8.3. - Biblioteca dei Classici Italiani

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8.3. - Biblioteca dei Classici Italiani
intr0286 - Giovanni Ipavec - Introduzione alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso
Giovanni Ipavec
Introduzione
alla
Gerusalemme Liberata
di
Torquato Tasso
8.3. CLORINDA
Il personaggio di Clorinda può essere considerato la moderna e ultima (nella nostra letteratura)
riproposizione di un antico archetipo letterario: la donna guerriera, anzi, meglio, la vergine guerriera.
I precedenti letterari illustri risalgono all’età dell’epica ciclica postomerica, ma si tratta di episodi circoscritti o
di fuggevoli apparizioni, nelle quali le antiche eroine sono ben lontane dall’assumere la statura di quello che si
definisce un personaggio.
Tale è invece la virgiliana Camilla, che l’autore dell’ Eneide paragona alle due antiche regine delle
Amazzoni Pentesilea e Ippolita e che Dante (il cui poema fu letto e amato dal Tasso a tal punto da
rappresentare – come si è visto – una fonte indiscussa della Gerusalemme liberata) colloca nel suo limbo
insieme con Pantasilea (Inf. IV, 124).
Ultimi esempi prima del Tasso sono le donne guerriere del Boiardo e dell’Ariosto: la splendida Bradamante,
che non disdegna palafreno, corazza e scudo, soprattutto quando è in gioco la vita dell’amato Ruggiero, e si
dimostra più coraggiosa e forte di tanti cavalieri; e poi, tra i personaggi minori, Marfisa.
Ma Clorinda è profondamente diversa dalle eroine della tradizione letteraria, in virtù sia di una
personalità e di una psicologia più complesse, sia del ruolo ambiguo e drammatico assegnatole dal suo
creatore. In lei il Tasso ha voluto rappresentare la bellezza intangibile e disdegnosa, la femminilità
prorompente ma negata al desiderio dell’uomo, la donna affascinante, ma apparentemente insensibile ai
piaceri dell’amore. Significativamente la sua insegna è la tigre, che fa da cimiero all’elmo (II, 38), e bianco è il
colore della sua armatura; e la tigre ed il colore bianco sono simboli rispettivamente della ferocia e della
castità.
Elemento chiave della triade dell’amore impossibile (è amata da Tancredi, ma non corrisponde al
sentimento di lui, del quale è invece innamorata Erminia,), Clorinda è descritta secondo i canoni di una
tradizione che risale alla fenomenologia dell’amor cortese e che propone il suo modello forse più famoso
nella Laura del Petrarca: alta statura, nobile portamento, capigliatura bionda come l’oro, incarnato candido. Il
suo aspetto riunisce i classici elementi di una femminilità seducente; eppure essi rimangono quasi invisibili,
celati sotto la durezza e la freddezza della ferrea armatura che la vergine guerriera non depone mai. Alla
nobiltà dell’aspetto corrisponde un’altrettanto elevata nobiltà d’animo, che si manifesta fin dalla prima
comparsa del personaggio nel poema, allorchè intercede in favore di Olindo e di Sofronia, ottenendone dal re
Aladino la liberazione. Nella circostanza ella rivela i segni di un animo pietoso e di una personalità forte e
autorevole, caratterizzata da un profondo senso della giustizia, non disgiunto da una religiosità sincera,
fondata su princìpi ortodossi. Pragmatica e decisa, sa imporre la sua volontà senza incontrare ostacoli,
valendosi ora semplicemente della sua autorità, ora di argomenti persuasivi.
La vicenda di Clorinda è intimamente legata a quella di Tancredi, il cui punto di vista è spesso assunto
dall’autore nella rappresentazione dell’eroina. Più di un critico, al riguardo, ha rilevato lo spiccato
"bifrontismo" di Clorinda nell’ambito del generale bifrontismo tassiano: il personaggio cioè ci appare,
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secondo che prevalga l’una o l’altra ottica, ora indomita vergine guerriera, ora donna sublime di stampo
petrarchesco, capace di far innamorare di sé al punto da distogliere l’uomo dai suoi doveri morali e religiosi.
L’ambiguità della rappresentazione di Clorinda emerge proprio dai due episodi che la vedono
protagonista con Tancredi nei canti III e XII. Il primo scontro fra i due non ha storia: non appena il cavaliere
cristiano è riuscito, con un colpo magistrale, a levar l’elmo dalla testa dell’avversaria, liberando al vento quella
cascata di chiome bionde che già l’aveva fatto innamorare il giorno in cui aveva incontrato per la prima volta
la donna ad una fonte, egli interrompe il combattimento e si offre inerme alla nemica, cadendo in una sorta
di estatica adorazione davanti a lei, non dissimile nel suo rapimento dai servi d’amore immortalati dalla poesia
trobadorica e dal romanzo cortese.
