La Fraternità come ambito elettivo di conversione
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La Fraternità come ambito elettivo di conversione
La Fraternità come ambito elettivo di conversione San Francesco e l’Ordine dei Frati Minori. Una paternità spirituale contestata dai figli ormai cresciuti diviene occasione preziosa di configurazione piena al Signore Crocefisso. Fr. Prospero Rivi, OFM Cap Incontri di Formazione Permanente per Fasce d’Età, Milano Marittima 12-14 maggio 2008. La Fraternità come ambito elettivo di conversione Inserto Notiziario - 1 Presentazione L’inserto del Notiziario del mese di giugno 2008, n. 140, è dedicato all’intervento di Fr. Prospero Rivi, OFMCap, tenuto a Milano Marittima in due momenti: prima ai Frati dai 45 ai 65 anni di età, poi ai Frati con un’età superiore ai 65 anni, dal 12 al 14 maggio 2008. L’intervento di Formazione Permanente è caratterizzato dalla riflessione sul cammino di S. Francesco quale fondatore dell’Ordine dei Frati Minori. Il sottotitolo illustra in sintesi il cammino umano e spirituale di Francesco: “Una paternità spirituale, contestata dai figli ormai cresciuti, diviene occasione preziosa di configurazione piena al Signore Crocefisso”. Francesco si è lasciato condurre dallo Spirito per la via della paternità, rinunciando al potere e non cedendo alla tentazione di abbandonare l’Ordine, ma conformandosi pienamente a Cristo crocefisso. L’articolo di Fr. Prospero può essere integrato, per un maggior approfondimento del tema proposto -“La fraternità come ambito elettivo di conversione”-, dalla seguente bibliografia: D. Bonhoeffer, “La vita comune”, Queriniana, Brescia 1969, 39-51; P. Rivi, “Dall’autonomia all’unità: le radici storiche dell’OFS unitario”, “Francesco il Volto secolare”, 2007, 6, 26-32; P. Rivi, “Breve introduzione alle Fonti Francescane”, Ed. Porziuncola, 2003. La redazione Vivere la fraternità un’aspirazione profonda del cuore di ogni uomo ed insieme un valore essenziale della vocazione cristiana. Il cammino verso l’unità è infatti la mèta che il Creatore ha posto all’intera storia umana, poiché “il Padre ha fatto di Cristo il cuore del mondo” per unificare in Lui tutto le cose. Ma ogni autentico ed onesto costruttore di vita fraterna si imbatterà prima o poi in una dura esperienza di croce, che ha il compito di fare piazza pulita degli idoli che gli si sono annidati nel cuore. È stato così anche per Francesco d’Assisi. È opinione diffusa che l’esperienza di fraternità promossa da Francesco e da lui vissuta all’interno della prima generazione dei suoi discepoli sia stata un’esperienza solare ed in crescendo continuo. Ed è vero che Francesco e i suoi frati si sono impegnati per tutta la vita e con tutte le forze a promuovere autentiche e robuste relazioni fraterne. Ma anche per essi la fraternità è stata un impasto di gioie e di sofferenze, ed i lo- II - Inserto Notiziario ro rapporti - come del resto quelli delle prime comunità cristiane - non sono stati sempre idilliaci come si vorrebbe supporre. Facendo dell’amore fraterno nel nome del Signore Gesù l’asse su cui costruire il suo Ordine, Francesco dovette faticosamente apprendere che vi avrebbe trovato lui pure il filtro purificatore della sua personalità ed il sentiero che l’avrebbe condotto ai vertici di quella “altissima povertà” che gli stava tanto a cuore. Prima fase: Francesco è la fraternità. II 16 aprile del 1208 Bernardo da Quintavalle e Pietro Cattani si uniscono a Francesco; di lì a poco vi si aggiunge il prete Silvestro, ed i quattro si sistemano in una capanna vicino alla chiesetta abbandonata di Santa Maria della Porziuncola. Otto giorni dopo si presenta Egidio (AP 1014; FF 1497-1502); poi arrivano Sabbatino, Giovanni il semplice e Morico (AP 17; FF 1506). Molti altri li seguono, e soltanto una decina di anni più tardi saranno cinquemila i frati presenti al primo Capitolo delle stuoie (LM 10; FF 1080). Fin dall’inizio, il nome che Francesco sceglie per la sua nuova famiglia spirituale è quello di Frati Minori (1 Cel. 38; FF 386). Negli Scritti egli userà solo due volte il termine Ordine, preferendogli sempre quello di Fraternità; e la parola fratello è quella che egli usa di più dopo quella di Signore. Sono gli anni in cui Francesco è il capo indiscusso di un movimento in continua espansione che dilaga per tutta l’Europa. II suo prestigio è enorme, sia dentro che fuori dell’Ordine. È a questo magico periodo che fa riferimento la splendida pagina dei Fioretti ove Fr. Masseo chiede “quasi proverbiando”: “Perché a te... tutto il mondo vien dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile, onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?” (cap. X, La Fraternità come ambito elettivo di conversione FF 1838). La risposta del Santo è sublime, ma a quel tempo del tutto teorica: non è affatto vero che egli sia “il più vile e il più insufficiente.., tra li peccatori”, perché di fatto è il più amato ed osannato, e a lui tutte le porte si aprono (da quelle di molte città che lo vogliono quale nuovo annunciatore del Vangelo ed efficace promotore di pace, alla Curia Romana che gli approva una Regola nuova e gli concede l’inaudito “perdono d’Assisi”, e di lì a poco gli si aprirà anche quella della corte del Sultano d’Egitto). Giordano da Giano, entrato nell’Ordine nel 1215, ci informa che in quegli anni Francesco non veniva chiamato dai frati col proprio nome, ma quando si parlava di lui si era soliti definirlo semplicemente “il Fratello”, perché tale egli veniva considerato per antonomasia: Alla fine poi di questo Capitolo, o meglio quando esso volgeva alla conclusione, il beato Francesco si ricordò che non si era ancora impiantato l’Ordine in Germania. E poiché egli era allora malato, qualsiasi cosa volesse da parte sua dire al Capitolo, la faceva comunicare da frate Elia. E il beato Francesco, restando seduto ai piedi di frate Elia, tirò costui per la tonaca. Questi, inchinatosi verso di lui, ascoltò con attenzione cosa gli diceva; poi, rizzandosi, disse: «Frati, così dice il Fratello», indicando il beato Francesco che era chiamato per eccellenza «fratello» dai frati (Cronaca 17; FF 2342). Per tutto questo tempo, è la sua forte ed affascinante personalità che plasma e tiene uniti i frati. Agli occhi di tutti egli è il modello dei Minori (Forma