Parte seconda 1 (Verso Colle Redentore: di pecore e novizie) All

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Parte seconda 1 (Verso Colle Redentore: di pecore e novizie) All
Che ci crediate o meno, romanzo di Gianluca Minotti, parte seconda, 1
Parte seconda
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(Verso Colle Redentore: di pecore e novizie)
All’alba del dieci settembre, nel giorno stabilito per la celebrazione del matrimonio, vestiti di tutto punto, Gorgio, Marisa, Giuliano,
i signori Cianfrossi e il veterinario Viniti, si recarono alla stazione
ferroviaria.
Viniti e Gorgio, dandosi il cambio, spingevano un carrello, sul
quale, adagiata sopra una tavola di compensato staccata appositamente dal muro divisorio tra la stanza di decompressione e il vano
attiguo, riposava, beata, la signora Saveria.
Beata perché fu l’unica a non doversi sobbarcare a piedi i due
chilometri che separano l’alimentari dalla stazione, giacché il furgoncino delle consegne, proprio il pomeriggio precedente, era rimasto in panne.
Marisa sfoggiava un abito in mikado di seta, bianco avorio, corto
davanti e lungo dietro, con strascico, il velo in tulle a voliera. Bella.
Ma di un bello che, vedendola camminare per Via America Latina,
di sposarla veniva la voglia.
Giunsero alla stazione che mancava un quarto d’ora, ed essendo
il treno già sul primo binario, dopo aver fatto i biglietti, il signor
Cianfrossi, in qualità di capofamiglia, ebbe il tempo di scegliere la
carrozza che a suo avviso più si confaceva all’occasione. La penultima. Ché l’ultima era troppo dietro e la terz’ultima troppo avanti.
La ispezionò. E dovette trovarla di suo gusto se, affacciatosi dal
finestrino, ordinò a Gorgio e a Viniti di caricare la moglie. La quale
non fu fatta sedere. Distesa sarebbe stata più a suo agio, asserì il
veterinario, facendo notare agli altri come da un po’ la donna fosse
solita restarsene sdraiata tutto il giorno. Era evidente, cioè, che stava bene così. E allora, occupati due gruppi di sedili, la lasciarono
sulla tavola, posizionando il carrello in mezzo, lungo il corridoio di
transito.
Poi il treno partì.
Stanchi e accaldati, Viniti e Cianfrossi proruppero in un profondo sospiro; e distesero le gambe.
La qual cosa non piacque al controllore.
Passato a compiere la sua missione d’obliteratore, l’uomo non
solo s’adirò con il signor Cianfrossi perché aveva posato i piedi sul
sedile di fronte con tutti i mocassini della festa, ma facendo il raffronto tra i biglietti esibiti e i viaggiatori, non gli tornavano i conti.
In virtù di una certa abitudine professionale a simili calcoli, il
controllore ci mise poco a constatare come i primi fossero in nu-
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mero inferiore di un’unità rispetto ai secondi: cinque biglietti contro sei persone. A nulla valsero le giustificazioni di Cianfrossi e le
dottissime delucidazioni mediche di Viniti nel tentativo di render
note all’uomo le condizioni della signora Saveria.
Il controllore, rifacendosi al regolamento, dichiarò che non erano
previste esenzioni di nessun tipo relativamente ai malati di cuore,
ma che piuttosto esisteva un codicillo in cui era prevista la specifica casistica di carrelli adibiti a barella che potevano viaggiare solo
accompagnati da personale ospedaliero.
Infine il controllore staccò una multa di centocinquanta euro, e
siccome nessuno pareva avere dietro così tanti soldi, toccò a Gorgio far fronte alla sanzione, ché proprio qualche giorno prima il signor Cianfrossi gli aveva pagato lo stipendio.
Nonostante fossero le dieci del mattino, faceva talmente caldo
che i sedili arroventati erano brace per i deretani, e poco scampo
offrivano i finestrini abbassati: soltanto afa che stagnava tra gli effluvi dei campi concimati col letame; mentre nel vagone, inesorabile, s’alzava un tanfo rancido di sudore.
La camicia del dottor Viniti, infatti, traspirava. Così come i calzini. Forse in parte per una cattiva qualità dei tessuti.
In cerca di una posizione consona, e facendo scivolare avanti il
sedile, Gorgio si concentrò per dormire.
