CONTRATTO DI FACTORING ED AZIONE REVOCATORIA

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CONTRATTO DI FACTORING ED AZIONE REVOCATORIA
CONTRATTO DI
FALLIMENTARE
FACTORING
ED
AZIONE
REVOCATORIA
“Il contratto di factoring è un contratto atipico, in cui l’elemento costante è la gestione
della totalità dei crediti di un’impresa, attuata mediante lo strumento della cessione dei crediti, in
unione, di solito, con un’operazione di finanziamento all’impresa, quale elemento funzionale e
caratterizzante, e talora con un’operazione di assicurazione, quando il factor assume il rischio
dell’insolvenza del debitore”. Così viene definito dai giudici di legittimità1 il contratto di
factoring, il cui sviluppo in Italia ha avuto origine a partire dagli anni ‘60, ed è
culminato con la legge 21 Febbraio 1991, n. 52.
Tale legge disciplina la cessione dei crediti di impresa (la terminologia
anglosassone con cui il contratto è universalmente noto non viene mai utilizzata
dalla legge), la quale costituisce sicuramente il momento centrale del contratto di
factoring, ma non ne esaurisce la fattispecie; resta infatti estranea alla previsione
normativa una serie di prestazioni accessorie, normalmente contenute nella
modulistica contrattuale, la cui interazione caratterizza il contratto di factoring 2. La
novella, infatti, si limita a delineare il proprio ambito di applicazione (art. 1),
facoltizzando la cessione, anche in massa, dei crediti di impresa esistenti o futuri (art.
3), invertendo i termini della garanzia di solvenza (art. 4) ed introducendo il requisito
del pagamento avente data certa, ai fini dell’opponibilità ai terzi della cessione (art.
5). A questo punto, la legge n. 52/1991, anziché indicare la natura della cessione dei
crediti di impresa, o regolamentarne ulteriori aspetti, disciplina la sorte del contratto
nell’eventualità in cui uno dei soggetti del rapporto, da cui ha origine il credito
oggetto della cessione, venga assoggettato alla procedura fallimentare (artt. 6 e 7).
Non viene presa in considerazione la possibilità del fallimento del
cessionario; ciò in quanto la particolare struttura richiesta alle società di factoring
1
3
Cass. n. 8497/1994, in I Contratti, 1995, 23, con nota di DE NOVA.
Una regolamentazione maggiormente analitica del contratto di factoring è data dalla legge 14 Luglio
1993, n. 260, -relativa all’ipotesi in cui il contratto da cui origina il credito sia sorto tra soggetti aventi la
sede di affari in stati diversi- con cui si è provveduto alla ratifica ed alla esecuzione della convenzione
UNIDROIT sul factoring internazionale, stipulata ad Ottawa il 28 Maggio 1988, in G.U. 31 Luglio 1993,
n. 178.
3
Si veda il provvedimento della Banca d’Italia 16 Giugno 1992, recante disposizioni per l’iscrizione
all’Albo delle imprese esercenti l’attività di cessione ed acquisto dei crediti di impresa; nonché la
circolare dell’ABI del 3 Agosto 1992, n. 42.
2
comporta che le stesse trovino necessariamente la loro collocazione nel settore
bancario, traendo le proprie risorse finanziarie dal capitale di rischio raccolto e dalle
linee di credito ottenute4. Qualora, però, tale ipotesi, seppur remota, si verificasse,
l’art. 67 L.F. troverà applicazione, quanto al primo comma, soltanto nel caso in cui
sussista effettivamente la sproporzione richiesta dalla norma5; quanto al secondo
comma, a condizione che la curatela assolva l’onere probatorio concernente la
cosiddetta scientia decoctionis. Deve, invece, escludersi l’operatività dell’art. 65 L.F., in
quanto il versamento del prezzo della cessione da parte del cessionario non può
qualificarsi come pagamento di un debito non ancora scaduto, costituendo piuttosto
un atto giuridico inerente ad una diversa e successiva vicenda contrattuale, che lo
vincola al cedente.
