La Fraternità come ambito elettivo di conversione

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La Fraternità come ambito elettivo di conversione
La Fraternità come
ambito elettivo
di conversione
San Francesco e l’Ordine dei Frati Minori.
Una paternità spirituale contestata dai figli ormai
cresciuti diviene occasione preziosa di configurazione
piena al Signore Crocefisso.
Fr. Prospero Rivi, OFM Cap
Incontri di Formazione Permanente per Fasce d’Età,
Milano Marittima 12-14 maggio 2008.
La Fraternità come ambito elettivo di conversione
Inserto Notiziario -
1
Presentazione
L’inserto del Notiziario del mese di giugno 2008, n. 140, è dedicato all’intervento di Fr. Prospero Rivi, OFMCap, tenuto a Milano Marittima in due momenti: prima ai Frati dai 45 ai 65 anni di età,
poi ai Frati con un’età superiore ai 65 anni, dal 12 al 14 maggio 2008.
L’intervento di Formazione Permanente è caratterizzato dalla riflessione sul cammino di S.
Francesco quale fondatore dell’Ordine dei Frati Minori. Il sottotitolo illustra in sintesi il cammino
umano e spirituale di Francesco: “Una paternità spirituale, contestata dai figli ormai cresciuti, diviene
occasione preziosa di configurazione piena al Signore Crocefisso”. Francesco si è lasciato condurre
dallo Spirito per la via della paternità, rinunciando al potere e non cedendo alla tentazione di abbandonare l’Ordine, ma conformandosi pienamente a Cristo crocefisso.
L’articolo di Fr. Prospero può essere integrato, per un maggior approfondimento del tema proposto -“La fraternità come ambito elettivo di conversione”-, dalla seguente bibliografia:
D. Bonhoeffer, “La vita comune”, Queriniana, Brescia 1969, 39-51;
P. Rivi, “Dall’autonomia all’unità: le radici storiche dell’OFS unitario”, “Francesco il Volto
secolare”, 2007, 6, 26-32;
P. Rivi, “Breve introduzione alle Fonti Francescane”, Ed. Porziuncola, 2003.
La redazione
Vivere la fraternità un’aspirazione profonda del cuore di
ogni uomo ed insieme un valore
essenziale della vocazione cristiana. Il cammino verso l’unità
è infatti la mèta che il Creatore
ha posto all’intera storia umana,
poiché “il Padre ha fatto di Cristo
il cuore del mondo” per unificare in Lui tutto le cose. Ma ogni
autentico ed onesto costruttore di
vita fraterna si imbatterà prima o
poi in una dura esperienza di croce, che ha il compito di fare piazza pulita degli idoli che gli si sono annidati nel cuore. È stato così
anche per Francesco d’Assisi.
È opinione diffusa che
l’esperienza di fraternità promossa da Francesco e da lui vissuta all’interno della prima generazione dei suoi discepoli sia
stata un’esperienza solare ed in
crescendo continuo.
Ed è vero che Francesco
e i suoi frati si sono impegnati per
tutta la vita e con tutte le forze a
promuovere autentiche e robuste
relazioni fraterne. Ma anche per
essi la fraternità è stata un impasto di gioie e di sofferenze, ed i lo-
II - Inserto Notiziario
ro rapporti - come del resto quelli delle prime comunità cristiane
- non sono stati sempre idilliaci
come si vorrebbe supporre.
Facendo dell’amore fraterno nel nome del Signore Gesù
l’asse su cui costruire il suo Ordine, Francesco dovette faticosamente apprendere che vi avrebbe trovato lui pure il filtro purificatore della sua personalità ed
il sentiero che l’avrebbe condotto
ai vertici di quella “altissima povertà” che gli stava tanto a cuore.
Prima fase: Francesco è la fraternità.
II 16 aprile del 1208 Bernardo da Quintavalle e Pietro Cattani si uniscono a Francesco; di lì
a poco vi si aggiunge il prete Silvestro, ed i quattro si sistemano
in una capanna vicino alla chiesetta abbandonata di Santa Maria della Porziuncola. Otto giorni
dopo si presenta Egidio (AP 1014; FF 1497-1502); poi arrivano
Sabbatino, Giovanni il semplice
e Morico (AP 17; FF 1506).
Molti altri li seguono, e
soltanto una decina di anni più
tardi saranno cinquemila i frati
presenti al primo Capitolo delle
stuoie (LM 10; FF 1080).
Fin dall’inizio, il nome
che Francesco sceglie per la sua
nuova famiglia spirituale è quello di Frati Minori (1 Cel. 38; FF
386). Negli Scritti egli userà solo
due volte il termine Ordine, preferendogli sempre quello di Fraternità; e la parola fratello è quella che egli usa di più dopo quella
di Signore.
Sono gli anni in cui Francesco è il capo indiscusso di un
movimento in continua espansione che dilaga per tutta l’Europa. II suo prestigio è enorme, sia
dentro che fuori dell’Ordine.
È a questo magico periodo che fa riferimento la splendida pagina dei Fioretti ove Fr.
Masseo chiede “quasi proverbiando”: “Perché a te... tutto il
mondo vien dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e
d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’
bello uomo del corpo, tu non se’
di grande scienza, tu non se’ nobile, onde dunque a te che tutto il
mondo ti venga dietro?” (cap. X,
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FF 1838).
La risposta del Santo è
sublime, ma a quel tempo del tutto teorica: non è affatto vero che
egli sia “il più vile e il più insufficiente.., tra li peccatori”, perché
di fatto è il più amato ed osannato, e a lui tutte le porte si aprono
(da quelle di molte città che lo vogliono quale nuovo annunciatore
del Vangelo ed efficace promotore di pace, alla Curia Romana
che gli approva una Regola nuova e gli concede l’inaudito “perdono d’Assisi”, e di lì a poco gli
si aprirà anche quella della corte del Sultano d’Egitto). Giordano da Giano, entrato nell’Ordine
nel 1215, ci informa che in quegli
anni Francesco non veniva chiamato dai frati col proprio nome,
ma quando si parlava di lui si era
soliti definirlo semplicemente “il
Fratello”, perché tale egli veniva
considerato per antonomasia: Alla fine poi di questo Capitolo, o
meglio quando esso volgeva alla conclusione, il beato Francesco si ricordò che non si era ancora impiantato l’Ordine in Germania. E poiché egli era allora
malato, qualsiasi cosa volesse
da parte sua dire al Capitolo, la
faceva comunicare da frate Elia.
E il beato Francesco, restando
seduto ai piedi di frate Elia, tirò
costui per la tonaca. Questi, inchinatosi verso di lui, ascoltò con
attenzione cosa gli diceva; poi,
rizzandosi, disse: «Frati, così dice il Fratello», indicando il beato
Francesco che era chiamato per
eccellenza «fratello» dai frati
(Cronaca 17; FF 2342).