Ma lo sferragliare e fischiare del treno, il sobbalzare del sedile, il
cigolìo del carrello della signora Cianfrossi – che mareggiava per il
corridoio centrale, urtando gli scogli dei sedili – lo scoreggiare senza remore di Viniti, il quale a ogni rigirarsi lasciava partire uno
schioppo, il ruminìo di Giuliano, alle prese con una gomma da masticare, lo sfrigolìo dei vetri incandescenti – sui quali friggevano gli
insetti – lo sbattere della porta del gabinetto, da cui lo sciacquìo del
water, glielo impedivano. Così come i rimbrotti del signor Cianfrossi, giacché, per il bottegaio, su Gorgio pendeva la colpa di non
aver dotato il carrello di un apposito freno. Ed ecco il risultato. Gli
toccava rincorrere la moglie in continuazione per evitare che,
aprendosi magari una porta, infilasse un altro vagone, e ciao.
Quando poi, dopo l’ennesimo urto, la tovaglia d’incerata che la
copriva scivolò, rivelando Saveria in tutta la sua magrezza, il signor
Cianfrossi prese a discutere con Viniti, mettendo in questione le
cosiddette proprietà nutritive delle flebo che il veterinario aveva
somministrato alla moglie fino a quello stesso mattino. Al che Viniti s’infervorò. Difese i benefici delle flebo fino allo stremo, inflebandosi lui stesso, lì, davanti a tutti. E che comunque il signor
Cianfrossi stesse sereno: viste le condizioni in cui riversava, era altamente improbabile che la moglie potesse peggiorare ancora. E
insomma, Viniti rassicurò il marito sulla situazione ormai del tutto
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stazionaria della sua signora, stando nel contempo bene attento a
non scomodarsi troppo, poiché, con le ore che passavano, una flebo attaccata e il sole che cresceva d’intensità, egli era tutto un sudore che gli colava ovunque, e uno sbombardare col culo nel tentativo di sventolarsi.
Adesso Viniti s’era allungato come sulla brandina dell’alimentari,
e russava, rilasciando e gonfiando la bocca per poi nuovamente
espletare soffi, metà gorgheggi, metà rantoli, in merito ai quali il
signor Cianfrossi, ancora, ebbe ben presto da ridire. Seppure non a
parole, ma soffiando, gorgheggiando, rantolando, ché s’era addormentato pure lui.
Marisa intanto era tra le gambe di Giuliano, alla ricerca di
quell’asta drizzatasi non così tante volte come lei avrebbe gradito.
E Giuliano non ruminava più: deglutiva. Deglutiva, la saliva, certo,
ma anche la gomma da masticare: una, due, sette volte, perché per
sei gli tornò su.
Strusciando sul pavimento, l’abito di Marisa si andava però imbrattando. La ragazza se ne avvide e fece per alzarsi, ma un lembo
della gonna restò impigliato da qualche parte e si lacerò. Così, visto
che oramai l’abito era comunque danneggiato, Marisa riprese
l’attività da dove l’aveva interrotta.
Nell’assistere a quella scena, Gorgio rimpianse i tempi andati,
quando era lui al posto di Giuliano, e non trovando al momento
altro modo per consolarsi, pensò di avviarsi al gabinetto.
Ma proprio in quell’istante accadde qualcosa.
O meglio, quel poco che stava accadendo finì di accadere e il treno si bloccò con un grande stridere di freni, sollecitati dal piede instivalato del macchinista. Un sobbalzo che destò Viniti e il signor
Cianfrossi, interruppe l’esercizio di Marisa, afflosciò – forse per
sempre – l’asta di Giuliano e scaraventò a terra la signora Cianfrossi.
E dopo il sobbalzo, un portentoso rinculo fece scricchiolare
l’intero vagone. Infine, quiete silente.
Gorgio guardò dal finestrino per cercare di capire dove si fossero
fermati.
Stabilirlo sembrava però impossibile, giacché intorno si vedeva
solo qualche casupola sperduta nella campagna. Chissà, forse erano
stati costretti a quella sosta da una qualche precedenza e pazientare
si doveva.
Ma dopo mezzora erano ancora lì, fermi, con le porte chiuse,
senza che nessun convoglio transitasse e senza nessuno venuto a
dar ragguagli.
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E allora Gorgio si sporse dal finestrino. Ma non soltanto con la
testa, bensì con tutto il busto, finché non disse che avanti c’era
qualcosa, qualcuno, un capannello di persone, certo, ma che di più
non distingueva.