Dimenticando all’istante i suoi doveri di combattente, la solidarietà verso i commilitoni, Gerusalemme
stessa e la Crociata, Tancredi offre alla donna il suo cuore, nel duplice senso, reale e metaforico, della vita e
dell’amore, poiché esso non gli appartiene più, essendo ormai da gran tempo di Clorinda. Ma costei è
insensibile alle profferte di Tancredi, né in seguito muta carattere o atteggiamento, mostrandosi fino alla
rivelazione di Arsete (canto XI) sempre fedele al cliché della guerriera indomita e crudele, indifferente alle
lusinghe dell’amore: belva scatenata in battaglia, fredda elaboratrice di piani bellici nelle pause dei
combattimenti.
Giustamente osserva il Caretti che sino al canto XII Clorinda è "figura singolarmente dimidiata: ora
vergine guerriera a fianco di altri guerrieri (…) ed ora invece creatura della fantasia innamorata di Tancredi,
luminosa immagine di beltà femminile, apparizione tanto suggestiva quanto fugace". Si può dire che ella
nasca come personaggio solo nel canto XII, il canto che segna, insieme con il suo congedo dalla vita, la sua
scomparsa dall’azione del poema. Il discrimine tra i due volti del personaggio è costituito dalla rivelazione del
vecchio Arsete, dopo la quale si avverte che una metamorfosi è in corso nell’animo della donna: tanto
appariva implacabile, fredda e sicura di sé negli episodi precedenti, quanto si scopre ora fragile e disorientata,
turbata da oscuri presagi di morte, interiormente confusa dopo la così repentina scoperta delle proprie origini
cristiane, e per la prima volta bisognosa di far luce dentro di sé. Anteriormente alla rivelazione di Arsete,
quando la personalità di Clorinda era granitica e apparentemente immutabile, si poteva parlare di ambiguità
del personaggio solo nel senso che esso era rappresentato dall’autore secondo un duplice punto di vista: ora
nella veste di una guerriera fredda e determinata, ora attraverso gli occhi di Tancredi, cioè come donna bella e
affascinante, capace di suscitare solo pensieri d’amore. Ma dopo il racconto del vecchio (c. XII) il
personaggio assume una reale, interiore ambiguità, dal momento che nella sua anima sdoppiata si trovano a
convivere, da un lato, la vecchia Clorinda di sempre, cresciuta nel culto delle armi e nella devozione a
Maometto, dall’altro una donna nuova, che sente, seppure ancora in modo confuso ed incerto, di appartenere
ad un altro.
Le due anime convivono in lei sino al momento della morte: solo allora la nuova Clorinda avrà il
definitivo sopravvento sulla vecchia; ma diversi indizi disseminati nel canto fanno capire che, seppur a livello
inconscio, la metamorfosi è già in atto prima dell’episodio della sortita notturna. Non pare di dover
annoverare tra essi l’accenno di Clorinda all’eventualità della propria morte, allorché ella espone ad Argante il
piano della sortita (ottave 5-6): non si tratta infatti di un presentimento, giacché ogni soldato in guerra è
consapevole della precarietà della propria condizione; né può essere interpretato come tale l’abbandono alla
volontà di Dio che Clorinda manifesta in 5,8, poiché esso rientra in quella concezione fatalistica della vita
che, come il Tasso ben sapeva, è propria della religione musulmana. Piuttosto fa riflettere la decisione stessa
della sortita, che Clorinda attribuisce alla sua "mente inquieta" (5,3), forse ispirata da Dio o forse incline ad
attribuire ad un’ispirazione divina ciò che essa fortemente desidera. La donna sa che si tratta di un’impresa
rischiosissima, eppure è decisa a tentarla, e non per amore di gloria, tant’è vero che generosamente attribuisce
il merito di averla escogitata ad Argante, il quale sì è assetato di gloria (7, 1-2); è più probabile che l’eroina
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cerchi una prova suprema e chiarificatrice, quasi una specie di giudizio di Dio, di cui la sua anima tormentata
ha bisogno. E la risolutezza si rafforza in lei dopo la rivelazione di Arsete: se, da una parte, dopo aver
ascoltato la storia del vecchio, Clorinda gli dichiara la ferma intenzione di continuare a servire quella fede che
ha succhiato insieme con il latte della nutrice, dall’altra, per la prima volta nella sua vita, ella conosce il
sentimento della paura (40, 7), generata sia dai funesti presagi del vecchio eunuco, sia da un sogno consimile
che le opprime il cuore (40, 8). Ma Clorinda, l’indomita, la più audace tra tutti i guerrieri musulmani, non può
soccombere alla paura: quasi vergognandosi di aver provato tale inconsueto sentimento, vieta a se stessa di
lasciarsene condizionare fino, se è necessario, alle estreme conseguenze (41, 5-8).