Per tutto questo tempo, è
la sua forte ed affascinante personalità che plasma e tiene uniti
i frati. Agli occhi di tutti egli è il
modello dei Minori (Forma Minorum), capace di trascinare tutti
dietro di sé per la via del Vangelo. Sono gli anni radiosi in cui la
Fraternità è Francesco stesso, e la
loro storia si confonde. È una fraternità fondata sull’obbedienza
reciproca, e in essa nessuno sente
ancora il bisogno di creare altre
autorità per i vari gruppi di frati.
Francesco è materialmente poverissimo, ma ancora tanto ricco
per il ruolo che gli è riconosciuto
ovunque da tutti e per il centuplo
evangelico che gli è stato donato:
tanti fratelli che egli ama come
una madre, e che - come una madre - sente suoi e nei quali in certo
modo riflette moltiplicata la propria immagine.
Seconda fase: Francesco e la
fraternità.
Qualcosa comincia a
cambiare verso il 1217, in occasione di un famoso Capitolo delle
stuoie, quando i frati sono ormai
oltre cinquemila, vengono inviati
in diversi Paesi europei, e da tempo Francesco non può più conoscerli e formarli personalmente.
Come tutti i figli che crescono, anche i frati scalpitano desiderosi di una maggiore autonomia e si mostrano via via più turbolenti. Dei sempre più numerosi
problemi che vanno emergendo
dalla vita quotidiana si rendono
conto in primo luogo i “Ministri
e Custodi” (provinciali e vicari
provinciali), a cui spetta il compito di organizzare ed animare
questo movimento in continua
espansione.
Essi hanno una grande
ammirazione ed un affetto sincero verso Francesco: ne condividono la passione di conquistare il
mondo a Cristo, ma non sempre
i mezzi che egli ha scelto e imposto sin qui. Sentono il bisogno
di case formative per plasmare e
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consolidare le nuove reclute, e di
studi organizzati per difendersi
dall’eresia, vogliono più disciplina interna, dunque una più forte e chiara autorità ed una regola
più precisa: il Vangelo è per loro
insieme troppo e troppo poco.
Contestato, Francesco reagisce con veemenza. È un po’ come una leonessa che vede minacciati i suoi piccoli. Lotta, si dibatte, minaccia... ed entra nel tratto
più rischioso del cammino di sequela, pieno di quei trabocchetti in cui cadranno molti capi carismatici, tra cui per restare in
casa nostra - frate Elia nel 1239 e
frate Ludovico da Fossombrone
nel 1535-36.
Nel 1219 è in affanno,
e decide di partire per l’Oriente con Pietro Cattani, lasciando
l’Ordine in fermento nelle mani
di due vicari, Matteo da Narni e
Gregorio da Napoli (Giordano
11, FF 2333).
Nel settembre del 1220
deve rientrare in gran fretta per
affrontare una situazione che nel
frattempo si è complicata (Giordano 12, FF 2334), e in un movimentato Capitolo decide di passare la guida dell’Ordine nelle
mani di Pietro Cattani (LP 105;
FF 1661) e di affidarsi alla supervisione del Cardinale Ugolino
(Giordano 14; FF 2337).
Seguono tre anni di buio
completo e di spoliazione totale.
Lo assale il dubbio di aver sbagliato tutto. E’ la grande tentazione di cui ci è testimone privilegiato frate Leone, confessore e
confidente del Santo, e durante la
quale Chiara è la sola persona capace di dargli qualche conforto.
È il periodo della lotta
per la Regola, con i Frati che hanno rifiutato la prima, quella del
1221, e ne chiedono un’altra più
Inserto Notiziario -
III
breve e più chiara, meglio se una
di quelle già esistenti (LP 114, FF
1673).
È un momento buio e
terribile, ma preziosissimo per il
suo progresso spirituale. Attraverso i contrasti, tra attacchi e difese, Francesco è guidato dal Signore a rinunciare al suo progetto
di vita fraterna e reso capace di
accettare la realtà e gli altri così
come sono1.
Purificato in profondità, del tutto svuotato di sé come il
suo Signore che “si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fu. 2,7), spogliato
da ogni attaccamento egoistico
anche nei confronti della sua fraternità, che egli sognava in certo
senso a propria immagine e somiglianza, alla fine Francesco esce
vincitore sulla più subdola delle
tentazioni, quella dell’orgoglio
spirituale. Ora si ritrova davvero
povero, piccolo, finalmente capace di abbandonarsi tutto nelle
mani del suo Signore2.
Il 29 novembre del 1223
la Regola è approvata da Onorio
Ill. Nel Natale seguente è a Greccio e, dopo aver ritrovato la luce,
celebra gioiosamente con i suoi
frati il Mistero dell’incarnazione, tappa iniziale della kenosis
del Verbo. Nel settembre dell’anno successivo, sul crudo sasso de
la Verna, immerso nella contemplazione del suo Signore che soffre e dà la vita per i suoi persecutori, riceve le stigmate che portano a compimento il suo mistero
pasquale: accettando sino in fondo la logica della Croce che costituisce un fallimento agli occhi
del mondo, come il suo Maestro e
come il chicco di frumento Francesco si consegna alla morte per
dare la vita.
Le fasi salienti di questo
IV - Inserto Notiziario
arduo percorso di crescita lungo
cui Francesco è stato condotto
dai fatti concreti della vita (che
- anch’egli faticosamente come
ognuno di noi - cerca di leggere alla luce del Cristo sconfitto e
vittorioso) sono ben documentate nelle Fonti, soprattutto dai suoi
Scritti e da quella tradizione leonina, che ci è giunta nella Leggenda Perugina e nello Specchio
di Perfezione. Possiamo tentarne
insieme una rapida ricognizione.
1. Della vera e perfetta letizia
Questa autentica “perla” dettata da Francesco a Leone
attesta come egli fosse cosciente che si stava avvicinando quella che sarebbe stata la sua prova
più dura (il ridimensionamento
del suo ruolo nei confronti dell’Ordine), e come vi si preparasse interiormente affinando il suo
sguardo di fede.
“Un giorno il beato
Francesco, presso Santa Maria
degli Angeli, chiamò frate Leone
e gli disse: «Frate Leone, scrivi».
Questi rispose: «Eccomi, sono
pronto». «Scrivi - disse - cosa è
la vera letizia». « Viene un messo
e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure
che sono entrati nell’Ordine tutti
i prelati d’Oltr’ Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino
il Re di Francia e il Re d’Inghilterra, scrivi: non è vera letizia. E
se ti giunge ancora notizia che i
miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla
fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanar
gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui
è vera letizia». «Ma cosa è la vera letizia?». «Ecco, tornando io
da Perugia nel mezzo della notte,
giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei
ghiacciuoli d’acqua congelata,
che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel
fango, nel freddo e nei ghiaccio,
giungo alla porta e dopo aver a
lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi sei?”
Io rispondo: “Frate
Francesco” E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di
arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde:
“Vattene, tu sei un semplice ed
un idiota, qui non ci puoi venire
ormai; noi siamo tanti e tali che
non abbiamo bisogno di te”. E io
sempre resto davanti alla porta
e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte” E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e
non mi sarò conturbato, io ti dico
che qui è la vera letizia e qui è la
vera virtù e la salvezza dell’anima» (FF 278).