Nel caso di fallimento del debitore ceduto, i pagamenti dallo stesso effettuati
non sono revocabili ai sensi del secondo comma dell’art. 67 L.F., a meno che il
curatore non riesca a provare che il cedente era a conoscenza dello stato di
insolvenza in cui versava l’imprenditore fallito al momento del pagamento eseguito
dal factor in favore del cedente stesso6. In tale ipotesi, però, le conseguenze
dell’azione revocatoria ricadranno sul creditore cedente, e non sul factor 7.
Mentre la normativa attualmente in vigore negli Stati Uniti prevede a favore
del factor un privilegio sui beni oggetto del contratto da cui ha avuto origine il credito
ceduto, manca un’analoga disposizione nel nostro ordinamento, con la conseguenza
che la cessione nulla aggiunge alle caratteristiche del credito ceduto, il quale, se è
4
Secondo ALPA, Qualificazione dei contratti di leasing e factoring e suoi effetti nella procedura
fallimentare, in Dir. fall., 1988, I, 200, “il fenomeno factoring si deve leggere non solo in chiave
contrattuale, ma anche (forse soprattutto) in chiave di oggettivo esercizio di una attività di impresa; di qui
la formula: factoring = attività, ovvero dal contratto l’attenzione si è spostata all’impresa”.
5
Che, secondo alcuni, può desumersi anche dal “particolare contesto economico del contratto: ad
esempio, quando i crediti ceduti riguardassero debitori sicuramente insolvibili”, APICE, Nuovi contratti di
finanziamento e revocatoria fallimentare, in Il Fallimento, 1994, n. 9, 951.
6
Come è stato giustamente sostenuto, si configura una “presunzione assoluta iuris et de iure circa
l’inesistenza sia del presupposto soggettivo della revocatoria, ovvero la conoscenza dello stato di
insolvenza da parte del factor, sia del presupposto oggettivo, consistente nel danno causato ai creditori
dall’atto da revocare”, GHIA, Il factoring, in Diritto fallimentare, collana diretta da Ivo Greco, 1994,
Pirola, vol. 2, 771.
7
L’uso del termine “revocatoria”, contenuto nell’art. 6 della legge n. 52/1991, viene considerato
improprio da CANTELE, Finalmente una legge per il factoring, in Corriere giuridico, 1991, 398, in quanto
revocare un pagamento “significa fargli percorrere a ritroso il cammino percorso”, mentre nella
fattispecie in esame l’azione viene esperita nei confronti di un soggetto (cedente) “per ottenere la
restituzione di un pagamento ricevuto da un altro (cessionario) in nome e per conto propri”.
2
chirografario, rimane tale. Di qui l’inserimento nei contratti di factoring di alcune
clausole volte a riequilibrare il sinallagma; tra le più ricorrenti, quella che prevede a
carico del cedente l’obbligo di comunicare tempestivamente al factor eventuali notizie
circa la solvibilità od il mutamento della situazione patrimoniale del debitore ceduto,
nonché quella con cui il factor si riserva la facoltà di rifiutare la cessione di
determinati crediti.
Quanto alle conseguenze immediate del fallimento del debitore ceduto,
occorre distinguere a seconda che la cessione sia stata effettuata pro soluto, ovvero pro
solvendo: nel primo caso, il factor non potrà rivalersi nei confronti del cedente, ma
dovrà proporre domanda di ammissione al passivo del fallimento del debitore
ceduto, al fine di ottenere in moneta fallimentare il pagamento dei crediti cedutigli;
nel secondo caso, il factor potrà esercitare la rivalsa, fino a concorrenza della somma
anticipata, oltre gli interessi e le commissioni di factoring, nei confronti del cedente, il
quale, a sua volta, dovrà insinuarsi al passivo fallimentare del debitore ceduto,
secondo quanto disposto dagli artt. 61-63 L.F..