Neanche il tempo di rimettere la testa dentro, che Viniti, Cianfrossi, Giuliano e Marisa, già si stavano calando dagli altri finestrini. E sarebbero corsi via se Gorgio non li avesse richiamati: nella
fretta, la signora Saveria era stata abbandonata tra i sedili, incastrata, con sopra la tavola e il carrello.
Il signor Cianfrossi e il veterinario s’arrampicarono dentro il vagone per prestarle soccorso. Una volta sollevata da terra e rimessa
sul carrello, Viniti espresse la necessità di trasportare la signora
all’esterno in modo da farle respirare un poco d’aria di campagna.
Non senza difficoltà, i due uomini alzarono il carrello per calarlo
dal finestrino, ma non ci passava.
Tentarono di calarlo di traverso.
Niente.
La tavola sporgeva.
Tentarono da un altro finestrino.
Allora Gorgio consigliò al bottegaio di scendere e farsi aiutare da
Giuliano; poi, insieme a Viniti, calarono, nell’ordine:
1. il carrello,
2. la tavola;
3. la signora Saveria.
Una volta all’aria aperta, però, a causa del terreno dissestato, non
sembrò loro pratico portarsi dietro la signora.
E così, avvolta nella sua incerata, la lasciarono sul ciglio della ferrovia, per poi finalmente incamminarsi.
Un gregge di una ventina di pecore aveva invaso il binario.
Il macchinista discuteva con il pastore, mentre il personale del
Treno, tra cui il controllore, era indaffarato nel convincere gli animali a spostarsi.
Un caprone, accovacciato di fronte alla motrice, assisteva indifferente ai richiami e ai fischi di chi voleva sloggiare lui e le sue protette.
Accanto, raccolte in gruppo, dieci fanciulle vestite di bianco e
con un velo in testa. Erano l’immagine incarnata della pudicizia: e
infatti, come subito raccontò il pastore a Gorgio, erano novizie dirette al convento di Colle Redentore. Sennonché, perduto il treno
alla stazione precedente e attese non più tardi del pomeriggio stesso dalla badessa, s’erano risolte di corrergli dietro, tagliare per i
campi e costringerlo a fermarsi all’altezza di quella curva stretta che
il convoglio doveva necessariamente percorrere a velocità ridotta.
E tutto si sarebbe certo svolto secondo il loro piano, con il treno
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che in effetti si era arrestato, se non fosse stato per il gregge che
stava pascolando nei pressi. Subito il caprone, forse ingannato dal
colore bianco, aveva abbandonato le sue pecore ed era andato a
sdraiarsi tra le novizie, pensando bene di far loro la guardia.
Le pecore, affezionate a loro volta al vecchio caprone dopo anni
di assidua e concorde pascolatura, e forse anche ingelosite dall’altro
gregge, l’avevano seguito, mettendosi a brucare l’erba tra le traversine delle rotaie.
E ora né il caprone né le pecore sembravano intenzionati a
smuoversi: e questo nonostante tutti i tentativi di far marciare
avanti e indietro le novizie, con la speranza che prima il caprone, di
seguito le pecore, liberassero il binario.
Il signor Viniti, presentandosi in qualità di fine conoscitore del
comportamento animale, offrì il suo contributo. Si mise a quattro
zampe, strusciò un po’ nell’erba, si profuse in un convincente belato, e iniziò a dimenare il culo, con il risultato che le pecore alzarono il muso, per poi però riprendere le proprie faccende.
Le novizie, pentite per il trambusto provocato, e intimidite dagli
sguardi di rimprovero del pastore e del macchinista, distesero una
coperta sull’erba e si sedettero, stando bene attente a che le loro
lunghe vesti castigate non rivelassero neanche una caviglia. Fu allora che si accorsero di essersi accomodate proprio in prossimità del
signor Viniti. O, più probabilmente, il signor Viniti era caduto
nell’identico errore del caprone, e scambiandole per pecore,
strombazzava senza sosta a culo in aria, per richiamare l’attenzione
e convincerle a seguirlo.
A quella vista, le novizie, abituate a spettacoli di tutt’altra elevazione morale, si fecero all’unisono il segno della croce.
Marisa, intanto, rimasta fino allora in disparte, iniziò a strillare
dalla contentezza e a incitare Viniti a fare meglio la parte; poi, forse
scontenta della prestazione, s’acquattò per terra e si mise anch’essa
ad andar carponi.
