12 FILM - Scuola media Pregassona

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12 FILM - Scuola media Pregassona
SCUOLA MEDIA DI PREGASSONA
Direttore Mario Colombo
ANNI 2008-09 e 2009-10
CLASSI 3. e 4.
“CINEMA E CONFLITTI” – MATERIALI DIDATTICI
12 FILM
Indice
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
GIOVENTÙ BRUCIATA di Nicholas Ray (Usa 1955)
LA RABBIA GIOVANE di Terrence Malick (Usa 1974)
UN’ESTATE DAL NONNO di Hou Hsiao-hsien (Taiwan, 1984)
DOV’È LA CASA DEL MIO AMICO? di Abbas Kiarostami (Iran 1987)
FUGA DALLA SCUOLA MEDIA di Todd Solondz (Usa 1995)
LA PROMESSE dei fratelli Dardenne (Belgio 1996)
CENTRAL DO BRASIL di Walter Salles (Brasile 1998)
ROSETTA dei fratelli Dardenne (Belgio 1999)
LE BICICLETTE DI PECHINO di Wang Xiaoshuai (Cina 2001)
SWEET SIXTEEN di Ken Loach (GB 2002)
THIRTEEN di Catherine Hardwick (Usa-GB 2003)
LA SCHIVATA di Abdel Kechiche (Francia 2005).
a cura di Gregory Catella
docente di materie cinematografiche
tel +4191 930 0769 e cell. +4179 687 2101
[email protected]
Corcarei, 6968 Sonvico
© Sonvico, 10 novembre 2009
1. GIOVENTÙ BRUCIATA di Nicholas Ray
Rebel Without A Cause, Usa, 1955, colore, 111’.
In una delle interpretazioni che hanno maggiormente influenzato la storia del cinema, James Dean
interpreta un ragazzo arrivato da poco in città la cui solitudine, frustrazione e rabbia rifletteva quella
degli adolescenti del secondo dopoguerra e mostra ancora, a cinquant'anni di distanza, tutta la sua
attualità. Natalie Wood e Sal Mineo ricevettero le nomination all'Oscar per le loro interpretazioni
genuinamente struggenti. Anche il regista Nicholas Ray ricevette una nomination all'Oscar per questa
pellicola, scelta come uno dei 100 migliori film americani di tutti i tempi dall'American Film Institute.
2. LA RABBIA GIOVANE di Terrence Malick
Badlands, Usa, 1974, colore, 90’.
Film d'esordio del cineasta di culto Terrence Malick, La rabbia giovane è uno dei gioielli del cinema a
stelle e strisce anni degli anni Settanta. Alle porte di un decennio cupo e amaro, sicuramente disilluso
su molti fronti, Malick pesca una storia che fa della violenza e dell'indifferenza a questa, il motivo
centrale. Ispirato a un caso di cronaca realmente accaduto, il film narra del giovane Kit Carruthers
(Martin Sheen), piacente e ribelle dalla testa calda, spazzino dalle minime speranze, che si getta in una
disperata (ma solo per coloro che vi assistono, non certo per lui) fuga nei territori delle Badland (il Sud
Dakota e il Montana) insieme ad una ragazza di nome Holly (Sissy Spacek). Schegge impazzite di una
provincia, Fort Dupree, soffocata dal nulla, i due disadattati lasciano dietro di sé cadaveri come
noccioline. Il viaggio del sangue comincia con l'uccisione del padre di Holly da parte di Kit: il padre
(Warren Oates) non approvava la relazione tra i due ragazzi. Uomo duro di campagna, alle bugie della
figlia reagisce punendola e uccidendole a fucilate l'amato cane. Holly, quindicenne ipnotizzata dal
teppistello, di dieci anni più vecchio, segue questa simbolica discesa agli inferi con i tristi occhi
dell'indifferenza e dell'apatia. La sua storia personale viene raccontata dalle pagine di un diario,
cinematograficamente rese dalla voce fuori campo: sogno, incubo, fiaba distorta?
3. UN’ESTATE DAL NONNO di Hou Hsiao-hsien
Dongdong de jiaqi, Taiwan, 1984, colore, 93’.
