a guardare. Sembrava un
respiro. Lei chiuse gli occhi e passò la notte. Cos’è una
Marimonda?
La notte prima della sfilata]
LA CASA DI IRENE
Li ricevettero nell’appartamento 402 dell’edificio Rafael García.
Quello giusto, quello di Irene.
“e in quale siete entrati?
“due porte a destra lungo il corridoio.
“404?
“404. Siamo usciti dall’ascensore e abbiamo trovato una porta
aperta. Siamo entrati.
“chi c’era nell’appartamento?
“un ragazzo.
“e lui?
“lui niente.
“come niente?
“stava lì, come dormendo.
“con la porta aperta?
“con la porta aperta.
165
“dovrebbe cominciare a preoccuparsi.
“dove siamo entrati?
“è l’appartamento del fratello di Irene.
“non diceva niente. Ci guardava ma non rispondeva. Ambar ha
cercato nelle altre stanze. Nessuno. Poi l’ho chiamata e le ho detto
che il numero dell’appartamento non era quello.
L’appartamento di Irene era pieno di gente. Tutta per il
carnevale. Lo presentavano a persone di cui ricorda il volto e di cui
ricorda il nome ma non sa se il nome che ricorda per ciascun volto
sia quello giusto.
“l’edificio García è una piramide fatta di cubi sovrapposti. Mano
a mano che si sale gli appartamenti diventano sempre meno e le
terrazze di più. L’ultimo piano è solo un appartamento circondato
da quattro terrazze.
“chi vive all’ultimo piano?
“un tipo che non si vede mai.
Sempre la stessa storia. All’ultimo piano vive un tipo che non si
vede mai.
“e il Gordo2? Dov’è il Gordo?
“no, il Gordo non arriva. È a Baranoa.
“e il vestito quando lo porta?
“ha detto domani.
“domani? A che ora comincia la sfilata?
“si parte alle 10.
“e il Gordo arriva?
“dice di sì.
“Dimitri, che vestito ti porta il Gordo?
“diavolo-pipistrello.
“se arriva.
“come se arriva?
“se arriva. Il Gordo è una brava persona ma io non mi fido. Non
ci contare e vatti a cercare un altro vestito. È che del Gordo non ci
si può fidare.
Simpatico il Gordo. Il vestito glielo mandò la mattina della sfilata
con un servizio a domicilio.
2
Gordo significa “grasso” (N.d.A).
166
Mattina della sfilata. Al punto di ritrovo]
IL GORDO
“Gordo!
Il Gordo stava seduto sotto un albero.
“Ambar!
“Gordo!
“Ambar!
Era un po’ che non si vedevano.
Il Gordo chiamò il capitano Zaravakis e lo salutò. Non era il
proprietario del vestito, però era l’ultima persona che l’aveva
indossato. Funzionava così.
“è che il Gordo si è ingrassato ancora e ha dovuto cucirne uno
più grande.
“Gordo, da cosa ti sei vestito?
“diavolo-pipistrello.
“un’altra volta?
Al Gordo piaceva vestirsi da diavolo-pipistrello.
Il Gordo lo chiamò vicino.
“vieni, vieni qui. Allarga le braccia a cerchio.
Tutti e due erano vestiti da diavolo-pipistrello. Il vestito da
diavolo-pipistrello aveva delle ali cucite che dai polsi scendevano
fino alle caviglie.
“vieni qui. Allarga le braccia a cerchio.
All’interno delle ali si creava un ambiente protetto dagli sguardi
indiscreti della gente indiscreta. Il Gordo uscì con un sacchetto
pieno di cocaina.
“vuoi?
Il Gordo portava una maschera terrorizzante che gli lasciava
libero il naso. Si sospettava che al Gordo non importasse un cazzo
del vestito da diavolo-pipistrello. Quello che importava al Gordo
erano le ali ampie e protettive e la maschera che lasciava libero il
naso. Si diceva che al Gordo facesse schifo il vestito da diavolopipistrello, è che per quello che gli piaceva fare durante la sfilata
non ne aveva trovato uno che funzionasse meglio.
“senti un po’, Dimitri. Hai imparato come si usa il vestito?
167
“sì, Gordo.
“sarà molto utile quando cominceremo a camminare.
“Gordo insegnami altre cose. Sono nuovo.
“che vuoi sapere?
“vedi tu.
“parole brutte?
“parole oscene.
“mondà. È la peggiore.
“e come si usa?
“non vuoi sapere che significa?
“non importa.
“se ti danno fastidio dici: questo è mondà. Puoi comporre
espressioni come faccia di mondà o vai a magiare mondà. Però
attenzione, solo se il tipo non è troppo grosso.
“grazie Gordo.
Sole a picco sopra le teste a Barranquilla. Ogni gruppo aveva uno
spazio riservato per aspettare l’inizio delle danze.
Mattina della sfilata. Al punto di ritrovo. Parte II]
LA STAMPA
“ecco che si preparano per la sfilata i “Disfrazate como quieras” 3,
da molti anni il gruppo che riunisce gli artisti e gli intellettuali
della città. Ehi, non inquadrare quel coso che sembra un uccello.
“non è un uccello, è una Marimonda.
“lo so anch’io che non è un uccello. Non lo inquadrare.
“e loro?
“quando arrivi all’uccello stacchi e mi fai un primo piano. Hai
capito?