In caso di fallimento del cedente, l’opponibilità al fallimento dell’efficacia
della cessione verso i terzi è subordinata al mancato raggiungimento della prova, a
carico della curatela, della conoscenza da parte del cessionario dello stato di
insolvenza in cui versava il cedente quando ha ricevuto il pagamento del prezzo
della cessione; ciò a condizione che detto pagamento sia stato eseguito nell’anno
anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento e prima della scadenza del credito
ceduto. L’elemento temporale, come si vede, incide sulle conseguenze: infatti,
qualora non sia trascorso l’anno -e venga provata la scientia decoctionis- la cessione
dovrà considerarsi inefficace, il curatore provvederà alla gestione del credito
“ceduto” ed il factor potrà recuperare quanto anticipato soltanto spiegando domanda
di ammissione al passivo fallimentare; se, invece, è trascorso l’anno dal pagamento, il
factor potrà recuperare il credito a suo tempo pagato, senza dover rendere conto alla
curatela.
3
La revocatoria di cui all’art. 7 sopra citato si colloca in una posizione di
autonomia rispetto all’azione prevista dall’art. 67 L.F.8. Lo dimostrano sia la
mancanza di un espresso richiamo alla norma da ultimo citata (a differenza di
quanto avviene al primo comma dell’art. 6), sia il ricorso a parametri tipici del
meccanismo della revocatoria fallimentare, quali il periodo annuale ed il presupposto
soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza. Di qui il dibattito se essa
debba considerarsi come scelta obbligata per il curatore, atteso il carattere di
specialità nei confronti della c.d. Legge Fallimentare, ovvero costituisca un ulteriore
strumento a tutela della massa dei creditori del fallito. Pur non mancando fautori
della prima tesi9, sembra opportuno considerare che la legge n. 52/1991, come
detto, disciplina la cessione dei crediti di impresa, fattispecie rispetto alla quale il
factoring è fenomeno di ben più ampia portata10. Conseguentemente, non sembra
azzardato sostenere una compatibilità tra le due disposizioni normative, con il
risultato che, qualora la fattispecie concreta presenti le caratteristiche tipiche degli
atti a titolo oneroso, con prestazioni sproporzionate od estintive di pregresse
obbligazioni, essa rientrerà nella sfera di applicazione dell’art. 67, primo o secondo
comma, L.F.11.
In questo caso, però, il fallimento del cedente solleva un’altra questione. Ci si
chiede, infatti, se, qualora trovi applicazione l’art. 67, secondo comma, L.F., sia da
assoggettare ad azione revocatoria il contratto di factoring, ovvero i singoli atti di
cessione di credito. Il problema ha una portata pratica non indifferente; infatti,
dovendosi tener conto del dato temporale relativo al cosiddetto periodo sospetto, è
opportuno capire quali siano gli atti a titolo oneroso cui dover fare riferimento. Se il
contratto di factoring è stato stipulato nell’anno anteriore alla sentenza di fallimento,
nulla quaestio; ma se il contratto risale ad una data antecedente tale termine, appare
evidente come, nel gioco delle parti, da un lato (curatela), verrà sostenuta la
revocabilità delle singole cessioni, mentre dall’altro (factor) si propenderà per la tesi
8
Si è parlato di “nuova figura di azione revocatoria fallimentare” (ulteriore rispetto all’ipotesi di cui
all’art. 67 L. F.), ALESSI, Cessione dei crediti di impresa e fallimento, in Il Fallimento, 1991, n. 6, 551.
9
Vedi APICE, op. cit..
10
Cfr. Trib. Genova, 17 Ottobre 1994, in Il Fallimento, 1995, n.3, 315, con nota di MESSINA.
11
Si veda GHIA, I contratti di finanziamento dell’impresa, Milano, 1997, 116.
4
inversa, opponendo il riferimento temporale alla conclusione del contratto di
factoring.