Se si confronta questo
breve testo con il ben più famoso capitolo 8° dei Fioretti (FF
1836), ci si avvede subito come
quest’ultimo lasci cadere ogni riferimento alla vicenda personale
di Francesco per farne un piccolo
capolavoro di ascetica, ma ormai
disincarnato ed asettico.
2. Il contesto concreto (sitz im
leben) della perfetta letizia lo cogliamo in LP 83 (FF 1639) e nelle Ammonizioni IV, XIII, XIX
(FF 152, 162, 169):
LP 83: Un’altra volta,
avvicinandosi il Capitolo che si
sarebbe svolto presso la chiesa
della Porziuncola, Francesco
confidò al suo compagno: «Non
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mi considero un frate minore,
se non ho le disposizioni d’animo che sto per dirti». E seguitò:
«Ecco i frati in gran devozione e
venerazione venire a me, invitandomi alla riunione capitolare.
Commosso dalle loro affettuose insistenze, mi avvio assieme
ad essi. Convocata l’assemblea,
mi pregano di annunziare loro
la parola di Dio. Mi alzo e predico secondo l’ispirazione dello
Spirito Santo. Finisco il sermone. Supponiamo che allora, dopo
averci pensato, concludano dicendomi: “Non vogliamo che tu
regni sopra di noi, perché non sai
parlare, sei troppo semplice, ci
vergogniamo di avere a capo una
persona così incolta e incapace.
D’ora in avanti, non avere la pretesa di chiamarti nostro prelato!”. E così dicendo, mi cacciano, vilipendendomi. Ebbene, non
potrei considerarmi vero frate
minore, se non resto ugualmente sereno quando mi vilipendono
e ignominiosamente mi cacciano
via, rifiutandosi di avermi a prelato, come quando mi onorano e
venerano, purché in entrambi i
casi il loro vantaggio sia io stesso. Se mi allieto per il loro profitto
e devozione allorché mi esaltano
e onorano (mentre la mia anima
corre pericolo di vana gloria),
ancor più mi si addice gioire ed
esultare del profitto spirituale e
della salvezza della mia anima,
allorché mi vituperano cacciandomi via in maniera umiliante:
qui infatti c’è sicuro guadagno
per l’anima».
Amm. IV: Non sono venuto per essere servito ma per servire, dice il Signore (Gv 15,13).
Quelli che sono costituiti in autorità sopra gli altri, tanto si glorino del loro ufficio prelatizio come se fossero incaricati di lavare
i piedi dei fratelli; e quanto più si
turbano per esser tolto loro la carica che se fosse loro tolto il servizio di lavare i piedi, tanto più
ammassano un tesoro fraudolento a pericolo delle loro anime.
Amm. XII: Non si può
sapere quanta pazienza e umiltà
abbia in sé il servo di Dio finché
gli si dà soddisfazione. Quando
invece verrà il tempo in cui chi gli
dovrebbe dare soddisfazione gli
fa il contrario, quanta pazienza
e umiltà ha in questo caso, tanta
esattamente ne ha e non più.
Amm. XIX: Beato il servo, che non si ritiene migliore,
quando è onorato ed esaltato dagli uomini di quando è ritenuto
vile e semplice e disprezzato, poiché l’uomo quanto vale davanti
a Dio, tanto vale e non più. Guai
a quel religioso, che è posto dagli altri in alto e per sua volontà non vuoi discendere. E beato
quel servo, che non si pone in alto
di sua volontà e sempre desidera
mettersi sotto i piedi degli altri.
Francesco vede ridursi il
suo ruolo di “padre-fondatore” e
cerca di convincersi interiormente che è bene che sia così... Ma
quanto è dura da accettare anche
per lui questa nuova ed inattesa
forma di povertà-minorità, che fa
tante vittime pure tra le anime più
devote!3
3. Delusione e avvilimento affiorano con evidenza in LP 86
(FF 1642) e 2Cel. 158 (FF 742),
ma soprattutto in Spec. 81, FF 1
777s, che riferiamo per intero:
Dato l’ardente zelo ch‘
egli aveva incessantemente per la
perfezione dell’Ordine, diventava di necessità assai triste quando veniva a sapere o scorgeva
delle imperfezioni. Cominciando ad accorgersi che alcuni frati
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davano malesempio nella fraternità e cominciavano a scendere
dalle altezze dell’ideale, stretto
nell’intimo del cuore da grande angoscia, un giorno durante
l’orazione disse al Signore: «Signore, affido a te la famiglia che
mi hai dato!». E subito il Signore
rispose: «Dimmi, o piccolo uomo
semplice e ignorante: perché ti
amareggi tanto se qualcuno esce
dall’Ordine o quando i frati non
camminano per la via che ti ho
mostrato? Dimmi ancora: chi ha
fondato questa fraternità? Chi
provoca la conversione di un uomo? Chi largisce la forza di perseverare nella nuova vita? Non
sono forse io? Non ti ho prescelto
a guidare la mia famiglia perché
sei istruito ed eloquente, poiché
non voglio che tu, né i veri frati e
autentici osservatori della Regola che ti ho dato, procediate nella
via della scienza e dell’eloquenza. Ho scelto te, semplice e senza
cultura, affinché sappiate, tu e gli
altri, che sarò io a vigilare sopra
il gregge; e ti ho posto come un
segno per loro, affinché le opere
che io compio in te, essi debbano realizzarle in se stessi. Quelli dunque che camminano per la
via loro mostrata a te, possiedono me e ancor più mi possederanno; quelli invece che avranno voluto seguire altre strade, sarà loro tolto anche quello che credono
di avere. E dunque, io ti dico che,
d’ora in poi non devi affannarti,
ma fai bene quello che fai, continua a compiere il tuo lavoro: io
ho fondato questa famiglia di frati in un amore eterno. Sappi che
tanto li amo che se qualche frate ritornasse al vomito e morisse fuori dell’Ordine, ne invierò
un altro che prenderà la corona
al posto del transfuga; e se non
fosse nato, io lo farò nascere. E
Inserto Notiziario -
V
affinché tu sappia come ardentemente io amo l’ideale e l’Ordine
dei frati quand’anche non rimanessero che tre frati, ebbene: sarà sempre il mio Ordine, e non lo
abbandonerò in eterno!». Sentite
che ebbe queste parole, l’anima
di Francesco fu pervasa di meravigliosa consolazione.
E sebbene per il grande
zelo che sempre ebbe per la perfezione dell’Ordine, non potesse tenersi dall’essere vivamente contristato allorché udiva esserci tra i frati qualche stortura
ch’era di malesempio e di scandalo, dopo che il Signore lo ebbe
così confortato, richiamava alla
memoria quel detto del salmo:
«Ho giurato e deciso di osservare i comandi del Signore, e di osservare la Regola che Egli stesso
ha dato a me e a quelli che vogliono imitarmi. Tutti i frati vi sono tenuti, esattamente come me.