Un altro elemento che suona al lettore come un presentimento funesto è la decisione di Clorinda di
spogliarsi della sopravveste d’argento e di deporre la consueta armatura per indossarne un’altra più dimessa,
per nulla appariscente, che le consenta di mimetizzarsi più facilmente tra le schiere nemiche (18): le armi
scelte sono "ruginose e nere", il colore del lutto, simbolica anticipazione dell’imminente tragedia.
Il simbolismo dei colori – che era così caro alla poesia del Medio Evo e che sembra qui rinnovarsi nella
felice invenzione di un autore straordinariamente sensibile come il Tasso – si estende anche al tempo scelto
per la consumazione del dramma: le ore della notte. Sono già calate le tenebre quando Clorinda e Argante
escono da Gerusalemme per compiere la loro missione, così come nella più fitta oscurità, senza testimoni,
nella solitudine di un’"alpestre cima" (52, 3) ha inizio lo scontro fatale con Tancredi. Mentre Argante è
riuscito a mettersi in salvo dentro le mura, Clorinda è rimasta chiusa fuori: è facile leggere in questa
esclusione un altro segno del destino, carico di un significato simbolico: l’Islam ha sbarrato le sue porte a
colei che ha scoperto le sue origini cristiane e le nega la salvezza; per contro le milizie crociate non potranno
mai accogliere nelle proprie file la massacratrice di tanti cristiani. Dopo aver cercato invano scampo nella
fuga, Clorinda comprende lucidamente che quella notte si compirà il suo destino e, fiera ed orgogliosa come
sempre, non intende sottrarvisi: a piè fermo attende il nemico e gli dà battaglia.
Le ottave dedicate al combattimento fra Tancredi e Clorinda sono giustamente tra le più famose del
poema: l'episodio, che ispirò uno dei più bei madrigali di Claudio Monteverdi, costituisce un piccolo
capolavoro di ingegno poetico, non solo in virtù dei diversi registri toccati, dall’epico al patetico, dal tragico
all’elegiaco, ma soprattutto per l’ambiguità che ne caratterizza lo svolgimento.
Diversi termini ed espressioni paiono mutuati dal lessico amoroso: "tre volte il cavalier la donna stringe / con
le robuste braccia" (57, 1-2), avvincendola con "nodi tenaci" (57,3), simili a quelli che legano due amanti
nell’amplesso. Lo stesso colpo fatale è descritto con espressioni cariche di sensualità: "spinge egli il ferro nel bel
sen di punta / che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; / e la veste, che d’or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e leve,
/ l’empie d’un caldo fiume." Con felice metonimia è attribuita alla spada l’avidità di sangue propria del guerriero;
e il sangue,uscendo a fiotti dalla ferita, impregna come un "caldo fiume" la veste trapunta d’oro che fascia il
seno della bella donna. Clorinda vacilla e cade; Tancredi è su di lei, non le dà tregua: ancora un’immagine che
evoca, tragicamente, impossibili schermaglie amorose.
Sentendosi morire, la vergine rivolge al vincitore le estreme parole, suggerite da uno "spirto di fé, di carità,
di speme" (65, 6). Questa introduzione, nell’episodio, del motivo religioso è parsa a taluni critici pesante e
oratoria; in realtà essa è la logica conclusione di un’attesa che è andata maturando sia nel personaggio, a
partire dalla rivelazione di Arsete, sia nel lettore stesso, che intuisce sin dall’inizio del canto, o forse da prima
ancora, il disegno del Tasso. E’ giunto il momento in cui deve compiersi la profezia di san Giorgio (39, 5-8) e
in cui Clorinda capisce finalmente il senso del sogno che l’ha turbata (40, 8). La duplice metamorfosi da
guerriera in donna e da pagana in cristiana, che sembra prodigiosa e forzata a chi estrapoli l’episodio dal
contesto del poema, rappresenta la realizzazione piena del personaggio. Clorinda è vissuta finora in
un’ambiguità che non sapeva risolversi: feroce e crudele in guerra, ma anche capace di pietà e di tenerezza,
come nell’intervento a favore di Olindo e di Sofronia (c. II) o nelle parole di consolazione rivolte al vecchio
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Arsete (XII, 42, 1); impavida e risoluta nel prendere decisioni e tenace nella difesa di quella fede in cui è stata
educata, ma timorosa di fronte al mistero del destino e alle rivelazioni del Cielo (40, 7); apparentemente
insensibile all’amore e gelosa della propria verginità, ma incapace di rinunciare alla cura della propria bellezza
(è una cascata dii chiome bionde che seduce all’istante Tancredi) e all’eleganza dell’abbigliamento, che è un
tratto caratteristico della femminilità: perfino durante la sortita notturna indossa sotto l’armatura una "veste
d’or vago trapunta", quella veste che viene lacerata dal colpo mortale di Tancredi e s’imbeve di sangue.