Al fine di trovare un’adeguata soluzione all’interrogativo, è necessario
individuare la corretta qualificazione giuridica del contratto di factoring , onde valutare
se i singoli atti di cessione del credito costituiscano entità a sé stanti, ovvero atti
esecutivi della più ampia fattispecie in funzione della quale sono posti in essere.
Tra i vari tentativi di ricondurre lo schema del contratto di factoring ad istituti
già presenti nel nostro ordinamento, vi è una corrente di pensiero che individua in
tale fattispecie le caratteristiche di un contratto preliminare unilaterale12. Questa
impostazione, peraltro, ha il difetto di non spiegare in che modo, da un unico
contratto preliminare, possa sorgere l’obbligo di concludere una serie indefinita di
contratti definitivi (cessioni di credito). Sul piano pratico, poi, essa mal si concilia
con la possibilità, spesso attribuita al factor dalle condizioni generali di contratto, di
rifiutare la cessione di determinati crediti; la tesi in esame porterebbe, infatti, a
qualificare tale clausola come una sorta di inadempimento preventivamente
autorizzato rispetto al preliminare. Sotto il profilo economico, infine, la tesi del
contratto preliminare si traduce nella frammentazione in una moltitudine di contratti
autonomi tra loro, di una vicenda che assume significato soltanto in quanto
considerata unitariamente.
Secondo una diversa impostazione, il factoring costituirebbe una “cessione
attuale dei crediti futuri”13, avente effetti obbligatori, ma producente gli effetti reali
propri della fattispecie nel momento in cui i singoli crediti vengono ad esistenza.
Fatta salva l’ipotesi in cui vengano ceduti in massa crediti futuri nei confronti di uno
specifico debitore (art. 3, L. n. 52/1991), tale soluzione presenta il problema della
determinabilità del credito ceduto, giacché non sarebbe incerto soltanto
l’ammontare dello stesso, ma anche il soggetto che sarebbe tenuto al pagamento.
12
CANTELE, La revocatoria fallimentare del contratto di factoring, in Il Fallimento, 1987, 1, 96. Vedi
anche Trib. Firenze, 2 Giugno 1995, in Giur. it. 1996, I, 2, 272, che definisce il contratto in esame come
“un accordo di natura preliminare con il quale l’impresa cedente e quella cessionaria hanno assunto
l’obbligo di concludere una serie di contratti di cessione di credito”.
13
QUATRARO, Factoring e procedure concorsuali, in Le Società, 1984, 986, secondo il quale “non può
negarsi l’esistenza, tra la stipulazione del contratto ed il sorgere dei crediti, di una aspettativa giuridica,
5
Non manca, infine, chi ha individuato nel contratto di factoring un contratto
normativo14, e quindi un accordo quadro che si porrebbe come giustificazione
causale rispetto ai successivi contratti di cessione del credito, i quali sarebbero
caratterizzati da una causalità esterna.
Appare evidente come il propendere per l’una o per l’altra tesi finisca
irrimediabilmente per ripercuotersi sull’oggetto dell’azione revocatoria fallimentare.
La tesi preferita dai curatori fallimentari, che ravvisa la revocabilità dei singoli atti di
cessione15, anziché del contratto originario, si basa su un esame della modulistica
contrattuale predisposta dalle società di factoring, da cui non si evincerebbe un effetto
traslativo del contratto di factoring, bensì una semplice obbligazione ai sensi dell’art.
1351 c.c.. Un ulteriore argomentazione in favore di tale tesi è rappresentata dalla
impossibilità per il curatore di provare la scientia decoctionis in capo al cessionario al
momento della conclusione del contratto “quadro”; ciò in quanto, avendo il
contratto di factoring, nella maggiorparte dei casi, una causa di finanziamento, le
società di factoring intrattengono rapporti con un cliente soltanto in seguito ad
un’approfondita attività istruttoria, potendo far eseguire in qualsiasi momento
opportuni controlli sulla solidità patrimoniale dell’azienda e sulle scritture contabili
del cliente, anche non attinenti al credito offerto in cessione; come è stato
autorevolmente sostenuto, “il factor ha i mezzi, e l’esperienza, per governare il rapporto in
maniera da ridurre l’alea in termini ragionevoli”16. Ciò si tradurrebbe nell’impossibilità di
immaginare un contratto di factoring concluso con un’impresa in stato di insolvenza,
con conseguente probatio diabolica a carico del curatore, da cui deriverebbe la
necessità di trovare un diverso obbiettivo per l’azione revocatoria.