“sì, sì, ho capito. Ma…
“ma cosa?
“fa parte del gruppo. Lo caratterizza.
“non importa. Vuoi che mostri un uccello al telegiornale delle
otto?
“è che loro sono tutti mezzi froci. È normale portarsi un carretto
3
Letteralmente “màscherati come vuoi” (N.d.A.).
168
con sopra un uccello.
“non è un uccello. È una Marimonda.
“allora, perché non la mostri?
“perché sembra un uccello. Dai registra, facciamo il finale.
“registro…
“un bacio dalla vostra Marta Salazar. Perché tutto quello che
succede a Barranquilla si vede nel Telegiornale Caracol.
Mattina della sfilata. Al punto di ritrovo. Parte III]
DISFRAZATE COMO QUIERAS
Se li ricorda gli artisti e gli intellettuali di Barranquilla. Se li
ricorda belli e colorati a saltellare per chilometri di strada che
scotta, a togliersi dal fiume della gente e del ritmo ossessivo del
porro e a concedersi lunghe pause dentro alle ali del diavolopipistrello.
“venga signora, venga.
Arrivò una vecchia e si infilò dentro alle ali. Le avvicinarono al
naso una chiave colma in punta di cocaina. La vecchia aspirò. La
cocaina era sparita.
Tutto molto bello, pensava il capitano Zaravakis. Lontano,
guardando a occidente, si vedeva un altro fiume. Il Magdalena.
Correvano quasi a fianco i due fiumi. Colorato e rumoroso quello
della gente. Grigio e immobile l’altro. La corrispondenza dei
cammini gli regalava pensieri profondi.
“cos’è questo?
“è un carretto che fa parte del nostro gruppo. È un uccello. No,
aspetta, è una Marimonda. È che una Marimonda sembra un
uccello.
“dicevo quello vuoto.
“quello vuoto? È per gli ubriachi.
“beh?
“non li possiamo mica lasciare lungo la strada.
Già se lo immaginava. Il carretto si sarebbe riempito di persone
accatastate che non ce la facevano più a vivere.
Alla fine della sfilata]
169
NOTTE
Memorabile. In quel locale dove si ballava la salsa. La Turca
ubriaca lo riempiva di complimenti.
“che italiano bello! Per tanta bellezza mi potrei anche convertire.
Non è così. La Turca ama Leo, una ragazza sensuale che cucina
manicaretti per la gente degli altopiani. Anche Leo ama la Turca.
Non ci sono possibilità. Non ci sarà un futuro in comune per la
Turca e il capitano Zaravakis. Ma la Turca continuava.
“che italiano bello.
I complimenti lo mettevano in imbarazzo. Non diventava rosso
perché era giallo. Troppo rum, troppa cocaina.
La Flaca4 ballava solo se la gente applaudiva. Quando ballava la
Flaca tutti gli altri si mettevano da parte e la lasciavano sola in
mezzo alla pista.
“lo faccio solo se mi applaudite.
Diceva la Flaca.
Una stella consumata dello spettacolo. Curiosava dentro agli
sguardi delle persone sedute e da ciascuno voleva qualcosa. Poi
terminava la canzone e la Flaca regalava un inchino e si ritirava. Il
pubblico applaudiva, perché la Flaca ballava divino.
“Gordo, che ti piace di questo locale?
“il bagno. Ce ne sono tre, tutti grandi e luminosi.
“Gordo, il bagno ti piace?
“il bagno è importante.
Il Gordo entrava e usciva da quel suo bagno. Passava più tempo
nel bagno che in pista a ballare. Quando usciva qualcuno gli
spolverava la punta del naso.
“piacere, sono Ambar Franco.
Già ne conosceva una e questa non ci assomigliava per niente.
“ho abitato tre anni in Sicilia, a Palermo.
che strano, pensò. Non ci assomiglia un cazzo all’altra Ambar
Franco. Incontrare due persone con lo stesso nome che non si
assomigliano per niente. Che scherzo è questo?
“ehi, il Gordo non esce più dal bagno.
“Gordo!
4
Letteralmente “magra” (N.d.A.).
170
“Gordo, non far lo stronzo, guarda che se ci stai prendendo in
giro…
“non ci sta prendendo in giro, è dentro da troppo tempo.
“Gordo, cazzo, rispondi!
La gente cominciò a preoccuparsi. E se fosse successo qualcosa
al Gordo? Monica era lontana, se ne era andata chissà dove.
perché Monica era un medico. Non si sapeva che medico. Degli
organi interni, dell’anima o degli animali. Non si sapeva, però era
un medico e tutti chiedevano a Monica. Era bella Monica. Se la
ricordava alla sfilata tutta verde vestita da elfo.
“Monica canta divino.
Quando li presentarono non la poté baciare perché le scendeva il
trucco.
“davvero, e che canti?
Il capitano Zaravakis non lo seppe mai perché lei non rispose.
Era un elfo e se ne andò via. Ricordava di quando gli chiedeva
quelle sigarette che lui aveva arrotolato mescolando il tabacco e la
cocaina.
“hai un’altra di quelle sigarette strane che mi hai dato prima?
“certo che ce l’ho, Monica.