Minorum), capace di trascinare tutti dietro di sé per la via del Vangelo. Sono gli anni radiosi in cui la Fraternità è Francesco stesso, e la loro storia si confonde. È una fraternità fondata sull’obbedienza reciproca, e in essa nessuno sente ancora il bisogno di creare altre autorità per i vari gruppi di frati. Francesco è materialmente poverissimo, ma ancora tanto ricco per il ruolo che gli è riconosciuto ovunque da tutti e per il centuplo evangelico che gli è stato donato: tanti fratelli che egli ama come una madre, e che - come una madre - sente suoi e nei quali in certo modo riflette moltiplicata la propria immagine. Seconda fase: Francesco e la fraternità. Qualcosa comincia a cambiare verso il 1217, in occasione di un famoso Capitolo delle stuoie, quando i frati sono ormai oltre cinquemila, vengono inviati in diversi Paesi europei, e da tempo Francesco non può più conoscerli e formarli personalmente. Come tutti i figli che crescono, anche i frati scalpitano desiderosi di una maggiore autonomia e si mostrano via via più turbolenti. Dei sempre più numerosi problemi che vanno emergendo dalla vita quotidiana si rendono conto in primo luogo i “Ministri e Custodi” (provinciali e vicari provinciali), a cui spetta il compito di organizzare ed animare questo movimento in continua espansione. Essi hanno una grande ammirazione ed un affetto sincero verso Francesco: ne condividono la passione di conquistare il mondo a Cristo, ma non sempre i mezzi che egli ha scelto e imposto sin qui. Sentono il bisogno di case formative per plasmare e La Fraternità come ambito elettivo di conversione consolidare le nuove reclute, e di studi organizzati per difendersi dall’eresia, vogliono più disciplina interna, dunque una più forte e chiara autorità ed una regola più precisa: il Vangelo è per loro insieme troppo e troppo poco. Contestato, Francesco reagisce con veemenza. È un po’ come una leonessa che vede minacciati i suoi piccoli. Lotta, si dibatte, minaccia... ed entra nel tratto più rischioso del cammino di sequela, pieno di quei trabocchetti in cui cadranno molti capi carismatici, tra cui per restare in casa nostra - frate Elia nel 1239 e frate Ludovico da Fossombrone nel 1535-36. Nel 1219 è in affanno, e decide di partire per l’Oriente con Pietro Cattani, lasciando l’Ordine in fermento nelle mani di due vicari, Matteo da Narni e Gregorio da Napoli (Giordano 11, FF 2333). Nel settembre del 1220 deve rientrare in gran fretta per affrontare una situazione che nel frattempo si è complicata (Giordano 12, FF 2334), e in un movimentato Capitolo decide di passare la guida dell’Ordine nelle mani di Pietro Cattani (LP 105; FF 1661) e di affidarsi alla supervisione del Cardinale Ugolino (Giordano 14; FF 2337). Seguono tre anni di buio completo e di spoliazione totale. Lo assale il dubbio di aver sbagliato tutto. E’ la grande tentazione di cui ci è testimone privilegiato frate Leone, confessore e confidente del Santo, e durante la quale Chiara è la sola persona capace di dargli qualche conforto. È il periodo della lotta per la Regola, con i Frati che hanno rifiutato la prima, quella del 1221, e ne chiedono un’altra più Inserto Notiziario - III breve e più chiara, meglio se una di quelle già esistenti (LP 114, FF 1673). È un momento buio e terribile, ma preziosissimo per il suo progresso spirituale. Attraverso i contrasti, tra attacchi e difese, Francesco è guidato dal Signore a rinunciare al suo progetto di vita fraterna e reso capace di accettare la realtà e gli altri così come sono1. Purificato in profondità, del tutto svuotato di sé come il suo Signore che “si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fu. 2,7), spogliato da ogni attaccamento egoistico anche nei confronti della sua fraternità, che egli sognava in certo senso a propria immagine e somiglianza, alla fine Francesco esce vincitore sulla più subdola delle tentazioni, quella dell’orgoglio spirituale. Ora si ritrova davvero povero, piccolo, finalmente capace di abbandonarsi tutto nelle mani del suo Signore2. Il 29 novembre del 1223 la Regola è approvata da Onorio Ill. Nel Natale seguente è a Greccio e, dopo aver ritrovato la luce, celebra gioiosamente con i suoi frati il Mistero dell’incarnazione, tappa iniziale della kenosis del Verbo. Nel settembre dell’anno successivo, sul crudo sasso de la Verna, immerso nella contemplazione del suo Signore che soffre e dà la vita per i suoi persecutori, riceve le stigmate che portano a compimento il suo mistero pasquale: accettando sino in fondo la logica della Croce che costituisce un fallimento agli occhi del mondo, come il suo Maestro e come il chicco di frumento Francesco si consegna alla morte per dare la vita. Le fasi salienti di questo IV - Inserto Notiziario arduo percorso di crescita lungo cui Francesco è stato condotto dai fatti concreti della vita (che - anch’egli faticosamente come ognuno di noi - cerca di leggere alla luce del Cristo sconfitto e vittorioso) sono ben documentate nelle Fonti, soprattutto dai suoi Scritti e da quella tradizione leonina, che ci è giunta nella Leggenda Perugina e nello Specchio di Perfezione. Possiamo tentarne insieme una rapida ricognizione. 1. Della vera e perfetta letizia Questa autentica “perla” dettata da Francesco a Leone attesta come egli fosse cosciente che si stava avvicinando quella che sarebbe stata la sua prova più dura (il ridimensionamento del suo ruolo nei confronti dell’Ordine), e come vi si preparasse interiormente affinando il suo sguardo di fede. “Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Eccomi, sono pronto». «Scrivi - disse - cosa è la vera letizia». « Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltr’ Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’Inghilterra, scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui è vera letizia». «Ma cosa è la vera letizia?». «Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nei ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi sei?” Io rispondo: “Frate Francesco” E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte” E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima» (FF 278). Se si confronta questo breve testo con il ben più famoso capitolo 8° dei Fioretti (FF 1836), ci si avvede subito come quest’ultimo lasci cadere ogni riferimento alla vicenda personale di Francesco per farne un piccolo capolavoro di ascetica, ma ormai disincarnato ed asettico. 