E ora, dopo che ho lasciato di governare i frati, a causa delle mie
infermità e altri motivi ragionevoli, non sono tenuto che a pregare per l’Ordine e a mostrare il
buon esempio ai frati. Questa è
la consegna mandatami dal Signore. E so in verità che, data la
mia malattia, l’aiuto più grande
che io possa recare all’Ordine è
di pregare per esso ogni giorno il
Signore, affinché Lui lo governi,
lo custodisca e protegga. A questo mi sono impegnato davanti a
Dio e ai fratelli: che se qualcuno
si perdesse per il mio malesempio
voglio rendere conto al Signore
per lui». Tali erano le parole che
il Santo ripeteva tra sé per dare
tranquillità al suo cuore, e che
spesso esponeva ai frati nei colloqui e nei Capitoli. Se qualche
frate lo incitava a intromettersi
nel governo dell’Ordine, replicava: «I frati hanno la loro Rego-
VI - Inserto Notiziario
la, hanno giurato di osservarla;
e affinché non prendano pretesti
dal mio comportamento per scusarsi, dopo che piacque al Signore di mettermi alla loro guida, ho
giurato davanti a loro di osservare la Regola lealmente. E dal momento che i frati sanno cosa devono fare e cosa evitare, non mi
rimane che di ammaestrarli con
le mie opere, poiché a questo scopo sono stato dato loro nella mia
vita e dopo la mia morte».
Sono passi che attestano
la faticosa lettura dei fatti in una
più profonda ottica di fede e la
lenta comprensione del proprio
nuovo ruolo di Forma Minorum.
Ma lungo questo percorso di liberazione interiore le tentazioni
non mancano neppure per lui.
4. Una prima tentazione è quella
di abbandonare l’Ordine al suo
destino e procedere per la propria strada con i pochi in grado
di seguirlo (2Cel. 143, FF 727;
LP 105, FF 1661; Spec. 39, FF
1725); la si vede soprattutto in
Spec. 41, FF. 1727, ove traspare la vera ragione delle dimissioni:
Interrogato una volta da
un frate, perché avesse allontanato così i frati dalla sua cura
affidandoli ad altre mani, quasi
non gli appartenessero, rispose: «Figlio mio, io amo i fratelli
con tutto me stesso, e più ancora
li amerei né mi renderei estraneo
ad essi se seguissero le mie orme.
Ma ci sono alcuni superiori che
li attirano su altre strade, proponendo loro l’esempio degli antichi e poco tenendo conto dei miei
ammaestramenti. Ma che cosa e
in che maniera essi agiscono, apparirà chiaramente alla fine». E
poco dopo, essendo stato assalito da grave malattia, con grande
fervore di spirito si drizzò sul letto e disse ad alta voce: «Chi sono quelli che mi strappano dalle
mani il mio Ordine e i miei fratelli? Se potrò venire al Capitolo
generale, mostrerò loro qual’è la
mia volontà».
5. L’altra tentazione: quella di
imporsi e rivendicare i suoi diritti sull’Ordine, e la lotta interiore per riuscire a farsi da parte, che emerge con chiarezza in
LP 106, FF 1663:
Altra volta ebbe a confessare ai compagni: «Tra le altre grazie, l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio
entrato nell’Ordine oggi stesso,
se fosse mio guardiano come si
trattasse del primo e più attempato dei fratelli. Invero, il suddito non deve considerare nel prelato l’uomo bensì Colui per amore del quale si sottomette a un uomo». Disse pure: «Non ci sarebbe un prelato nel mondo intero,
temuto dai sudditi e fratelli suoi
quanto il Signore farebbe che io
fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi. Ma l’Altissimo mi
ha donato questa grazia: sapermi adattare a tutti, come fossi il
più piccolo frate nell’Ordine».
In LP 114, FF 1673 (ma
ancor meglio in Spec. 68, FF
1761), subito dopo una versione sublimata dei fatti col ricorso
a tipiche espressioni usate dagli
Zelanti all’inizio del XIV secolo
e del tutto anacronistiche nel nostro contesto (LP 113, FF 1672),
ci viene riferito un esempio concreto di “intervento forte” a difesa della sua paternità sui frati. Lo
stesso gran moderatore, il Cardinal Ugolino, rimane sorpreso e
preferisce sospendere il dibattito. Vediamolo.
Mentre Francesco era
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al Capitolo generale, detto delle Stuoie, che si tenne presso la
Porziuncola e a cui intervennero
cinquemila fratelli, molti di questi, uomini di cultura, accostarono il cardinale Ugolino, il futuro Gregorio IX; che a sua volta
partecipava all’assise capitolare. E gli chiesero che persuadesse Francesco a seguire i consigli
dei frati dotti e a lasciarsi qualche volta guidare da loro. Facevano riferimento alle Regole di
san Benedetto, sant ‘Agostino e
san Bernardo, che prescrivono
questa e quest’altra norma al fine di condurre una vita religiosa ben ordinata. Udita che ebbe
Francesco l’esortazione del cardinale su tale argomento, lo prese per mano e lo condusse davanti all’assemblea capitolare, dove
disse: «Fratelli, fratelli miei Dio
mi ha chiamato a camminare la
via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi
nominiate altre Regole, né quella
di sant’Agostino, né quella di san
Bernardo o di san Benedetto. II
Signore mi ha rivelato essere suo
volere che io fossi un pazzo nel
mondo: questa è la scienza alla
quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo
della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi
del Signore, di cui si servirà per
punirvi. Allora, volenti o nolenti,
farete ritorno con gran vergogna
alla vostra vocazione». Stupì il
cardinale a queste parole e non
disse nulla, e tutti i frati furono
pervasi da timore (LP 114).
6. Seguono momenti preziosi di
riflessione e di crescita nei quali
Francesco si trattiene dall’usare la forza morale di cui ancora
dispone e si apre al nuovo ruolo che gli è chiesto: restare “mo-
dello” ed esempio dei frati. Si
colgono in LP 75-76, FF 16291630:
Nel tempo in cui Francesco dimorava nel palazzo del
vescovo di Assisi, un giorno uno
dei suoi compagni gli disse: «Padre, perdonami. Quello che sto
per dirti è già stato notato da
molti». E continuò: «Tu sai come
una volta in tutto il nostro Ordine, per grazia di Dio, fioriva la
purezza della perfezione. Tutti i
frati osservavano con fervore e
impegno la santa povertà in ogni
cosa: negli edifici piccoli e miseri, negli utensili pochi e rozzi, nei
libri scarsi e poveri, nei vestiti da
pezzenti. In questo, come in tutto
il loro comportamento esteriore,
erano concordi nello stesso volere, solleciti nell’osservare tutto
ciò che riguarda la nostra professione e vocazione e buon esempio; unanimi erano nell’amare
Dio e il prossimo. Ma da poco
tempo in qua, questa purezza e
perfezione ha cominciato ad alterarsi, checché i frati dicano per
scusarsi, sostenendo che non si
può più osservare questo ideale
per la moltitudine dei frati. Molti
inoltre credono che il popolo sia
meglio edificato da questo nuovo modo di vivere che da quello
primitivo, e hanno la sensazione
che sia più conveniente vivere e
comportarsi così. Hanno quindi
scarsa stima della semplicità e
povertà che sono state ispirazione e base del nostro movimento.