La sua performance riscosse immediato successo: e se anche le
pecore mantennero imperterrite la loro indifferenza, non altrettanto il pastore, il macchinista, il controllore e gli altri addetti al
treno, i quali, interrotte le proprie faccende, parvero apprezzare di
molto quello spettacolo improvvisato.
Il vestito stralciato, mostrava in tutta la sua nudità il sedere di
Marisa, tanto che lo stesso Viniti, tornato indietro, e smettendo di
belare per cominciare a nitrire, si soffermò a rimirare quel deretano
su cui si frangevano i raggi del sole, rimandando tutt’intorno una
lucentezza come da un vaso di porcellana.
Le novizie, non credendo ai propri occhi, sgranavano il rosario.
Il pastore, fattosi più appresso a Marisa, si lasciò andare a terra
per meglio godere delle leggiadre forme.
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Il macchinista, il controllore, e gli altri membri di Trenitalia, si
guardarono intorno titubanti; poi, come vincendo una certa timidezza, si misero anch’essi a quattro zampe, e tutti insieme inseguirono Marisa, la quale, risalita intanto per il prato, si stava infilando
fra alcuni fitti cespugli, con Giuliano a correrle dietro.
Non vedendosi più accerchiate da quegli estranei che avevano
osato violare il loro eden, le pecore belarono in alto il loro giubilo.
Le novizie, inginocchiate a pregare, strisciarono fin verso il fogliame e, scostati alcuni arbusti per meglio fissare in faccia il demonio, vennero trascinate dentro il cespo da enormi braccia mefistofeliche.
Dopo che anche il signor Cianfrossi scomparve oltre i cespugli,
Gorgio si ritrovò solo a meditare il senso dell’esistenza.
Gorgio non seppe mai di preciso cosa accadde all’ombra di quella
valletta che con le sue fronde impediva la visuale. Con lo schioppo
dei rami e il frusciare dell’erba, giungeva però a lui un coro di sospiri.
Le prime a riapparire furono le novizie. Si rassettarono la veste
con le mani ancora appiccicose di liquidi proibiti, e volsero il viso
all’alto dei Cieli, come cercando l’approvazione per l’esito della loro battaglia, volta a rimettere il diavolo all’inferno.
Subito dopo, preceduti da risate catarrose, vennero fuori in fila
indiana gli uomini, con le cinghia dei calzoni ancora dondolanti, e
con le cicche in bocca a sfumazzare la loro virilità.
E, per ultimi, Marisa e Giuliano.
Lei, avanti: il corpetto dell’abito nuziale strappato, senza reggiseno, lasciava impudicamente ballonzolare le sue poppe; lui, subito
dietro: i pantaloni arrotolati alle caviglie, la camicia aperta sul petto,
si trascinava zompettando. E le sue gambe, così striminzite e flaccide, lasciavano intendere a Gorgio, non solo quanto facessero fatica a tenere in quel momento il passo della compagna, ma, più in
generale, quanto inadeguate fossero a sostenere il cammino di Marisa per il resto della vita.
Forse per una sorta di premonizione, o forse soltanto per un subitaneo sentimento di nostalgia, il signor Cianfrossi, uscito dal cespuglio recando in mano un mazzolin di rose e viole, si avviò verso
il treno, chiamando a gran voce la moglie.
Viniti, rammentandosi della lauta parcella che gli era pagata mensilmente dal consorte della sua assistita, trotterellò dietro al signor
Cianfrossi, pronto a raccogliere al volo delle monetine che saltellavano dalle tasche sbottonate del bottegaio. L’intenzione era quella
di restituirle al legittimo proprietario, e se poi se ne fosse dimenticato, farne obolo al sacro ordine delle novizie.
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Si erano appena allontanati da Gorgio e dagli altri, quando, inversamente proporzionali alle figure che rimpicciolivano, si levarono
alte le grida.
Gorgio, Marisa, Giuliano e le novizie si precipitarono a vedere
cosa fosse accaduto.
Che qualcosa di grave stesse accadendo, lo avvertì anche il caprone. Appena le novizie corsero via allarmate, abbandonò le rotaie e prese a inseguirle, tallonato a sua volta dalle pecore e, ancora
dietro, dal pastore, dal macchinista, dal controllore e dagli altri
uomini.
La signora Saveria era scomparsa.
Il signor Cianfrossi, il primo a giungere laddove l’avevano lasciata, strigliava Viniti, reo, a suo dire, di non averla vegliata a sufficienza.