Lui accendeva la sigaretta convincendosi che fosse un gesto di
cortesia e poi quando lei non guardava dava due o tre tiri a pieni
polmoni e per questo non c’era giustificazione alcuna, e la passava
a Monica che la avvicinava alla bocca sensuale con le mani di elfo.
Come era bella Monica con la sigaretta appoggiata alle labbra.
Monica, pensava, ti vorrei amare, però Monica ama Giulia e Giulia
ama Monica e non ci sarà un futuro tra Monica e il capitano
Zaravakis.
Il Gordo uscì dal bagno accompagnato da un amico. Era tutto
sudato e aveva dipinta in faccia un'espressione serafica.
“e lui chi è?
“Hugo, l’uomo che ha fatto della voluttà una ragione di vita.
Adesso ci sono tutti, pensò il capitano Zaravakis.
Per le strade di Barranquilla]
LA SFILATA
Il sole non li aveva lasciati un momento. Dalla strada saliva un
171
calore che scioglieva anche i pensieri più duri. Le suole delle
scarpe si appiccicavano all’asfalto e rendevano ogni passo colloso e
pesante. Una prova di sopravvivenza.
“capitano Zaravakis, un carnevale l’ho passato con un signore
che veniva dell’Irlanda. Non lo so che è stato, però dopo un paio
d’ore non ce la faceva più a stare in mezzo a tutta quella gente. Lui
voleva uscire ma niente, la folla lo abbracciava e lo ributtava
dentro. Capisci? Non se ne poteva andare. Fu un incubo.
“perché mi dici questo?
“non so, una cosa come un’altra.
Al capitano Zaravakis non era successo niente. Ragazze
seminude si buttavano dentro alla sfilata. Bambini spaventati
vincevano la paura e si facevano fotografare con le maschere più
brutte. Con quei sorrisi di soddisfazione di chi è riuscito a fare
qualcosa che non avrebbe pensato. Il delirio lo aiutava per il passo
successivo. Non c’erano più persone. C’era solo il grande fiume di
colore e danza che stava a sudare via un anno intero.
“non credo mi capiterà come all’irlandese.
Per le strade di Barranquilla. Parte II]
LE AVVENTURE DEL CAPITANO ZARAVAKIS
Una ragazza bella da morire uscì dal pubblico ai bordi della
strada e gli cominciò a ballare addosso. Avvicinava il sesso, senza
toccare, con movimenti rotondi del bacino. Si muoveva al ritmo del
carnevale. Lui meno, ma ci provava anche lui. La ragazza bella da
morire gli afferrò la Marimonda. Lui ebbe un'erezione. Un'altra
ragazza, ancora più bella della ragazza bella da morire, raggiunse
il didietro di lui e lo cominciò ad accarezzare. Situazione
invidiabile, pensò il capitano Zaravakis, ma il fiume delle maschere
continuava il suo viaggio e non poteva mica restare lì per sempre.
Le mani della ragazza bella da morire rimanevano strette sulla
Marimonda e ogni tentativo di riprendere la corrente era vano. Le
diede un buffetto sul viso e lei capì. Lo salutò con un bacio rubato.
La ragazza ancora più bella smise di accarezzare e rimase a
guardare con nostalgia il didietro di lui che si allontanava
saltellando.
“hai visto quelle due ragazze che mi hanno fatto?
“quello era il gruppo dei travestiti.
Ebbe un’altra erezione.
172
Alla fine della sfilata. Parte II]
ALICE
Ancora il locale della salsa.
“Dimitri, che fai nella vita?
“niente.
“come niente?
“niente.
“qualcosa farai.
“scrivo racconti.
“è molto bello.
“è la mia vita.
“che intendi dire?
“che senza, la mia vita non sarebbe la stessa.
“dimmelo in un tono un po’ meno mistico.
“che se non lo faccio comincio a dare fastidio alla gente, tutti mi
sembrano degli stronzi e non vedo un motivo perché debbano
continuare a vivere.
“e quando lo fai?
“uguale ma un po’ meno.
“Dimitri…
“sì?
“sei una persona meravigliosa.
“grazie Alice.
“non mi ringraziare. Te lo dico perché è la verità.
“Alice…
“sì?
“che hai preso Alice?
“extasi.
“e adesso?
“andiamo a una festa. Vieni?
Mi piacerebbe amarti, bella e dolce Alice. È che Alice ama Irene
e Irene ama Alice e non c’è futuro per Alice e il capitano Zaravakis.
Nemmeno questa volta.
173
“non ti piacerebbe scrivere un racconto che parli del carnevale?
“non lo so se sono bravo abbastanza.
“che importa?
“importa.
“lo potresti mandare all’indirizzo di posta dei Disfrazate como
quieras. Lo faccio leggere a Irene e se le piace…
“se la lecchi come immagino sai leccare, sicuro le piace.
“insomma, se le piace lo pubblichiamo nella sua rivista.
“l’unica cosa che posso fare a proposito del carnevale è una cosa
sporca, di morale dubbia e che farà vomitare ai più.
“non desidero altro.
“è opportuno che vada. Ti potrei amare, bella e dolce Alice.
Barranquilla, Atlantico]
LA FINE DEL CARNEVALE
Era il giorno dopo a Barranquilla e il capitano Zaravakis pensava
che i giorni dopo si assomigliano un po’ tutti. Si raccoglie la vita da
terra e si ricomincia a camminare. Faceva caldo dentro alla stanza.