Considerando queste deviazioni,
siamo persuasi che dispiacciano anche a te; ma restiamo fortemente stupiti nel vedere che tu
le sopporti e non le correggi, se ti
dispiacciono».
Gli rispose Francesco:
«Il Signore ti perdoni, fratello,
questo tuo volermi essere oppo-
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sitore e avversario, e di coinvolgermi in questioni che non mi riguardano più». Proseguì: «Fin
tanto che ebbi la responsabilità
dei frati e i frati rimasero fedeli
alla loro vocazione e professione,
per quanto io abbia sempre avuto
scarsa salute sin dalla mia conversione a Cristo, riuscivo senza
fatica a soddisfarli con l’esempio e le esortazioni. Ma quando
mi accorsi che il Signore moltiplicava ogni giorno il numero dei
frati, e che essi per tiepidezza e
languore di spirito cominciavano a deviare dalla strada dritta e
sicura che finallora avevano seguito, e a incamminarsi per la via
comoda, come hai detto tu, non
badando al loro ideale, all’impegno preso, al buon esempio;
quando dunque mi resi conto che
non lasciavano il cammino sbagliato malgrado le mie esortazioni ed esempi, rimisi l’Ordine
nelle mani del Signore e dei frati
ministri. Rinunziai al mio incarico e diedi le dimissioni, adducendo davanti al Capitolo generale
il motivo della mia malattia che
mi impediva di seguire la fraternità in maniera adeguata. Tuttavia anche ora, se i frati avessero camminato e camminassero
secondo la mia volontà non vorrei, per loro conforto, che avessero altro ministro che me, sino
alla mia morte. Infatti, quando il
suddito è fedele e fervoroso nel
conoscere ed eseguire la volontà
del suo prelato, questi è in grado di soddisfare all’incarico con
poca fatica. Di più, proverei molta gioia nel vedere i fratelli così
ferventi, e sarei tanto consolato nel mirare il mio e loro frutto
spirituale che, sia pur giacendo
a letto infermo, non mi sarebbe
arduo guidarli». E soggiunse: «Il
mio incarico di governo dei frati
Inserto Notiziario -
VII
è di natura spirituale, perché devo avere dominio sui vizi e correggerli. Ma se non riesco a farlo con le esortazioni e l’esempio,
non posso certo trasformarmi in
carnefice per battere e scudisciare i colpevoli, come fanno i governanti di questo mondo. Quelli che sgarrano ho fiducia nel
Signore che saranno puniti dai
nemici invisibili, che sono i suoi
“castaldi” incaricati di castigare in questo secolo e nel futuro i
trasgressori dei comandi di Dio.
Essi saranno puniti dagli uomini
di questo mondo, a loro vituperio
e vergogna, così che tornino a vivere l’ideale che hanno abbracciato. Comunque, fino al giorno
della mia morte, con l’esempio,
non smetterò d’insegnare ai fratelli che camminino per la via
indicatami dal Signore e che ho
mostrato loro, l’ideale a cui li ho
formati, in modo che siano inescusabili dinanzi al Signore, e
che non mi tocchi rendere conto
al Signore di loro e di me».
In questo contesto matura la decisione di affidare l’Ordine ad un “Cardinale protettore”.
È la presa d’atto che esso è ormai
qualcosa di diverso e di troppo
grande rispetto a ciò che egli aveva immaginato: è divenuto ormai
adulto e ha bisogno di trovare la
sua strada. Porlo sotto la custodia
del Cardinale protettore significa per Francesco salvaguardare
l’essenziale: l’ortodossia teologico-spirituale nella fedeltà alla
chiesa cattolica.
Si veda il sogno della
gallina in 3Comp 63, FF 1477
(ripreso e allungato da 2Cel 2325, FF 609-612): Francesco decise di chiedere a Onorio III uno
dei cardinali della Chiesa romana, come papa del suo Ordine, e fu precisamente il sunnominato
VIII - Inserto Notiziario
vescovo di Ostia, - al quale i frati
potessero ricorrere nelle loro necessità. Il Santo aveva avuto infatti una visione, e fu forse questa
che lo indusse a domandare quel
cardinale e ad annodare l’Ordine alla Chiesa romana. Gli parve di vedere una piccola gallina
bruna, con le zampette piumate
come una colomba domestica.
Aveva intorno una quantità di
pulcini tale, che non riusciva a
riunirli sotto le ali, e così i piccoli erano costretti a girarle intorno. Svegliatosi, prese a riflettere
su quel sogno; e subito lo Spirito
Santo gli fece capire che quella
chioccia simboleggiava lui stesso. «Sono io - si disse, - quella
gallina, perché piccolo di statura e bruno di colorito, e che devo essere semplice come una colomba e volare verso il cielo con
le piume delle virtù. Il Signore,
nella sua misericordia mi ha dato e darà molti figli, che non sono
in grado di proteggere con le mie
sole forze; bisogna quindi che li
affidi alla santa Chiesa, la quale
li proteggerà e guiderà all’ombra delle sue ali».
Dovrà ancora imparare
ad amarli, questi “figli ribelli”, e
a vivere riconciliato con essi. Sarà l’ultima tappa del suo percorso
di crescita.
Terza fase: Francesco nella fraternità.
La “perfetta letizia” nella “perfetta obbedienza”
Francesco ha compreso
ormai il nucleo della logica della
Croce e vi apre il cuore: accettare la marginalità senza separarsi
dai fratelli è dare sé stessi per loro, come ha fatto il Signore (Gv
15,13). Ora può insegnarlo ai
suoi frati in una delle ultime e più
dense ammonizioni: Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà
rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo
(Lc 14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt
16,25). Abbandona tutto quello
che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore,
e qualunque cosa fa o dice e che
egli stesso sa che non è contro la
volontà di lui, purché sia bene
quello che fa, è vera obbedienza.
E se anche il suddito vede cose
migliori e più utili all’anima sua
di quelle che gli ordina il superiore, sacrifichi le cose proprie
a Dio e cerchi di adempiere con
l’opera quelle del superiore. Infatti questa è la vera e caritativa obbedienza che soddisfa Dio
e il prossimo. Se poi il superiore comanda al suddito qualcosa
contro la sua coscienza, pur non
obbedendogli, tuttavia non lo
abbandoni; e se per questo dovrà
sostenere persecuzioni da alcuni, li ami di più per amore di Dio.
Infatti, chi vorrà piuttosto sostenere la persecuzione anziché separarsi dai suoi fratelli, rimane
veramente nella perfetta obbedienza, poiché pone la sua anima
(cfr Gv 15,13) per i suoi fratelli. Vi sono infatti molti religiosi
che, col pretesto di vedere cose
migliori di quelle che ordinano i
loro superiori, guardano indietro (Lc 9,62) e ritornano al vomito della propria volontà (cfr Pr
26,11). Questi sono degli omicidi
e per i loro cattivi esempi fanno
perdere molte anime (Amm. III,
FF 148 151).
