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L’eredità di Obama
Presidenziali USA - Nonostante le speranze di cambiamento incarnate dal
presidente afro-americano siano state disilluse, la distruttiva campagna che ha
opposto Clinton e Trump rende meno severo il giudizio sul suo mandato
/ 07.11.2016
di Paola Peduzzi
La campagna elettorale più distruttiva della storia americana ha già avuto un effetto chiaro: far
sentire nostalgia di Barack Obama da subito, da mesi, da un anno, anche se tecnicamente il suo
successore s’insedierà alla Casa Bianca alla fine del gennaio prossimo. Anatre zoppe: così sono
chiamati i presidenti a fine mandato, e quando alla festa di Halloween della Casa Bianca, a una
settimana dall’Election Day, si è presentato un bambino vestito da anatra gialla con bende vistose,
Barack e sua moglie Michelle hanno riso. Obama non ha nulla dell’anatra e certo non sembra zoppo,
visto che non è mai stato tanto popolare durante il suo secondo mandato quanto lo è adesso.
Le critiche, i giudizi negativi, le aspettative deluse: tutto è stato sospeso nelle ultime settimane,
Obama sembra a un tratto insostituibile e inarrivabile, e lui ne approfitta, gioca con la nostalgia
mondiale – sono tornati gli occhi eccitati che guardavano il primo Obama come la salvezza: in
Europa si sospira senza sosta quando si parla del voto americano – mostrando una nuova,
irresistibile spensieratezza. Non dovendo più rivincere alcuna elezione, il presidente cool s’è
impegnato in quello in cui è più bravo: è una macchina elettorale vivente, l’apertura delle urne lo
galvanizza, questo voto in particolare ha tirato fuori quella potenza, quell’empatia che soltanto nel
2008 Obama aveva mostrato (già nel 2012, con quattro anni di governo sulle spalle, non era
altrettanto ispirato). Con Michelle al suo fianco, autrice dei discorsi più belli di questa campagna
elettorale, la first lady dei sogni che ora tutti vorrebbero alla Casa Bianca (lei dice che non ci pensa
proprio), Obama ha steso di emozioni tutti gli americani.
«Hope and change», speranza e cambiamento, questo era lo slogan del primo presidente nero della
storia degli Stati Uniti. «Se qualcuno ancora lì fuori dubita che l’America sia il posto in cui tutto è
possibile – disse Obama nella notte elettorale del 2008, al Grant Park di Chicago pieno di
commozione – Se c’è qualcuno che ancora s’interroga sul fatto che il sogno dei nostri padri fondatori
sia ancora vivo, se c’è qualcuno che ancora ha domande sulla potenza della nostra democrazia,
questa notte ha trovato la risposta». Oggi quelle parole – ha scritto il «Washington Post» – sembrano
«residui di un’altra epoca».
Forse questo è il momento di minore speranza per il popolo americano: il patto bipartisan siglato da
Obama all’inizio del suo mandato è stato più volte violato, la lotta tra repubblicani e democratici, tra
l’America rossa e quella blu che il presidente dell’unità sognava di superare, è diventata durissima, e
spesso Obama si è ritrovato nella posizione di dover esercitare i suoi diritti presidenziali per
superare le battaglie politiche al Congresso.
Il trumpismo, con i suoi effetti che ancora devono essere quantificati, ha contribuito allo scollamento
tra Washington e la «pancia» del paese. Anche la piazza si è riempita, a causa soprattutto dello
scontro tra la polizia e la comunità afro-americana: spesso Obama, incarnazione dell’America postrazziale, ha dovuto gestire una crisi culturale bianchi-neri profonda e a tratti incurabile. Le
conseguenze sono rilevabili nelle inclinazioni di voto di questi ultimi giorni, con il cosiddetto voto
bianco schierato in gran parte con Donald Trump e le minoranze alleate con Hillary Clinton – con
una sostanziale disaffezione nell’elettorato afroamericano.
Di quella formula «hope and change», anche il cambiamento ha subito grandi trasformazioni. Oggi
un candidato del cambiamento non c’è più, e in generale la retorica del «change» è andata
affievolendosi anche a livello globale dopo il grande exploit di Obama. Hillary è la candidata della
continuità, Trump della rottura, e quindi in teoria di un cambiamento che però è percepito in modo
molto negativo, perché, come ha detto spesso anche Obama nei suoi comizi, il paese non ha più «un
cuore aperto». Molti commentatori sono convinti che il presidente stesso sia la causa di questa
trasformazione: la sua professione di cambiamento è stata spesso disattesa dai fatti.
Questo giudizio, soprattutto sul fronte interno, è in parte ingiusto: l’economia ha dato segni di
grande ripresa – l’ultimo trimestre con la crescita al 2,9 per cento è stato straordinario – e se è vero
che la middle class americana (e internazionale) sta pagando ancora il prezzo dello choc finanziario
del 2008, è altrettanto vero che i dati sull’impoverimento si sono invertiti e anzi, in alcune fasce
della popolazione, si sono registrati picchi di benessere come non c’erano da decenni. Allo stesso
modo la promessa obamiana «sarò un presidente liberal» è stata mantenuta sul fronte dei diritti e
della copertura sanitaria: con la legge sul matrimonio gay e con l’Obamacare si sono aperti fronti
culturali nuovi per tutto il paese.