Ambar Franco non si era ancora svegliata e respirava male, però
respirava. I giorni dopo erano l’acqua di piena che si è ritirata e
indifferente lascia vedere cosa ha fatto. Il fiume di sudore e musica
non c’era più. Rimaneva quell’altro, grigio e silenzioso.
174
La morte del maiale con i riflessi blu
“guardalo, lo scrittore.
“lascia perdere. Non è giornata.
“sei a Cartagena da un sacco di tempo e non hai scritto una
pagina. Ammettilo, ti sei piantato.
“non è colpa mia, la macchina è difficile. La casa è difficile.
Profuma a morto.
“la casa è una scusa ricorrente. Ma che vuol dire macchina
difficile?
“sono i tasti.
“bella, vero, la macchina antica?
“sì, bella.
“l’hai vista e hai smesso di pensare.
“la macchina da scrivere è come una donna.
“originale la metafora. Dai, riprova.
“i tasti sono vecchi. Consumati. Schizofrenici.
“ma non ti sei accorto di come scriveva?
“no, non me ne sono accorto. Ero troppo occupato.
“a fare cosa?
“a immaginarmi seduto che battevo sui tasti.
“qual è il problema?
“le parole che escono sul foglio tutte con le lettere che vanno per
i fatti loro.
“uno scempio estetico?
“una scrittura schizofrenica.
“sarai in grado di sostenerla?
“guarda che casino. Le prime righe del racconto non sembrano
affatto un racconto. Sembrano piuttosto un tentativo disperato per
convincermi che non tutto è perduto.
“non essere triste. Potrebbe essere la vita di molti.
“non mi importa affatto della vita degli altri.
175
“perché l’hai comperata?
“perché lo ha voluto il destino.
“come tutto il resto, vero?
“certo, come tutto il resto. E non vedo un motivo per fare
dell’ironia.
“non è la mia ironia il punto. Così come non lo è la tua macchina
difficile, o la tua casa che profuma a morto. A proposito, non hai
ancora parlato della casa.
“lo farò più tardi.
“fallo adesso. Perché aspettare?
“è nella mia natura.
“se vuoi la mia opinione…
“non voglio la tua opinione.
“questo non importa. Sono qui per dartela.
“dai, ti ascolto.
“hai comperato la macchina da scrivere per una sola ragione: ti
sarebbe piaciuto che fosse stata la macchina che ti mandava il
destino. Ingegnosa come strategia. Ma non è così che funziona.
“non puoi negare che si tratti di una scrittura schizofrenica.
Guarda come scrive le A, sono tutte più basse. Le ESSE sono più
alte e quando ti capita di dover attaccare una ESSE a una A, è un
disastro che quasi non si può leggere.
“però c’era la macchina che ti allineava le parole.
“sì, c'era. Faceva un rumore di ferrovecchio e poi ricordava la
rivoluzione industriale. Che me ne faccio di un oggetto che fa
schifo?
“ci scrivi.
“non è quello che voglio. Io voglio una macchina che mi permetta
la scrittura schizofrenica e ascoltami, davvero non so che farmene
di una macchina che mi allinei le parole. Non ce l’ho perché non la
voglio. Ecco il vero motivo.
“e perché ti continui a lamentare?
“non si vedono i tasti.
“come non si vedono i tasti?
“il tempo ha cancellato le lettere e a uno gli tocca ricordarsi tutta
la tastiera a memoria.
176
“lasciami indovinare. Non ti puoi concentrare su quello che scrivi
perché stai sempre lì a guardare dove cadranno le dita.
“non si tratta di un semplice problema di concentrazione. Ha che
fare con il ritmo.
“vuoi che ti confidi una cosa?
“confida.
“la macchina non è un problema della macchina.
“e di che?
“sono realtà profonde. Non capiresti.
“e la casa? Anche la casa non è un problema della casa?
“non te ne eri dimenticato.
“come posso dimenticarmene? È un incubo.
“allora dimmi, cos’è che non va?
“non lo so cos'è che non va. Sai, dalla finestra si vede il mare…
“non parlavo della casa.
“e di che parlavi?
“di te.
“di me. Non hai niente di più interessante?
“vuoi continuare con la casa?
“che vuoi sapere?
“guarda che me lo ricordo bene. Andavi in giro a dire che non
sarà una città a fare le pagine. Una casa è meno di una città. Come
può impedirti di lavorare?
“devo rispondere?
“com'è questa casa che non ti lascia lavorare?
“entri e c’è uno spazio unico, senza pareti, con una finestra alla
fine che è grande come il muro. Il panorama mozza il fiato. Azzurro
caraibi.
“lo sai che c’è gente che lavora tutta la vita in una fabbrica?
“che significa?
“non lo so che significa ma te lo volevo ricordare.
“c’è un letto enorme, bianco, proprio davanti alla finestra.
“dal letto si vede il mare?
177
“non proprio, mi tocca sollevare un po’ la testa.
“che sforzo.
“non scherzare, lo faccio. Quando mi sveglio di umore nero,
rimango nel letto e mi riempio gli occhi di blu. Fa bene.
“si dice in giro.
“di notte ascolto il rumore che fanno le onde.
“che rumore fanno le onde?
