Shinryu Karate Do-DiMarco-01

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Shinryu Karate Do-DiMarco-01
Shinryu Karate Do
神
龍
空
手
道
Il dojo Shinryu Karate nasce da un’idea, un’ispirazione,
quella di risalire all’origine dell’arte giapponese di lotta a
mani nude, ripercorrere tutti gli itinerari della disciplina e
delle implicazioni etiche della stessa, approfondire il legame
spirituale con il senso di giustizia e di dedizione.
La parola shin 神 significa divino, elevato, supremo, sacro. Il
divino non è in questo caso un concetto di matrice religiosa,
bensì un’attitudine, un’implementazione delle capacità
umane fisiche e spirituali. Il Maestro Gichin Funakoshi 船越 義
珍 (Shuri, 10 novembre 1868 – Tōkyō, 26 aprile 1957), padre
fondatore dello stileShotokan 松濤館, ha scritto:
“lo scopo ultimo del karate non si trova nella vittoria o
nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei
partecipanti” (vd. calligrafia).
Come si eleva se stessi? Come si può perfezionare il proprio io? Ananda K. Coomaraswamy, eminente
studioso della cultura orientale, nei suoi scritti risponde a queste domande, definendo che cosa si
intende con la parola arte, delineando un contesto privilegiato in cui l’artista non si propone di
esprimere se stesso né ambisce all’originalità, e in cui l’organizzazione sociale non mira a soddisfare
le pulsioni individuali, a incoraggiare la competizione e massimizzare il profitto economico.
Il divenire umano può assurgere al grado di divino laddove la perfezione consista nel trascendere se
stessi, nel superamento dell’io, nell’abbandono dei desideri, affinché lo svolgimento impeccabile
della propria funzione all’interno della società diventi occasione di esercizio spirituale, e l’arte e
l’amore mezzi per attingere quella realtà divina da cui sgorgano ogni bene e ogni bellezza.
“Chi produce la manifestazione grazie alla sua arte è l’architetto divino” (René Guénon, Les
enjeux d’une lecture, 2006).
La parola ryū 龍 vuol dire drago (si può scrivere anche tatsu ⻯). Il drago giapponese Nihon no ryū (日
本の⻯) è una creatura leggendaria nella mitologia e nel folklore nipponico.
Il drago giapponese è una fusione, come per molti altri aspetti e simboli giapponesi, del patrimonio
culturale importato da Cina, Corea e India con le tradizioni autoctone nipponiche. Come gli altri
draghi asiatici, molti di quelli giapponesi sono associati alle precipitazioni e all’acqua, e sono
tipicamente rappresentati come grandi creature serpentine, in grado di volare e con zampe munite di
artigli.
Nella mitologia cinese il drago è una creatura dalla potenza prodigiosa e sovrannaturale ed è dotato
di immensa saggezza, tanto da avvicinarsi allo stato di semidio. Si pensi che il drago era identificato
come il guardiano simbolico degli dei.
Lungi dal ritenere il Karate Shinryū un’arte dai connotati soprannaturali, è comunque opinione dei
fondatori che l’animo del praticante debba essere assennato, dedicato, desideroso di raggiungere
uno stato di costante impegno e tensione verso il miglioramento di se stessi.
Il drago è solo un simbolo, bene augurante, di tale perseveranza.
La parola kara 空 significa vuoto. Dal punto di vista pratico afferisce alla
lotta a mani nude, alla scherma priva di armi, anche se nella pratica del
karate non è infrequente l’uso di strumenti di offesa e difesa, tra cui ad
esempio il tonfā トンファー , il kama 鎌 ed il bō 棒ぼう. Il significato
più esoterico della parola, invece, ha insieme una matrice storico politica
e una declinazione filosofica. Nei testi Ryūkyū kempō karate del 1922
e Rentan goshin karate jutsu del 1924 il Maestro Funakoshi scriveva il
termine karate con gli ideogrammi che significano mano cinese唐手
(letteralmente mano della dinastia Tang), solo verso il 1930 cominciò a
sostituire il kanji di kara con quello che significa vuoto, kū 空.
Con il montare del nazionalismo nipponico, l’ideogramma ‘cina’ apparve
come un elemento di disturbo per l’integrazione del karate nella tradizione del budōgiapponese, e
anche per la sua diffusione, tanto più considerando che la tradizione del budō era molto vicina al
militarismo giapponese, in via di rafforzamento nel corso degli anni Trenta (Kenji Tokitsu, Historie du
Karaté-Do, 1993). Nel 1933 l’arte della lotta di Okinawa fu ufficialmente riconosciuta dal Dai Nippon
Butoku Kai DNBK 大日本武徳会 (il superiore comitato giapponese delle arti marziali), pertanto da
quel momento in poi i maestri dei vari stili di karate decisero unanimemente di convertire i kanji
della parola karate. Venne dunque introdotta la parola vuoto, con riferimento al concetto buddhista
di vacuità.
Il Sutra del cuore della perfezione della saggezza o Sutra del cuore (Hannya Shingyo, in sanscrito
ापारिमता दय Prajñāpāramitā Hṛdaya) recita: la forma non è diversa dal vuoto, il vuoto non è
diverso dalla forma, la forma è proprio tale vuoto, il vuoto è proprio tale forma.