La rivoluzione, da un punto di vista ideologico, è innegabile. Ma proprio l’Obamacare rappresenta a
oggi una delle ferite più dolorose per il mondo democratico: con l’aumento dei costi della copertura
sanitaria scattati proprio a ridosso del voto (il primo novembre), il costo di una riforma «universale»
è diventato a un tratto concretissimo, e non è un caso che molti candidati democratici del Congresso
abbiano iniziato a non citare più con troppo entusiasmo gli effetti della «sanità per tutti».
L’immobilismo maggiore però, il tradimento più sentito della promessa di cambiamento, riguarda la
politica estera. Obama è arrivato alla Casa Bianca con l’obiettivo di porre fine alle guerre bushiane,
ma il ritiro dei soldati dall’Afghanistan è stato – necessariamente – rallentato a causa di una continua
recrudescenza dell’offensiva talebana; in Iraq il ritiro è stato completato con una grande enfasi
(«welcome home!», urlò Obama ai soldati rientrati dal paese alla fine del 2011), ma a oggi l’America,
con i suoi alleati, è di nuovo fortemente impegnata contro lo Stato islamico.
Si può dire che nonostante la riluttanza ideologica e il mancato dispiegamento di truppe sul terreno
(ce ne sono, anche tante, seimila soltanto in Iraq per dire, ma non si tratta di «un’invasione»),
Obama ha fatto parecchie guerre: Iraq, Afghanistan, Yemen, Somalia, Libia. Ma è la questione
siriana che forse contribuirà in maniera maggiore a definire la cosiddetta «legacy», eredità,
obamiana. L’inerzia del presidente sulla gestione del regime di Bashar el Assad è stata analizzata in
ogni modo: Obama non ha voluto intestarsi una battaglia che i paesi dell’area avrebbero potuto e
dovuto, secondo lui, combattere con un obiettivo comune.
Il multinazionalismo di questa Amministrazione ha avuto un volto chiaro: ognuno si occupi dei
problemi della propria area geografica, gli europei «freeriders», scrocconi, in particolare. Ma questa
strategia, protratta per anni con alcuni errori enormi come la violazione impunita delle «linee rosse»
sull’utilizzo delle armi chimiche in Siria, ha contribuito a determinare due variabili che resteranno
sulle spalle del successore di Obama (tutta la questione siriana in realtà rimane sulle spalle del
futuro presidente: al momento l’Amministrazione americana sta cercando di cambiare gli equilibri
sul campo in Iraq, con la battaglia di Mosul).
Il primo riguarda il ruolo della Russia, che è entrata nella guerra siriana un anno fa e ha tenuto in
piedi il regime di Assad aumentando di molto la pressione sull’opposizione al dittatore – opposizione
come si sa molto variegata. Se la Russia, nonostante le parole, non ha ancora inferto un colpo letale
allo Stato islamico, allo stesso tempo si è messa di traverso in ogni consesso internazionale, a partire
dall’Onu. Riempie un vuoto, la Russia, lasciato dallo stesso Obama e i consiglieri più falchi della
Casa Bianca (falchi liberal si chiamavano una volta) vengono accusati di aver violato la promessa che
fecero negli anni Novanta, quando di fronte allo scempio umanitario del Ruanda dissero «mai più».
L’apertura all’Iran con l’accordo sul programma nucleare rappresenta il successo diplomatico più
importante del mandato obamiano, ma le sue ripercussioni soprattutto sul terreno di guerra sono già
pericolose: l’alleanza tra iraniani, russi e regime siriano è in sostanziale contrasto con la coalizione a
guida americana in Siria, e la mancata collaborazione ha già avuto effetti disastrosi sul popolo
siriano e sulla crisi dei rifugiati che spezza in più parti l’Unione europea.
La politica estera però non ha avuto grande impatto nel dibattito elettorale e nel definire la
presidenza obamiana oggi gli americani guardano ad altro: basti pensare che durante un dibattito
elettorale tra Trump e Hillary molte persone sono andate a cercare su Google la parola «lepo»,
perché non sapevano a che cosa si riferissero i candidati quando parlavano di «Aleppo». E al
momento Obama gioca la carta della spensieratezza rivendendosi come il più grande mobilitatore
del voto «del cambiamento» esistente al mondo: ogni volta che parla, il presidente fa appello ai
giovani, parla ai giovani, dice di essere dov’è grazie ai giovani e al loro istinto naturale verso la
speranza e il cambiamento.
È questo il testimone che Obama vuole passare a chi viene dopo di lui, il successo di cui va più fiero,
l’aver incarnato un simbolo rivoluzionario stando seduto sulla sedia più istituzionale che c’è,
facendosi venire i capelli grigi, ma lasciando intatta la sua capacità di ispirare, anche quando la
realtà è stata meno brillante della sua irresistibile promessa.