Ammalatasi la madre, un ragazzino va a passare qualche settimana insieme alla sorella minore dal
nonno, medico in una piccola città. E la natura e le persone vengono viste attraverso lo sguardo di
questi due ragazzi: impresa non certo nuova, forse però mai realizzata con tanta delicatezza. Il fatto è
che, dice Hou Hsiao Hsien, “io non m'interesso più alla narrazione. Cerco semplicemente di rendere un
punto di vista obiettivo. Amo il piano-sequenza.... Filmare significa attendere il momento, trovare il
luogo (quadro, angolo di ripresa, punto di vista) in cui il mondo, il reale, che è lì da sempre, dia
l'impressione di offrirsi per la prima volta. Filmare non significa gettare uno sguardo sulle cose, ma al
contrario rispondere al desiderio che il mondo ha di essere guardato, e farlo felice, con il dono di
un'inquadratura”. Da questa attenzione deriva, senza dubbio, il fascino impalpabile di questo film: ‘il
mondo’ ha risposto bene al ‘dono’ del regista (che, con il successivo La città dolente, ha entusiasmato
Venezia e la giuria fino a meritare nel 1989 il Leone d'oro).
4. DOV’È LA CASA DEL MIO AMICO? di Abbas Kiarostami
Khaneh-ye dust kojast?, Iran, 1987, colore, 85’.
Si può fare un film di un'ora e mezzo sulla restituzione di un quaderno a un compagno di scuola che
per sbaglio un ragazzino del villaggio di Koker ha messo nella propria cartella? È il film - il suo primo
lungometraggio in 35 mm a colori - che fece conoscere in Europa (Pardo di bronzo a Locarno 1989)
l'iraniano Kiarostami (1940), regista dal 1970. A livello realistico, è una parabola sul bisogno di
comunicazione, di rapporto con il prossimo, di cambiare un ordine vecchio con un ordine nuovo: “Con
ostinazione Ahmad buca il muro di incomprensione profonda che divide il mondo dell'infanzia dal
mondo adulto” (Emanuela Imparato). A una lettura di secondo grado, più metaforica, si arriva
attraverso la traduzione esatta del titolo (Dov'è la dimora dell'Amico?), verso del poeta iraniano Sohrab
Sepehri, citato nei titoli di testa. Ahmad e Nemattzadeh sono compagni di scuola e di banco, non amici.
Abitano troppo lontano l'uno dall'altro e non possono giocare insieme, fuori dalla scuola. Ahmad non
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sa nemmeno dove abita il compagno. Perché quando finalmente lo trova, non entra, torna a casa, fa il
suo compito e lo ricopia sul quaderno, ingannando così il maestro? Sa che non può rendere il quaderno
tale e quale al suo proprietario? Comprende, a due passi dal fiore della solitudine, che non avrà mai
risposta alla domanda: dov'è la dimora dell'Amico? (Che è uno dei nomi del profeta.) Quello di
Kiarostami che pur si ferma sulla soglia del simbolico è anche un film mistico: il fascino della
semplicità. (M. Morandini, Il Morandini, Zanichelli)
5. FUGA DALLA SCUOLA MEDIA di Todd Solondz
Welcome to the Dollhouse, Usa, 1995, colore, 87’.
Dawn Wiener, seconda figlia di una famiglia ebrea nel New Jersey, ha undici anni, è bruttina, porta
occhiali spessi e veste decisamente male. Cerca di essere aperta e allegra ma non trova comprensione.
A casa i genitori la mettono sempre in difficoltà, la sorellina Missy viene coccolata e preferita, mentre
il fratello maggiore Mark, esperto di computer e componente di una band musicale, non le dà molta
attenzione. A scuola il teppistello Brandon minaccia di stuprarla, e lei, dopo avere invano corteggiato
un amico di Mark, sembra decidersi a cedere ma Brandon alla fine rinuncia. La vera ossessione di
Dawn è quella di riuscire a crescere il prima possibile, e, dopo tante delusioni da adolescente, non può
fare altro che chiedere al fratello maggiore com'è la vita quando si arriva alla scuola superiore.
Atmosfere giuste, ambienti - domestici e scolastici - evocati con garbo, ritratti e ritrattini disegnati non
di rado con indubbia attenzione anche se i risultati definitivi, alla lunga, senza essere proprio modesti,
sono di livello medio, solo ravvivati da quell'osservazione in più momenti anche acuta di un'età, di un
ambiente e, pur essendo il termine forse un po' eccessivo dato il film, di una condizione umana; quella
che, a molti adulti in vena di sincerità, farà ricordare gli anni giovani come un periodo certamente poco
felice; per la difficoltà, spesso sottaciuta, che hanno i bruchi di diventare farfalle. La protagonista è
l'esordiente Heather Matarazzo, con impacci sinceri; il suo partner è Brendan Sexton, un simpatico
bulletto. (Gian Luigi Rondi, ‘Il tempo’, 4 Ottobre 1996)
6. LA PROMESSA dei fratelli Dardenne (Belgio 1996)
La promesse, Belgio, 1996, colore, 93’.