Come il suo Maestro,
ha accettato di perdere dal punto di vista umano, ma in realtà
esce pienamente vincitore: il suo
La Fraternità come ambito elettivo di conversione
porsi come exemplar e regola vivente dei frati lo confermerà nel
ruolo di “coscienza critica” dell’Ordine per tutte le generazioni
successive, rendendolo fonte del
perenne e salutare travaglio che
caratterizzerà la sua famiglia spirituale.
Egli ha sperimentato sulla propria pelle che la fraternità
- intesa come capacità di rapportarsi in modo riconciliato con
ogni tipo di fratello - costituisce
il valore supremo della vita evangelica.
“Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv
13,34), dice il comandamento
nuovo di Gesù: la peggior cosa
che ci possa accadere, afferma
Francesco nell’Amm. III, è quella di separarci dai fratelli, anche
quando essi ci perseguitassero a
motivo della nostra fedeltà a Dio
e alla coscienza.
L’apice della vita fraterna intesa come luogo privilegiato
di conversione nella totale rinuncia ad ogni approccio padronale sui fratelli, e dunque ad ogni
pretesa anche più santa su di essi,
Francesco l’esprime nella mirabile Lettera ad un Ministro (FF
234 235), ricolma dello spirito
delle beatitudini evangeliche:
Al frate ... Ministro: il Signore ti benedica. Io ti dico come
posso, per ciò che riguarda la tua
anima, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, e ogni persona che ti sarà di
ostacolo, siano frati o altri anche
se ti picchiassero, tutto questo tu
devi ritenere per grazia ricevuta.
E così tu devi volere e non diversamente. E questo ti sia per vera obbedienza del Signore Iddio
e mia, perché io fermamente so
che quella è vera obbedienza. E
ama quelli che ti fanno queste co-
se e non pretendere da loro altro
se non ciò che il Signore ti darà, e
in questo amali, e non volere che
siano cristiani migliori.
E questo sia per te più
che stare in un romitorio. Ed io
stesso riconoscerò se tu ami il Signore e se ami me suo servo e tuo,
se farai questo, e cioè: che non
ci sia alcun frate al mondo, che
abbia peccato quanto più poteva
peccare, che dopo aver visto i tuoi
occhi, non se ne ritorni via senza
il tuo perdono, se egli lo chiede;
e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se comparisse davanti ai
tuoi occhi mille volte, amalo più
di me per questo, affinché tu lo
possa conquistare al Signore, ed
abbi sempre misericordia di tali
frati. E avverti i guardiani, quando puoi, che tu sei deciso a fare
così.
Questo primato dell’amore nella vita fraterna viene
da lui ribadito nel Piccolo Testamento (FF 132-135), dell’aprile
1226: “che sempre si amino gli
uni gli altri come io li ho amati e
ancora li amo”.
Il giorno prima di morire, vuole avere intorno i rappresentanti di tutto l’Ordine per ripetere con essi il gesto di Gesù:
spezzare il pane e donarne un
pezzetto ad ognuno. È il pane
della fraternità ritrovata e rinsaldata nell’unità proprio là ove essi
l’avevano cominciata, a S. Maria
degli Angeli. Ce ne parla LP 1J7,
FF 1676.
Una notte Francesco fu
talmente colpito dal rincrudire
delle sofferenze provocate dalle
sue malattie che gli riuscì quasi
impossibile riposare e dormire.
Al mattino, come i dolori si attenuarono un poco, fece chiamare tutti i frati dimoranti in quel
La Fraternità come ambito elettivo di conversione
luogo. Seduti che furono accanto a lui, il Santo li considerò come rappresentanti di tutta la fraternità. E cominciando da uno
di essi, li benediceva, posando
la destra sul capo di ciascuno,
con l’intenzione di benedire tutti quelli che vivevano allora nell’Ordine e quanti vi sarebbero
venuti sino alla fine del mondo. E
lo si vedeva tutto accorato di non
poter mirare i suoi figli e fratelli prima di morire. Si fece poi recare dei pani e li benedisse. Siccome a causa della sua infermità
non aveva la forza per spezzarli,
li fece dividere in molte parti da
un fratello, e ne diede un frammento a ciascuno, raccomandando che venisse consumato
interamente. Come il Signore il
giovedì santo volle cenare con gli
apostoli prima della sua passione, così anche Francesco, parve
a quei fratelli, prima di morire
volle benedirli e nelle loro persone benedire tutti gli altri, e mangiare quel pane benedetto quasi
in compagnia di tutti gli assenti.
Noi possiamo ben credere a questa intenzione, poiché, sebbene
quel giorno non fosse un giovedì,
il Santo disse ai frati che invece
pensava proprio lo fosse. Uno di
quei frati conservò una particella di quel pane. E dopo la morte
di Francesco alcuni infermi che
ne ebbero mangiato, tosto furono
guariti.
Poche settimane prima
aveva dettato il Testamento (FF
110 131), ultima solenne espressione della sua “paternità” sull’Ordine. Ha lasciato che i suoi
figli, crescendo, lo contestassero
e lo mettessero da parte, ma non
ha rinunciato ad essere per loro
un padre per sospingerli sino alla
fine verso la pienezza dell’ideale: la sequela radicale del SignoInserto Notiziario -
IX
re povero e crocefisso, aperti alla Parola e all’Eucarestia e fedeli
alla Madre Chiesa.
Non imporsi e non fuggire, qui si situa lo straordinario
equilibrio umano e spirituale di
Francesco, qui vediamo la sua
maturità esemplare. Solo una
profonda esperienza di comunione col Signore gli ha consentito
di avere tra le mani gli strumenti per superare gli agguati nascosti nello Scilla della durezza e nel
Cariddi della fuga riguardo al suo
sofferto rapporto con l’Ordine4.
E questo in un percorso di povertà che è partita dalle cose materiali per raggiungere i vertici della spoliazione interiore (si noti
che le Ammonizioni non fanno
alcun cenno alla povertà materiale, mentre quasi tutte ruotano
attorno alla povertà interiore come presa di distanza dal potere e
dal sapere quali strumenti di dominio).
Le stigmate possono allora esser lette correttamente
con Bonaventura come il sigillo
d’autenticità giunto dall’alto sul
corpo di colui che ora è divenuto
davvero nudo discepolo del nudo
Crocefisso:
Questo araldo di Dio,
degno di essere amato da Cristo,
imitato da noi e ammirato dal
mondo, è il servo di Dio Francesco: lo costatiamo con sicurezza
indubitabile, se osserviamo come egli raggiunse il vertice della
santità più eccelsa, e, vivendo in
mezzo agli uomini imitò la purezza degli angeli, fino a diventare
esempio di perfezione per i seguaci di Cristo.
Ci spinge ad abbracciare, con fede e pietà, questa convinzione il fatto che egli ebbe dal
cielo la missione di chiamare gli
uomini a piangere, a lamentarsi
X - Inserto Notiziario
(Is 22,12), a radersi la testa e a
cingere il sacco, e di imprimere,
col segno della croce penitenziale e con un abito fatto informa di
croce, il Tau sulla fronte di coloro
che gemono e piangono (Ez 9,4).