“che rumore vuoi che facciano le onde? Rumore di onde. Come
faccio a spiegarti? Tu arrivi qui e vuoi che ti racconti di una casa
difficile e poi te ne esci all’improvviso con questa cosa delle onde.
Che rumore vuoi che faccia il mare?
“dai, dai, che non ti volevo mettere in difficoltà.
“a volte penso che tu lo faccia apposta.
“che?
“mettermi in ridicolo.
“non ti ho messo in ridicolo.
“mi hai chiesto che rumore fa il mare.
“non mi sembra la stessa cosa.
“a me sì.
“hai voglia di tornare alla casa?
“c’è un’amaca appesa proprio davanti alla finestra.
“la usi?
“non molto. La verità è che mi sono affezionato di più al letto.
“però la usi?
“sì, la uso. Quando è notte. Guardo la luna che tramonta nel
mare. È uno spettacolo di rara bellezza.
“fammi capire. Tu stai lì sdraiato sull’amaca…
“si dice nell’amaca. Avvolge. Ha qualcosa di materno.
“va bene, sdraiato nell’amaca, e aspetti che la luna scenda nel
mare.
“ti sembra strano?
“mi sembra bello. Aspettare così che venga il sonno.
“allora non mi ascolti. Ti ho detto che vado lì a guardare la luna
che entra nel mare del tropico.
“scusa, l’avevo immaginato. Uno si mette dentro all’amaca, si
178
dondola con la brezza degli alisei che gli accarezza i capelli e
aspetta che i sogni se lo vengano a prendere.
“non voglio che i sogni arrivino e mi portino via. Ho paura. E poi
il sonno lo aspetto da un’altra parte.
“dove?
“la verità è che non lo aspetto. Lo chiamo con la voce grossa.
Quando ho finito di guardare la luna che si mette giù nel mare,
arrotolo uno spinello grande di marijuana.
“è un peccato.
“in che senso?
“nel senso che ti perdi un sacco di cose.
“milioni di persone ogni giorno si perdono un sacco di cose e non
gliene frega un cazzo a nessuno. Una in più non farà poi questa
gran differenza.
“chiamare il sonno significa chiamare gli dèi. Te ne rendi conto?
“sì.
“però lo continui a fare.
“gli ho già disturbati troppe volte perché mi possano perdonare.
“stiamo perdendo di vista la conversazione.
“sei qui perché questo non succeda. Comincio a sospettare che
non vali un cazzo.
“tu non vali un cazzo. Guarda il lavoro che fai e non sei nemmeno
capace di esprimerti. Scrivi come un orangotango e la gente non
capisce.
“non hai argomenti.
“certo che ne ho.
“fammi un esempio. Prove, voglio prove.
“così su due piedi non mi viene. Ma ti tocca sempre dirlo due
volte perché altrimenti rimangono dei dubbi. Potrebbe essere un
problema se vuoi fare lo scrittore.
“non voglio fare lo scrittore. Lo sono e basta. Non ci posso fare
niente.
“e sì che una cosa la potresti proprio fare.
“che?
“per esempio imparare ad esprimerti.
179
“tu sei qui per aiutarmi, lo so bene.
“lo sto facendo.
“male. Sai solo criticare quello che faccio. E quello che dico.
“non hai ancora pubblicato niente.
“è un problema dell'industria editoriale.
“ragazzo, il mondo non è popolato da imbecilli che non capiscono
il tuo lavoro.
“non lo ho ancora detto.
“lo dirai, ti conosco bene.
“e tu? che passi il tempo a dirmi che non mi so esprimere. Come
aiuto non vali un cazzo. Avevo capito tutto fin dall’inizio.
“che pretendi? che ti mandino quelli bravi? Quelli bravi non
possono lavorare molto. Devono stare lì pronti riposati per quando
si pianta Gabriel García Marquez o Wilbur Smith.
“si pianta anche Wilbur Smith?
“certo che si pianta.
“e García Marquez?
“si piantava.
“come si piantava? Non si pianta più?
“si è piantato per sempre. Si è ritirato. Già non è affar nostro.
“ritirato? García Marquez?
“sì caro mio. Ritirato, pensionato, vecchio. Adesso vive tra Città
del Messico e L'Habana e scopa tredicenni.
“questo lo ha sempre fatto. Tra un libro e l’altro.
“adesso avrà più tempo.
“e lui? Anche lui avrà più tempo?
“lui chi?
“il tuo collega, quello di García Marquez.
“non ci sperare. Non sei niente. Non te lo daranno mai.
“Günter Grass si pianta?
“no, Günter Grass no.
“pensavo. Sai, non si vedono molti libri.
“che c’entra?
“come che c’entra? Se uno si pianta non scrive.
180
“non hai capito un cazzo. Vuoi che ti racconti un segreto? Però
non lo devi dire a nessuno.
“sarò un pomeriggio ai tropici senza vento.
“lo vedi che non ti sai esprimere? Questo trasmette un’immagine
di sofferenza e apatia. Che mi frega di immaginarmi un tipo
disoccupato che non ce la fa più a vivere e dà la colpa al caldo?
Sarò una tomba, avresti dovuto dire.
“ma lo dicono tutti.
“lo dicono tutti perché trasmette l’idea.
“mi racconti il segreto?
“prima devi imparare ad esprimerti.
“e tu devi imparare ad aiutarmi.
“ci proverò.
“ci dovrai riuscire, è il tuo lavoro.