2. Il contesto concreto (sitz im leben) della perfetta letizia lo cogliamo in LP 83 (FF 1639) e nelle Ammonizioni IV, XIII, XIX (FF 152, 162, 169): LP 83: Un’altra volta, avvicinandosi il Capitolo che si sarebbe svolto presso la chiesa della Porziuncola, Francesco confidò al suo compagno: «Non La Fraternità come ambito elettivo di conversione mi considero un frate minore, se non ho le disposizioni d’animo che sto per dirti». E seguitò: «Ecco i frati in gran devozione e venerazione venire a me, invitandomi alla riunione capitolare. Commosso dalle loro affettuose insistenze, mi avvio assieme ad essi. Convocata l’assemblea, mi pregano di annunziare loro la parola di Dio. Mi alzo e predico secondo l’ispirazione dello Spirito Santo. Finisco il sermone. Supponiamo che allora, dopo averci pensato, concludano dicendomi: “Non vogliamo che tu regni sopra di noi, perché non sai parlare, sei troppo semplice, ci vergogniamo di avere a capo una persona così incolta e incapace. D’ora in avanti, non avere la pretesa di chiamarti nostro prelato!”. E così dicendo, mi cacciano, vilipendendomi. Ebbene, non potrei considerarmi vero frate minore, se non resto ugualmente sereno quando mi vilipendono e ignominiosamente mi cacciano via, rifiutandosi di avermi a prelato, come quando mi onorano e venerano, purché in entrambi i casi il loro vantaggio sia io stesso. Se mi allieto per il loro profitto e devozione allorché mi esaltano e onorano (mentre la mia anima corre pericolo di vana gloria), ancor più mi si addice gioire ed esultare del profitto spirituale e della salvezza della mia anima, allorché mi vituperano cacciandomi via in maniera umiliante: qui infatti c’è sicuro guadagno per l’anima». Amm. IV: Non sono venuto per essere servito ma per servire, dice il Signore (Gv 15,13). Quelli che sono costituiti in autorità sopra gli altri, tanto si glorino del loro ufficio prelatizio come se fossero incaricati di lavare i piedi dei fratelli; e quanto più si turbano per esser tolto loro la carica che se fosse loro tolto il servizio di lavare i piedi, tanto più ammassano un tesoro fraudolento a pericolo delle loro anime. Amm. XII: Non si può sapere quanta pazienza e umiltà abbia in sé il servo di Dio finché gli si dà soddisfazione. Quando invece verrà il tempo in cui chi gli dovrebbe dare soddisfazione gli fa il contrario, quanta pazienza e umiltà ha in questo caso, tanta esattamente ne ha e non più. Amm. XIX: Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando è onorato ed esaltato dagli uomini di quando è ritenuto vile e semplice e disprezzato, poiché l’uomo quanto vale davanti a Dio, tanto vale e non più. Guai a quel religioso, che è posto dagli altri in alto e per sua volontà non vuoi discendere. E beato quel servo, che non si pone in alto di sua volontà e sempre desidera mettersi sotto i piedi degli altri. Francesco vede ridursi il suo ruolo di “padre-fondatore” e cerca di convincersi interiormente che è bene che sia così... Ma quanto è dura da accettare anche per lui questa nuova ed inattesa forma di povertà-minorità, che fa tante vittime pure tra le anime più devote!3 3. Delusione e avvilimento affiorano con evidenza in LP 86 (FF 1642) e 2Cel. 158 (FF 742), ma soprattutto in Spec. 81, FF 1 777s, che riferiamo per intero: Dato l’ardente zelo ch‘ egli aveva incessantemente per la perfezione dell’Ordine, diventava di necessità assai triste quando veniva a sapere o scorgeva delle imperfezioni. Cominciando ad accorgersi che alcuni frati La Fraternità come ambito elettivo di conversione davano malesempio nella fraternità e cominciavano a scendere dalle altezze dell’ideale, stretto nell’intimo del cuore da grande angoscia, un giorno durante l’orazione disse al Signore: «Signore, affido a te la famiglia che mi hai dato!». E subito il Signore rispose: «Dimmi, o piccolo uomo semplice e ignorante: perché ti amareggi tanto se qualcuno esce dall’Ordine o quando i frati non camminano per la via che ti ho mostrato? Dimmi ancora: chi ha fondato questa fraternità? Chi provoca la conversione di un uomo? Chi largisce la forza di perseverare nella nuova vita? Non sono forse io? Non ti ho prescelto a guidare la mia famiglia perché sei istruito ed eloquente, poiché non voglio che tu, né i veri frati e autentici osservatori della Regola che ti ho dato, procediate nella via della scienza e dell’eloquenza. Ho scelto te, semplice e senza cultura, affinché sappiate, tu e gli altri, che sarò io a vigilare sopra il gregge; e ti ho posto come un segno per loro, affinché le opere che io compio in te, essi debbano realizzarle in se stessi. Quelli dunque che camminano per la via loro mostrata a te, possiedono me e ancor più mi possederanno; quelli invece che avranno voluto seguire altre strade, sarà loro tolto anche quello che credono di avere. E dunque, io ti dico che, d’ora in poi non devi affannarti, ma fai bene quello che fai, continua a compiere il tuo lavoro: io ho fondato questa famiglia di frati in un amore eterno. Sappi che tanto li amo che se qualche frate ritornasse al vomito e morisse fuori dell’Ordine, ne invierò un altro che prenderà la corona al posto del transfuga; e se non fosse nato, io lo farò nascere. E Inserto Notiziario - V affinché tu sappia come ardentemente io amo l’ideale e l’Ordine dei frati quand’anche non rimanessero che tre frati, ebbene: sarà sempre il mio Ordine, e non lo abbandonerò in eterno!». Sentite che ebbe queste parole, l’anima di Francesco fu pervasa di meravigliosa consolazione. E sebbene per il grande zelo che sempre ebbe per la perfezione dell’Ordine, non potesse tenersi dall’essere vivamente contristato allorché udiva esserci tra i frati qualche stortura ch’era di malesempio e di scandalo, dopo che il Signore lo ebbe così confortato, richiamava alla memoria quel detto del salmo: «Ho giurato e deciso di osservare i comandi del Signore, e di osservare la Regola che Egli stesso ha dato a me e a quelli che vogliono imitarmi. Tutti i frati vi sono tenuti, esattamente come me. E ora, dopo che ho lasciato di governare i frati, a causa delle mie infermità e altri motivi ragionevoli, non sono tenuto che a pregare per l’Ordine e a mostrare il buon esempio ai frati. Questa è la consegna mandatami dal Signore. E