L’agonia rappresenta per Clorinda, di là da ogni retorica, il momento della verità, che rivela alla donna,
mettendolo a nudo, il fondo della sua anima e pone fine ad ogni ambiguità; il momento supremo traduce
finalmente in atto le meravigliose qualità di un’anima che si scopre bisognosa di Dio, e, insieme, la sua
femminilità. Quel suo spirito nobile e generoso, che aveva sempre sentito la necessità di lottare per un ideale
e che credeva di averlo individuato nella causa musulmana, alla quale si era votata anima e corpo, lo scopre e
lo raggiunge in punto di morte nel battesimo, che è per eccellenza il sacramento della rigenerazione, della
rinascita a nuova vita. E la prova che ella ha finalmente trovato ciò che cercava è nell’improvviso mutamento
di stato d’animo: alla ferocia e all’accanimento che l’hanno spinta a protrarre il duello fino all’ultimo sangue
subentra una dolcezza inusitata di parole e di modi: "flebile e soave" è il tono della preghiera che rivolge a
Tancredi (66, 6) e il momento stesso del trapasso è contrassegnato da sentimenti che normalmente
contrastano con la drammatica solennità dell’ora della morte:
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S’apre il cielo; io vado in pace".
(XII, 65, 5-8)
Nel racconto della conversione di Clorinda il Tasso ha impresso il marchio più autentico del
cristianesimo: la croce, la purificazione attraverso il dolore e il raggiungimento della vera pace nella morte in
grazia di Dio (65). Clorinda ha concluso nel modo più sereno la sua tumultuosa vita terrena – quella vita che
per il cristiano Tasso non è che un esilio in una valle di lacrime – e ritorna per grazia di Dio (65, 7-8) alla vera
patria, che è quella celeste ("s’apre il cielo"). Di lassù potrà finalmente dichiarare il suo amore a colui che l’ha
uccisa nel corpo, ma l’ha resa degna di salire a Dio: a Tancredi apparirà in sogno per confortarlo, per
esortarlo a vivere e a non abbandonarsi alla disperazione nonostante il dolore causato dalla consapevolezza di
aver dato la morte a colei che più di ogni altra cosa egli ha amato al mondo. Nella morte e nell’eternità
dunque, non nell’illusoria ed effimera vita terrena si realizzerà l’unione fra Clorinda e Tancredi, e sarà fondata
sulla certezza di una felicità senza tramonto:
"Quivi io beata amando godo, e quivi
spero che per te loco anco s’appresti,
ove al gran Sole e ne l’eterno die
vagheggiarai le sue bellezze e mie.
Se tu medesmo non t’invidii il Cielo
e non travii co ‘l vaneggiar de’ sensi,
vivi e sappi ch’io t’amo, e non te ‘l celo,
quanto più creatura amar conviensi".
(XII, 92, 5-8; 93, 1-4)
8.3.1. La vicenda di Clorinda
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Di Clorinda si fa cenno per la prima volta nel canto I (ottave 46-48), in occasione della presentazione di
Tancredi nel corso della rassegna dell’esercito crociato. Con una rapida analessi (*) l’autore ricorda l’episodio
bellico della rotta dei Persiani ad opera dei Franchi guidati da Tancredi, durante la quale l’eroe, stanco di
inseguire i fuggitivi, cerca riposo e refrigerio ad un’ombrosa fonte, dove si è fermata per il medesimo scopo
Clorinda. La guerriera musulmana, di cui l’autore non rivela ancora il nome, indossa l’armatura, ma ha il viso
scoperto; tanto basta perché l’eroe si innamori a prima vista della sua "bella sembianza". La "donna altera",
accortasi della presenza del cavaliere nemico, si copre immediatamente il capo con l’elmo e assalirebbe il
giovane se non sopraggiungessero altri guerrieri cristiani; decide pertanto di fuggire, lasciando Tancredi
ardente di passione e suscitando molti interrogativi nella mente di chi legge.
Ma la curiosità del lettore che desideri conoscere le origini e la stirpe della donna è appagata solo nel
canto XII, allorché il servo di lei, l’eunuco Arsete, che l’ha allevata, le rivela il segreto delle sue origini. Nel
ricostruire la fabula (*) della vicenda di Clorinda è dunque opportuno anticipare, riassumendolo, il lungo
racconto del vecchio servitore (canto XII, ottave 20-40).
Un tempo l’Etiopia era felicemente governata dall’imperatore Senapo, il quale era cristiano così come i
suoi sudditi e follemente geloso della moglie, una bellissima mora, che egli, per sottrarla alla vista degli altri
uomini, aveva costretto a vivere segregata in una torre del palazzo, dove le era consentita la sola compagnia
delle altre donne della reggia e dell’eunuco Arsete.