“anche il tuo lavoro è scrivere, però…
“tu infierisci.
“e poi che vuol dire? Ci devi riuscire. Sembri un pastore
evangelico del Wisconsin. Ma che vuoi? Ricorri a “loro” solo
quando ti fanno comodo. Per il resto sono un manipolo di idioti,
vero?
“loro chi?
“loro. Gli americani.
“devi dire statunitensi. Sotto c'è un continente intero.
“questi non contano un cazzo.
“e i tuoi? Sono solo un branco di idioti arroganti.
“e quando Lawrence Ferlinghetti ha letto le poesie? Idiota anche
lui? È pur sempre un americano.
“è perché suo padre viene dalla mia terra.
“qual è la tua terra?
“l’Italia.
“oh, terra di signori.
“lascia stare.
“come la mettiamo con gli altri che ti piacciono? John Fante, per
esempio.
“vedi che non sai niente? Da dove vuoi che venga con un
cognome così?
181
“Charles Bukoswki.
“tedesco.
“Jack Keruac.
“franco-canadese.
“però lì funziona in questo modo. Quelli che vivevano una volta
non ci sono più.
“pensa che questi stronzi americani a Jack Keruac gli dicevano
che non sapesse scrivere.
“è per questo che ti piace così tanto? Ci vedi delle affinità?
“sta’ zitto. Pensavi che fosse un americano, come li chiami tu. Ti
mandano e non sai un cazzo. Ti potresti per lo meno preparare.
“sempre con i dettagli. Sei ossessivo.
“dattilografo gli hanno detto. La forza non basta.
“glielo ha detto Truman Capote.
“Truman García Capote.
“ancora? Il cognome da immigrante ce l’aveva per via del
secondo marito della madre. Non c’era legame di sangue.
“non è vero che Keruac non sapesse scrivere. Erano solo i
commenti invidiosi.
“di chi? di chi stava troppo seppellito per capire la sua arte?
“no, di chi scopava meno e con donne più brutte.
“Truman Capote era gay.
“Truman Capote non era l’unico a criticarlo anche se forse era
l’unico a poterlo fare.
“e adesso?
“vorrei parlarti di Lawrence Ferlinghetti.
“va bene, parla.
“Ferlinghetti visitò la mia terra per vedere l’autunno.
“un poeta vero.
“non scherzare. È un poeta vero.
“e che ha fatto?
“hai mai visto un autunno?
“sì che l’ho visto un autunno.
182
“la tua faccia non mi piace.
“sì, ma che ha fatto?
“è andato nel bosco e ha pianto.
“tutto qui?
“che deve fare un poeta?
“posso farti una domanda?
“certo.
“perché mi parli di Ferlinghetti?
“non ricordo.
“anche nei pensieri sei disordinato. Non è possibile continuare
così.
“non è disordine. Io voglio la scrittura schizofrenica che questa
macchina consumata dal tempo mi regalerà.
“così era un piano?
“non era un piano.
“un tentativo di arrivare a qualcosa che volevi simulando uno
stato di necessità.
“sta’ zitto. È l’unica cosa che posso fare con questo rottame
travestito da macchina da scrivere. O sarà la scrittura
schizofrenica o sarà la morte dello Scrittore.
“perché rinunciare a tutto?
“io non rinuncio a niente. Io scriverò.
“Lawrence piangeva.
“lui non ha più bisogno di scrivere. Ha ottant’anni.
“e tu?
“ne ho compiuti trenta. Potrei avere davanti ancora un sacco di
pasti a cui dover provvedere. Altrimenti piangerei anch’io.
“ne hai già compiuti trenta?
“potrei dover risparmiare molte lacrime per i giorni a venire. E
tu, non mi dicevi di un segreto?
“sì, pero tu mi hai risposto di pomeriggi ai tropici.
“e allora?
“se cominci a parlare di tombe magari te lo racconto.
“il segreto non è più attuale.
183
“che dici? Un segreto non è più attuale quando lo si rivela. Io non
ho ancora rivelato niente.
“non importa più a nessuno del tuo segreto. Perché non è più
attuale.
“come non importa più a nessuno?
“perché questa è una scrittura schizofrenica. Hai perso il treno.
“non hai la minima idea di quello che volevo dire.
“non importa. Non a questo punto del racconto.
“a me sì che importa e te le dico lo stesso, perché è una bomba.
Udite udite, Paulo Coelho non scrive i suoi libri. E nemmeno Tom
Clancy.
“e García Marquez?
“García Marquez li copia.
“e Günter Grass?
“Günter Grass sì, li scrive. Ma hai sentito?
“sì ho sentito.
“e?
“è inattuale. Ed è un segreto del cazzo. Lo sanno già tutti.
“cosa sanno?
“delle orde di dannati che scrivono libri del cazzo per autori del
cazzo, e l’importante è il nome in copertina e che il libro sia cagato
poco prima di Natale.
“davvero lo sanno tutti?
“sì che lo sanno.
“e perché li continuano a leggere?
“non sei tu quello che è venuto a dare risposte?
“dai dimmi.
“non li leggono, li regalano.
“e chi li riceve?
“li mette sulla libreria. Che gli amici possano apprezzare la
grazia e il senso estetico nell'accostamento delle copertine.
“come un mazzo di fiori?