Dal canto suo, il veterinario pareva invece impassibile: non per
aridità d’animo, ma perché l’esperienza gli aveva insegnato come in
questi casi mantenere il controllo sia fondamentale per trasmettere
fiducia e speranza.
In proposito, snocciolò tutta la letteratura relativa a fatti analoghi:
lui stesso era stato più volte testimone di sparizioni improvvise di
pazienti gravemente ammalati, i quali, in un modo o in un altro,
ancora in vita o già trapassati, prima o dopo venivano fuori.
Come quella volta in cui una cavalla che gli era stata data in cura
fuggì trascinandosi dietro tutto il calessino dove giaceva il figlio di
appena tre anni del fattore.
Il caso era dei più complessi, giacché anche il bambino era malato. Soffriva, infatti, di una preoccupante forma di tosse bronchiale.
Grazie alla quale, però, diverse ore dopo – battendo i boschi del
circondario e aiutandosi con i ripetuti colpi di tosse che gli giungevano di lontano tra gli alberi fitti e l’ancor più fitta notte – riuscì
infine, egli, il dottor veterinario Viniti, a ritrovarli.
Poco importava se poi la cavalla, al solo rivederlo, s’era imbizzarrita al punto da sbalzare il bambino in uno stagno, da cui lui, non
sapendo nuotare, e avendo in generale con l’acqua un rapporto
conflittuale, s’era guardato bene dal tuffarsi.
Quest’esperienza tornava ora utilissima: gli suggeriva, cioè, il
modo di risolvere il mistero della scomparsa della signora Saveria,
tanto più che non essendo lei una cavalla, qualora fosse stata in
grado davvero di spostarsi con le sue gambe, non sarebbe comunque potuta andare altrettanto lontana.
Il ragionamento di Viniti non faceva una grinza e trovò tutti concordi: da Cianfrossi al macchinista, da Marisa a Giuliano, dal pastore al suo caprone, che era rimasto immobile ad ascoltare Viniti,
con le corna all’insù, sbattendo un paio di volte le orecchie per
scacciare le mosche.
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Insomma, il veterinario fece disporre i presenti tutt’intorno, secondo uno schema ripreso dai manuali sulla caccia grossa, e non
soddisfatto del numero raggiunto, piazzò nello schieramento anche
le pecore e il caprone. Ordinò a tutti di mettersi a quattro zampe e
di procedere adagio, aprendo per bene i padiglioni auricolari in
modo da cogliere il più lieve movimento e il pur minimo lamento.
E proprio mentre il gruppo si apprestava a compiere il primo giro di perlustrazione, da una radio posizionata chissà dove, proruppe un motivetto ballabile che, istintivamente, indusse Viniti a dimenarsi, mandando a rotoli ogni suo piano e infrangendo il silenzio.
Il veterinario si abbandonò a una danza sconnessa di mirabile destrezza, accompagnato da belamenti che tenevano il ritmo della
canzoncina. Quando poi, però, il brano terminò, il caprone continuò a canticchiare. E anzi, senza sentire ragioni e dar retta agli ordini del pastore, stava proteso sull’orlo di un fossato, puntando le
corna in giù .
Naufragato il piano di Viniti, il signor Cianfrossi, seduto sull’erba,
si tolse rabbiosamente le scarpe e le lanciò con stizza. Il macchinista gli si avvicinò, e dopo avergli offerto un goccio di un qualche
intruglio che teneva con sé in una bottiglietta, adocchiati i mocassini del bottegaio, li raccolse, per poi, una volta sfilati i suoi stivaletti, indossarli con soddisfazione.
Il controllore, che ai piedi portava un paio di Geox tutte consunte, si gettò sugli stivaletti e li calzò lasciandosi andare a un fischio di approvazione.
In quel guazzabuglio in cui ci si dava da fare per aiutare il signor
Cianfrossi, per forza di cose molti indumenti cambiarono di padrone, mentre altri gingilli riapparvero altrove.
Ora Viniti si scagliava contro il macchinista, il quale spintonava il
controllore, che a sua volta s’azzuffava con il pastore, il quale sincronizzava un paio d’orologi prima di metterli al polso.
Nessuno, insomma, pareva badare al vecchio caprone che, sopra
il terrapieno, belava nonostante la radiolina tacesse ormai da tempo. Sconsolato, scuoteva il muso da una parte all’altra, poi, rivolte
le pupille alle pecore e alle novizie come a rassicurarle, scomparve
nel fondo del fossato.