so in verità che, data la mia malattia, l’aiuto più grande che io possa recare all’Ordine è di pregare per esso ogni giorno il Signore, affinché Lui lo governi, lo custodisca e protegga. A questo mi sono impegnato davanti a Dio e ai fratelli: che se qualcuno si perdesse per il mio malesempio voglio rendere conto al Signore per lui». Tali erano le parole che il Santo ripeteva tra sé per dare tranquillità al suo cuore, e che spesso esponeva ai frati nei colloqui e nei Capitoli. Se qualche frate lo incitava a intromettersi nel governo dell’Ordine, replicava: «I frati hanno la loro Rego- VI - Inserto Notiziario la, hanno giurato di osservarla; e affinché non prendano pretesti dal mio comportamento per scusarsi, dopo che piacque al Signore di mettermi alla loro guida, ho giurato davanti a loro di osservare la Regola lealmente. E dal momento che i frati sanno cosa devono fare e cosa evitare, non mi rimane che di ammaestrarli con le mie opere, poiché a questo scopo sono stato dato loro nella mia vita e dopo la mia morte». Sono passi che attestano la faticosa lettura dei fatti in una più profonda ottica di fede e la lenta comprensione del proprio nuovo ruolo di Forma Minorum. Ma lungo questo percorso di liberazione interiore le tentazioni non mancano neppure per lui. 4. Una prima tentazione è quella di abbandonare l’Ordine al suo destino e procedere per la propria strada con i pochi in grado di seguirlo (2Cel. 143, FF 727; LP 105, FF 1661; Spec. 39, FF 1725); la si vede soprattutto in Spec. 41, FF. 1727, ove traspare la vera ragione delle dimissioni: Interrogato una volta da un frate, perché avesse allontanato così i frati dalla sua cura affidandoli ad altre mani, quasi non gli appartenessero, rispose: «Figlio mio, io amo i fratelli con tutto me stesso, e più ancora li amerei né mi renderei estraneo ad essi se seguissero le mie orme. Ma ci sono alcuni superiori che li attirano su altre strade, proponendo loro l’esempio degli antichi e poco tenendo conto dei miei ammaestramenti. Ma che cosa e in che maniera essi agiscono, apparirà chiaramente alla fine». E poco dopo, essendo stato assalito da grave malattia, con grande fervore di spirito si drizzò sul letto e disse ad alta voce: «Chi sono quelli che mi strappano dalle mani il mio Ordine e i miei fratelli? Se potrò venire al Capitolo generale, mostrerò loro qual’è la mia volontà». 5. L’altra tentazione: quella di imporsi e rivendicare i suoi diritti sull’Ordine, e la lotta interiore per riuscire a farsi da parte, che emerge con chiarezza in LP 106, FF 1663: Altra volta ebbe a confessare ai compagni: «Tra le altre grazie, l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio entrato nell’Ordine oggi stesso, se fosse mio guardiano come si trattasse del primo e più attempato dei fratelli. Invero, il suddito non deve considerare nel prelato l’uomo bensì Colui per amore del quale si sottomette a un uomo». Disse pure: «Non ci sarebbe un prelato nel mondo intero, temuto dai sudditi e fratelli suoi quanto il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi. Ma l’Altissimo mi ha donato questa grazia: sapermi adattare a tutti, come fossi il più piccolo frate nell’Ordine». In LP 114, FF 1673 (ma ancor meglio in Spec. 68, FF 1761), subito dopo una versione sublimata dei fatti col ricorso a tipiche espressioni usate dagli Zelanti all’inizio del XIV secolo e del tutto anacronistiche nel nostro contesto (LP 113, FF 1672), ci viene riferito un esempio concreto di “intervento forte” a difesa della sua paternità sui frati. Lo stesso gran moderatore, il Cardinal Ugolino, rimane sorpreso e preferisce sospendere il dibattito. Vediamolo. Mentre Francesco era La Fraternità come ambito elettivo di conversione al Capitolo generale, detto delle Stuoie, che si tenne presso la Porziuncola e a cui intervennero cinquemila fratelli, molti di questi, uomini di cultura, accostarono il cardinale Ugolino, il futuro Gregorio IX; che a sua volta partecipava all’assise capitolare. E gli chiesero che persuadesse Francesco a seguire i consigli dei frati dotti e a lasciarsi qualche volta guidare da loro. Facevano riferimento alle Regole di san Benedetto, sant ‘Agostino e san Bernardo, che prescrivono questa e quest’altra norma al fine di condurre una vita religiosa ben ordinata. Udita che ebbe Francesco l’esortazione del cardinale su tale argomento, lo prese per mano e lo condusse davanti all’assemblea capitolare, dove disse: «Fratelli, fratelli miei Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. II Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi del Signore, di cui si servirà per punirvi. Allora, volenti o nolenti, farete ritorno con gran vergogna alla vostra vocazione». Stupì il cardinale a queste parole e non disse nulla, e tutti i frati furono pervasi da timore (LP 114). 6. Seguono momenti preziosi di riflessione e di crescita nei quali Francesco si trattiene dall’usare la forza morale di cui ancora dispone e si apre al nuovo ruolo che gli è chiesto: restare “mo- dello” ed esempio dei frati. Si colgono in LP 75-76, FF 16291630: Nel tempo in cui Francesco dimorava nel palazzo del vescovo di Assisi, un giorno uno dei suoi compagni gli disse: «Padre, perdonami. Quello che sto per dirti è già stato notato da molti». E continuò: «Tu sai come una volta in tutto il nostro Ordine, per grazia di Dio, fioriva la purezza della perfezione. Tutti i frati osservavano con fervore e impegno la santa povertà in ogni cosa: negli edifici piccoli e miseri, negli utensili pochi e rozzi, nei libri scarsi e poveri, nei vestiti da pezzenti. In questo, come in tutto il loro comportamento esteriore, erano concordi nello stesso volere, solleciti nell’osservare tutto ciò che riguarda la nostra professione e vocazione e buon esempio; unanimi erano nell’amare Dio e il prossimo. Ma da poco tempo in qua, questa purezza e perfezione ha cominciato ad alterarsi, checché i frati dicano per scusarsi, sostenendo che non si può più osservare questo ideale per la moltitudine dei frati. Molti inoltre credono che il popolo sia meglio edificato da questo nuovo modo di vivere che da quello primitivo, e hanno la sensazione che sia più conveniente vivere e comportarsi così. Hanno quindi scarsa stima della semplicità e povertà che sono state ispirazione e base del nostro movimento. Considerando queste