La donna, che aveva umilmente accettato per amore la propria reclusione, trascorreva per lo più il
tempo ammirando le immagini dipinte sulle pareti della stanza, raffiguranti la storia di san Giorgio che uccide
il drago. Davanti alla scena in cui il santo cavaliere salva una fanciulla dalle spire del mostro, trafiggendolo
con la sua lancia, la regina si raccoglieva spesso in preghiera, piangendo e confessando tacitamente a se stessa
le proprie colpe. Sotto la suggestione della figura di quella vergine, dipinta con un bel volto bianco e le gote
vermiglie, concepì dal marito una figlia che, allorché venne alla luce, risultò di carnagione candida, non bruna
come la madre. Temendo di essere accusata dal marito di infedeltà coniugale, subito dopo il parto sostituì la
sua creatura, a cui aveva dato il nome di Clorinda, con una bambina di pelle nera e, dopo averla
raccomandata a Dio e a san Giorgio, affidò la neonata non battezzata ad Arsete perché la conducesse altrove
e l’allevasse segretamente.
L’eunuco nascose la piccola Clorinda in una cesta e fuggì in una selva, dove la bimba fu allattata da una
tigre; poi si stabilì in un oscuro villaggio, dove rimase per sedici mesi; infine decise di far ritorno nella sua
patria, l’Egitto.
Durante il viaggio scampò a stento ad un attacco di predoni, gettandosi a nuoto con la piccola in un
vorticoso torrente. Miracolosamente scampato anche alla furia delle acque, la notte seguente vide in sogno
san Giorgio che gli comandava di battezzare la bambina perché ella era "diletta del Cielo" (XII, 36, 7-8) ed era
stata posta dalla madre sotto la sua personale protezione: era lui che aveva ammansito la tigre nella foresta e
salvato i fuggitivi dalle acque del torrente.
Ma il vecchio eunuco non diede importanza al sogno e, convinto che la vera religione fosse quella
musulmana, allevò Clorinda nella fede islamica. La fanciulla crebbe "in arme valorosa e ardita", superando i
limiti posti dalla natura al suo sesso, e acquistò in breve fama di indomita guerriera. Grazie alla sua forza e al
suo valore si coprì di gloria e conquistò territori; allo scoppio della guerra contro i cristiani, decise senza
esitazione di porre il suo braccio al servizio di Aladino, re di Gerusalemme.
Dopo la rapida apparizione del canto I, ritroviamo infatti Clorinda nella Città Santa, dove, appena
giunta, interviene in aiuto di Olindo e Sofronia, due eroici giovani condannati al rogo perché accusatisi del
furto di un’immagine sacra dalla moschea.
[
L’intervento (canto II, ott. 38) comporta necessariamente la presentazione del personaggio e
l’anamnesi delle vicende pregresse. A queste il poeta dedica per ora solo tre ottave e mezza (38-40 e 41, 1-4),
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nelle quali precisa che la donna, vocata sin dall’infanzia alla vita guerriera, ha sempre disdegnato le
occupazioni femminili e si è dedicata invece ad attività virili e all’arte della guerra: imparò precocemente a
cavalcare e a maneggiare asta e spada, fortificò le membra con gli esercizi della palestra e si avvezzò ai
pericoli e alle fatiche cacciando le fiere. Abbracciata la professione delle armi, indossò un’armatura bianca e
scelse come simbolo la tigre, di cui porta l’emblema sull’elmo come cimiero. Vergine sdegnosa, sempre
chiusa nella sua armatura e restia ad intrupparsi, ella si è procurata la fama di guerriera invincibile grazie alle
imprese compiute nelle contrade d’Oriente. All’arrivo dei Crociati è accorsa dalla Persia a Gerusalemme, per
mettere il suo braccio al servizio della causa musulmana.]
Impietosita dal silenzio di Sofronia e dal pianto di Olindo (42), si informa della loro identità e delle loro
vicende (43); poi, con l’autorità che le deriva dalla sua "regal sembianza" (45, 6), ordina ai ministri di
sospendere il supplizio e decide di intercedere in favore dei due giovani presso il re Aladino. Con un discorso
franco e cortese, ma privo di piaggeria, offre al re i suoi servigi, dichiarandosi disposta ad adempiere
qualunque incarico egli intenda affidarle (46); in cambio chiede la liberazione dei due rei (49) e bolla con
severe parole di biasimo la decisione di affidarsi alla magia e al potere di immagini sacre per vincere il
conflitto con i cristiani (50-51).
Nel canto III ha luogo il primo scontro tra Clorinda e Tancredi, dopo che la guerriera pagana con uno
stuolo di seguaci ha messo in fuga Gardo e i suoi e riconquistato il bottino predato dal duce cristiano. E’
Erminia che rivela a Clorinda l’identità di Tancredi. Lo scontro è brevissimo: l’eroe riesce infatti, con un
preciso colpo di lancia, a levare l’elmo all’avversaria e, vedendo quella cascata di chiome dorate, riconosce
immediatamente nella giovane donna colei che ha acceso in lui la passione d’amore. Decide quindi di non
tener nascosti alla donna i propri sentimenti e le propone di uscire dalla mischia per continuare il duello in un
luogo appartato; qui, fattosi audace, le dichiara il proprio amore e si offre indifeso ai suoi colpi (III, 28). In
quell’istante sopraggiunge uno stuolo di cristiani, uno dei quali, "uomo inumano", colpisce alle spalle Clorinda;
Tancredi para il colpo, ma non può impedire che la donna rimanga leggermente ferita al collo (30). Mentre
l’eroe si getta all’inseguimento del "villano", Clorinda si ritira con i suoi.