Tempo due minuti e tornò su, tenendo avvolta tra le corna
un’incerata che andò a consegnare al signor Cianfrossi.
Il bottegaio, cacciati frettolosamente nelle tasche due portafogli –
della cui provenienza, qualora gli fosse stata posta la domanda a
bruciapelo, non avrebbe saputo dare risposta, se non aprendoli per
sbirciare i relativi documenti – riconobbe all’istante l’incerata e,
interdetto, non sapendo da dove provenisse e chiedendone ragione, la sventolò a Viniti.
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Il caprone, allora, per compiere fino in fondo il proprio dovere e
finirla una buona volta, pensò che l’unica cosa da fare fosse scortare il bottegaio e il veterinario sull’orlo del fossato. Ma visto che i
due non sembravano intenzionati a seguirlo, ne prese uno a calci e
l’altro a cornate, e li depositò sul ciglio.
Soltanto a questo punto, non si sa se prima Viniti, prima il signor
Cianfrossi, o nello stesso istante, ma comunque soltanto dopo che
il caprone, per costringerli a guardar giù, scendesse nuovamente,
videro la signora Cianfrossi riversa sul fondo del fossato, indifferente a tutta la cagnara.
Il gruppo si ricompose e si studiò il metodo più pratico per recuperare la donna, giacché era chiaro che se avessero dovuto aspettare i suoi comodi, tanto valeva iniziare a pensare al modo di attrezzarsi per la notte.
Il macchinista suggerì di chiamare un elicottero della polizia ferroviaria; il pastore di rimandare intanto giù il caprone per prestarle
i primi soccorsi; il controllore di lasciarla lì fintantoché non si lamentava; le novizie di pregare affinché intercedesse lo Spirito
Santo; il signor Cianfrossi disse che si sarebbe calato Viniti, Viniti
invitò il bottegaio a calarsi lui; Marisa chiese a Giuliano una prova
d’amore, Giuliano raccolse un ciclamino e glielo donò; il caprone
puntò le corna contro le pecore, le pecore belarono contro il caprone.
Poi Gorgio propose di fare una cordata, di affidarsi, cioè, al contributo di ognuno per il recupero della donna. Ma appena chiese
chi volesse scendere con lui nel fossato, chi sistemarsi lungo il declivio e chi sopra, si dileguarono tutti. Marisa presa dall’urgenza di
urinare, Giuliano di defecare, il macchinista e gli uomini di Trenitalia di tornare in cabina per informare la stazione successiva del
notevole ritardo, il pastore di radunare il suo gregge e Viniti di visitar le pecore.
Il signor Cianfrossi ebbe un attacco di panico che lo costrinse a
contare e ricontare il malloppo di banconote di cui era venuto misteriosamente in possesso senza essere in grado di raccapezzarsi.
Sul luogo restarono Gorgio e le novizie.
Gorgio chiese alle novizie di alzarsi le vesti. Esse ubbidirono. E
sollevando le vesti, le fanciulle rivelarono la presenza di una corda
che le teneva legate alle caviglie. Gorgio sciolse i dieci nodi e liberò
le novizie e liberò la corda. Che servì per tirare su il carrello e la tavola, mentre la signora Cianfrossi, Gorgio se la caricò sulle spalle.
Finalmente in salvo, la donna fu affidata alle cure di Viniti, il
quale, sotto lo sguardo perplesso del caprone, la collegò a un respiratore artificiale. Un piccolo macchinario che, mantenendo i polmoni a una bassa temperatura, ne avrebbe rallentato di molto i
tempi di imputridimento. Giacché, asseriva Viniti, che una madre
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assistesse al matrimonio della figlia con i polmoni in avanzato stato
di decomposizione, era una cosa oltremodo ributtante. Per lei, per
la figlia, nonché per i suddetti polmoni.
Il treno fischiò. Era tempo di ripartire, ma non di salutarsi, ché le
novizie dovevano raggiungere Colle Redentore, così come il pastore, a cui avevano raccontato come l’erba del convento fosse assai
miracolosa. E così il signor Cianfrossi invitò tutti ad accomodarsi
nel suo vagone. Proposta che non dovette garbare molto al caprone, il quale, salito comunque in carrozza con dignità, escrementò il
proprio disappunto sul pantalone di Viniti.
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