Ma ci conferma, poi, in essa, con
la sua verità incontestabile, la testimonianza di quel sigillo che
lo rese simile al Dio vivente (Ez
28,12), cioè a Cristo crocifisso
(cfr lCor 2,2). Sigillo che fu impresso nel suo corpo non dall’opera della natura o dall’abilità di un artefice, ma piuttosto
dalla potenza meravigliosa dello Spirito del Dio vivo (2Cor 3,3)
(LM, Prologo n.2, FF 1022).
Siamo al punto più alto
di attuazione umana del “nudus
nudum Christum sequi”, il fascinoso ideale che aveva caratterizzato l’evangelismo pre-francescano.
Per concludere.
Quella che ho cercato di
delineare mi pare una chiave di
lettura plausibile per affrontare
l’annoso e sofferto problema del
rapporto tra Francesco e il francescanesimo, compreso quel delicato passaggio dall’intuizione
all’istituzione5 che ha fatto versare fiumi d’inchiostro agli studiosi e che i giovani affrontano
talora con approssimazione, conservando in cuore una certa diffidenza nei confronti del volto che
il francescanesimo ha assunto
lungo i secoli.
Nel concreto dei dibattiti
e delle tensioni che si sono avute
tra il Fondatore e il suo Ordine e
con il discernimento della mediazione ecclesiale, quello che storicamente si è realizzato è stato
di fatto il rapporto che la Provvidenza ha consentito. Ed era forse
l’unico capace di trasmettere ai
posteri la sua “eredità difficile”6
Un po’ come è successo riguardo alla Porziuncola e alla tomba
di san Francesco: che ne sarebbe
oggi di questi due luoghi tanto
eloquenti, se essi non fossero stati trasmessi fino a noi dalle due
costruzioni che li custodiscono e
ne sono come l’eco visiva, e che
nel fluire dei secoli hanno favorito in milioni di fedeli l’impatto
fecondo con la memoria del Poverello?
A ben vedere, se egli si
fosse imposto con forza e avesse preteso che tutti compissero
“il suo” cammino (che era decisamente eroico, e come tale non
praticabile da una marea di discepoli), sarebbe uscito umanamente vincitore, ma non avrebbe seguito il suo Signore fin sulla croce dell’apparente sconfitta e del
fallimento umano, e dunque sarebbe rimasto in certo senso un
“santo a metà”7.
Inoltre avrebbe trasformato l’Ordine in un manipolo
di rigoristi radicali, ossessionati dall’osservanza letterale della
Regola e facile preda - almeno in
futuro - dell’eresia. Eloquente al
riguardo è stata la sofferta vicenda dell’ala oltranzista degli Spirituali, che nei primi decenni del
secolo XIV sarebbe sfociata nell’amara ed ambigua esperienza
dei Fraticelli, travolgendo anche
personalità di indubbia levatura
spirituale come Ubertino da Casale, Angelo Clareno e Jacopone
da Todi.
Se avesse abbandonato
l’Ordine a se stesso ritirandosi in
una sdegnosa e solitaria esperienza di contemplazione e di povertà
personale, non avrebbe trasmesso ai suoi i caratteri peculiari del
carisma che lo Spirito aveva suscitato nella Chiesa attraverso di
La Fraternità come ambito elettivo di conversione
lui e che avrebbe portato all’affermazione dell’inedita forma di
vita religiosa propria dei Mendicanti8; e l’Ordine sarebbe finito
senza novità dentro gli schemi
monastici tradizionali, come era
accaduto per diversi altri movimenti evangelici sorti nel secolo
precedente.
L’essersi lasciato condurre dallo Spirito per la via della
paternità senza potere lo ha conformato pienamente al Cristo
crocefisso, conferendo anche a
lui (e alla sua famiglia) la fecondità della Croce9. Questa la ragione per cui Francesco ha potuto
esser definito dal grande teologo
domenicano Yves Congar “il primo dopo l’unico”: è stato un cristiano che ha vissuto pienamente
il mistero pasquale.
Ci piace concludere questo rapido “excursus” sul delicato rapporto tra Francesco e la sua
famiglia spirituale facendo riferimento ad un breve ma efficace
profilo interiore che del santo ci
è stato offerto alcuni decenni fa
da uno dei suoi più attenti e sensibili studiosi moderni, il frate minore Eloi Leclerc, che fu tra i primi a cogliere con finezza i caratteri peculiari di questo travaglio
interiore dell’assisate. Già nella
prefazione di quella che è stata
forse la sua opera più fortunata,
egli mette a fuoco molto bene il
tema, quando scrive: “Preoccupati d’esser fedeli allo spirito
ben più che alla lettera, ci siamo
sforzati di raccontare al lettore
l’esperienza francescana sotto il
suo duplice aspetto. Da un lato la
vicenda di Francesco gronda di
luce di sole e di misericordia; e
dall’altro essa si tuffa nella notte
delle spoliazioni supreme. Questi due aspetti sono inscindibili l’uno dall’altro. La saggezza
del Poverello di Assisi, benché
spontanea e luminosa, non si è
sottratta alla legge comune: essa è il risultato di una dura esperienza, frutto maturato adagio in
un raccoglimento ed in una rinuncia sempre più profonda con
l’andare degli anni. Questa crisi
di rinuncia raggiunse il suo punto culminante nel gravissimo travaglio che scosse l’Ordine e che
Francesco risentì dolorosamente
in se stesso... Essa costituì per lui
una terribile prova. Egli ebbe la
sensazione di uno scacco. Dio lo
metteva alla prova ed egli ne uscì
del tutto purificato. Il Poverello
d’Assisi s’indusse con l’animo
straziato ad una completa e definitiva rinuncia; ma attraverso
le angosce ed il pianto avrebbe
finalmente attinto la pace e la
gioia. Egli salvava, nello stesso
tempo, i suoi seguaci rivelando
loro che la forma più elevata della povertà evangelica è anche la
più realistica: quella, cioè, in cui
l’uomo riconosce ed accetta la
realtà umana e divina in tutta la
sua ampiezza. Era questa la via
della salvezza per il suo Ordine,
il quale, anziché isolarsi in una
sorta di protestantesimo anticipato, attingeva nel seno stesso
della Chiesa il proprio equilibrio
interiore e la forza della sua perennità”10.
Ci pare una pertinente
conclusione a quanto siamo venuti dicendo.
Anche Francesco - anzi, lui più di ogni altro - ha sperimentato sulla propria pelle
tutta la fatica, ma anche tutta la
fecondità, del lungo ed irto sentiero che conduce “da Narciso a
Gesù”. Narciso è infatti l’homo
vetus adoratore di se stesso che
affoga nella propria immagine,
mentre Gesù è l’homo novus che
La Fraternità come ambito elettivo di conversione
fa la volontà del Padre e a Lui si
affida totalmente, quando consegna se stesso nelle mani dei persecutori donando la propria vita
per la salvezza degli uomini, e
“riceve un Nome che è al di sopra di ogni altro nome”(Fil 2,9).
Siamo nel cuore di quel Mistero
Pasquale, che solo ha il potere
di sorreggere e rendere feconda
l’intera storia umana, e che ogni
cristiano è chiamato a reinterpretare nel concreto della propria
esperienza.