deviazioni, siamo persuasi che dispiacciano anche a te; ma restiamo fortemente stupiti nel vedere che tu le sopporti e non le correggi, se ti dispiacciono». Gli rispose Francesco: «Il Signore ti perdoni, fratello, questo tuo volermi essere oppo- La Fraternità come ambito elettivo di conversione sitore e avversario, e di coinvolgermi in questioni che non mi riguardano più». Proseguì: «Fin tanto che ebbi la responsabilità dei frati e i frati rimasero fedeli alla loro vocazione e professione, per quanto io abbia sempre avuto scarsa salute sin dalla mia conversione a Cristo, riuscivo senza fatica a soddisfarli con l’esempio e le esortazioni. Ma quando mi accorsi che il Signore moltiplicava ogni giorno il numero dei frati, e che essi per tiepidezza e languore di spirito cominciavano a deviare dalla strada dritta e sicura che finallora avevano seguito, e a incamminarsi per la via comoda, come hai detto tu, non badando al loro ideale, all’impegno preso, al buon esempio; quando dunque mi resi conto che non lasciavano il cammino sbagliato malgrado le mie esortazioni ed esempi, rimisi l’Ordine nelle mani del Signore e dei frati ministri. Rinunziai al mio incarico e diedi le dimissioni, adducendo davanti al Capitolo generale il motivo della mia malattia che mi impediva di seguire la fraternità in maniera adeguata. Tuttavia anche ora, se i frati avessero camminato e camminassero secondo la mia volontà non vorrei, per loro conforto, che avessero altro ministro che me, sino alla mia morte. Infatti, quando il suddito è fedele e fervoroso nel conoscere ed eseguire la volontà del suo prelato, questi è in grado di soddisfare all’incarico con poca fatica. Di più, proverei molta gioia nel vedere i fratelli così ferventi, e sarei tanto consolato nel mirare il mio e loro frutto spirituale che, sia pur giacendo a letto infermo, non mi sarebbe arduo guidarli». E soggiunse: «Il mio incarico di governo dei frati Inserto Notiziario - VII è di natura spirituale, perché devo avere dominio sui vizi e correggerli. Ma se non riesco a farlo con le esortazioni e l’esempio, non posso certo trasformarmi in carnefice per battere e scudisciare i colpevoli, come fanno i governanti di questo mondo. Quelli che sgarrano ho fiducia nel Signore che saranno puniti dai nemici invisibili, che sono i suoi “castaldi” incaricati di castigare in questo secolo e nel futuro i trasgressori dei comandi di Dio. Essi saranno puniti dagli uomini di questo mondo, a loro vituperio e vergogna, così che tornino a vivere l’ideale che hanno abbracciato. Comunque, fino al giorno della mia morte, con l’esempio, non smetterò d’insegnare ai fratelli che camminino per la via indicatami dal Signore e che ho mostrato loro, l’ideale a cui li ho formati, in modo che siano inescusabili dinanzi al Signore, e che non mi tocchi rendere conto al Signore di loro e di me». In questo contesto matura la decisione di affidare l’Ordine ad un “Cardinale protettore”. È la presa d’atto che esso è ormai qualcosa di diverso e di troppo grande rispetto a ciò che egli aveva immaginato: è divenuto ormai adulto e ha bisogno di trovare la sua strada. Porlo sotto la custodia del Cardinale protettore significa per Francesco salvaguardare l’essenziale: l’ortodossia teologico-spirituale nella fedeltà alla chiesa cattolica. Si veda il sogno della gallina in 3Comp 63, FF 1477 (ripreso e allungato da 2Cel 2325, FF 609-612): Francesco decise di chiedere a Onorio III uno dei cardinali della Chiesa romana, come papa del suo Ordine, e fu precisamente il sunnominato VIII - Inserto Notiziario vescovo di Ostia, - al quale i frati potessero ricorrere nelle loro necessità. Il Santo aveva avuto infatti una visione, e fu forse questa che lo indusse a domandare quel cardinale e ad annodare l’Ordine alla Chiesa romana. Gli parve di vedere una piccola gallina bruna, con le zampette piumate come una colomba domestica. Aveva intorno una quantità di pulcini tale, che non riusciva a riunirli sotto le ali, e così i piccoli erano costretti a girarle intorno. Svegliatosi, prese a riflettere su quel sogno; e subito lo Spirito Santo gli fece capire che quella chioccia simboleggiava lui stesso. «Sono io - si disse, - quella gallina, perché piccolo di statura e bruno di colorito, e che devo essere semplice come una colomba e volare verso il cielo con le piume delle virtù. Il Signore, nella sua misericordia mi ha dato e darà molti figli, che non sono in grado di proteggere con le mie sole forze; bisogna quindi che li affidi alla santa Chiesa, la quale li proteggerà e guiderà all’ombra delle sue ali». Dovrà ancora imparare ad amarli, questi “figli ribelli”, e a vivere riconciliato con essi. Sarà l’ultima tappa del suo percorso di crescita. Terza fase: Francesco nella fraternità. La “perfetta letizia” nella “perfetta obbedienza” Francesco ha compreso ormai il nucleo della logica della Croce e vi apre il cuore: accettare la marginalità senza separarsi dai fratelli è dare sé stessi per loro, come ha fatto il Signore (Gv 15,13). Ora può insegnarlo ai suoi frati in una delle ultime e più dense ammonizioni: Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc 14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza. E se anche il suddito vede cose migliori e più utili all’anima sua di quelle che gli ordina il superiore, sacrifichi le cose proprie a Dio e cerchi di adempiere con l’opera quelle del superiore. Infatti questa è la vera e caritativa obbedienza che soddisfa Dio e il prossimo. Se poi il superiore comanda al suddito qualcosa contro la sua coscienza, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni; e se per questo dovrà sostenere persecuzioni da alcuni, li ami di più per amore di Dio. Infatti, chi vorrà piuttosto sostenere la persecuzione anziché separarsi dai suoi fratelli, rimane veramente nella perfetta obbedienza, poiché pone la sua anima (cfr Gv 15,13) per i suoi fratelli. Vi sono infatti molti religiosi che, col pretesto di vedere cose migliori di quelle che ordinano i loro superiori, guardano indietro (Lc 9,62) e ritornano al vomito della propria volontà (cfr Pr 26,11). Questi sono degli omicidi e per i loro cattivi esempi fanno perdere molte anime (Amm. III, FF 148 151). Come il suo Maestro, ha accettato di perdere dal punto di vista umano, ma in realtà esce pienamente vincitore: il suo La