Riaccesasi la battaglia sotto le mura di Gerusalemme, i pagani, volti in fuga, sono costretti a ripararsi
dentro le mura; solo Clorinda e Argante tentano di porre un argine ai nemici, che, come un fiume in piena,
dilagano alle spalle dei fuggitivi, e si ritirano per ultimi.
Nel canto VI l’eroina fa solo una fuggevole comparsa: mentre Tancredi si appresta al duello con
Argante, ella gli appare, alta e maestosa, in cima ad un colle: indossa una sopravveste bianca e tiene la visiera
alzata. La meravigliosa visione distoglie l’eroe dal combattimento.
Nel finale del medesimo canto Erminia si impadronisce dell’armatura e della sopravveste di Clorinda
per poter uscire liberamente da Gerusalemme e recarsi al campo latino, dove spera di incontrare Tancredi;
ma, avvistata dalle sentinelle e scambiata per Clorinda, si dà alla fuga. Tra gli inseguitori c’è anche Tancredi,
convinto che la donna amata abbia affrontato il pericolo per raggiungere lui.
Nel canto VII i radi accenni a Clorinda riguardano la sua partecipazione a fatti d’arme secondo le
direttive del re Aladino (83): in particolare "ha nobil palma" per aver ucciso il rinnegato Pirro (119). Nessun
dubbio la sfiora mai riguardo alla certezza di essere dalla parte del bene e del giusto: una violenta tempesta,
che obbliga i Crociati ad arrestarsi e a stringersi attorno alle bandiere, mentre non danneggia minimamente le
schiere musulmane (116) è interpretata dalla guerriera come un segno del Cielo favorevole alla causa della
giustizia: "Per noi combatte, / compagni, il Cielo, e la giustizia aita" (117, 1-2). Significativa è, infine, nel canto, la
decisione di Belzebù di creare un simulacro con le sembianze di Clorinda perché accorra in aiuto di Argante
(99).
Nei canti IX e X troviamo la donna sempre impegnata nei combattimenti: guida le schiere all’attacco
di concerto con Argante (43, 6), insofferente di essergli seconda (54, 7-8). Dovunque si abbatta la sua furia, è
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carneficina: trafigge al cuore Berlinghiero con un impeto tale che la spada esce insanguinata dalla schiena (68,
3-6); trapassa Albino all’ombelico (68, 7); fende il viso di Gallo (68, 8); recide di netto a Gerniero la mano
destra, le cui dita guizzano ancora al suolo (69, 1-4), decapita Achille con un colpo così preciso e violento che
la testa rotola nella polvere, mentre il tronco rimane seduto in sella (69-70). Le ferite ricevute da Gerniero
(69, 1-2) e da Guelfo (72, 5-6), non che indurla a ritirarsi, rinfocolano in lei l’ardore combattivo, a tal punto
da trasformarla, così come Argante, in una belva assetata di sangue. Quando Aladino, vista la mala parata dei
suoi, prega (non "ordina", si badi: 94, 3) Argante e Clorinda di ritirarsi col resto dell’esercito, chè altrimenti
rischierebbero di essere circondati e travolti dalla furia dei cinquanta guerrieri già prigionieri di Armida, i due
sulle prime non gli danno ascolto (IX, 94, 5-6).
Singolarmente maestosa è l’apparizione di Clorinda nel canto XI sulla sommità della Torre Angolare di
Gerusalemme ("e in su la torre altissima Angolare / sovra tutti Clorinda eccelsa appare": 27, 7-8): armata di arco,
frecce e faretra, prende di mira i suoi nemici, come una novella Diana, bellissima, inavvicinabile e altera (28,
7-8). Sotto i suoi infallibili colpi cadono, uno dopo l’altro, parecchi nobili cavalieri cristiani: Guglielmo
d’Inghilterra (42), che tuttavia rimane solo ferito, poi Stefano d’Amboise, Clotareo, il franco Roberto II conte
di Fiandra, anch’egli solo ferito al braccio sinistro (43), il vescovo Ademaro, trafitto da due strali (44), infine
Palamede, a cui la freccia trapassa il capo entrando nella cavità dell’occhio destro e fuoruscendo dalla nuca
(45). Poco dopo Clorinda riesce addirittura a ferire ad una gamba Goffredo in persona, grazie ad un tiro
magistrale, al quale l’autore, rivolgendosi con la seconda persona al suo personaggio, ascrive il merito di aver
risparmiato, almeno per quel giorno, ai pagani la caduta nella schiavitù e la morte (54). Ma è l’ultima volta che
la donna ci appare così sicura di sé, indomita e altera: sul suo capo incombe la tragedia e, con essa, la
rivelazione della verità.