In realtà, le argomentazioni a sostegno di tale tesi non affondano le radici in
ragioni di carattere giuridico, ma, piuttosto, in profili emergenti dall’aspetto pratico
della vicenda. Diversamente ragionando, sarebbe sufficiente che un contratto di
factoring recitasse “il fornitore cede (anziché si obbliga a cedere) tutti i crediti presenti
cioè di una posizione di attesa del factor cui l’ordinamento attribuisce rilevanza giuridica, favorendone la
conservazione e l’attitudine a trasformarsi nel diritto soggettivo”.
14
FRIGNANI, Il “factoring”, in Tratt. di dir. priv. diretto da Pietro Rescigno, Torino, 1984, XI, 30.
15
CANTELE, Op. ult. cit..
16
LIBONATI, Il factoring, in Riv. Dir. comm., 1983, I, 327.
6
e futuri” per attribuire alla fattispecie natura definitiva piuttosto che preliminare.
Quanto al profilo soggettivo, al contrario, deve considerarsi che, secondo un diffuso
orientamento giurisprudenziale17 in tema di prova della scientia decoctionis nei casi in
cui il convenuto in revocatoria sia un Istituto bancario -estensibile, per i motivi
suesposti, alle società di factoring-, il curatore ha l’onere di provare non già l’effettiva
conoscenza dello stato di insolvenza, bensì la semplice conoscibilità dello stesso,
anche sulla base di semplici presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. A ben
vedere, pertanto, l’attività istruttoria svolta dal factor, come è stato giustamente
osservato18, “può divenire una pericolosa arma a doppio taglio per le società di factoring”. In
ogni caso, la particolare difficoltà di raggiungimento della prova, come visto,
attenuata, non può di certo comportare l’inapplicabilità di un istituto ad una
determinata fattispecie
La stessa giurisprudenza, peraltro minoritaria, che aderisce a tale
orientamento, non fornisce una qualificazione della fattispecie, limitandosi a
sostenere che “nel contratto di factoring la convenzione di base che si perfeziona con la
sottoscrizione delle condizioni generali di contratto deve essere tenuta distinta dalla pluralità dei
successivi negozi posti in essere, i quali rivestono e conservano autonoma rilevanza rispetto alla
convenzione di base” 19. Parlare di “convenzione di base nel contratto di factoring”, significa
ammettere che, tanto la convenzione, quanto i successivi negozi, fanno parte di
un’operazione unitaria (appunto, il contratto di factoring); diversamente, si sarebbe
dovuto parlare di contratto di factoring, da un lato, e dei successivi negozi, dall’altro.
La sentenza, invece, pone il contratto di factoring come ambito nel quale operano una
convenzione di base ed i successivi negozi, effettuando allo stesso tempo -e sotto il
profilo sia logico che giuridico- un’unione ed una separazione.
In altri casi, la presa di posizione è più netta; i pagamenti dei crediti ceduti
non sono ritenuti collegabili alla fonte obbligatoria che li ha determinati, dovendo
17
Cass. n. 5742/1993, in Il Fallimento, 1993, n. 11, 1138; Cass. n. 4128/1980, in Mass. Foro it., 1980,
830; Trib. Milano 22 Giugno 1995, in Gius, 1995, 3164.
18
BERNARDI, Osservazioni in tema di revocatoria fallimentare del contratto di factoring, in Banca, borsa
e titoli di credito, 1989, II, 111.