“però i fiori sono più belli e uno non è costretto a tenerli per
tutta la vita. E comunque il tuo segreto è inattuale.
“ma che vuol dire inattuale? Vedi che non si capisce mai?
184
“il tuo segreto del cazzo era attuale quando hai parlato di un
segreto per la prima volta. Te l’ho già detto, questa è una scrittura
schizofrenica. Si cambia rapido. Cosa vuoi che gliene freghi alla
gente di un segreto due pagine dopo? Hai perso il treno.
“se lo dici tu…
“mi dispiace, ma questo è un racconto schizofrenico e solo gli
schizofrenici lo leggeranno e io mica posso presentare un prodotto
che non risponda alle aspettative.
“cosa ti fa pensare che qualcuno lo leggerà? Sei solo un povero
presuntuoso. Cosa ti fa pensare che non finisca in qualche scaffale
a fare la muffa?
“risolvo il problema alla radice. Il racconto non diventerà mai un
libro.
“e questo ti sembra risolvere il problema?
“è qualcosa che gli assomiglia tanto.
“perché non diventerà mai un libro?
“perché farà schifo ai più e le uniche persone a cui piacerà non
avranno la più pallida idea di come farlo pubblicare.
“è questo pessimismo che ti ucciderà.
“non è pessimismo. L’espressione non significa niente.
“quando ti senti con le spalle al muro dici che le cose non hanno
significato.
“funziona.
“cerchi leggi che ti consentano di attraversare il mondo senza il
minimo sforzo.
“tutti cercano cose che poi non trovano.
“vedi come sei?
“conosci forse una risposta?
“certo che la conosco, sono qui per questo.
“sentiamo.
“il segreto è nello sforzo. Lo sforzo rimane.
“certo che le tue visite sono sempre opportune e divertenti. Io
mica ti parlo della maniera schifosa in cui consigli la gente. Però su
qualcosa hai ragione, sono mentalmente disordinato, non ho
ancora terminato con la casa.
“è inattuale. Me lo hai spiegato un po’ di righe fa. È o non è un
185
racconto schizofrenico?
“sarebbe importante.
“anche il mio segreto lo era.
“il tuo è solo risentimento. E poi se non ti racconto della casa non
si capisce.
“troppo tardi ragazzo.
“che ne sai tu di quando è tardi?
“a chi vuoi che interessi della casa a questo punto della storia?
“ai miei lettori affezionati.
“tu non hai lettori.
“certo che ho i lettori. Sono quelli che sanno che anche in un
racconto schizofrenico si arriva a un punto in cui è necessario
rimettere tutto a posto.
“questo è pericoloso. Finché pedali la gamba è calda e non fa
male. Ma quando ti fermi…
“sapranno della casa. Capiranno.
“che?
“se la gente vede che alla fine recupero i fili del racconto si
sentirà rassicurata. Non voglio che si addormentino e abbiano
degli incubi.
“e lo scritto schizofrenico?
“c’è.
“se scrivi il finale non c'è più. Penso che sia tutto un imbroglio.
Questa non è una musica dei Sex Pistols.
“questo è meglio di una musica dei Sex Pistols. Anche loro erano
ordinari. Facevano tutto con coerenza.
“e tu?
“io no. Mi accusi di abbandonare il mio scritto schizofrenico solo
perché voglio parlare della casa.
“non perché vuoi parlare della casa ma perché vuoi rimettere
tutto in ordine.
“potrebbe dare un senso al caos.
“potrebbe. Potrebbe anche uccidere il racconto.
“è l’unico modo che mi consentirà di scrivere un finale.
“il racconto schizofrenico ha bisogno di un finale?
“certo che ha bisogno di un finale. Già troppa gente ha creduto
186
che fosse sufficiente togliere le braccia a una statua per poi
spacciarla per arte. O cadono da sole o non vale.
“hai dato di testa. Come fai a parlare di arte? Non ti sai
nemmeno esprimere. Non si capisce. Già troppa gente ha creduto
che fosse sufficiente non farsi capire per poi spacciare i loro
schifosissimi scritti per arte.
“io non lo faccio apposta. Ho dei problemi d’espressione.
“però ti piace che non ti capiscano.
“certo che mi piace. Mi sistema dritto filato nell’Olimpo.
“anche nei manicomi la gente non si capisce.
“bravo, anche nei manicomi.
“dunque la casa?
“non ne parlerò più.
“problemi di attualità? Riflessioni metafisiche su cosa diventerà
la tua scrittura schizofrenica con un finale?
“no, niente di tutto questo. Ho deciso che il modo più
schizofrenico per concludere un racconto schizofrenico potrebbe
essere proprio il finale. Ma se parlo della casa mi tocca parlare
della proprietaria. La signora che viveva qui prima di me. E dei
quadri orribili che dipinge e che appende alle pareti. E
dell’atmosfera che odora a morto. Pensa poi se per caso una
ragazza prende in mano il racconto e si eccita.
“un'altra volta, ma che stai dicendo?
“una ragazza brutta ma con il fuoco in mezzo alle cosce, però
troppo brutta perché anche il più pervertito tra gli uomini si
azzardi a infilare il pistone.
“sei volgare.
“pensa se una ragazza così prende in mano il racconto e si
eccita.
“spiegami come una persona si possa eccitare leggendo questo
schifo di racconto.