Il canto XII è unanimemente definito il canto di Clorinda. Esso inizia con un soliloquio della guerriera,
che, insoddisfatta dei recenti, facili successi riportati come sagittaria, aspira ad imprese più degne del suo
valore. Manifesta quindi ad Argante il proposito di compiere una sortita solitaria per incendiare la torre
d’assedio dei cristiani e lo prega, qualora il suo tentativo fallisca, di provvedere al vecchio Arsete, l’uomo che
le ha fatto da padre, e alle donne che l’hanno seguita dall’Egitto. Argante non accetta che ella esca tutta sola
da Gerusalemme e si associa all’impresa (ottave 7-9). Clorinda, comunicato al re Aladino il piano della sortita,
di cui generosamente attribuisce la paternità ad Argante (10), si spoglia della consueta armatura e indossa
armi ruginose e nere (18, 4), grazie alle quali spera di passare inosservata tra le schiere nemiche. "Infausto
annunzio!", commenta l’autore (18, 4).
Il vecchio eunuco Arsete, rendendosi conto dei gravi rischi a cui la diletta Clorinda va incontro, si affligge e
tenta di dissuaderla dal proposito, ma invano (19). Decide allora di narrarle la storia delle sue origini, che egli
le ha finora tenuto gelosamente segreta. Clorinda è turbata dal racconto del vecchio (40, 7: pensa e teme), anche
perché le è apparsa in sogno la stessa visione di san Giorgio, che rivendicava a sé la vita e il destino di lei (40,
8). Nondimeno è decisa a seguire ancora la fede nella quale è cresciuta e a non lasciarsi intimorire da funesti
presagi (41).
Ricevuto da Ismeno il materiale infiammabile e le torce (42), esce nottetempo dalla città con Argante. I
due hanno appena raggiunto la torre quando sono avvistati da una sentinella, che dà l’allarme (43-44). Fanno
tuttavia in tempo ad appiccare il fuoco alla macchina d’assedio, che in breve arde e crolla al suolo distrutta.
Incalzati dai nemici, i due pagani si ritirano verso la Porta Aurea, dove, secondo il piano prestabilito, li
attende Solimano, per farli entrare e per dar loro man forte (48). Ma, mentre Argante riesce a mettersi in
salvo dentro la città, Clorinda si attarda a vendicarsi di uno dei suoi inseguitori, Arimone, che l’ha colpita, e
rimane chiusa fuori (49). Ella pensa allora di approfittare della confusione che si è creata in seguito
all’allarme, per passare inosservata; medita, anzi, di mescolarsi ai nemici, fingendosi uno di loro; ma Tancredi
l’ha vista uccidere Arimone e l’insegue, desideroso di confrontarsi con quel misterioso e temerario guerriero
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(52, 1-2).
Clorinda fugge lungo le mura della città, cercando un’altra entrata, ma Tancredi la raggiunge facilmente,
essendo a cavallo, mentre la donna è appiedata, e la sfida con parole minacciose (52, 7-8). Quindi, per non
avvalersi slealmente di un vantaggio che renderebbe impari la tenzone, scende da cavallo e impugna la spada,
costringendo Clorinda a mettersi in guardia.
Ha così inizio il duello fatale: un combattimento all’ultimo sangue, che si svolge in piena notte, senza
testimoni. Il Tasso indugia a lungo nella descrizione dei fendenti e degli affondi, sottolineando come l’ora
notturna e l’impeto dello scontro impediscano ai contendenti di adottare le più elementari cautele (55, 4: non
schivar, non parar, non ritirarsi / voglion costor) e di usare le tecniche dell’arte schermistica (55, 4: toglie l’ombra e ‘l
furor l’uso de l’arte): i duellanti si urtano non solo con le spade, ma anche con gli elmi, con i pomi e con gli
scudi. Nel corpo a corpo Tancredi per tre volte stringe la donna fra le sue robuste braccia (57, 4: nodi di fer
nemico e non d’amante), ma ogni volta Clorinda riesce a liberarsi dalla stretta. Verso l’alba si concedono, esausti,
una pausa, durante la quale Tancredi, avendo constatato che l’antagonista versa in condizioni peggiori delle
sue, preme per saperne il nome, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore (60, 7-8). Ma
Clorinda rifiuta di svelare la propria identità e confessa con orgoglio di essere uno dei due che hanno
incendiato la torre d’assedio, rinfocolando in Tancredi lo sdegno e la brama di vendetta (61).