Il fatto straordinario è
che tale sentiero Francesco lo
abbia percorso sino in fondo e,
grazie alla sua trasparente disponibilità a lasciarsi guidare dallo
Spirito, sia riuscito ad evitare i
tanti tranelli che lo punteggiano:
umile e povero, è giunto così alle
vertiginose altitudini dell’uomo
nuovo in Cristo, tanto da essere
considerato già dai contemporanei “novus evangelista” e “alter
Christus”.
Fr. Prospero Rivi
Inserto Notiziario -
XI
NOTE:
della vita quotidiana, confermandosi lo
questa stessa vicenda, a sancire il sen-
1 Una penetrante rilettura del-
spazio privilegiato in cui di fatto prende
so profondo della sua proposta cristia-
l’itinerario interiore di Francesco è of-
corpo ogni autentico cammino di con-
na e dei termini e delle modalità con cui
ferta da J. M. CHARRON, Da Narci-
versione. Per un approccio evangelica-
venne via via attuandola. La ‘croce’ è
so a Gesù - La ricerca dell’identità in
mente corretto al tema della fraternità,
l’alternativa reale ed opposta alla lotta,
Francesco d’Assisi, Messaggero, Pado-
restano illuminanti i suggerimenti di D.
alla rottura e alla ribellione, è il segno
va 1995. Per il nostro tema, si vedano in
BONHOEFFER, La vita comune, Que-
e la condizione dell’autentica ‘sequela
particolare i capp. Ve VI.
riniana, Brescis 1969, in particolare le
Christi’ Dopo l’impressione delle Stim-
pp. 39-51; e quelli offerti dal documento
mate, Francesco scrisse di suo pugno le
della S. Sede La vita fraterna in comunità
‘Laudes Domini Dei altissimi’... un testo
(Roma 2.02.1994), specie inn. 21-28.
tutto biblico liturgico che è invocazione,
2 Per la centralità e l’intrec-
cio dei temi legati al “sine proprio” e alla
“restitutio” negli Scritti di San Francesco, si vedano i pregevoli spunti offerti
6 Cfr. R. LAMBERT1NI - A.
da C. VAIANI, La via di Francesco, Bi-
TABARRONI, Dopo Francesco: l’ere-
blioteca Francescana, Milano 1993.
dità difficile, Edizioni Gruppo Abele,
3 Perché risulti più chiaro
Torino 1989.
esaltazione e atto di fede insieme nell’infinita grandezza, potenza e volontà salvifica di Dio... Le Stimmate della Verna
rappresentano lo scioglimento reale dei
dilemmi, dei dubbi e delle difficoltà che
quanto stiamo dicendo, è bene ricordare
7 Su questo punto rimangono
avevano angustiato Francesco negli an-
che diverse ammonizioni “presuppon-
fondamentali le acute osservazioni di G.
ni precedenti, il punto di arrivo di quella
gono esperienze e delusioni che Fran-
MICCOLI, Francesco d’Assisi. Realtà e
linea dell’incarnazione che ha la storia
cesco aveva potuto raccogliere solo du-
memoria di un’esperienza cristiana, Ei-
degli uomini come sua condizione e suo
rante una vita comunitaria piuttosto lun-
naudi, Torino 1991, pp. 33-97. Questo
teatro, ma che sa di non poter ricorre-
ga con i suoi frati”: cfr. K. ESSER, Gli
volume raccoglie vari studi che l’Auto-
re ai loro strumenti per poter essere sto-
Scritti di S. Francesco, Messaggero, Pa-
re ha proposto in tempi diversi. Il lavo-
ricamente efficace. Un ‘unicum’... che
dova 1982, p.1-47.
ro a cui ci riferiamo è apparso vent’an-
non poteva essere esportato né perpe-
4 Sull’esempio di Francesco e
ni or sono in Studi Medievali s. 3 XXIV
tuato realmente...” (pp. 83 s del volume
(1983), pp. 17-73 col titolo La proposta
Einaudi).
in obbedienza al forte appello che trovia-
cristiana di Francesco d’Assisi, ed ha
mo in quello che può ritenersi il primo
segnato una svolta nell’interpretazione
dei suoi tre “testamenti”, dettato alla vi-
del rapporto Francesco Chiesa, non so-
gilia della sua partenza per l’Oriente (in
lo nella riflessione dell’Autore, ma per
Rnb XXII, FF 56-57, a cui fu eco Rb 10,
l’intera ricerca storiografica sul tema:
FF 104), la dimensione contemplativa ri-
per la prima volta si prendevano le di-
9 Interrogato di recente su
mane impegno prioritario anche per ogni
stanze dalle “letture forzanti del Saba-
quale sia, tra i tanti carismi delle famiglie
francescano, imprescindibile condizio-
tier” (nota 5). In chiusura dell’articolo
religiose, quello di maggior tenuta e fe-
ne per un vero discepolato. Sul tema, ho
leggiamo:. “È difficile peraltro non pen-
condità, il Cardinal Ratzinger ha rispo-
cercato di offrire alcuni suggerimenti
sare che ‘la grande tentazione! sarebbe
sto senza esitare: “Credo proprio che sia
pratici per la formazione dei nostri gio-
durata ben due anni, e non è piccola co-
il francescanesimo; è incredibile quan-
vani: Note d’introduzione alla preghie-
sa in una vicenda religiosa che ne conta
to ancora agisca, dopo quasi otto secoli,
ra contemplativa, in Italia Francescana,
complessivamente una ventina vada si-
il lievito di Assisi!”: in JESUS, febbraio
gennaio aprile 2001, pp. 129-146.
tuata negli ultimi anni della vita di Fran-
2000, p. 41.
5 Cfr. la suggestiva omonima
cesco e nelle tensioni e negli esiti che ac-
opera di T. DESBONNETS, Bibliote-
compagnarono la redazione definitiva
ca Francescana, Milano 1986. La presa
della regola: e la ‘grande tentazione’ sa-
di coscienza di come sia stato faticoso
rebbe allora... quella della ‘ribellione’,
il rapporto tra Francesco e i suoi fratel-
della riaffermazione del proprio ideale
li può anche aiutarci a ridimensionare
originario in termini di contestazione
eventuali “attese gonfiate” nei confronti
diretta della linea che Roma e i Mini-
della fraternità: essa è stata in ogni tem-
stri stavano imponendo all’Ordine. Ma
po (e continuerà ad essere anche in futu-
anche le Stimmate della Verna... si col-
ro) pane duro da masticare nel concreto
locano cronologicamente all’interno di
XII - Inserto Notiziario
8 Cfr. anche solo l’epilo-
go dell’ottimo recente studio di C.H.
LAWRENCE, I Mendicanti, Paoline,
Alba 1998, pp. 250-253.
10 E. LECLERC, La sapien-
za di un povero, Biblioteca Francescana,
Milano 2000 (11° ristampa), pp. 8-10: si
tratta di un testo suggestivo e profondo,
che i giovani in formazione leggono con
grande interesse e profitto.
La Fraternità come ambito elettivo di conversione