“per una strana alchimia di elementi, nessuno erotico.
“come una magia.
“un po’ sì, ma senza nessuna relazione evidente di causa-effetto
tra la formula e il risultato.
“non succede mai.
187
“sforzati un po’.
“concesso.
“si eccita a tal punto che non può fare a meno di masturbarsi.
“che c’entra con la proprietaria del tuo appartamento?
“lei? Niente.
“continua.
“dopo aver letto il racconto e aver soddisfatto le voglie più
sordide, lo rilegge. Durante la seconda lettura, questa volta a basso
voltaggio ormonale, si accorge delle cose profonde, sai, lo scrittore
in difficoltà, il lavoro che non viene, e via dicendo, e ne rimane
profondamente intenerita. Non so, per un recondito senso materno.
“malinconia, fallimento. Sono tecniche subdole. Sei davvero un
verme.
“lei sa bene di queste cose, perché ha un repertorio di amanti
con il cazzetto moscio. È che la tipa è brutta davvero e le poche
volte che riesce a portarsi a casa un uomo, sempre si conclude con
lei che gli fa una sega perché lui ce l’ha troppo moscio per infilarlo
e lui viene senza che gli diventi duro. Sarà la stanchezza, baby. Mi
dispiace, non mi era mai successo.
“la storia si fa interessante. Un po' di sesso non guasta mai.
“la ragazza quasi in lacrime legge il racconto una terza volta,
perché non capisce bene, ma questo scrittore ha qualcosa che ha
già sentito in Julio Cortázar quando fuma le sigarette bionde e in
John Fante quando delira dietro alla sua messicana.
“come una disperazione di fondo?
“che lo rende terribilmente sensuale. Così passa il racconto al
padre che è un magnate dell’editoria, oltre ad essere uno degli
uomini più affascinanti della città, e non certo per l'acume
dell'intelletto. In tutta la vita non è mai riuscito a spiegarsi il
perché dell'aspetto del mostriciattolo, ma è pur sempre sua figlia, o
almeno lo sospetta.
“e la madre?
“una vecchia storia. Una relazione clandestina e fugace dentro al
bagno di un autogrill con la signora delle monetine.
“un romantico?
“no, un maniaco.
“e insomma?
“il padre pensa alla sua sensibilità di donna, al fatto che leggere
188
di uno scrittore in difficoltà le apra il cuore. E così sono tutti teneri
e lui comincia a dubitare.
“filosofo cartesiano?
“no, imprenditore d'assalto. Il dubbio che lo assilla è questo: e se
mia figlia capisse qualcosa di letteratura? La verità è che la figlia,
visto l'aspetto, ha dedicato molto tempo alla lettura: i romanzi rosa
di Harmony, i libri dell’orrore di Stephen King, prima di conoscere
il mondo del sesso con i libri e le visite di Oscar Collazos.
“chi è Oscar Collazos?
“come chi è? È uno scrittore.
“non so. Non lo abbiamo nella lista.
“poi il salto di qualità. Dostoievskij, Tolstoij, Gorkij e tutti i russi
dall'era glaciale ad oggi. Gli scritti sefarditi e i mistici sufi. La
neoalemanica e la postavanguardia del Gabon. È che il papà non ha
mica una gran opinione nei confronti della figlia, non la stima
affatto, perché lui, puttaniere di indubbia fama, dedicatosi
all'editoria per colpa di una lucrosa eredità, la vede che è davvero
un cesso. E poi spreca tutto il suo tempo leggendo. Ma un dubbio
ancora meno cartesiano del precedente assilla il magnate: se
questo racconto di merda piace a mia figlia, perché mai non
dovrebbe piacere a quelle migliaia di imbecilli che normalmente mi
comperano libri e riviste? Il padre ha una visione profetica: una
Ferrari parcheggiata nel garage, e pensa sì, il libro venderà.
“come fa la ragazza ad avere il racconto?
“lo scrittore è uno di quelli che la vanno a visitare.
“un stronzo opportunista.
“un uomo pieno di fragilità.
“non ti seguo più, anche se questa parte mi piace.
“la proprietaria del mio appartamento è una pittrice e dunque è
disoccupata, non ha molti amici ricchi ma qui i libri si comprano
per strada a due soldi, edizione pirata, alla faccia di quello stronzo
del magnate.
“e del povero autore.
“l’autore è necessario che muoia povero. È una questione di
qualità.
“e direi anche di strategia editoriale.
“un amico annoiato potrebbe ricordarsi di lei e arrivare il giorno
di Natale con l’edizione della strada alla porta della pittriceproprietaria, e lei non ha molti scaffali e poi è disoccupata e in un
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momento di malinconia leggerà. Poi valle a spiegare che non è vero
che quando mi sveglio e vedo i suoi quadri arriva puntuale il
pensiero che sto sbagliando tutto, che magari i miei racconti sono
brutti come i suoi quadri o magari di più, che solo gli altri se ne
stanno accorgendo. Spiegale che non avrei mai voluto offenderla e
che questo mese avrò dei problemi a pagarle puntuale l’affitto.
Spiegale che non è mica colpa mia se gli dèi mi hanno preso di
mira e una ragazza brutta che vado a trovare è anche figlia di un
magnate della carta stampata. Che ne sapevo? Io non volevo un
libro che si regala a Natale.
“hai finito?
“sì.
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