Fraternità come ambito elettivo di conversione porsi come exemplar e regola vivente dei frati lo confermerà nel ruolo di “coscienza critica” dell’Ordine per tutte le generazioni successive, rendendolo fonte del perenne e salutare travaglio che caratterizzerà la sua famiglia spirituale. Egli ha sperimentato sulla propria pelle che la fraternità - intesa come capacità di rapportarsi in modo riconciliato con ogni tipo di fratello - costituisce il valore supremo della vita evangelica. “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34), dice il comandamento nuovo di Gesù: la peggior cosa che ci possa accadere, afferma Francesco nell’Amm. III, è quella di separarci dai fratelli, anche quando essi ci perseguitassero a motivo della nostra fedeltà a Dio e alla coscienza. L’apice della vita fraterna intesa come luogo privilegiato di conversione nella totale rinuncia ad ogni approccio padronale sui fratelli, e dunque ad ogni pretesa anche più santa su di essi, Francesco l’esprime nella mirabile Lettera ad un Ministro (FF 234 235), ricolma dello spirito delle beatitudini evangeliche: Al frate ... Ministro: il Signore ti benedica. Io ti dico come posso, per ciò che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, e ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti picchiassero, tutto questo tu devi ritenere per grazia ricevuta. E così tu devi volere e non diversamente. E questo ti sia per vera obbedienza del Signore Iddio e mia, perché io fermamente so che quella è vera obbedienza. E ama quelli che ti fanno queste co- se e non pretendere da loro altro se non ciò che il Signore ti darà, e in questo amali, e non volere che siano cristiani migliori. E questo sia per te più che stare in un romitorio. Ed io stesso riconoscerò se tu ami il Signore e se ami me suo servo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto più poteva peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne ritorni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se comparisse davanti ai tuoi occhi mille volte, amalo più di me per questo, affinché tu lo possa conquistare al Signore, ed abbi sempre misericordia di tali frati. E avverti i guardiani, quando puoi, che tu sei deciso a fare così. Questo primato dell’amore nella vita fraterna viene da lui ribadito nel Piccolo Testamento (FF 132-135), dell’aprile 1226: “che sempre si amino gli uni gli altri come io li ho amati e ancora li amo”. Il giorno prima di morire, vuole avere intorno i rappresentanti di tutto l’Ordine per ripetere con essi il gesto di Gesù: spezzare il pane e donarne un pezzetto ad ognuno. È il pane della fraternità ritrovata e rinsaldata nell’unità proprio là ove essi l’avevano cominciata, a S. Maria degli Angeli. Ce ne parla LP 1J7, FF 1676. Una notte Francesco fu talmente colpito dal rincrudire delle sofferenze provocate dalle sue malattie che gli riuscì quasi impossibile riposare e dormire. Al mattino, come i dolori si attenuarono un poco, fece chiamare tutti i frati dimoranti in quel La Fraternità come ambito elettivo di conversione luogo. Seduti che furono accanto a lui, il Santo li considerò come rappresentanti di tutta la fraternità. E cominciando da uno di essi, li benediceva, posando la destra sul capo di ciascuno, con l’intenzione di benedire tutti quelli che vivevano allora nell’Ordine e quanti vi sarebbero venuti sino alla fine del mondo. E lo si vedeva tutto accorato di non poter mirare i suoi figli e fratelli prima di morire. Si fece poi recare dei pani e li benedisse. Siccome a causa della sua infermità non aveva la forza per spezzarli, li fece dividere in molte parti da un fratello, e ne diede un frammento a ciascuno, raccomandando che venisse consumato interamente. Come il Signore il giovedì santo volle cenare con gli apostoli prima della sua passione, così anche Francesco, parve a quei fratelli, prima di morire volle benedirli e nelle loro persone benedire tutti gli altri, e mangiare quel pane benedetto quasi in compagnia di tutti gli assenti. Noi possiamo ben credere a questa intenzione, poiché, sebbene quel giorno non fosse un giovedì, il Santo disse ai frati che invece pensava proprio lo fosse. Uno di quei frati conservò una particella di quel pane. E dopo la morte di Francesco alcuni infermi che ne ebbero mangiato, tosto furono guariti. Poche settimane prima aveva dettato il Testamento (FF 110 131), ultima solenne espressione della sua “paternità” sull’Ordine. Ha lasciato che i suoi figli, crescendo, lo contestassero e lo mettessero da parte, ma non ha rinunciato ad essere per loro un padre per sospingerli sino alla fine verso la pienezza dell’ideale: la sequela radicale del SignoInserto Notiziario - IX re povero e crocefisso, aperti alla Parola e all’Eucarestia e fedeli alla Madre Chiesa. Non imporsi e non fuggire, qui si situa lo straordinario equilibrio umano e spirituale di Francesco, qui vediamo la sua maturità esemplare. Solo una profonda esperienza di comunione col Signore gli ha consentito di avere tra le mani gli strumenti per superare gli agguati nascosti nello Scilla della durezza e nel Cariddi della fuga riguardo al suo sofferto rapporto con l’Ordine4. E questo in un percorso di povertà che è partita dalle cose materiali per raggiungere i vertici della spoliazione interiore (si noti che le Ammonizioni non fanno alcun cenno alla povertà materiale, mentre quasi tutte ruotano attorno alla povertà interiore come presa di distanza dal potere e dal sapere quali strumenti di dominio). Le stigmate possono allora esser lette correttamente con Bonaventura come il sigillo d’autenticità giunto dall’alto sul corpo di colui che ora è divenuto davvero nudo discepolo del nudo Crocefisso: Questo araldo di Dio, degno di essere amato da Cristo, imitato da noi e ammirato dal mondo, è il servo di Dio Francesco: lo costatiamo con sicurezza indubitabile, se osserviamo come egli raggiunse il vertice della santità più eccelsa, e, vivendo in mezzo agli uomini imitò la purezza degli angeli, fino a diventare esempio di perfezione per i seguaci di Cristo. Ci spinge ad abbracciare, con fede e pietà, questa convinzione il fatto che egli ebbe dal cielo la missione di chiamare gli uomini a piangere, a lamentarsi X - Inserto Notiziario (Is 22,12), a radersi la testa e a cingere il sacco, e di imprimere, col segno della croce penitenziale