A Liegi, nel Sud povero del Belgio, Igor (J. Renier), giovane meccanico, aiuta il padre Roger (O.
Gourmet) nei traffici illegali di manodopera di immigrati clandestini finché la caduta da un'impalcatura
del tunisino Hamidou (R. Ouedraogo), lasciato morire dal padre per evitare grane con la legge, gli fa
acquisire coscienza di quel che è e quel che fa. Quest'uscita da uno stato di innocenza criminale e
complice corrisponde in Igor a una rivolta contro il padre, alla scoperta dell'umanità dei diversi, a una
metafora del rapporto Nord-Sud. Film rosselliniano nello stile nervoso e leggero di due fratelli
documentaristi poco più che quarantenni, ma con carriera ventennale alle spalle. È un linguaggio – uno
sguardo – che, pur rispettando i personaggi, se ne tiene a distanza, evitando le trappole di un facile
coinvolgimento emotivo e le comodità della demagogia umanitaria. Quello di Igor è un faticoso
viaggio di formazione e di conversione durante il quale perde un padre e trova la dignità. (M.
Morandini, Il Morandini, Zanichelli)
7. CENTRAL DO BRASIL di Walter Salles
Idem, Brasile, 1998, COLORE 115’.
Una piccola odissea: un bambino di nove anni in cerca di suo padre, una donna anziana ed egoista,
indurita dalla vita, in cerca dei suoi sentimenti, un grande paese in cerca delle sue radici. Sulla scorta
della bella sceneggiatura di João Emanoel Carneiro e Marcos Bernstein, insignita del premio Cinema
100 dal Sundance Institute, il documentarista Salles, al suo secondo lungometraggio dopo Tierra
extranjera (1995), comincia nel prologo a Rio de Janeiro a prendere le distanze dalla realtà miserrima e
disperata in cui vivono Dora (F. Montenegro) e il piccolo Josué (V. de Oliveira) e di cui sullo schermo
giungono immagini fredde, quasi scarnificate. Quando comincia il viaggio da Rio verso il Nordeste alla
ricerca dell'introvabile padre di Josué “più che il territorio del Brasile, sembra che i due ne attraversino
l'anima” (Roberto Escobar). Durante il viaggio – che per la donna è anche il percorso verso la
riconquista di una coscienza e una dignità perdute – il film acquista, insieme, lo spessore di un rapporto
sociologico e la dolcezza di una favola. L'odierna realtà del Brasile povero e del Nordeste è più dura.
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Cinque premi internazionali tra cui l'Orso d'oro a Berlino e il Golden Globe. (M. Morandini, Il
Morandini, Zanichelli)
8. ROSETTA dei fratelli Dardenne (Belgio 1999)
Idem, Francia, 1999, colore, 91’.
Periferia di Bruxelles. Rosetta vive con la madre in una bidonville. La madre è alcolizzata e si
prostituisce per una bottiglia. Rosetta è il capofamiglia, lavora ma viene licenziata, si arrabatta fra mille
espedienti, vende vecchi abiti, pesca in una riserva. Ha dolori insopportabili alla pancia (si scalda col
fono) e corre, corre sempre. C'è un ragazzo che l'aiuta, la fa anche lavorare (in nero), ma lei fa la spia e
lo fa licenziare per rubargli il lavoro. E corre. Viene di nuovo licenziata. La madre è andata a farsi
disintossicare, torna e ricade. E Rosetta è ancora d'accapo, sola, nella bidonville. E pensa di farla finita,
ma la bombola del gas è vuota, ne compara una nuova, la porta con fatica. Il ragazzo che ha tradito
arriva in suo aiuto. Così la speranza non muore. Si parla tanto di Dogma ed ecco il film dogma-chepiù-dogma-non-si-può. La cinepresa a spalla tallona Rosetta a dieci centimetri per tutto il film. Ma i
contenuti e la sostanza riescono a integrarsi con l'artificio, che altrimenti sarebbe mortale (come lo è
nel caso di Idioti dell'inventore del Dogma von Trier). Film amaro, povero (…) ma indispensabile.
Vincitore della Palma d'oro a Cannes 1999. (P. Farinotti, mymovies.it)
9. LE BICICLETTE DI PECHINO di Wang Xiaoshuai
Shi qi sui de dan che – Beijing Bycycle, Cina, 2001, colore, 113’.