19
Corte di Appello Genova, 19 Marzo 1993, in Riv. it. leasing, 1994, 392, con nota di CORRADI.
7
considerarsi “negozi autonomi svincolati dai rapporti che ne costituiscono la causa”20. La tesi
del contratto preliminare, però, come visto, presta il fianco ad alcune critiche.
Sembra pertanto più aderente alla funzione svolta dal contratto in esame la
tesi che lo qualifica come “un contratto definitivo da cui nascono diritti ed obblighi per
entrambi i contraenti ed al quale, in particolare, va ricollegato l’effetto traslativo dei crediti
d’impresa,
effetto che si realizza non appena i crediti vengono ad esistenza... Le singole
cessioni...cui si fa riferimento nei contratti non costituiscono differenti attività negoziali, ma sono
semplicemente i momenti di realizzazione del contratto definitivo” 21. Se, pertanto, la cessione
costituisce soltanto lo strumento di realizzazione della causa del contratto di
factoring22, sarà quest’ultimo, e non le singole cessioni, a costituire il termine di
riferimento per l’azione revocatoria fallimentare.
Tale orientamento sembra ormai prevalere anche in giurisprudenza, dove il
contratto di factoring viene configurato come “un rapporto fortemente unitario, avente la sua
origine nell’accordo iniziale, nel quale le singole cessioni sono momenti di attuazione di un unico
programma negoziale che trovano in questo la propria causa e di cui costituiscono contenuto
essenziale”23. Tale ricostruzione ha il merito di evitare la discrasia determinata, come
visto in precedenza, dalla convivenza nel medesimo contesto contrattuale di una
convenzione di base autonoma e separata rispetto alle successive cessioni di credito.
A questa soluzione, del resto, si era già pervenuti ancor prima che il fenomeno
venisse disciplinato dalla legge n. 52/1991, con una importante decisione24 che ha
qualificato il factoring come “contratto definitivo, atipico, ad effetti reali, avente per oggetto la
cessione dei crediti futuri di una impresa”, precisando che “le singole cessioni si configurano come
atti esecutivi del contratto stesso e trovano in questo la loro causa”.
In conclusione, appare evidente come, al fine di individuare l’applicabilità
dell’art. 67, secondo comma, L.F. allo schema contrattuale in commento, si renda
opportuna un’indagine preliminare sulla reale portata della fattispecie concreta:
qualora si tratti di cessione di crediti di impresa sic et simpliciter, troveranno
20
Trib. Latina, 28 Gennaio 1995, in Foro pad. 1995, I, 101, con nota di DI GRAVIO.
CASSANDRO SULPASSO, Collaborazione alla gestione e finanziamento di impresa: il factoring in
Europa, in Quaderni di Giur. comm., n. 37, Milano, 1981, 122.
22
In tal senso anche ALPA, Op. cit. e LIBONATI, Op. cit..
23
Trib. Genova, 17 Ottobre 1994, in Giur. comm., 1995, II, 697, con nota di SEMINO.
21
8
applicazione gli artt. 6 e 7 della legge n. 52/1991; nel caso dell’art. 7 (fallimento del
cedente), bisogna tener presenti tanto la tesi restrittiva, che considera la norma
indicata come speciale rispetto all’art. 67 L.F., individuandovi uno strumento
alternativo e necessario per il curatore, quanto la tesi che, invece, ritiene possibile
una compatibilità tra le due disposizioni.
Laddove, però, la fattispecie concreta presenti le caratteristiche del contratto
di factoring, l’applicabilità dell’art. 67 L.F. è certa, dovendosi assoggettare a
revocatoria -qualora ne ricorrano i presupposti oggettivi, soggettivi e temporali- non
già le singole cessioni di credito, bensì il contratto di factoring, del quale le prime
costituiscono, come visto, unicamente la fase esecutiva.
EUGENIO TAMBORLINI
24
Corte di Appello Bari, 13 Luglio 1990, in Banca borsa e titoli di credito, 1992, II, 60.
9