e con un abito fatto informa di croce, il Tau sulla fronte di coloro che gemono e piangono (Ez 9,4). Ma ci conferma, poi, in essa, con la sua verità incontestabile, la testimonianza di quel sigillo che lo rese simile al Dio vivente (Ez 28,12), cioè a Cristo crocifisso (cfr lCor 2,2). Sigillo che fu impresso nel suo corpo non dall’opera della natura o dall’abilità di un artefice, ma piuttosto dalla potenza meravigliosa dello Spirito del Dio vivo (2Cor 3,3) (LM, Prologo n.2, FF 1022). Siamo al punto più alto di attuazione umana del “nudus nudum Christum sequi”, il fascinoso ideale che aveva caratterizzato l’evangelismo pre-francescano. Per concludere. Quella che ho cercato di delineare mi pare una chiave di lettura plausibile per affrontare l’annoso e sofferto problema del rapporto tra Francesco e il francescanesimo, compreso quel delicato passaggio dall’intuizione all’istituzione5 che ha fatto versare fiumi d’inchiostro agli studiosi e che i giovani affrontano talora con approssimazione, conservando in cuore una certa diffidenza nei confronti del volto che il francescanesimo ha assunto lungo i secoli. Nel concreto dei dibattiti e delle tensioni che si sono avute tra il Fondatore e il suo Ordine e con il discernimento della mediazione ecclesiale, quello che storicamente si è realizzato è stato di fatto il rapporto che la Provvidenza ha consentito. Ed era forse l’unico capace di trasmettere ai posteri la sua “eredità difficile”6 Un po’ come è successo riguardo alla Porziuncola e alla tomba di san Francesco: che ne sarebbe oggi di questi due luoghi tanto eloquenti, se essi non fossero stati trasmessi fino a noi dalle due costruzioni che li custodiscono e ne sono come l’eco visiva, e che nel fluire dei secoli hanno favorito in milioni di fedeli l’impatto fecondo con la memoria del Poverello? A ben vedere, se egli si fosse imposto con forza e avesse preteso che tutti compissero “il suo” cammino (che era decisamente eroico, e come tale non praticabile da una marea di discepoli), sarebbe uscito umanamente vincitore, ma non avrebbe seguito il suo Signore fin sulla croce dell’apparente sconfitta e del fallimento umano, e dunque sarebbe rimasto in certo senso un “santo a metà”7. Inoltre avrebbe trasformato l’Ordine in un manipolo di rigoristi radicali, ossessionati dall’osservanza letterale della Regola e facile preda - almeno in futuro - dell’eresia. Eloquente al riguardo è stata la sofferta vicenda dell’ala oltranzista degli Spirituali, che nei primi decenni del secolo XIV sarebbe sfociata nell’amara ed ambigua esperienza dei Fraticelli, travolgendo anche personalità di indubbia levatura spirituale come Ubertino da Casale, Angelo Clareno e Jacopone da Todi. Se avesse abbandonato l’Ordine a se stesso ritirandosi in una sdegnosa e solitaria esperienza di contemplazione e di povertà personale, non avrebbe trasmesso ai suoi i caratteri peculiari del carisma che lo Spirito aveva suscitato nella Chiesa attraverso di La Fraternità come ambito elettivo di conversione lui e che avrebbe portato all’affermazione dell’inedita forma di vita religiosa propria dei Mendicanti8; e l’Ordine sarebbe finito senza novità dentro gli schemi monastici tradizionali, come era accaduto per diversi altri movimenti evangelici sorti nel secolo precedente. L’essersi lasciato condurre dallo Spirito per la via della paternità senza potere lo ha conformato pienamente al Cristo crocefisso, conferendo anche a lui (e alla sua famiglia) la fecondità della Croce9. Questa la ragione per cui Francesco ha potuto esser definito dal grande teologo domenicano Yves Congar “il primo dopo l’unico”: è stato un cristiano che ha vissuto pienamente il mistero pasquale. Ci piace concludere questo rapido “excursus” sul delicato rapporto tra Francesco e la sua famiglia spirituale facendo riferimento ad un breve ma efficace profilo interiore che del santo ci è stato offerto alcuni decenni fa da uno dei suoi più attenti e sensibili studiosi moderni, il frate minore Eloi Leclerc, che fu tra i primi a cogliere con finezza i caratteri peculiari di questo travaglio interiore dell’assisate. Già nella prefazione di quella che è stata forse la sua opera più fortunata, egli mette a fuoco molto bene il tema, quando scrive: “Preoccupati d’esser fedeli allo spirito ben più che alla lettera, ci siamo sforzati di raccontare al lettore l’esperienza francescana sotto il suo duplice aspetto. Da un lato la vicenda di Francesco gronda di luce di sole e di misericordia; e dall’altro essa si tuffa nella notte delle spoliazioni supreme. Questi due aspetti sono inscindibili l’uno dall’altro. La saggezza del Poverello di Assisi, benché spontanea e luminosa, non si è sottratta alla legge comune: essa è il risultato di una dura esperienza, frutto maturato adagio in un raccoglimento ed in una rinuncia sempre più profonda con l’andare degli anni. Questa crisi di rinuncia raggiunse il suo punto culminante nel gravissimo travaglio che scosse l’Ordine e che Francesco risentì dolorosamente in se stesso... Essa costituì per lui una terribile prova. Egli ebbe la sensazione di uno scacco. Dio lo metteva alla prova ed egli ne uscì del tutto purificato. Il Poverello d’Assisi s’indusse con l’animo straziato ad una completa e definitiva rinuncia; ma attraverso le angosce ed il pianto avrebbe finalmente attinto la pace e la gioia. Egli salvava, nello stesso tempo, i suoi seguaci rivelando loro che la forma più elevata della povertà evangelica è anche la più realistica: quella, cioè, in cui l’uomo riconosce ed accetta la realtà umana e divina in tutta la sua ampiezza. Era questa la via della salvezza per il suo Ordine, il quale, anziché isolarsi in una sorta di protestantesimo anticipato, attingeva nel seno stesso della Chiesa il proprio equilibrio interiore e la forza della sua perennità”10. Ci pare una pertinente conclusione a quanto siamo venuti dicendo. Anche Francesco - anzi, lui più di ogni altro - ha sperimentato sulla propria pelle tutta la fatica, ma anche tutta la fecondità, del lungo ed irto sentiero che conduce “da Narciso a Gesù”. Narciso è infatti l’homo vetus adoratore di se stesso che affoga nella propria immagine, mentre Gesù è l’homo novus che La Fraternità come ambito elettivo di conversione fa la volontà del Padre e a Lui si affida totalmente, quando consegna se