Storia di una mountain-bike, rubata a Guei (C. Lin), ragazzotto di campagna inurbato a Pechino (dodici
milioni di abitanti) che fa il fattorino, e contesa da Jian (L. Bin), studente suo coetaneo, che l'ha
acquistata di seconda mano. Quinta regia di W. Xiaoshuai con un film scritto in collaborazione,
bocciato dalla censura cinese, ma esposto al festival di Berlino 2001 dove vinse l'Orso d'argento e un
premio per i due attori esordienti. Diretto con innegabile brio registico nel suo ritmo altalenante,
piuttosto ripetitivo (o ossessivo?), inquietante per quel che suggerisce sulla contraddittoria realtà
sociale della Cina metropolitana in frenetica transizione dal vecchio al nuovo. Per Guei, ostinato sino
all'ottusità, la bicicletta è mezzo indispensabile nel lavoro e nella corsa al guadagno, ma anche simbolo
della sua metamorfosi in cittadino; per Jian, violento e debole, è strumento per alimentare l'autostima e
la vanità del possesso. (M. Morandini, Il Morandini, Zanichelli)
10. SWEET SIXTEEN di Ken Loach
Idem, GB, 2002, colore, 101’.
Presentato a Cannes 2002. Glasgow si addice a Loach. Siamo già al terzo film che vede la città
scozzese teatro della vicenda. Il giovane Liam vive di piccola criminalità, del resto non ha molte scelte.
Sua madre Michelle è in prigione per spaccio, mancano settanta giorni poi uscirà. Liam conta le ore. E
Loach fa se stesso e mostra ciò che più gli preme, il degrado della città, dove la crisi dei cantieri ha
portato povertà e disoccupazione. Dunque a Liam non resta che inserirsi nel giro più grande, lo spaccio
dell'eroina. Un minimo di serenità gli arriva dalla sorella e da un suo amico, ma la madre, una volta
uscita, preferisce dedicarsi al suo amante, un vero delinquente. Tutto è predisposto per il finale, tragico.
Loach non farà mai film insignificanti, ma un po' ripetitivi, come questo, sì. (P. Farinotti, mymovies.it)
11. THIRTEEN – 13 ANNI di Catherine Hardwick
Thirteen, Usa-GB, 2003, colore 100’.
Nell’assalto della “girl culture”, Thirteen non è un film che vuole essere alla moda, ma una spietata
commedia metropolitana sceneggiata dalla nuova e talentosa regista Catherine Hardwick con una vera
teenager, Nikki Reed. Osservano senza moralismi ma avvertendo i rischi, la faticosa corsa affettiva agli
ostacoli tra una madre e una figlia, la peggio gioventù: cosa vuol dire avere 13 anni a Los Angeles?
Ancora e sempre vuoto e dolci inganni: amicizie sbagliate, perdita dei freni inibitori autodistruttivi, la
droga per emulazione e omologazione, il sesso svenduto; e rubare, picchiarsi, maltrattarsi. (Maurizio
Porro, ‘Corriere della Sera’)
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12. LA SCHIVATA di Abdel Kechiche
L’esquive, Francia, 2005, colore, 117’.
In una cittadina nei sobborghi di Parigi vive Lydia, una ragazza bella e sognatrice. Dopo essere stata
scelta per recitare nello spettacolo di fine anno ispirato al testo "Gioco del caso e dell'amore" di
Marivaux, decide di comprare per l'occasione un bellissimo vestito da principessa del Settecento. Lydia
sa che è un costume di scena ma non riesce a resistere alla tentazione: lo indossa e con disinvoltura
cammina per le strade del suo quartiere come una vera diva. La gente che la vede, anziché prenderla
per matta, ne resta incantata, così come Krimo, il bulletto della zona che si innamora di lei al primo
sguardo. Da una parte, il ragazzo vorrebbe confessare i suoi sentimenti, dall'altra vorrebbe mantenere la
reputazione di duro che ha tra i suoi amici. Alla fine deciderà di accettare una parte nello spettacolo e,
grazie alle battute del suo personaggio, riuscirà finalmente a esprimerle il suo amore.
Uno dei titoli davvero originali della stagione, non perdetevelo. Nella società multietnica alla periferia
di Parigi, un gruppo di ragazzi accende nella desolazione della vita da banlieue il motore dei
sentimenti, recitando a scuola una scena di Marivaux. (...) Scene di vita di teenager senza collare,
straordinari attori non professionisti che ci comunicano un universo con immaginario a parte. Un fiume
di parole provocatorio, un film geniale in cui il gentile e cinico Marivaux, col suo teatro di classe, fa da
specchietto per le allodole. (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 19 febbraio 2005)
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