Si riaccende così, più furiosa di prima, la tenzone, che in breve tempo giunge al suo esito. Le spade
aprono larghe ferite nelle carni di entrambi, finché Tancredi, con un colpo di punta, affonda l’arma nel seno
della bella donna. L’ora fatale, predetta da san Giorgio nel sogno del vecchio Arsete, è giunta (64, 1): il
sangue, fuoruscendo copioso dalla ferita, intride come un caldo fiume la preziosa veste intessuta d’oro (64,
5-7). Clorinda sente venir meno le forze, vacilla e cade. Tancredi le è sopra, pronto a finirla, ma è trattenuto
dalle ultime parole che la donna pronuncia con voce rotta e fievole. Non più altera e minacciosa come poco
prima, Clorinda si rivolge al suo uccisore chiamandolo "amico" (66, 1) e implora da lui quel perdono che ella
gli ha già accordato: io ti perdon … perdona / tu ancora (66, 1-2). Quando poi gli chiede la grazia di essere
battezzata, le sue parole suonano talmente dolci e compassionevoli (66, 5-6: in queste voci languide risuona / un
non so che di flebile e soave) che Tancredi sente spegnersi nell’anima lo sdegno e crescere la commozione.
Provvede quindi ad esudire la richiesta dell’agonizzante: attinge dell’acqua ad una vicina fonte e scopre il
volto di Clorinda, liberandolo dall’elmo. Ahi vista! Ahi conoscenza! (67, 8). Riconoscendo la donna amata,
Tancredi deve fare appello a tutte le forze vitali, a tutte le energie dello spirito per non morire sul colpo.
Reprimendo a fatica l’affanno, adempie il sacro ufficio di donare vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise (68, 4).
Mentre riceve il battesimo, il volto di Clorinda si distende in un’espressione di ritrovata gioia e serenità
e, forse per la prima volta, sorride. Le sue ultime parole suonano come il suggello della profezia di san
Giorgio: nella fede ella ha trovato finalmente la pace tanto agognata (68, 8: s’apre il cielo: io vado in pace). Ha
appena la forza di tendere a Tancredi la mano, ormai esangue, in segno di pace, poi spira; ma la sua morte ha
tutta l’apparenza di un assopirsi e non toglie nulla alla sua bellezza, che il poeta si compiace di esaltare fino
all’ultimo (69, 1-2; 8: d’un bel pallore ha il bianco volto asperso, / come a’ gigli sarian miste viole. […] In questa forma /
passa la bella donna, e par che dorma), persino nella salma, ormai fredda, anche per mezzo di un’insolita ed
espressiva similitudine (81, 1: in quel bel seno; 3-4: quasi un ciel notturno anco sereno / senza splendor la faccia scolorita).
Ad alleviare il dolore di Tancredi, che, in preda alla disperazione, ha vinto a fatica l’impulso ad uccidersi
e si vede condannato ad una vita indegna e odiosa (76), provvederà Clorinda stessa, apparendogli in sogno
cinta di stelle e splendente di una bellezza celestiale (91): ella lo renderà certo della propria salvezza, della
quale attribuirà il merito a lui, che le ha donato l’acqua della vita; gli dichiarerà finalmente il proprio amore
(93, 3-4) e gli confiderà la speranza di godere un giorno insieme con lui l’eterna beatitudine del Cielo (92,
5-8).
Al suo corpo recuperato dai Francesi Tancredi rende l’onore di solenni esequie (94–95), che tuttavia vengono
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celebrate senza la sua partecipazione, essendo egli costretto all’immobilità dalla gravità delle ferite ricevute.
La salma è scortata da una processione di cavalieri muniti di torce accese ad un sepolcro eretto con i materiali
più scelti e dall'artista più valente che si potesse trovare. Su quella tomba Tancredi, appena avrà recuperato le
forze, si recherà a piangere e a giurare eterno amore all’anima bella di Clorinda (98, 2), alla quale si augura di
essere unito per sempre nella morte (99). La notizia della fine di Clorinda giunge anche a Gerusalemme, dove
è accolta con sgomento e dolore dalla comunità musulmana (100-101); Argante, il compagno di lei nella
sortita notturna, giura di vendicarla col sangue di Tancredi (104).
Di Clorinda si fa menzione una sola volta ancora nel canto XIII, allorché Tancredi, penetrato nella
selva di Saron per tentare di distruggerne l’incantesimo, si arresta sconvolto dinanzi al prodigio della pianta,
che parla con la voce della defunta. Essa, lamentandosi del colpo che egli le ha inferto, lo rimprovera di
averla offesa e di non aver rispetto di lei neppure dopo che le ha tolto la vita (41-43). Si tratta solo di
un’illusione demoniaca, e Tancredi ne ha il sospetto, ma è talmente verosimile e persuasiva che il guerriero
abbandona l’impresa.
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Cinquecento
Indice introduzione
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
Ultimo aggiornamento: 18 settembre, 2001
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