stesso nelle mani dei persecutori donando la propria vita per la salvezza degli uomini, e “riceve un Nome che è al di sopra di ogni altro nome”(Fil 2,9). Siamo nel cuore di quel Mistero Pasquale, che solo ha il potere di sorreggere e rendere feconda l’intera storia umana, e che ogni cristiano è chiamato a reinterpretare nel concreto della propria esperienza. Il fatto straordinario è che tale sentiero Francesco lo abbia percorso sino in fondo e, grazie alla sua trasparente disponibilità a lasciarsi guidare dallo Spirito, sia riuscito ad evitare i tanti tranelli che lo punteggiano: umile e povero, è giunto così alle vertiginose altitudini dell’uomo nuovo in Cristo, tanto da essere considerato già dai contemporanei “novus evangelista” e “alter Christus”. Fr. Prospero Rivi Inserto Notiziario - XI NOTE: della vita quotidiana, confermandosi lo questa stessa vicenda, a sancire il sen- 1 Una penetrante rilettura del- spazio privilegiato in cui di fatto prende so profondo della sua proposta cristia- l’itinerario interiore di Francesco è of- corpo ogni autentico cammino di con- na e dei termini e delle modalità con cui ferta da J. M. CHARRON, Da Narci- versione. Per un approccio evangelica- venne via via attuandola. La ‘croce’ è so a Gesù - La ricerca dell’identità in mente corretto al tema della fraternità, l’alternativa reale ed opposta alla lotta, Francesco d’Assisi, Messaggero, Pado- restano illuminanti i suggerimenti di D. alla rottura e alla ribellione, è il segno va 1995. Per il nostro tema, si vedano in BONHOEFFER, La vita comune, Que- e la condizione dell’autentica ‘sequela particolare i capp. Ve VI. riniana, Brescis 1969, in particolare le Christi’ Dopo l’impressione delle Stim- pp. 39-51; e quelli offerti dal documento mate, Francesco scrisse di suo pugno le della S. Sede La vita fraterna in comunità ‘Laudes Domini Dei altissimi’... un testo (Roma 2.02.1994), specie inn. 21-28. tutto biblico liturgico che è invocazione, 2 Per la centralità e l’intrec- cio dei temi legati al “sine proprio” e alla “restitutio” negli Scritti di San Francesco, si vedano i pregevoli spunti offerti 6 Cfr. R. LAMBERT1NI - A. da C. VAIANI, La via di Francesco, Bi- TABARRONI, Dopo Francesco: l’ere- blioteca Francescana, Milano 1993. dità difficile, Edizioni Gruppo Abele, 3 Perché risulti più chiaro Torino 1989. esaltazione e atto di fede insieme nell’infinita grandezza, potenza e volontà salvifica di Dio... Le Stimmate della Verna rappresentano lo scioglimento reale dei dilemmi, dei dubbi e delle difficoltà che quanto stiamo dicendo, è bene ricordare 7 Su questo punto rimangono avevano angustiato Francesco negli an- che diverse ammonizioni “presuppon- fondamentali le acute osservazioni di G. ni precedenti, il punto di arrivo di quella gono esperienze e delusioni che Fran- MICCOLI, Francesco d’Assisi. Realtà e linea dell’incarnazione che ha la storia cesco aveva potuto raccogliere solo du- memoria di un’esperienza cristiana, Ei- degli uomini come sua condizione e suo rante una vita comunitaria piuttosto lun- naudi, Torino 1991, pp. 33-97. Questo teatro, ma che sa di non poter ricorre- ga con i suoi frati”: cfr. K. ESSER, Gli volume raccoglie vari studi che l’Auto- re ai loro strumenti per poter essere sto- Scritti di S. Francesco, Messaggero, Pa- re ha proposto in tempi diversi. Il lavo- ricamente efficace. Un ‘unicum’... che dova 1982, p.1-47. ro a cui ci riferiamo è apparso vent’an- non poteva essere esportato né perpe- 4 Sull’esempio di Francesco e ni or sono in Studi Medievali s. 3 XXIV tuato realmente...” (pp. 83 s del volume (1983), pp. 17-73 col titolo La proposta Einaudi). in obbedienza al forte appello che trovia- cristiana di Francesco d’Assisi, ed ha mo in quello che può ritenersi il primo segnato una svolta nell’interpretazione dei suoi tre “testamenti”, dettato alla vi- del rapporto Francesco Chiesa, non so- gilia della sua partenza per l’Oriente (in lo nella riflessione dell’Autore, ma per Rnb XXII, FF 56-57, a cui fu eco Rb 10, l’intera ricerca storiografica sul tema: FF 104), la dimensione contemplativa ri- per la prima volta si prendevano le di- 9 Interrogato di recente su mane impegno prioritario anche per ogni stanze dalle “letture forzanti del Saba- quale sia, tra i tanti carismi delle famiglie francescano, imprescindibile condizio- tier” (nota 5). In chiusura dell’articolo religiose, quello di maggior tenuta e fe- ne per un vero discepolato. Sul tema, ho leggiamo:. “È difficile peraltro non pen- condità, il Cardinal Ratzinger ha rispo- cercato di offrire alcuni suggerimenti sare che ‘la grande tentazione! sarebbe sto senza esitare: “Credo proprio che sia pratici per la formazione dei nostri gio- durata ben due anni, e non è piccola co- il francescanesimo; è incredibile quan- vani: Note d’introduzione alla preghie- sa in una vicenda religiosa che ne conta to ancora agisca, dopo quasi otto secoli, ra contemplativa, in Italia Francescana, complessivamente una ventina vada si- il lievito di Assisi!”: in JESUS, febbraio gennaio aprile 2001, pp. 129-146. tuata negli ultimi anni della vita di Fran- 2000, p. 41. 5 Cfr. la suggestiva omonima cesco e nelle tensioni e negli esiti che ac- opera di T. DESBONNETS, Bibliote- compagnarono la redazione definitiva ca Francescana, Milano 1986. La presa della regola: e la ‘grande tentazione’ sa- di coscienza di come sia stato faticoso rebbe allora... quella della ‘ribellione’, il rapporto tra Francesco e i suoi fratel- della riaffermazione del proprio ideale li può anche aiutarci a ridimensionare originario in termini di contestazione eventuali “attese gonfiate” nei confronti diretta della linea che Roma e i Mini- della fraternità: essa è stata in ogni tem- stri stavano imponendo all’Ordine. Ma po (e continuerà ad essere anche in futu- anche le Stimmate della Verna... si col- ro) pane duro da masticare nel concreto locano cronologicamente all’interno di XII - Inserto Notiziario 8 Cfr. anche solo l’epilo- go dell’ottimo recente studio di C.H. LAWRENCE, I Mendicanti, Paoline, Alba 1998, pp. 250-253. 10 E. LECLERC, La sapien- za di un povero, Biblioteca Francescana, Milano 2000 (11° ristampa), pp. 8-10: si tratta di un testo suggestivo e profondo, che i giovani in formazione leggono con grande interesse e profitto. La Fraternità come ambito elettivo di conversione