Shiki soku ze ku
ku soku ze shiki
Lungi dal predicare il nichilismo, come potrebbe suggerire una lettura superficiale della
parola kū (o kara), il Sutra del Cuore insegna la libertà dall’attaccamento, che produce la
compassione.
Il kū non significa il vuoto, il niente, quanto piuttosto il suo opposto, allude alla pace della
perfezione assoluta (jyakumetsu), presuppone l’annullamento totale delle passioni, implica serenità,
calma, assenza di dualismo, un’attiva consapevolezza.
La via del vuoto prevede l’armonizzarsi con la vita, la verità, il sistema cosmico.
Con l’abbandono dell’ego e di tutte le cose, troncando illusioni e desideri del corpo e della mente,
siamo in armonia con la Via (Yoka Daishi, Shodoka. Le chant de l’immédiat Satori, commento di
Taisen Deshimaru Rōshi 1992).
La parola te手significa mano, il kanji (ideogramma) è una rappresentazione simbolica di una mano
aperta, lo strumento più versatile e complesso del corpo umano. La mano può essere allenata per
seguire alcuni compiti spaventosi anche se, quando il bugeisha (artista marziale) se ne serve, non
dovrebbe mai dimenticare che stringere un pugno o serrare una spada è, alla fine, limitante.
La più grande capacità della mano del bugeisha consiste nella creatività, non nella distruzione.
È nella capacità di curare, di accarezzare, di confrontare che sta il suo segreto. La mano trova
un infinito potenziale nel te o tegara, “l’acquisizione creativa” (Dave Lowry, Sword and Brush.
The spirit of the Martial Arts, 1995).
La mano è un trasmettitore privilegiato del ki e un eccezionale mezzo di controllo, è lo strumento
dello spirito ed il canale dell’energia. Ma finché la mano non acquista il potere che le è proprio
bisogna insegnarle a dare e non a ricevere. Deve essere aperta per dimostrare che in essa non
esistono più l’odio e l’avidità (Michel Coquet, Budo ésotérique ou la voie des arts martiaux, 1985).
La parola dō 道 significa via (michi), strada maestra, sentiero principale. Il kanji è composito,
contiene l’ideogramma arcaico che significa sentiero, quello della testa di un maestro e quello di un
piede umano. L’arte è un percorso, un divenire adattivo e mutazionale, sotto la guida di un guru. Il
concetto trova origine nel Buddhismo Zen giapponese dove il dō si riferisce ad una dottrina, una
filosofia, una direzione, un metodo.
É una Via al centro della quale sta l’esercizio il cui scopo non è di apprendere una qualsivoglia
novità, bensì quello di sviluppare il potenziale insito nell’uomo attraverso il quale affermarsi,
conoscere e prendere coscienza. Si tratta di un cammino attraverso cui comprendere l’essenza delle
filosofie e delle religioni, determinare il pensiero ed il comportamento di ognuno ben oltre
l’intelletto.
Il budō non consiste in una Via che tende al sapere e al potere, anche se il combattimento è una
naturale conseguenza dell’esercizio, bensì sfrutta la pratica delle arti marziali attraverso la tecnica
per giungere all’Io. Il budō serve per superare quell’Io che tende all’egoismo delle apparenze
attraverso l’umiltà, l’adattamento e la modestia (Werner Lind,Budo. Der geistige Weg der
Kampfkünste, 1992).
In Karate-Dō Kyohan Funakoshi Sensei cita espressamente il Sutra del Cuore e con riferimento
alla Via afferma che il progresso individuale del praticante e del maestro avvengono attraverso
l’ascolto e l’essere ricettivi alle critiche. Egli considerava la cortesia di primaria importanza,
interpretava il kara ed il dō come evoluzione per eliminare da se stessi pensieri egoisti e
malvagi. Solo con una mente chiara e coscienza priva di attaccamento e di preconcetti
il bugheisha può comprendere realmente e definitivamente la conoscenza che riceve.
Funakoshi Sensei riteneva che il praticante dovrebbe essere interiormente umile ed esternamente
gentile, solo comportandosi umilmente si può progredire correttamente nella Via del Karate Do.
Il karate può essere considerato come un conflitto con se stessi ovvero come una maratona che si
protrae per tutta la vita e che può essere vinta solo grazie all’autodisciplina, l’allenamento intenso e
gli sforzi creativi del praticante (Shoshin Nagamine, L’essenza del karate-do di Okinawa, 1976).
Il dojo Shinryū è una grande famiglia dove tutti sono i benvenuti, dove ciascuno può esprimere il
proprio potenziale e seguire il dō come meglio preferisce.
In nostro motto è mutuato dal 松濤二十訓 Shōtō Nijū Kun di Funakoshi Sensei: karate wa gi no tasuke
– il karate è dalla parte della giustizia!
osū 押忍
先生 Alessandro di Marco
Drago che sale verso il cielo Ryū Shō Ten (龍昇天) con il monte Fuji
sullo sfondo, conosciuto anche con il nome Gekko Zuihitsu, disegni
del monte Fuji di Ogata Gekko, stampa Ukiyo-e del 1897.
三
、
空
手
は
義
の
補
け
。